domenica 15 dicembre 2019

ERACLITO di Efeso. Si deve ad Eraclito l’ispirazione di uno dei grandi sistemi metafisici che saranno elaborati in seguito, vale a dire l’identificazione della realtà con il suo perenne divenire sostenuta dalla dialettica degli opposti, successivamente ripresa, sia pur con significative variazioni, da molti altri filosofi, a partire dagli stoici fino ad Heidegger, passando per Spinoza, Hegel, Schelling, Marx.


METAFISICA PREPLATONICA 5


ERACLITO di Efeso (550-476 a.C. all’incirca)

Visse ad Efeso, anch’essa, come Mileto, colonia greca nell’Asia minore sulla costa ionica. 
Ci ha lasciato un libro intitolato “Della natura”, di cui ci sono pervenuti numerosi frammenti, scritto con uno stile volutamente oscuro ed oracolare, riservato solo ai sapienti.

Si deve ad Eraclito l’ispirazione di uno dei grandi sistemi metafisici che saranno elaborati in seguito, vale a dire l’identificazione della realtà con il suo perenne divenire sostenuta dalla dialettica degli opposti, successivamente ripresa, sia pur con significative variazioni, da molti altri filosofi, a partire dagli stoici fino ad Heidegger, passando per Spinoza, Hegel, Schelling, Marx.

Tre sono gli assunti che fanno del pensiero di Eraclito un sistema metafisico compiuto: 
1) il principio del logos; 
2) l’assolutizzazione del divenire; 
3) la dialettica dei contrari.

Il Logos
La parola “logos” si può tradurre in molti modi: pensiero, parola, dottrina, mente, norma, legge, ecc. In Eraclito abbraccia tutti questi modi nel loro insieme. 

Si possono individuare, in particolare, tre significati strettamente collegati. Il logos è:
1. la legge universale del cosmo, la legge del divenire come opposizione-unità dei contrari;
2. la ragione umana, il pensiero, che comprende la legge del mondo;
3. il sapere, cioè la filosofia, che sa spiegare la realtà e la verità profonda delle cose.

Il logos di Eraclito è il principio primo, l’arché, fonte di ogni realtà, ordine, legge, dottrina. 
In tal senso ha funzione espressamente metafisico-ontologica nonché, secondariamente, funzione morale e pedagogica.

Il logos eracliteo non è più un principio materiale come per i Milesi e neppure un principio matematico come per Pitagora poiché entrambi, osserva Eraclito, non oltrepassano l’ordine quantitativo e perciò non sono in grado di spiegare le attività più nobili dell’uomo, come il parlare, il pensare, il comunicare, il legiferare.

Quale principio primo di tutte le cose il logos riveste proprietà trascendenti rispetto all’uomo e alle cose. Possiede indubbiamente una trascendenza gnoseologica e semantica; esso si sottrae a tutto quanto la mente umana riesce a pensare e a dire di lui: “Questo logos che è sempre, gli uomini non intendono sia prima di averlo ascoltato sia dopo averlo ascoltato”. 

Non altrettanto sembra potersi asserire di una trascendenza anche ontologica. 
Certo, il logos è più di ogni singola realtà in quanto le abbraccia tutte. Ma non è una realtà distinta dal tutto: è il suo principio interiore, la sua ragione, l’anima dell’universo. È divino nel senso di sommo, eccellente, però non è una divinità: è semmai la dimensione sacra dell’universo. Anche quella di Eraclito, similmente ai primi filosofi, è una metafisica di stampo immanentistico, ovvero è un immanentismo dialettico-naturalistico come qualcuno l’ha definita.

Il divenire.
Più che dall’esperienza del molteplice, come nel caso dei Milesi, Eraclito è colpito dall’esperienza del divenire: tutto è divenire, tutto muta, tutto si trasforma: il mondo, l’uomo, le cose. È questa un’affermazione che ha valenza metafisica. 

Essa, infatti, non va intesa come ovvia constatazione del fatto che tutte le cose sono soggette a mutazione, bensì come assolutizzazione di un’esperienza incontestabile: l’esperienza che nulla in questo mondo ha il carattere della stabilità, di una solida ed indistruttibile consistenza, ma che tutto ha invece il carattere della transitorietà. È la categorica affermazione della assoluta accidentalità del mondo dell’esperienza. Tutto scorre: “non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte, nel medesimo stato, una sostanza mortale… Acque sempre nuove lambiscono quelli che entrano negli stessi fiumi”.

