Hegel, nelle sue Lezioni di filosofia della storia, ipotizza un
destino diverso per le due Americhe, quella del nord e quella del sud.
Il filosofo tedesco, secondo Gerbi, segna il passaggio dall’inferiorità naturale dell’America all’inferiorità della sua dimensione storico-umana.
La triade fondamentale della storia era costituita per lui da Asia, Africa
e Europa. Il Nuovo Mondo era doppiamente tale nella visione hegeliana: nuovo non solo perché scoperto dopo, ma nuovo in senso assoluto,
in tutte le sue qualità fisiche, politiche e culturali. Tuttavia a Hegel non
sfuggì che tale «immaturità» potesse generare anche uno sviluppo civile;
solo che nel momento di ipotizzare una prospettiva positiva, il filosofo
tedesco incuneò un’antitesi tra le due Americhe, destinata a trasformarsi in un paradigma storiografico. L’America del nord appariva ancora
troppo «naturale»: la sua storia doveva ancora iniziare e sarebbe stata di
sicuro europea, e quindi civile; netta fu invece la condanna dell’America
del sud. Nel confronto tra i due emisferi emergeva, secondo Hegel, una
«antitesi sorprendente»: nel nord ordine e libertà; nel sud anarchia e militarismo; il nord è stato colonizzato, il sud conquistato17.
L’antitesi hegeliana ha un’origine ben chiara, che deriva dalla diversa concezione dei due imperi, inglese e spagnolo nelle Americhe. Sin
dalla prima metà del Settecento, si era infatti diffusa l’idea secondo cui la natura dell’impero inglese era ben diversa da quella degli altri imperi: mentre gli spagnoli erano stati mossi dall’avidità e dalla sete d’oro,
gli inglesi, invece, avevano abbandonato la loro patria per cercare la libertà. Così se i meticci spagnoli, portoghesi o francesi erano più o meno dei degenerati, gli inglesi avevano saputo mantenere e sviluppare la
libertà sino ad arrivare a superare una patria sempre più tirannica. Tale idea si basava a sua volta sulla concezione dell’impero inglese come
un «protettorato» di interessi distinti; una concezione che si era formata
nella seconda metà del XVII secolo grazie agli scrittori repubblicani18.
Quest’ultimi sostenevano infatti che mentre gli imperi spagnolo e francese erano gli autentici eredi di Roma, l’impero inglese si avvicinava
più all’impero degli ateniesi che, a differenza dei romani, avevano stabilito colonie in qualità di partner indipendenti della madrepatria19.
La
rivolta dei coloni nordamericani era dunque una conseguenza del fatto
che tutti gli sforzi inglesi di negare a quest’ultimi la loro indipendenza
legislativa e il loro diritto alla rappresentanza violavano l’immagine «federativa» dell’impero, come un insieme di stati liberi che si manteneva
unito grazie al consenso di tutti i suoi membri. Tale concezione si basava anche su un altro assioma fondamentale: l’impero inglese non si era
costruito sulla conquista, ma sul commercio. Quest’ultimo divenne uno
degli argomenti più utilizzati da coloro che, partendo dalle osservazioni di Gibbon sull’impero romano, si domandavano come trasformare
l’espansione in conservazione. In fondo, come sostenevano molti illuministi, non erano state la ricchezza né il lusso le cause principali della
caduta di Roma, ma il dispotismo. [...]
Túpac Amaru non riuscì a portare dalla sua parte la vecchia nobiltà incaica di Cuzco, città posta sotto assedio dai ribelli alla fine del dicembre del 1780. Carlo V aveva infatti concesso patenti spagnole di nobiltà ereditaria ai nobili Inca negli anni Quaranta del Cinquecento, e la nobiltà indigena di Cuzco si era posta al vertice della gerarchia sociale, grazie anche ai matrimoni con l’élite creola. Ciononostante questi nobili conservavano un forte senso del loro ruolo storico di discendenti degli Inca. Vedevano in Túpac Amaru un semplice curaca rurale, respingendo totalmente la sua ambizione di raggiungere lo status reale di inca. La loro esperienza storica li portava piuttosto a riporre fiducia nei processi giudiziari, nelle contrattazioni tipiche del sistema imperiale spagnolo e nel re di Spagna, l’arbitro imparziale che garantiva la giustizia. [...]
Dopo la rottura dell’assedio di Cuzco, l’esercito reale, fatto di truppe regolari, milizie, e indigeni lealisti, si mise sulle tracce di Túpac Amaru, catturandolo all’inizio dell’aprile del 1781, insieme alla moglie e al figlio. Mentre la sommossa continuava a espandersi, fu processato per la rivolta e giustiziato: prima di essere squartato nella piazza di Cuzco, fu obbligato a presenziare all’esecuzione della moglie, del figlio e di altri ribelli catturati. Il terribile spettacolo era stato allestito per raffigurare la morte della monarchia Inca. [...]
La battaglia di Trafalgar (20 ottobre 1805) sancì invece la scomparsa dell’intera flotta della monarchia spagnola, la quale si trovò così senza risorse, né militari, né finanziarie, per difendere il suo immenso impero. Nonostante i Borboni spagnoli avessero creduto che l’alleanza con Napoleone avrebbe garantito ai territori della monarchia una valida difesa di fronte sia alle pretese britanniche che ai possibili interessi napoleonici sulle colonie americane, la sconfitta di Trafalgar significò un colpo tremendo per le entrate provenienti dalle rendite americane, in quanto, a causa della rottura del sistema delle flotte, il traffico marittimo tra Spagna e America si interruppe. La situazione era così grave che la Corona fu costretta a rinunciare al sistema di monopolio e a permettere a imbarcazioni neutrali di trasportare l’argento novo-ispano nella penisola per pagare gli obblighi finanziari. [...]
con l’aiuto degli inglesi la corte portoghese era fuggita nel frattempo a Rio de Janeiro, evitando all’America portoghese quella frammentazione territoriale che invece caratterizzerà i territori spagnoli a partire dal 1808. [...]
Il trattato di Fontainebleau contiene anche un’altra clausola importante: l’autorizzazione, concessa dalla Corona, per il passaggio di un esercito francese di 28.000 uomini sul suolo spagnolo. In realtà le truppe francesi che oltrepassarono i Pirenei furono molto più numerose e Godoy, vedendo arrivare i francesi a Madrid, preparò la fuga del re verso la Nuova Spagna, seguendo l’esempio portoghese. Ma la fuga si arrestò a Aranjuez, dove nel frattempo era scoppiata una sommossa, guidata dal figlio, Ferdinando, che si proclamò a sua volta re. Napoleone approfittò delle divisioni interne alla famiglia reale per realizzare ciò a cui aveva da sempre aspirato: la sostituzione della dinastia borbonica e l’integrazione della monarchia spagnola all’impero attraverso la «Confederazione del Mezzogiorno», insieme ai regni dell’Italia e del Portogallo. Tra il 5 e il 10 maggio 1808, a Bayona, dove erano stati convocati da Bonaparte, si consumarono le celebri abdicazioni: Ferdinando restituì la corona a suo padre, che a sua volta abdicò in favore di Napoleone. Questi, il 3 di luglio, cedette a suo fratello Giuseppe «i diritti alla corona di Spagna e delle Indie» e tre giorni dopo fu approvata una costituzione, la carta di Bayona, la quale prevedeva la completa sottomissione della Spagna alla politica di stato francese. A partire dalla pubblicazione della notizia sulla Gazeta de Madrid, il 20 maggio 1808, la maggioranza della popolazione insorse, dando inizio a quella che la storiografia spagnola definisce la «guerra di indipendenza». Gli alleati francesi divennero traditori e Napoleone «il corso ateo» o «l’incarnazione del demonio». I perfidi nemici inglesi si trasformarono invece in «alleati» necessari e Manuel Godoy nel colpevole delle disgrazie della «nazione cattolica» spagnola. Ferdinando VII, il traditore dell’Escorial, diveniva infine il «Deseado». Ufficiali, giudici e leader popolari si sollevarono e dichiararono guerra a Bonaparte. [...]
Oltre ad aver decretato l’assenza di un re legittimo, i fatti del 1808 avevano evidenziato l’incapacità delle istituzioni centrali della monarchia a guidare la resistenza di fronte alle operazioni napoleoniche di sostituzione dinastica e assorbimento costituzionale. Invece di opporsi, le più importanti istituzioni peninsulari, a cominciare dal Consiglio di Castiglia, accettarono le abdicazioni come un fatto legittimo e promossero il riconoscimento della nuova monarchia. In questo modo, i centri tradizionali di potere e di governo della monarchia non solo si dimostrarono inetti a dirigere qualsiasi forma di opposizione alla dinastia e al progetto napoleonici, ma, seguendo l’esempio dei re e agendo in modo illegale, si rivelarono anche incapaci di esercitare qualsiasi forma di tutela sulla sovranità e sui diritti dinastici dei Borboni, lasciando che altre istituzioni risolvessero tali questioni. Inoltre, all’inizio della crisi, la monarchia non si trovò solo senza re e senza istituzioni centrali, ma anche, in molti casi, senza istituzioni locali o territoriali. In effetti, i capitani generali e gli intendenti di provincia, in larga parte nominati da Godoy, spesso si trovarono indecisi tra la loro lealtà a quest’ultimo – il che significava riconoscere implicitamente Bonaparte – e la pressione locale a favore della resistenza, che aumentò in seguito alle notizie sulla brutale repressione del 2 di maggio a Madrid da parte delle truppe comandate da Joaquin Murat. [...]
Si formarono diciassette giunte che, legittimate dal principio neo-scolastico della retroversione del potere al popolo in assenza del monarca, assunsero la sovranità e combatterono contro i francesi. In generale, le giunte peninsulari si dedicarono soprattutto a organizzare la resistenza contro i francesi attraverso il reclutamento delle milizie, la riscossione delle imposte e l’amministrazione delle entrate. [...] Dal momento della loro fondazione, le giunte che si opponevano alle armate francesi non si presentarono come il prodotto di un popolo che resisteva agli ordini del re, ma come una nazione che agiva in nome del proprio sovrano, imprigionato dal nemico. [...]
La crisi del 1808 in America.
Le informazioni sui drammatici fatti che ebbero luogo nella penisola (l’abdicazione di Carlo IV a favore di Ferdinando, le sommosse del 2 maggio a Madrid, l’abdicazione della famiglia reale a Bayona, l’installazione delle Cortes di Bayona e l’elaborazione di una costituzione concessa dal sovrano, la nomina di Giuseppe Bonaparte come re della monarchia spagnola, la creazione di giunte locali) giunsero nei porti americani dell’Atlantico durante l’estate del 1808. [...]