Come per Anassimandro, anche per Eraclito le cose nascono per effetto del continuo passare da un contrario all’altro: le cose fredde si riscaldano, quelle calde si raffreddano, le cose umide si disseccano, quelle secche si inumidiscono, il giovane invecchia, il vivo muore, ma da ciò che muore rinasce un’altra vita, e così via. Tale è la struttura dinamica della realtà, caratterizzata da una continua contrapposizione, da una continua guerra (in greco “polemos”) fra i contrari, fra gli opposti, che si avvicendano l’uno all’altro: “Polemos è il padre di tutte le cose”.

Il fuoco è raffigurato come simbolo dell’incessante divenire e della perenne animazione di tutte le cose, escludente ogni cominciamento assoluto. ”Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dei né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne”. 

Due sono le vie che spiegano in che modo dal fuoco primitivo abbiano origine le varie mutazioni: 
“la via in giù e la via in su”. La prima parte dal fuoco che, condensandosi, diventa umido e che, quando viene compresso, si trasforma in acqua; l’acqua poi, congelandosi, si trasforma in terra. La seconda via procede in senso inverso: dal liquefarsi della terra nasce l’acqua e da questa, per evaporazione e condensazione, si giunge al fuoco. Anche per quanto riguarda le anime degli uomini alcune sono fredde e umide come l’acqua (gli uomini che non sanno nulla) e altre, poche, sono calde e secche come il fuoco (i sapienti). Al proprio termine questo mondo tornerà al suo principio per essere distrutto in una totale conflagrazione. Ma, per la legge dell’eterno ritorno, esso rinascerà dal medesimo principio; il logos divino lo rifarà come per gioco: “L’evo è un bambino che gioca, spostando qua e là i pezzi del gioco”.

Eraclito assolutizza dunque il divenire, ponendolo come realtà suprema, senza cercare ulteriori spiegazioni della sua origine. Ciò può apparire più un teorema metafisico che una spiegazione metafisica ha criticato qualcuno, affermando che Eraclito non argomenta ma proclama: poiché il divenire è asserito come il tutto egli si accontenta, come recita il primo frammento della sua opera, di “scomporre ciascuna cosa secondo la sua intima natura e dire com’è”. Nondimeno, la sua filosofia ci consegna una perspicace descrizione della struttura dinamica e modalità percettive della realtà che oggi si chiamerebbe “fenomenologia” del divenire. Infatti Eraclito preferisce quelle cose “di cui c’è vista, udito, esperienza”.

La dialettica dei contrari
Anassimandro aveva pensato che l’incessante contrapposizione dei contrari intaccasse in qualche modo l’unità della realtà e perciò aveva ritenuto che i contrari si risolvessero di volta in volta nel comune unitario infinito-indefinito (l’àpeiron) da esso derivanti.
Ma per Eraclito solo la gente comune può pensare, ingenuamente, che un contrario possa esistere senza l’altro. In realtà ciascun contrario è strettamente legato al suo opposto. Anzi, solo nella reciproca relazione i contrari acquistano significato. Non si può comprendere il bene se non in opposizione al male; il giorno in opposizione alla notte; la salute in opposizione alla malattia; la vita in opposizione alla morte e viceversa

Parimenti, al sommo livello, anche la consistenza piena dell’essere, della realtà in generale, risalta in opposizione logica al non essere. Opposizione logica e non concreta perché ovviamente il non essere, la non realtà, non esiste, pena il contraddittorio diventare realtà della non realtà. Il non essere ha tuttavia funzione logico-oppositiva indicante “il non essere l’essere”. 

Nel necessario rapporto fra i contrari Eraclito riconosce una loro sottostante e sostanziale unità, che però non significa eguaglianza. La realtà è sempre unità nell’opposizione. Solo opponendosi a vicenda i contrari danno senso uno all’altro, ma in radice si rivela la loro basilare unione che si manifesta come nascosta armonia. Se ci si ferma all’apparenza il mondo può sembrare caos e disordine, ma il saggio sa comprendere l’armoniosa unità di fondo degli opposti.
L’armonia di cui parla Eraclito non è il riconoscimento di un disegno divino, ma la legge del fato, la “dike” inesorabile, la necessità indeclinabile, “armonia invisibile che vale di più della visibile”. È l’accettazione stoica, serena ma non gioiosa, di quanto accade quotidianamente. A meno che non si assuma l’atteggiamento, che sarà di Nietzsche, di partecipazione dionisiaca al gioco dell’universo, in cui tragedie e commedie si alternano e si mescolano continuamente.


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