Gli abitanti del Nuovo Mondo si trovarono assediati sia da notizie diverse e contraddittorie che da richieste di lealtà provenienti da più parti. Da un lato, Napoleone aveva inviato emissari in America affinché le autorità coloniali riconoscessero Giuseppe I come nuovo re; dall’altro, il Consiglio di Castiglia e le giunte di Siviglia, delle Asturie e di Granada chiedevano alle province americane di essere riconosciuti come i depositari della sovranità del re assente. Altre informazioni contraddittorie, invece, indicavano che Carlota Joaquina, moglie del principe reggente del Portogallo Giovanni VI, che nel frattempo si era stabilito con la corte a Rio de Janeiro, reclamava il suo diritto a governare i regni americani in qualità di reggente e in nome di suo fratello, Ferdinando VII. Questa situazione creò sconcerto tanto nelle autorità reali quanto negli abitanti dei territori americani. Chi governava la monarchia spagnola? Chi meritava obbedienza? Tuttavia, nonostante la forte incertezza, quello che emerse nel 1808 non fu tanto la debolezza dell’impero quanto la sua forza ideologica e politica: gli americani espressero in modo unanime la loro fedeltà a Ferdinando VII, la loro opposizione a Napoleone e il loro impegno a difendere la fede e la patria contro i francesi [...]
Alla notizia delle abdicazioni di Bayona, il municipio di Buenos Aires, così come quelli di altre città del vicereame, si rifiutò di riconoscere Napoleone e decise di governare in nome di Ferdinando VII. Tuttavia, il viceré Santiago Liniers decise di attendere ulteriori notizie prima di respingere il nuovo sovrano. A questo punto, il governatore di Montevideo, Francisco Javier Elío, ripudiò il viceré, accusandolo di tradimento, e convocò un cabildo abierto che istituì una giunta di peninsulari per governare in nome di Ferdinando VII. Gli spagnoli europei della provincia uruguayana furono ben presto emulati da quelli di Buenos Aires, i quali organizzarono una cospirazione per istituire una giunta di governo composta interamente da peninsulari. Gli spagnoli americani, che controllavano le truppe e le milizie, reagirono, esiliando i cospiratori in Patagonia e prendendo in mano le redini del governo, sempre in nome di Ferdinando VII13. La formazione o meno di giunte fu condizionata dalla capacità delle autorità e dei notabili implicati nel progetto, così come dal momento in cui giunsero le notizie dalla penisola. Quella di Montevideo, istituita il 21 settembre 1808, presieduta dal governatore Elío, era composta da alti funzionari e ufficiali dell’esercito, grandi commercianti e proprietari terrieri, parroci, giudici locali e avvocati. Nel caso novo-ispano, invece, le divisioni tra la Audiencia, il municipio, il viceré e i grandi commercianti crearono una situazione estremamente confusa, che si risolse con un colpo di stato il 15 settembre 1808. Di fronte alla volontà dei membri del cabildo della capitale di convocare una giunta del regno e ai tentennamenti del viceré, i grandi commercianti, legati prevalentemente a interessi peninsulari, sostenuti dai magistrati della Audiencia e dagli emissari della giunta di Siviglia, che nel frattempo avevano raggiunto Città del Messico, arrestarono alcuni membri del municipio e sostituirono il viceré José de Iturrigaray con Pedro Garibay. [...]
Non potevano i monarchi spagnoli attribuirsi la facoltà di disporre dei loro vassalli e del loro patrimonio, né passare la corona ad altre persone senza il consenso della «nazione». In conclusione, non si poteva obbedire agli ordini provenienti dalla Spagna poiché si trattava di un atto che andava contro le leggi del regno. [...]
Dalla Giunta Centrale alle giunte americane: la rappresentanza delle province.
È indubbio che i fatti di Bayona rappresentano un evento unico non solo nella storia della monarchia spagnola, ma in quella di tutte le dinastie europee. Mai una famiglia regnante aveva consegnato la corona a uno straniero senza una guerra o un’alleanza familiare. Fin dal medioevo, infatti, ogni dottrina regalista si basava su un principio fondamentale: l’inalienabilità dei diritti e dei beni della corona, che tra l’altro fu introdotta come clausola nell’atto di giuramento che il sovrano doveva compiere prima di accedere al trono. Questo principio implicava la distinzione tra re come persona fisica e il re come persona giuridica, tra il patrimonio privato del re e quello della corona, alienabile il primo, inalienabile il secondo perché appartenente all’ufficio e non alla persona 17. Essendo il monarca un amministratore della corona, non poteva disfarsi del suo patrimonio senza il consenso del regno. I Borboni compirono dunque un atto illegittimo, poiché non rispettarono il primo dovere di una monarchia, l’inalienabilità del regno. [...]
[...] le conseguenze create dalla vacatio regis non riguardavano solo il problema di chi dovesse governare l’impero, ma metteva in discussione la legittimità stessa del sistema politico. L’illegittimità delle abdicazioni creò cioè una vacatios legis a livello locale, perché i funzionari, essendo di nomina regia, non ebbero più un’autorità riconosciuta. Da qui il ricorso alla formazione di giunte di governo autonome, che furono, come abbiamo visto, istituzioni di rottura ma anche di continuità con il passato. Le rivoluzioni ispaniche nacquero dunque come una legittima resistenza all’illegalità degli atti di governo, come lo fu appunto la cessione della corona nelle mani di Bonaparte. [...]
a partire dalla famosa battaglia di Bailén, quando l’esercito napoleonico fu sconfitto dalle forze armate spagnole nella campagna di Jaén, nel sud della Spagna. La notizia della sconfitta dei francesi si diffuse rapidamente sia nella penisola che nel resto d’Europa e in America. Per la prima volta dopo anni, l’esercito napoleonico veniva battuto sul suolo europeo, facendo intravedere agli spagnoli la possibilità di sconfiggere il nemico e vincere la guerra. In seguito a Bailén, due obiettivi fondamentali furono raggiunti nella penisola: l’unificazione degli sforzi contro le truppe francesi e la visibilità di un potere alternativo a quello francese, che custodisse i diritti di Ferdinando almeno sino alla fine della guerra. La vittoria e le sue ripercussioni portarono infatti, nei mesi successivi, alla creazione della Giunta Centrale spagnola, che si riunì il 25 settembre del 1808 con il nome di «Suprema e Governativa del Regno».
Fu composta da due rappresentanti per ogni giunta peninsulare e fu presieduta dal conte di Floridablanca, a cui successe, nel dicembre dello stesso anno, il marchese di Astorga. Oltre che per coordinare gli sforzi bellici, la Giunta Centrale fu creata per arrestare il processo di federalizzazione della penisola, successivo alle abdicazioni, e per impedire che tale processo colpisse anche i territori americani. In effetti, anche se si conformò in modo federativo, essendo composta dai rappresentanti delle giunte provinciali, si presentava come l’organo che governava tutta la monarchia in nome di Ferdinando VII. Tuttavia, il tentativo di centralizzazione del potere da parte della Giunta Centrale fallì, in quanto non riuscì a ridurre il potere delle giunte provinciali e locali a semplici strumenti di governo. La sua autorità fu apertamente disobbedita in numerose occasioni, poiché le giunte locali ritenevano di godere di una legittimità politica superiore. Alcune di queste, come quella sivigliana, pretesero persino di erigersi come unico governo legittimo della monarchia, esigendo obbedienza da altre autorità, come quelle americane, o negando l’autonomia ad altre province, come quella di Granada. Altre giunte, invece, come quelle della Galizia, Castiglia e León progettarono confederazioni particolari come rimedio all’assenza di un potere collettivo della monarchia. La Giunta Centrale fu dunque il tentativo di creare un governo generale della monarchia in sostituzione delle istituzioni centrali, screditate sia dalla condotta dei Borboni che dal proprio comportamento. Ma, come abbiamo visto, tale tentativo fallì non solo perché un governo solido e centrale non giunse mai a consolidarsi, ma anche e soprattutto perché, come scrisse un osservatore britannico nella Quarterly Review, in Spagna si era consolidato un sistema di «repubbliche municipali indipendenti», che potevano dar vita unicamente a delle «convenzioni federali»19. In questo consistette la rivoluzione peninsulare sino alla convocazione delle Cortes di Cadice: nella moltiplicazione di poteri e istituzioni rappresentative locali e provinciali all’interno di una monarchia dove poteri territoriali più ampi e rappresentativi erano sempre stati deboli. Questi corpi acquisirono, nel contesto della crisi, un potere così ampio che giunsero a esercitare un ruolo importante persino nelle Cortes, dove inviarono i propri rappresentanti, i quali firmarono il testo della costituzione del 1812 non solo con nome e cognome, ma anche come «deputato della giunta di», seguito dal nome della stessa. Nei territori americani, come vedremo, la crisi monarchica produrrà le stesse dinamiche di frammentazione territoriale e di moltiplicazione di poteri e istituzioni locali e provinciali: le giunte americane, come quelle peninsulari, furono una risposta di auto-tutela di fronte alla crisi. [...]
Real Orden del 22 gennaio 1809, attraverso la quale la Giunta Centrale concesse la rappresentanza e la parità politica ai territori americani. Inserendosi nella linea strategica stabilita dalla Carta di Bayona nei confronti dei sudditi e territori americani, il decreto affermava che «i domini spagnoli delle Indie non erano colonie», ma formavano parte integrante della monarchia spagnola. Allo stesso tempo, il decreto convocava i rappresentanti americani a formar parte della Giunta Centrale, nella misura di uno per ogni vicereame e capitanía generale: in totale dieci rappresentanti provenienti dal Río de la Plata, Nuova Granada, Nuova Spagna, Perù, Cile, Venezuela, Cuba, Porto Rico, Guatemala e Filippine.
Ciò implicò un cambiamento trascendentale, in quanto per la prima volta i rappresentanti dei territori americani furono integrati in un organo sovrano della monarchia spagnola. Tuttavia, il decreto del gennaio 1809 si rivelò un’arma a doppio taglio. Se da un lato, condusse a un riconoscimento generalizzato della legittimità della Giunta Centrale da parte dei territori americani, favorendo anche la messa in pratica di importanti processi elettorali, dall’altro legittimò il principio secondo cui la sovranità si trovava nei vari regni che costituivano la monarchia. Affermare che i territori americani erano «parte essenziale e indipendente» della monarchia implicava fare riferimento a un linguaggio che aveva un significato concreto nella cultura giuridica e politica dell’epoca. «Parte essenziale» di un corpo politico poteva esserlo solo una comunità perfetta, ossia dotata di una costituzione o forma politica propria e con capacità autonoma di rappresentanza. Il resto erano «parti accessorie» che, in quanto tali, non costituivano un’entità politica: erano semplici paesi o colonie che non possedevano la capacità di autotutelarsi. Il decreto, quindi, oltre a offrire ai territori americani la possibilità di eleggere propri delegati ed essere rappresentanti nella Giunta Centrale, affermando che i territori americani avevano gli stessi diritti politici di quelli peninsulari, offrì alle élite creole l’argomento teorico per costituire proprie giunte autonome. [...]
La famosa Real Orden del 22 gennaio 1809 aveva quindi provocato un profondo dibattito sull’uguaglianza politica tra le due parti della monarchia, che si divise in due questioni principali: il diritto degli americani di costituire proprie giunte governative e l’uguaglianza della rappresentanza negli organi centrali della monarchia, la Giunta Centrale prima e le Cortes poi. In effetti, mentre i deputati peninsulari alla Giunta Centrale furono trentasei, quelli attribuiti ai territori americani furono solo nove. Nonostante le numerose proteste contro la disuguaglianza rappresentativa nella Giunta Centrale, tutta l’America partecipò alle prime elezioni generali dell’impero.
Si trattava di un modello di rappresentanza di antico regime: ad ogni regno corrispondeva un rappresentante, eletto dai cabildos delle città capitali, le quali rappresentavano in teoria tutto il territorio del loro distretto. In realtà, le città americane coinvolte nel processo elettorale furono circa un centinaio, in quanto la procedura elettorale si svolgeva in due turni: i cabildos delle città principali eleggevano tre individui, tra cui ne veniva estratto a sorte uno, che diventava così il rappresentante della città; terminate tutte le elezioni, il viceré o il governatore designava, sulla base di queste nomine, e con l’aiuto di alcuni membri della audiencia, un’altra terna, da cui veniva estratto a sorte un individuo, che si convertiva così nel deputato del vicereame o della capitanía generale alla Giunta Centrale. Il ricorso alla sorte era considerato un intervento della Provvidenza, garante dell’ordine naturale, e confermava la natura tradizionale del sistema elettorale: la rappresentanza del regno coincideva infatti con quella delle città principali, e queste, a loro volta, erano rappresentate dai rispettivi municipi. I deputati erano considerati veri e propri procuradores ed erano dotati di istruzioni, secondo l’antico modello del mandato imperativo che vincolava i rappresentanti ai rappresentati 21.
La figura del procurador, munito di istruzioni, non implicava dunque una delega della sovranità: ciò spiega per quale motivo la sovranità della Giunta Centrale non fu mai pienamente riconosciuta né nella penisola, né in America. Nonostante la novità straordinaria di queste elezioni, i deputati americani (eccetto quello della Nuova Spagna che risiedeva nella penisola) non arrivarono mai a fare parte della Giunta Centrale, a causa della sua dissoluzione nel gennaio del 1810, quando le truppe francesi invasero l’Andalusia.
Tuttavia, i processi rappresentativi avevano provocato anche in America un rafforzamento della sovranità provinciale, in quanto, eleggendo il loro deputato alla giunta peninsulare i cabildos cabeceras, quelli cioè autorizzati ad eleggere i deputati, divennero i rappresentanti legittimi di tutti gli interessi del loro spazio territoriale.
Tra il 1809 e il 1810, nelle aree dove non si era ancora proceduto alla designazione dei deputati alla giunta centrale, il numero delle città investite del diritto di prendere parte alla votazione aumentò 22. Questo fu particolarmente evidente nel caso del Río de la Plata, dove il 6 ottobre del 1809, un nuovo decreto concesse il diritto di voto a tutte le città che avevano un cabildo. L’ampliamento di questo diritto fu provocato innanzitutto dalle numerose proteste espresse dalle città in un primo tempo escluse dal voto – particolarmente vivaci furono quelle delle città messicane 23 –, e in secondo luogo dalla difficoltà a identificare le città cosiddette cabezas de provincia. In Spagna queste corrispondevano alla divisione in province, mentre in America non era chiaro a quali circoscrizioni corrispondessero (alle intendenze, ai corregimientos, alle subdelegaciones). Ma soprattutto, l’ampliamento del diritto di voto nascondeva un’altra tensione fondamentale: quella tra le città.
La questione della rappresentanza paritaria tra Spagna e America si riprodusse infatti anche a livello locale, dove costituì un primo segnale dell’incipiente crisi degli spazi provinciali e delle gerarchie territoriali del sistema coloniale. L’ampia richiesta di partecipazione al voto da parte delle città minori si spiega con il privilegio che la partecipazione al voto implicava: un cabildo che votava veniva infatti riconosciuto come rappresentante virtuale di un territorio; ciò ne legittimava l’autonomia non solo di fronte alle autorità spagnole, ma anche alle altre città. Oltre a determinare un rafforzamento della sovranità provinciale, grazie ai processi rappresentativi, la famosa Real Orden del gennaio del 1809 provocò effetti ben più immediati in America, ossia la creazione delle prime due giunte autonome che si formarono nel luglio e nell’agosto del 1809, rispettivamente a La Paz e Quito. La creazione di queste due giunte deve infatti essere messa in relazione con la mancanza di rappresentatività dei due territori nella Giunta Centrale spagnola. Essendo entrambi delle Audiencias, furono incorporate nella rappresentanza dei due vicereami cui appartenevano, ossia quello del Río de la Plata nel caso di Charcas e quella della Nuova Granada nel caso di Quito. Tuttavia, entrambi i territori avevano goduto di un’ampia autonomia, perché distanti dalle capitali dei rispettivi vicereami, Buenos Aires e Bogotà.
[...] arrivò la notizia della sconfitta delle truppe spagnole a Ocaña (nei pressi di Ciudad Real) nel novembre del 1809 e della successiva occupazione dell’Andalusia da parte delle truppe francesi. In seguito, come conseguenza della sconfitta, arrivarono le notizie della dissoluzione della Giunta Centrale e della creazione di una Reggenza, composta da cinque membri, nel gennaio del 1810. Infine, arrivò la notizia dell’istallazione di José Bonaparte alla corte di Madrid e del fatto che la guerra contro i francesi era quasi definitivamente persa, in quanto rimanevano libere, ma assediate, le sole città di Cadice, Valencia, Zaragoza e Girona. Queste notizie furono più o meno indirettamente la causa che portò alla formazione di giunte americane nel corso del 1810. Credendo persa la penisola e non potendo più contare sulla Giunta Centrale, varie città si ribellarono alla possibilità di sottomissione a una nuova metropoli francese.
Se nei primi anni successivi alla crisi del 1808, la lealtà alla corona spagnola non era mai stata messa in discussione, in questa seconda fase la maggior parte delle giunte non riconobbe la Reggenza. Oltre al timore di venire invasi da Napoleone e dalle sue truppe, quello che colpì fortemente gli americani fu il fatto di non poter più contare su un organo come la Giunta Centrale, che rappresentasse le istanze dell’autonomismo creolo all’interno di un movimento riformista della monarchia.
La sfiducia nei confronti di altre istituzioni peninsulari spinse i creoli a dotarsi di apparati di potere che, se da un lato contribuivano a svincolare gli americani da istituzioni che erano ormai in mano francese, dall’altro manifestavano chiaramente una volontà autonomista ma sempre rivendicata in nome e in difesa del re.
Anche se nella maggior parte dei casi si parlava di «indipendenza», non si trattava in realtà di un’indipendenza totale rispetto alla penisola, ma di un’indipendenza rispetto alla sorte della Corona in Spagna. Il re e la dinastia non possedevano più il diritto di governare in America come era stato sino ad allora: il vincolo tra la penisola e i territori americani era costituito ormai solo dalla forma di stato, ossia la monarchia. Detto in altro modo, i rivoluzionari delle giunte che si formarono nel 1810 aspiravano alla separazione dalla Corona – nel caso in questione dalla Reggenza, erede dei Borboni o dei Bonaparte – e al mantenimento dei legami con la monarchia. Questa era dunque concepita come un’entità politica federale, in cui la sovranità era compartita tra le varie parti che la costituivano.
Contrariamente ai primi due anni della crisi, i territori americani si divisero in varie posizioni. Se, da un lato, la politica divenne pubblica e le aspirazioni alla sovranità si diversificarono, dall’altro gli spazi si frammentarono. Da qui la complessità del biennio 1810-1812: mentre alcuni territori riconobbero la Reggenza, altri vi si opposero apertamente e altri ancora, come nel caso di Caracas, optarono per posizioni repubblicane. Quello che successe nel 1810 fu un autentico fiorire di giunte, che ebbe un forte effetto di contagio: non si verificarono effetti di imitazione – la diversità nelle forme e obiettivi delle giunte americane fu evidente –, ma di mimetismo33.
Tuttavia, un elemento comune alla maggioranza dei governi autonomi americani è che non si trattava più di un deposito della sovranità: di fronte alle notizie disastrose provenienti dalla penisola, il re non era più il titolare del potere supremo, ma erano i pueblos i nuovi soggetti sovrani. Sull’ambivalenza del termine pueblo torneremo in seguito. Quello che importa qui sottolineare è che le nuove giunte non si concepivano come rappresentanti del re, ma come rappresentanti dei pueblos che, in assenza del monarca, riassumevano la sovranità. E ciò avveniva mentre nella stessa penisola le Cortes, che si erano riunite dopo la dissoluzione della Giunta Centrale, dichiaravano, nel settembre del 1810, che la sovranità non risiedeva più nel monarca o nelle giunte che ne avevano rivendicato il deposito, ma nella «nazione», dando a questa un significato ampio (la nazione spagnola includeva i territori europei e americani) e moderno (l’ente politico e collettivo che incarna il popolo). Non si trattava quindi di un insieme politico federale, come quello che rivendicavano gli americani, ma di una monarchia liberale e centralista. La tensione tra spinte centraliste e centrifughe non investì, come vedremo, solo il rapporto tra Cadice (dove risiedevano le Cortes) e le capitali americane, ma anche quello tra queste e le città provinciali.
Dalla giunta alla Repubblica: Venezuela, 1810-1812
La prima giunta americana che si formò nel 1810 fu quella di Caracas, il 19 di aprile. In seguito alle notizie provenienti dalla penisola, [...] destituì il capitano generale e le altre autorità spagnole, le quali furono imbarcate verso la penisola. In una comunicazione alla Reggenza, si affermava l’illegittimità della stessa istituzione iberica: come era possibile che nella penisola si fosse creata una nuova istanza di potere senza averlo previamente comunicato agli americani e senza la loro partecipazione? [...]
Il popolo si identificava con la nazione e questa era composta solo da coloro che possedevano terre o altri beni. Il congresso fu infatti composto da creoli che avevano svolto incarichi nell’amministrazione coloniale, da proprietari terrieri, commercianti, ufficiali dell’esercito e membri della gerarchia ecclesiastica. Uno dei decreti più discussi fu la Dichiarazione di Indipendenza del 5 luglio 1811, in quanto segnò la scomparsa definitiva di una soluzione di tipo confederativo all’interno della monarchia e implicò la proclamazione della repubblica. Sebbene l’atto non accusasse la metropoli di aver sfruttato il Venezuela, centrandosi piuttosto sull’illegittimità delle abdicazioni di Bayona, la rottura con la Spagna fu totale: le autorità spagnole risposero con un blocco economico e successivamente con l’invio di un esercito. [...] Sebbene avesse dichiarato l’uguaglianza dei diritti, manteneva il requisito della proprietà per accedere all’elettorato attivo. Inoltre, il governo stabilì una guardia nazionale con il compito di controllare gli schiavi e di ridurre il fenomeno del vagabondaggio. [...] L’esecutivo affidò allora il comando militare al generale Francisco Miranda che partì alla volta di Valencia con un esercito di 4 mila uomini. Dopo un assedio durato più di un mese, Miranda ottenne la resa incondizionata della città. [...] all’inizio del 1812 quando il capitano Domingo Monteverde, proveniente da Portorico, arrivò nella città di Coro al comando di un esercito per recuperare il Venezuela alla causa realista. Le sue vittorie furono in gran parte il risultato del malcontento della maggioranza della popolazione e in molti casi le città e i villaggi passarono dalla parte dei realisti senza spargimenti di sangue. [...] La repubblica cadde definitivamente il 25 luglio 1812, quando Miranda accettò la resa. Arrestato dagli spagnoli, fu inviato in prigione a Cadice, dove morì nel 1816. Il generale Monteverde divenne capitan general del Venezuela, ma il suo governo, estremamente impopolare a causa della confische di proprietà e della repressione, dovette nuovamente affrontare le forze repubblicane [...] Bolívar, che riconquistò la capitale nell’agosto del 1813. Iniziava così la seconda repubblica venezuelana, che, tuttavia, fu ben diversa dalla prima: per non ripetere gli stessi errori, Bolívar stabilì una sorta di dittatura militare. La seconda repubblica, come la prima, dovette difendersi dai baluardi realisti e, in particolare, dall’esercito di Boves che lanciò una campagna spietata contro i repubblicani. Terminò alla fine del 1814 con la fuga di Bolívar e della maggior parte degli ufficiali patrioti. [...]
La seconda giunta che si formò nel 1810 fu quella di Buenos Aires, alcune settimane dopo quella di Caracas. [...] La giunta non riconobbe la Reggenza, ma, contrariamente a quella di Caracas, non ruppe i suoi legami con Ferdinando VI [...] la giunta capitalina inviò proprie truppe nel Paraguay, nell’Alto Perù e all’interno del Río de la Plata con l’obiettivo di riunire, sotto la sua sovranità, tutti i territori che avevano fatto parte del vicereame a partire dal 1776. [...] I radicali stabilirono una linea dura contro gli spagnoli europei: fecero decadere dai loro posti molti funzionari peninsulari e proibirono agli europei di occupare uffici pubblici e di partecipare alle elezioni. Molti, poi, furono arrestati ed espulsi. Nel gennaio del 1811 istituirono infine un tribunale di Pubblica Sicurezza il cui scopo era perseguire i sovversivi.
[...] il Paraguay dichiarò la sua autonomia da Buenos Aires e da qualsiasi potenza straniera il 17 maggio 1811. Pochi giorni dopo si riunì un congresso, in cui erano rappresentate tutte le province, il quale istituì una giunta superiore formata da cinque uomini, tra cui l’avvocato creolo José Gaspar Rodríguez de Francia, conosciuto come il dottor Francia. Il congresso propose a Buenos Aires la costituzione di una federazione del Río de la Plata, all’interno della quale i territori avrebbero goduto della parità politica, ma i porteños rifiutarono la proposta. Nell’agosto del 1813 il congresso proclamò il Paraguay una repubblica indipendente e un anno dopo Francia, paventando la minaccia di un’invasione porteña o brasiliana, si fece eleggere dittatore supremo per cinque anni. Due anni dopo convinse il Congresso a eleggerlo dittatore a vita. Il congresso non fu più riunito e Francia, conosciuto come «il Supremo», governò il Paraguay sino alla sua morte, nel 1840. [...]
La Nuova Granada rappresenta, insieme al Venezuela, lo spazio dove i movimenti giuntisti dell’America spagnola assunsero un carattere più radicale. Fu a Mompox e Cartagena che furono dichiarate le prime emancipazioni esplicite dalla Spagna e fu in questa regione dove si promulgarono le prime costituzioni scritte del mondo ispanico, ancora prima che le Cortes pubblicassero la loro nel marzo del 1812. [...]
Tutte queste tensioni esplosero non appena sbarcarono a Cartagena, l’8 maggio 1810, i delegati regi, Antonio Villacencio, Carlos Montúfar e José de Cos Iriberri, inviati dalla penisola per rafforzare i legami tra la Reggenza e i territori americani. Questi, in effetti, portarono con loro non solo le notizie della dissoluzione della Giunta Centrale, dell’istituzione di un Consiglio di Reggenza e dell’occupazione quasi totale della penisola da parte dei francesi, ma anche quella della formazione di una giunta a Caracas, il 19 aprile.
Giunte locali si formarono allora a Cartagena, Cali, Pamplona e Socorro prima che nella capitale, Bogotá. Qui, il 20 di luglio, i membri della élite mobilizzarono la plebe urbana al fine di obbligare il viceré a convocare una giunta. Si formò allora una Giunta Suprema del Nuovo Regno di Granada, presieduta dal viceré Amar y Borbón, e composta da venticinque membri oltre che dal vicepresidente, José Miguel Pey, alcalde primero del municipio della città e uno dei principali dirigenti del movimento a favore dell’autonomia. Come per i casi già analizzati, la giunta della capitale non poteva però definirsi sovrana su tutto il territorio della Nuova Granada, tanto più che si era formata dopo le giunte delle città secondarie. In queste circostanze, Santafé non poteva di certo conservare la sua preminenza politica, salvo se avesse richiesto cortesemente alle altre giunte il riconoscimento del suo carattere supremo. Tale riconoscimento poteva avvenire solo se la giunta della capitale avesse adottato una soluzione federativa: era l’unica forma di stato che poteva conciliare la creazione di un governo centrale con l’indipendenza e la libertà di ogni provincia. In effetti, la giunta di Santafé invitò le province a eleggere i propri deputati a un congresso incaricato di redigere una costituzione: [...] Si disegnava in questo modo una sorta di monarchia confederativa, a cui potevano partecipare altri stati sovrani. La Confederazione delle Province Unite della Nuova Granada, invece, promulgò la sua costituzione, l’Atto di Federazione, il 27 novembre dello stesso anno. La carta creava una vera e propria confederazione di province autonome, con un esecutivo estremamente debole, collegiale e rotatorio. La sovranità confederale era destinata a rappresentare e difendere i diritti dei pueblos e delle province davanti alle nazioni e quindi a dichiarare guerra, stabilire relazioni diplomatiche e organizzare il commercio internazionale. La vera sovranità apparteneva tuttavia alle province, in quanto il congresso, più che una camera deliberante, non era che un luogo dove i diversi governi provinciali negoziavano compromessi diplomatici, come avveniva negli Stati Uniti prima del 1787. [...] La sconfitta delle forze rivoluzionarie in Venezuela, nel 1814, alterò temporaneamente l’equilibrio del potere a favore della federazione. Bolívar, nominato nel frattempo capo delle Province Unite, e gli altri generali venezuelani sconfissero i centralisti di Cundinamarca, incorporando così la provincia più ricca e popolosa della Nuova Granada alla federazione. Ma invece di dirigere le forze contro i realisti di Santa Marta, il generale si diresse in primo luogo contro la città di Cartagena, ancora indipendente. Ciò dette modo ai soldati peninsulari di sbarcare a Barranquilla e di conquistare progressivamente tutto il territorio neogranadino tra il 1815 e il 1816. Bogotà fu l’ultima città a cadere, nel maggio del 1816. [...]
Le forze rivoluzionarie, composte ormai da un esercito di 80.000 uomini, puntarono su Città del Messico, ma i realisti lo fermarono prima nel monte di Las Cruces e infine a Guadalajara, dove i ribelli furono definitivamente sconfitti. Hidalgo e altri leader furono catturati alcuni mesi dopo mentre stavano per varcare la frontiera con gli Stati Uniti in cerca di armi. Il padre Hidalgo fu condannato a morte a Chihuahua, il 30 luglio 1811, dopo un processo che lo aveva accusato di alto tradimento. [...] Il piano, meglio conosciuto come Plan Calleja, prevedeva che tutti i villaggi intorno alla capitale si dotassero di milizie proprie. Rispetto alle milizie dell’epoca borbonica, il viceré introdusse importanti novità: il reclutamento degli indigeni, proibito in precedenza; la mescolanza etnica e razziale, dato che si incorporarono alle milizie bianchi, meticci, pardos senza distinzione di classe; l’elezione degli ufficiali da parte delle compagnie stesse; la creazione di un fondo di arbitrios (imposte locali) in ogni villaggio per coprire le spese di guerra. Tali misure non solo permisero agli indigeni di godere per la prima volta del fuero militare, ossia della possibilità di essere esonerati dalla giurisdizione civile e di non pagare il tributo, ma dettero la possibilità ai pueblos di esercitare una forte autonomia fiscale, poiché con la scusa del pagamento delle contribuzioni di guerra, cessarono di pagare le imposte dovute alla Corona 58. Progressivamente, le forze realiste di Calleja riconquistarono vari territori: normalmente entravano nelle città in mano agli insorti, deponevano le autorità e, in molti casi, invece di condannarli o eliminarli, li invitavano a unirsi alle file realiste. [...]
Dalla Nazione Spagnola all’Indipendenza.
[...] Il tentativo della Cortes fu quindi quello di ricostruire un’unità che si era rotta nel 1808 e che aveva continuato a frammentarsi nel corso degli anni. I costituenti gaditani individuarono nella nazione il nuovo titolare della sovranità della monarchia. Il primo decreto afferma infatti: «i deputati che compongono questo congresso e che rappresentano la nazione spagnola, si dichiarano legittimamente costituiti in Cortes Generali e Straordinarie, e che risiede in queste la Sovranità nazionale». Tuttavia la «nazione spagnola» a cui facevano riferimento i costituenti non si limitava solo alla parte europea della monarchia, ma comprendeva anche i territori americani e asiatici (Filippine). La monarchia si era trasformata in nazione e la nazione, come la costituzione, divennero transcontinentali, un fenomeno impensabile per le classiche teorie sullo stato-nazione. Sino al 1812, anno di pubblicazione della costituzione liberale spagnola, nessun impero aveva difatti avuto una costituzione. I territori americani (e filippini) furono quindi invitati a eleggere propri rappresentanti. La maggior parte riuscirono a incorporarsi alle Cortes solo nella primavera del 1811; per quei territori che non avevano potuto celebrare le elezioni a causa della guerra, si optò per un sistema di supplenti, da scegliersi tra gli americani che si trovavano già a Cadice o nei dintorni. Tuttavia, nonostante il principio di parità politica affermato dalla Giunta Centrale spagnola nel gennaio del 1809, la disparità di rappresentanza tra i deputati spagnoli e quelli americani fu estremamente evidente: ventinove deputati americani su 104 in totale. Questo non solo provocò il rifiuto di numerosi territori americani di riconoscere la legittimità del nuovo organo, ma dimostrò che, malgrado le dichiarazioni formali, gli spagnoli peninsulari si ritenevano superiori agli americani. [...] Il motivo principale che spinse numerosi territori americani a non riconoscere la sovranità della nazione spagnola fu la forte disuguaglianza tra spagnoli e americani nelle Cortes. Quest’ultimi non potevano riconoscere la legittimità politica di un potere costituente in cui erano stati condannati sin dall’inizio in minoranza. [...] L’applicazione del regime costituzionale gaditano produsse cambiamenti radicali nel territorio americano, determinando la scomparsa definitiva delle gerarchie coloniali, già entrate in crisi in seguito ai fatti del 1808. [...] l’atteggiamento delle autorità coloniali derivava essenzialmente da una cultura politica e giuridica che, come abbiamo in parte visto, non accettava il principio della supremazia della legge. Le norme costituzionali, così come quelle legislative, non si concepivano come automaticamente applicabili di per sé, ma come dimostra il caso novoispano in merito alla abolizione del tributo, necessitavano di un ulteriore intervento da parte dei magistrati. In base alle antiche leggi fondamentali della monarchia (che i costituenti riconfermarono), questi infatti avevano il diritto di interpretare le leggi e modificarle in base alle circostanze locali. Il famoso principio se acata pero no se cumple (si riceve ma non si applica), di origine castigliana, prevedeva che i funzionari potessero sospendere l’applicazione di un’ordinanza se la ritenevano in contrasto con la giustizia locale [...] la costituzione fu applicata in molte aree americane causando, come già anticipato, una rivoluzione del potere locale. L’applicazione dell’articolo 310 sull’elezione dei municipi costituzionali provocò la formazione di migliaia di ayuntamientos. Laddove esistevano poche decine di cabildos nell’epoca coloniale, come ad esempio nella Nuova Spagna, si assistette alla formazione di più di mille municipi, molti dei quali si costituirono in prossimità dei villaggi indigeni. La carta liberale aveva in effetti abolito la distinzione tra repúblicas de indios e de españoles dando la possibilità a tutti di eleggere i propri municipi. [...] Oltre alla loro natura rappresentativa, l’attribuzione della giustizia in prima istanza favorì la trasformazione del municipio latino-americano in un potere autonomo e sovrano rispetto allo stato. [...]
L’indipendenza assoluta: restaurazione e guerre.
Se guardiamo alla storia latinoamericana, ci rendiamo conto che esiste un netto contrasto tra l’epoca coloniale e quella successiva all’indipendenza. Prima dello scoppio dei movimenti di indipendenza, e contrariamente all’esperienza europea, i territori americani non avevano sperimentato guerre o conflitti su larga scala, ma fenomeni di violenza sporadici e localizzati, provocati dagli attacchi delle potenze straniere alle coste o alle isole caraibiche, dalle rivolte indie e da alcune ribellioni antifiscali.
Le guerre di indipendenza significarono quindi l’inizio di una mobilitazione senza precedenti nell’America spagnola: dopo il 1810, società che non erano abituate a convivere con la violenza, si ritrovarono coinvolte in una serie infinita di ribellioni e guerre, non solo tra indipendentisti e realisti, ma anche tra città e città, ovvero tra governi ribelli che pretendevano imporre l’autorità di una provincia o di una regione sulle altre. L’incremento del grado di violenza non significò solo un aumento delle imposizioni sulla società locale – come la leva forzosa, l’estrazione di risorse per il rifornimento degli eserciti, la distruzione di raccolti e proprietà –, ma anche un maggior e più diretto coinvolgimento della stessa nell’organizzazione delle forze armate, nella partecipazione ai conflitti, nella fabbricazione delle armi, ecc.
Il modello utilizzato nei primi conflitti tra giunte o tra città è quello delle milizie borboniche, ossia di corpi stanziali e territorializzati, che godevano del fuero militare e che riflettevano le gerarchie sociali. Come abbiamo in parte visto, fu il modello utilizzato da Calleja come controffensiva all’insurrezione di Hidalgo. Tuttavia, la creazione di corpi militari che difendessero la patria oltre il proprio pueblo, per la conquista di altri territori, incontrava molti ostacoli. Mentre le milizie erano accettate dagli abitanti dei pueblos, in quanto garantivano i privilegi del fuero, i battaglioni regolari erano considerati corpi lontani ed estranei: la resistenza dei villaggi alla coscrizione fu molto forte e generalizzata. [...] le giunte e i loro tentativi di indipendenza furono facilmente sconfitti dai realisti. Il modello di milizia civica fu messo in crisi quando i realisti, per sconfiggere i ribelli, si avvalsero di alcune sollevazioni popolari. [...] L’apparizione della guerra popolare è profondamente legata alla scelta dei realisti di utilizzare i settori popolari per sconfiggere i ribelli. Tuttavia, il loro coinvolgimento aprì il vaso di Pandora: i ribelli non ebbero altra soluzione se non imitare i realisti. [...]
[...] il ritorno all’assolutismo aggravò ancora di più il conflitto. Gli anni che vanno dal 1814 al 1820 sono caratterizzati infatti dal ristabilimento dell’antico regime nella monarchia spagnola. Dopo la firma del trattato di Valençay (11 dicembre 1813), attraverso il quale Napoleone aveva riconosciuto la fine della guerra nella penisola iberica, restituendo a Ferdinando VII tutti i diritti a cui questi aveva rinunciato nel 1808, il re Borbone non riconobbe la costituzione, ma decretò il ritorno all’assolutismo. Attraverso un vero e proprio colpo di stato, nel maggio del 1814, dichiarò nulla e senza effetti la costituzione e tutta l’opera giuridica delle Cortes, ordinò la detenzione delle autorità costituzionali, dei reggenti, ministri e deputati liberali. Le Cortes furono chiuse, i municipi costituzionali e le deputazioni provinciali dissolti.
Il ritorno alla monarchia assoluta va naturalmente inserito nel contesto europeo del Congresso di Vienna, successivo alla sconfitta di Napoleone. L’Europa del 1814 si fondò infatti sul principio legittimista delle monarchie assolute come frutto del diritto divino. Tale contesto non si fondava solo su principi ideologici e religiosi, ma anche su un sistema di intervento militare contro qualsiasi tipo di regime liberale, sistema che si formalizzò nella Santa Alleanza di cui faceva parte anche la Spagna.
La restaurazione dell’assolutismo significò in teoria il ritorno al sistema istituzionale anteriore al 1808. A livello centrale, si ristabilì il sistema di consigli (di Castiglia, delle Indie, di Stato, dell’Inquisizione, delle finanze e della guerra), mentre a livello locale furono restaurate le audiencias, le capitanías e i vicereami con i viceré; si abolirono inoltre i municipi costituzionali e si ristabilirono i corregidores e alcaldes mayores nominati dal re. Tuttavia, il ritorno all’antico regime non fu affatto automatico, soprattutto nei territori americani. [...]
Ferdinando VII non avrebbe mai accettato l’indipendenza dei territori americani; anzi, cercò di recuperarli in tutti modi, indebitando ancora di più le già scarse casse dello stato. E non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che il mantenimento dell’antico regime in Spagna dipendeva, per la sua stessa sopravvivenza, dalle rendite americane. Di fronte all’offensiva spagnola e alla fine del liberalismo gaditano, agli americani non restava altra alternativa che la lotta armata. All’inizio del 1814 i realisti controllavano la maggior parte dei territori americani, anche se alcuni erano in parte caratterizzati dalle guerre (Nuova Spagna, Venezuela e Nuova Granada). Solo nel Río de la Plata e in Paraguay i ribelli avevano definitivamente trionfato.
La prima preoccupazione di Ferdinando fu dunque quella di recuperare il Venezuela e la Nuova Granada e, a questo scopo, si reclutò, tra il 1814 e il 1820, un esercito di 40 mila uomini tra soldati e ufficiali. La spedizione più importante fu quella del maresciallo Pablo Morillo, il cui esercito salpò da Cadice nel febbraio del 1815. Due mesi dopo Morillo entrava a Caracas, dove creò un consiglio di guerra permanente contro i ribelli e istituì una Junta de Secuestros per confiscare i beni dei patrioti che avevano appoggiato la causa repubblicana. Dopo aver esatto un prestito di 200 mila pesos, si diresse verso la Nuova Granada, lasciando il Venezuela al comando del generale Salvador de Moxó.
L’esercito di Morillo sbarcò a Cartagena il 20 di agosto 1815 e, dopo aver assediato la città per più di cento giorni, la obbligò alla resa il 6 dicembre. Anche qui la repressione fu durissima. Stessa sorte toccò al resto della Nuova Granada e a Santafé che capitolò nel maggio 1816. Qui Morillo creò il Tribunale di Purificazione che condannò e fucilò numerosi patrioti liberali, come Villacencio, Carbonell, Camillo Torres. Bolívar, con l’arrivo delle truppe di Morillo, era fuggito in Giamaica e, in seguito all’alleanza tra Spagna e Inghilterra, da qui era sbarcato a Haiti. Il suo arrivo sull’isola non fu solitario: in seguito alle sconfitte dei ribelli in Venezuela e Nuova Granada, circa 250 membri dei governi e degli stati maggiori dei due paesi giunsero nelle Antille.
La scelta di Haiti non fu casuale e assunse un significato particolare. Il paese, guidato dal presidente Pétion, era infatti una repubblica di neri, che aveva raggiunto l’indipendenza dai francesi dopo una rivoluzione e una sanguinosa guerra razziale; il nord, invece, era dominato dall’imperatore Christophe, successore di Dessalines. Il passaggio dei patrioti a Saint-Domingue ebbe importanti ripercussioni sul futuro delle guerre ispano-americane e sulla costruzione delle nuove repubbliche. Permise, in primo luogo, di superare certi pregiudizi nei confronti dell’isola, considerata come un paese appannaggio di capi guerrieri dediti alla violenza. Inoltre, l’accoglienza e l’aiuto offerto da Pétion ai patrioti ispano-americani dette al paese della rivoluzione dei neri il volto di una repubblica sorella, favorevole al sostegno della causa ribelle. Mentre sino ad allora Haiti aveva evocato immagini essenzialmente negative nelle menti delle élite ispano-americane e in primo luogo in quelle delle regioni caraibiche, dove era sempre vivo il ricordo del massacro dei bianchi da parte di Dessalines, il soggiorno di Bolívar e degli altri patrioti sull’isola contribuì a cambiare radicalmente la percezione della rivoluzione che aveva messo sottosopra il paese dal 1791 al 1804. I riferimenti haitiani lasciavano la sfera dell’emozione, dove l’avevano relegata i discorsi catastrofisti, per far parte di quella razionale. Tale metamorfosi non derivava solo dalla migliore conoscenza degli eventi e della realtà dell’isola, ma anche dalle trasformazioni delle ambizioni dei patrioti. La proclamazione della guerra a morte aveva infatti implicato l’adozione di una strategia militare che mirava al massacro degli avversari e l’esempio haitiano permetteva appunto di incanalare l’energia del conflitto verso un solo scopo – l’annientamento del nemico –, favorendo il superamento della guerra civile24.
Nonostante il timore di Bolívar e gli altri dirigenti repubblicani verso la pardocrazia, ossia di un eventuale sovvertimento delle gerarchie razziali, dove i pardos (liberi di colore) avrebbero potuto trasformarsi in una massa incontrollabile e sterminare i bianchi, così come era avvenuto ad Haiti, l’eventualità non remota di una sconfitta definitiva contro gli spagnoli portò a un ribaltamento delle posizioni dei patrioti nei confronti degli schiavi. Invece di condurre ad un inasprimento della loro condizione servile, l’esperienza haitiana convinse gli stati maggiori repubblicani della necessità di integrare gli schiavi alla categoria di soldati e quindi di cittadini. Riconoscere la libertà agli schiavi che si fossero arruolati con le truppe patriottiche aveva un duplice vantaggio: dal punto di vista militare, la repubblica avrebbe guadagnato dei soldati favorevoli al regime; dal punto di vista politico, significava poter sventare qualsiasi minaccia di ribellione di schiavi. [...]
Il decreto di guerra a morte e l’esperienza haitiana obbligarono Bolívar a costruire un esercito in grado di servire alla lotta a carattere nazionale. Oltre ad arruolare in massa meticci, pardos, mulatti e schiavi, il libertador cercò di razionalizzare l’esercito concedendo promozioni in base al merito [...] Grazie a queste trasformazioni le truppe patriote riuscirono a riconquistare, nel corso del 1819, la Nuova Granada (vedi fig. 19). I patrioti poterono così finalmente contare su un territorio esteso e relativamente popolato e quindi fonte di ingressi fiscali. Ciò permise loro di proseguire e intensificare la regolarizzazione dell’esercito, facendo ricorso alla coscrizione massiva della popolazione neogranadina. Dal 1812 al 1822, le forze repubblicane passarono da 7.000 uomini circa a più di 30.000. Il sequestro di popolazione fu formidabile: a partire dal 1821 le forze repubblicane rappresentavano, in proporzione alla popolazione, le stesse dimensioni della Grande Armée di Napoleone26.
Le proteste si moltiplicarono e le diserzioni divennero importanti, arrivando, in alcuni casi, al 10 per cento degli effettivi ogni mese. Anche la riscossione fiscale acquisì dimensioni mai viste e il malcontento della popolazione aumentò notevolmente. Si trattava comunque di azioni doverose, dato l’alto costo dell’esercito repubblicano. L’armistizio firmato a Santa Ana de Trujillo (Venezuela) nel 1820 tra Pablo Morillo e Simón Bolívar mise fine alla guerra a morte, tramite un trattato di regolamentazione dei combattimenti. Trattandosi di un accordo tra la Spagna e la Colombia, implicò anche il riconoscimento automatico dello stato colombiano.
Certamente, il ritorno del regime liberale in Spagna, con la rivoluzione di Riego nel gennaio del 1820, aveva favorito un cambiamento di rotta da parte spagnola. Da qui in avanti, la Spagna combatteva contro soldati regolari e non contro banditi o ribelli; questi, inoltre, rappresentavano ormai una nazione in formazione: l’armistizio aveva implicitamente riconosciuto il diritto dei patrioti a trasformarsi in nazione e il conflitto in guerra internazionale. Gli spagnoli americani si convertirono così in colombiani grazie alla dinamica della guerra, caratterizzata da un abbandono della guerriglia, la formalizzazione dell’esercito, l’istituzionalizzazione del governo patriota. Fu la guerra quindi a far superare il momento dei pueblos e a dare forma alla sovranità della nazione. In primo luogo, andando oltre le antiche corporazioni territoriali, le forze armate dettero una base territoriale ai futuri stati nazionali.
Così come definito dalla costituzione di Angostura, futura Ciudad Bolívar, nel febbraio del 1819, la nazione colombiana coincideva con le regioni liberate dalle armi. Inoltre, la formazione di una potente amministrazione militare aveva fornito allo stato nascente un esecutivo forte, il governo militare di Bolívar e Santander. Da lotta di bassa intensità tra città e province, la lotta si era trasformata progressivamente in guerra civile tra americani e, infine, in una lotta di liberazione nazionale. La partecipazione dei gruppi popolari alla guerra popolarizzò il conflitto trasformando l’esercito in nazione; questa, a sua volta, si formò su un territorio conquistato dal popolo, ovvero l’esercito 27. Le guerre contribuirono quindi alla formazione di un’identità patriottica e nazionale. [...]
La liberazione dell’America del Sud si deve, oltre che all’esercito bolivariano, a quello di San Martín. Figlio di spagnoli e educato a Madrid, San Martín aveva fatto carriera militare nella guerra peninsulare contro i francesi. Arrivato a Buenos Aires nel 1812, assunse il comando del battaglione dei granatieri e partecipò ai conflitti che opponevano la capitale rioplatense alle province del Nord. Tuttavia, come Bolívar, pensava che la guerra dovesse essere globale americana: sino a quando vi erano territori in mano alla monarchia spagnola, questi potevano rappresentare una minaccia per il resto dei territori liberati. L’obiettivo finale era dunque l’annientamento degli spagnoli e la liberazione di tutto il continente. Appoggiato dal governo autonomo di Buenos Aires, cominciò quindi a costruire un esercito del Sud, definito appunto l’«esercito delle Ande».
A partire dal 1810, l’attività militare rioplatense si era concentrata su due fronti, l’Alto Perù e la Banda Orientale (Uruguay), dando vita a due eserciti principali: quello del Nord o «Ausiliario del Perù» e quello dell’Est o della «Capitale». Avendo sperimentato nei loro primi quattro anni di vita numerose vittorie ma anche sconfitte, avanzamenti ma anche retrocessioni, questi due gruppi armati si trovarono nel 1815 usurati e politicamente divisi in varie fazioni.
Di fronte alla restaurazione e all’avanzata realista nel continente, il Direttorio, che nel frattempo guidava il governo autonomo di Buenos Aires, decretò la creazione di una nuova forza, più regolare, più professionale e meglio equipaggiata rispetto alle precedenti. L’Esercito delle Ande si appoggiò sin da subito su una triade concreta di poteri geografici e politico-istituzionali:
1) sulla Loggia Lautaro, un gruppo segreto di azione politica per l’indipendenza delle Province Unite e del Cile, istituita dallo stesso San Martín e da Carlos de Alvear;
2) lo stato centrale del Río de la Plata, che dal 1816 fu guidato da Juan Martín de Pueyrredón;
3) il governo-intendenza di Cuyo, sotto la guida dello stesso San Martín.
Mentre la Loggia coordinava l’azione politica ai due lati della cordigliera, lo stato centrale forniva appoggio militare (alcune vecchie unità furono riassegnate alle Ande), ma soprattutto finanziario al nuovo esercito, e il territorio di Cuyo sopportava la maggior parte del peso del reclutamento e della organizzazione logistica delle spedizioni. Quest’ultimo punto dimostra che il processo di formazione dell’esercito è inseparabile dalla riorganizzazione completa dell’intendenza di Cuyo, dopo la nomina di San Martín a governatore-intendente della stessa nel 1814. Il generale si concentrò immediatamente sulla militarizzazione della regione, dirigendo la totalità delle risorse umane, economiche e materiali della società locale alla formazione dell’esercito. Creare un corpo di guerra come l’Esercito delle Ande a partire da una regione marginale e demograficamente debole come Cuyo implicava una riorganizzazione completa delle priorità: non solo si dirottarono al mantenimento dell’esercito le risorse fiscali ordinarie (decime e alcabalas) e straordinarie (prestiti, contributi di guerra, vendita di terre, lotterie provinciali), ma si instaurò una vera e propria economia di guerra destinata a coprire i bisogni materiali, dallo sfruttamento di argento, piombo e rame, all’allevamento di vacche, cavalli e muli, alla costruzione di grandi officine militari, tessili e di fabbricazione di armi e di equipaggiamenti. Il reclutamento della truppa combinò praticamente tutte le forme conosciute sul continente: il volontariato, la coscrizione, l’incorporazione massiva di schiavi e vagabondi, la mobilizzazione di numerosi contingenti miliziani. Così, due anni dopo l’installazione di San Martín a Cuyo, l’esercito iniziò a oltrepassare le Ande con una forza di più di 5 mila uomini, che corrispondeva approssimativamente alla metà della popolazione maschile e adulta locale28.
L’esercito delle Ande fu il più regolare degli eserciti del Sud: le sue unità potettero contare su un livello tecnico eccellente, permettendo ai patrioti di ottenere importanti vittorie. Alla fine del 1817 l’esercito raggiunse Santiago dove un’assemblea nominò San Martín comandante in capo dell’Esercito Unito delle Ande e del Cile, dopo che egli aveva rinunciato alla presidenza del paese. Al suo posto l’assemblea elesse come presidente Bernardo O’Higgins, che nel febbraio 1818, nonostante la sopravvivenza di alcuni territori realisti a sud del paese, dichiarò l’indipendenza del Cile. Il nuovo presidente aiutò economicamente le forze di San Martín a proseguire la campagna contro il Perù. Nonostante la sua forza, l’esercito di San Martín, contrariamente a quello di Bolívar, non riuscì mai a essere un esercito «nazionale». Oltre che dagli abitanti della regione di Cuyo, che partecipavano all’esercito in modo sproporzionato rispetto ad altre zone del Río de la Plata, dopo la vittoria in Cile, questo era formato in buona parte anche da cileni e per lo più finanziato dal governo di questo paese. È per questo motivo che San Martín decise di rifondare ancora una volta l’esercito, chiamandolo Esercito Libertador del Perù.
Ma, cosa significava per i patrioti liberare un paese? Come per il caso cileno, in cui i realisti non furono mai definitivamente sconfitti, ritirandosi a sud e occupando varie zone del paese, nel caso peruviano fu ancora più chiaro che liberare il paese significava occupare militarmente la sua capitale, non tanto per il suo valore strategico dal punto di vista territoriale, quanto piuttosto per la presenza in questa della colonna vertebrale dell’amministrazione spagnola. Liberare il Perù equivaleva a conquistare il controllo dello stato, rompendo i vincoli amministrativi con la Corona e formando un nuovo governo. L’Esercito Libertador prese possesso di Lima il 6 luglio 1821, un anno dopo l’inizio della campagna, avendo usurato le truppe realiste senza però averle mai incontrate in una battaglia decisiva. Contrariamente al caso cileno, dove rinunciò all’offerta di farsi carico del governo, nel caso peruviano San Martín assunse la quasi totalità del potere pubblico, trasformandosi in «protettore» del Perù. Il protettorato era una specie di dittatura nella quale il capo militare di un esercito di occupazione prendeva le redini del potere pubblico, riunendo in una sola persona il potere esecutivo, legislativo e militare. Questa dittatura fu presentata da San Martín come transitoria, frutto dello stato di eccezione in cui si trovava il Perù, ancora circondato da truppe nemiche. Il protettorato era quindi la nuova formula per far fronte alle esigenze politiche della guerra di indipendenza: era la risposta a tutte le esperienze delle giunte, triumvirati, congressi, direttorio, risultate fallimentari. Assumendo direttamente il potere, i libertadores potevano assicurarsi che le risorse non mancassero agli eserciti e che le divisioni interne non minassero gli sforzi militari. Il protettorato rappresentava anche una risposta alla particolare situazione dell’esercito, ossia quella di una macchina da guerra senza stato. Mentre l’appoggio del territorio del Río de la Plata era ormai quasi inesistente, quello del Cile si faceva ogni giorno più tenue, soprattutto dal punto di vista finanziario. L’esercito necessitava quindi di uno stato che gli garantisse un forte sostegno, stabilizzando e normalizzando il suo funzionamento. Il Perù poteva rivestire questa funzione, ma per lo stesso motivo doveva essere mantenuto sotto lo stretto controllo dell’esercito.
In altri contesti, come quello messicano, la guerra significò una trasformazione dell’organizzazione fiscale, che ebbe importanti conseguenze sulla costruzione del nuovo stato. Mentre prima della guerra la riscossione fiscale era centralizzata, durante il conflitto i dirigenti militari preferirono dividerla tra le varie città e pueblos, affinché ognuno di questi avesse le risorse necessarie per sostenere le forze accantonate nelle proprie giurisdizioni. Questa regionalizzazione del sistema fiscale era in fondo una diretta conseguenza del sistema ideato da Calleja, il quale prevedeva un ampio coinvolgimento delle popolazioni nella difesa del territorio attraverso le milizie.
Contrariamente al caso degli eserciti sudamericani, il finanziamento della guerra non favorì dunque una centralizzazione del potere fiscale nelle mani di pochi dirigenti, ma casomai un rafforzamento del potere delle province a scapito di quello di Città del Messico. Il risultato fu comunque il trionfo sulla ribellione. [...]
Il triennio liberale e la fine delle guerre.
La decade del 1820, che vide l’indipendenza trionfare in tutti i territori dell’America spagnola (tranne Cuba e Portorico), si aprì con la seconda tappa costituzionale. Le truppe accantonate in Andalusia, mal pagate e soggette a epidemie, si sollevarono sotto la guida del tenente colonnello Rafael del Riego a Cabezas de San Juan, vicino a Siviglia, il I gennaio del 1820, dando avvio alla seconda rivoluzione liberale, che si estese ben presto a tutta la penisola. Le giunte che si erano formate nelle varie città obbligarono Ferdinando VII ad accettare la costituzione gaditana e la convocazione delle Cortes. Queste, riunitesi a Madrid, decretarono l’applicazione della costituzione del 1812 così come di tutte le leggi e decreti del primo periodo liberale, mettendo termine alla monarchia assoluta. Tuttavia, le circostanze non erano più quelle di dieci anni prima: il re era presente, Napoleone era stato definitivamente sconfitto e le monarchie assolute erano tornate al potere.
In ogni modo e nonostante i tentativi di coloro più vicini al re, le Cortes non giunsero mai ad emettere una risoluzione sulla possibilità di riconquistare l’America con le armi. La strategia politica passò piuttosto per una riconciliazione degli interessi attraverso il sistema costituzionale: l’invio di delegati, un’amnistia generale per coloro che avevano partecipato alle guerre, un alt al fuoco immediato furono le soluzioni proposte dalle Cortes. Malgrado l’atteggiamento conciliante delle Cortes verso i territori americani, lo scontro di interessi tra i deputati spagnoli e quelli americani portò a una definitiva frattura nel febbraio del 1822. Se, in un primo tempo, il desiderio di autonomia dei secondi si era concretizzato nella richiesta di un aumento del numero delle deputazioni provinciali e di una nuova struttura fiscale decentralizzata, in un secondo momento i deputati americani arrivarono a chiedere la realizzazione di un vero e proprio progetto confederale, che prevedeva l’istituzione di Cortes americane: in America centrale (Nuova Spagna e Guatemala) con capitale Città del Messico, nella parte settentrionale del continente sudamericano (Nuova Granada, Quito e Venezuela) con capitale Santafé e a sud (Perù, Río de la Plata e Cile) con capitale Buenos Aires. Il progetto era coerente con l’idea federativa dell’impero e negava la pretesa dei liberali spagnoli di centralizzare la sovranità nelle Cortes di Madrid. Tuttavia, l’opposizione nell’assemblea legislativa e i disordini in varie città spagnole, ritardarono la discussione del progetto, favorendo, nel frattempo, l’indipendenza di uno dei più accaniti fautori del piano, la Nuova Spagna.
Di fronte al rafforzamento, in seno alle Cortes, dell’ala moderata, i deputati americani abbandonarono definitivamente i loro seggi. L’emergere della controrivoluzione nella penisola iberica durante l’estate del 1822 e il trionfo militare della stessa un anno dopo, grazie all’invio di un esercito francese da parte della Santa Alleanza, pose definitivamente termine alla possibilità di uno stato liberale della monarchia che includesse l’America.
La Nuova Spagna fu uno dei territori dove il ritorno del costituzionalismo fu accolto con più entusiasmo. Dopo la fine dell’insurrezione di Hidalgo e Morelos, le speranze di autogoverno si erano mantenute grazie al ruolo dei Guadalupes e di altre società segrete. La restaurazione del regime costituzionale gaditano offrì ai novoispani la possibilità di auto-gestirsi, grazie alle diputaciones provinciali e agli ayuntamientos costituzionali. [...]
Questa radicalizzazione spaventò sia i settori più conservatori della società messicana, come l’esercito e la Chiesa [...].
Si iniziò quindi a pensare a forme alternative di governo, compresa l’idea di una monarchia costituzionale sotto la seconda generazione della dinastia spagnola. L’ufficiale realista Agustín de Iturbide ricevette l’incarico dal viceré Apocada di elaborare, insieme ai dirigenti politici creoli, un progetto di compromesso che integrasse anche i militari e gli ecclesiastici. Tale programma, conosciuto come Plan de Iguala (così chiamato per il luogo in cui fu pubblicato), prevedeva il mantenimento della religione cattolica come religione di stato, l’indipendenza della Nuova Spagna e una monarchia costituzionale2. Il governo rimaneva formalmente nelle mani di Ferdinando VII, a cui però veniva chiesto di presentarsi personalmente in Messico; in caso contrario, doveva designare un altro membro della casa reale. Inoltre, il documento designava l’esercito come difensore delle «tre garanzie»: la religione, l’indipendenza e la «stretta relazione tra americani e europei». Il Plan, accettato sia da conservatori che liberali, offriva la possibilità di un cambiamento senza correre il rischio di innescare una rivoluzione con imprevedibili conseguenze sociali; inoltre, evitava la rottura radicale con la metropoli. Tuttavia, il viceré Apocada non lo accettò, provocando una grave crisi politica e la reazione dei militari, guidati da Iturbide. La crisi si risolse con la nomina di un nuovo viceré, O’Donojú, inviato dalle Cortes per sostituire Apocada e per mantenere i vincoli con la Nuova Spagna. I due si incontrarono a Córdoba, il 24 di agosto del 1821, dove siglarono un trattato che riconosceva l’indipendenza delle Nuova Spagna come «Impero Messicano» e annunciava l’istallazione di un Consiglio di Reggenza e di una Giunta Governativa, riconoscendo allo stesso tempo il governo formale di Ferdinando VII e la costituzione spagnola. Il rifiuto del trattato da parte delle Cortes di Madrid determinò la separazione della Nuova Spagna dalla monarchia spagnola: nel maggio del 1822, Iturbide fu proclamato imperatore di una monarchia ereditaria con il nome di Augustín I. L’indipendenza del Messico, che avvenne senza guerre né violenze, fu così una conseguenza diretta della rivoluzione liberale spagnola e della sua incapacità di accettare l’autogoverno politico rivendicato dai novoispani (vedi fig. 19).
L’indipendenza della Nuova Spagna influenzò anche quella centroamericana.
L’indipendenza della Capitanía General de Guatemala, che comprendeva i territori del Chiapas e dell’America centrale attuale, fu proclamata il 15 settembre 1821, da una giunta di notabili, composta dai membri del municipio e della deputazione provinciale del Guatemala, che convocò un congresso. Nel frattempo, però, il municipio di Ciudad Real di Chiapas aveva aderito al Plan de Iguala e riconosciuto il governo di Iturbide. Ciò obbligò le autorità guatemalteche a decidere se aderire o meno all’impero messicano. Mentre la maggior parte delle province, inclusa Guatemala, accettarono l’unione con il Messico, all’inizio del 1822, San Salvador rifiutò l’incorporazione, istallando una giunta di governo che si dichiarò indipendente sia dalla Spagna che dal Messico. La provincia fu poi invasa dalle truppe messicane nel febbraio del 1823. [...]
Nel continente sudamericano, l’introduzione del regime costituzionale, in quei territori ancora sotto il controllo spagnolo, fu pesantemente condizionata dalle guerre. Mentre il Río de la Plata, il Cile, il Venezuela e gran parte delle Nuova Granada avevano raggiunto l’indipendenza, vi erano ancora numerosi territori da liberare (Quito, Perù e Charcas).
Nel caso dell’Audiencia di Quito, il ritorno del regime liberale spagnolo favorì la creazione di vari governi autonomi. Prima Guayaquil (ottobre 1820), poi Cuenca e altre città (novembre 1820) dichiararono la loro indipendenza dalla Spagna. Mentre queste ultime furono immediatamente riconquistate dalle truppe spagnole, la repubblica di Guayaquil, che si era data una costituzione liberale, simile per molti aspetti a quella gaditana, sopravvisse per due anni, sino alla sua incorporazione nella Gran Colombia.
La posizione strategica della città permise al governo di sopravvivere: non solo era l’unico porto della Audiencia, ma durante questi anni costituì anche una sorta di stato cuscinetto tra i due eserciti di liberazione, quello proveniente da nord, guidato da Bolívar, e quello di San Martín che era arrivato in Perù. L’indipendenza della provincia, che in questi due anni aveva usufruito di una totale libertà commerciale, terminò nel 1822 quando il generale Sucre, comandante in capo delle forze repubblicane inviate da Bolívar a liberare la Audiencia, liberò prima Cuenca e poi Quito (battaglia di Pichincha) dalle forze spagnole. Il territorio quitegno fu dunque incorporato alla Repubblica di Colombia, come Distretto del Sud. L’integrazione della Audiencia allo stato colombiano era già stata approvata dal Congresso di Angostura nel 1819, al quale però nessun rappresentante del regno aveva partecipato. Tuttavia, l’incorporazione alla nuova repubblica fu preceduta da una serie di adesioni formali dei municipi delle città e dei pueblos, attraverso i quali si dichiarava la volontà di entrare a far parte del nuovo stato 4. Questi atti non esprimevano un generico desiderio di adesione alla Gran Colombia, quanto piuttosto una manifestazione dei propri poteri sovrani.
In Perù, il ristabilimento del regime costituzionale spagnolo coincise con l’arrivo dell’esercito di San Martín, che sbarcò a Pisco (al sud di Lima) nel settembre del 1820. Il generale non cercò tuttavia di conquistare il territorio con la forza ma cercò di negoziare con le autorità spagnole: era convinto che l’indipendenza poteva essere raggiunta solo con l’accordo delle classi dirigenti peruviane. Iniziò quindi a scrivere numerose lettere a personaggi preminenti per convincerli ad appoggiare il suo piano di stabilire una monarchia costituzionale ma indipendente. Le autorità spagnole rifiutarono il progetto e si stabilirono nel sud del paese (a Cuzco) lasciando il nord, dove molte città si erano nel frattempo dichiarate indipendenti, ai patrioti. San Martín si istallò a Lima dove istituì un protettorato, sperando che i realisti americani passassero nelle file dei patrioti. Inoltre, le misure che il libertador impose (come la libertà de vientres5 , l’abolizione del tributo indigeno o i decreti contro la Chiesa), unite ai prestiti forzosi sulla popolazione locale, crearono un sentimento ostile nei confronti del governo da parte di settori importanti della popolazione locale. San Martín allora si rivolse a Bolívar in cerca di aiuto e i due si incontrarono a Guayaquil nel gennaio del 1822. Nella riunione, divenuta poi uno dei grandi eventi dell’indipendenza, si discussero due punti essenziali: l’eventuale passaggio di Guayaquil dalla Colombia al Perù e l’aiuto delle truppe bolivariane per terminare la guerra in territorio peruviano. Dato che in nessuno dei due casi San Martín riuscì ad ottenere ciò che voleva, rinunciò a tutte le sue cariche e delegò il potere esecutivo al congresso di Lima. Con l’abbandono del generale si aprì una fase politica molto convulsa, caratterizzata in primo luogo da lotte tra fazioni interne. Di fronte alla situazione di caos, il congresso ricorse a Bolívar, a cui si concesse in un primo momento l’autorità politica e militare. Nel frattempo il congresso emanò, nel novembre del 1823, una costituzione, la prima dello stato peruviano, in cui si stabilì una repubblica. Ma di fronte all’ammutinamento delle truppe rioplatensi e cilene nel porto del Callao, le quali non ricevevano il salario da mesi, i realisti occuparono sia il porto che la capitale. A questo punto il congresso ricorse ancora una volta a Bolívar, che fu nominato dittatore del Perù nel febbraio del 1824. La politica bolivariana si focalizzò nella formazione di un esercito per sconfiggere definitivamente i realisti; obiettivo che fu raggiunto alcuni mesi dopo ad Ayacucho (9 dicembre 1824), l’ultima grande battaglia realista del continente.
La vittoria di Ayacucho facilitò anche l’indipendenza di Charcas (Bolivia), dato che rese possibile la concentrazione delle forze di Sucre nelle campagne dell’Alto Perù. Sconfitte le ultime autorità spagnole, Sucre, entrato a La Paz, convocò un congresso delle province dell’Alto Perù. Questa decisione aprì la strada alla formazione di uno stato indipendente sia da Buenos Aires che da Lima, le due capitali dell’Alto Perù durante l’epoca coloniale. In effetti, il contesto di guerra in cui si era ritrovato il territorio di Charcas a partire dalla crisi del 1808 aveva consolidato una forte autonomia politica e di governo che non era più possibile cancellare con un’eventuale subordinazione al Rio de la Plata o al Perù6 . L’Assemblea Generale dei Deputati delle Province dell’Alto Perù si istallò a Chuquisaca nell’agosto del 1825, dove firmò l’atto di indipendenza e giurò la sua «volontà irrevocabile di governarsi e di darsi la costituzione, leggi e autorità più adatte alla sua futura felicità come nazione». Nasceva così la repubblica di Bolivia, con capitale Sucre e con un governo rappresentativo e centralizzato.
[...] il progetto bolivariano della Gran Colombia, che univa in un unico stato i territori del Venezuela, della Nuova Granada e del regno di Quito. La nuova repubblica fu fondamentalmente il risultato di anni di guerra, durante i quali si formarono stretti vincoli politici tra patrioti venezuelani e neogranadini. La collaborazione tra i due eserciti era iniziata nel 1813, quando il governo indipendente della Nuova Granada, presieduto da Camillo Torres, aveva inviato aiuti militari alla seconda repubblica venezuelana, e si concluse nel 1819 quando le truppe di Bolívar liberarono definitivamente la Nuova Granada.
Nello stesso anno fu convocato il congresso di Angostura che si concluse con la pubblicazione della Legge Fondamentale della Repubblica di Colombia, con cui il Venezuela e la Nuova Granada furono riunite nella nuova repubblica.[...] La costituzione di Cúcuta creò uno stato fortemente centralista, frantumando i desideri federalisti delle élite provinciali. L’adozione di una sovranità unica e astratta, ubicata nella nazione («la sovranità risiede essenzialmente nella nazione», dichiarava l’articolo 2) fu una conseguenza delle esperienze negative dei regimi federalisti durante la crisi. Il libertador era convinto che il maggior pericolo per la sopravvivenza della nuova repubblica venisse dalla divisione tra città [...]
Fu questa frammentazione che spinse i dirigenti della nuova repubblica a creare un regime fortemente centralista con un esecutivo molto forte. Inizialmente, infatti, furono ristabilite le «quattro cause», attraverso la reintroduzione del sistema delle intendenze. La non applicazione a livello locale del principio di divisione dei poteri e il ricorso al modello coloniale borbonico furono, molto probabilmente, altrettante reazioni all’esproprio giurisdizionale da parte dei pueblos.
La repubblica fu infatti divisa in dipartimenti con a capo gli intendenti, organi del potere esecutivo, direttamente nominati dal presidente. A questi funzionari furono attribuiti gli stessi poteri degli intendenti borbonici: giustizia, polizia, finanze e guerra.
In realtà, nonostante l’adozione di un regime centralista, con la rigida subordinazione dei poteri locali al potere esecutivo, il concetto di sovranità unitaria e indivisibile non si impose nemmeno durante il periodo della Gran Colombia. L’estrema eterogeneità delle comunità, l’esistenza di realtà economiche e sociali così diverse tra di loro impedì di ridurre la frammentazione al principio di unicità della nazione. Malgrado il centralismo del discorso costituzionale e legislativo della repubblica colombiana, di fatto i poteri delle province e delle città restarono molto ampi: i municipi continuarono ad amministrare le risorse comunali, ad esercitare la giustizia, ad intervenire nella formazione ed organizzazione delle milizie.
In un articolo della Gaceta de Colombia, organo di stampa del governo, si scriveva a proposito dei poteri sovrani dei municipi: «estamos recojiendo el amargo fruto de la tendencia de algunas municipalidades a la usurpación de los derechos y funciones de los verdaderos representantes del pueblo»10.
I tentativi federalisti delle città del nuovo stato portarono progressivamente alla disgregazione della Gran Colombia. Un primo e importante evento politico, in cui i municipi svolsero un ruolo da protagonisti, fu il tentativo venezuelano di staccarsi dalla Gran Colombia. Furono infatti le municipalità delle principali città a proclamare il generale José Antonio Páez, eroe dell’indipendenza e accusato dal congresso di violazioni alle garanzie costituzionali, capo politico e militare del loro dipartimento, disconoscendo l’autorità del governo di Bogotà (30 aprile 1826).
I fatti venezuelani ebbero una forte eco nei dipartimenti del Sud, dove, nel luglio dello stesso anno, i municipi delle tre principali città si pronunciarono per una riforma della costituzione del 1821. Guayaquil, Quito e Cuenca convocarono dei cabildos abiertos che si pronunciarono per una riforma in senso federale della costituzione e per l’abolizione di alcune leggi, come quella che aveva introdotto la contribuzione diretta (una tassa dal due al dieci per cento sugli immobili e sui redditi personali). Un mese dopo, le tre città, a cui si unì il municipio di Ibarra, fecero un nuovo «pronunciamento» a favore del libertador, affinché assumesse poteri straordinari per la redazione di una nuova costituzione. Questi atti confermano che le città e non il congresso detenevano il potere sovrano: le numerose iniziative per la riforma della costituzione non procedevano infatti da deputati o senatori, ma dai cabildos della repubblica. [...]
Dietro i caudillos che sconfissero Bolívar, c’erano infatti le élite creole: i generali che, come Flores, avevano fatto parte della sua armata, diventarono gli interpreti degli interessi locali. La frammentazione della Gran Colombia non fu quindi il frutto del progetto di un gruppo di militari, totalmente indipendenti dalla società, ma di rappresentanti di quella élite urbana che da sempre aveva rifiutato qualsiasi tentativo di centralizzazione.
La dimensione del ruolo storico del libertador e l’impossibilità pratica di applicare le sue idee in America fecero emergere il dramma dell’«uomo solo», come egli stesso si definì. L’ultima metafora creata da Bolívar dipinge un uomo torturato dal compito arduo e inutile, eternamente vanificato dalle onde, di condurre un aratro sul mare.
Alcune settimane prima della morte, così riassunse la situazione a Juan José Flores:
V. sabe que yo he mandado 20 años y de ellos no he sacado más que pocos resultados ciertos.
1°. La América es ingobernable para nosotros. 2°. El que sirve una revolución ara en el mar. 3°. La única cosa que se puede hacer en América es emigrar. 4°. Este país caerá infaliblemente en manos de la multitud desenfrenada, para después pasar a tiranuelos casi imperceptibles, de todos colores y razas. 5°. Devorados por todos los crímenes y extinguidos por la ferocidad, los europeos no se dignarán conquistarnos. 6°. Sí fuera posible que una parte del mundo volviera al caos primitivo, este sería el último período de la America.
Il fallimento politico e personale di Bolívar derivavano essenzialmente dal suo profondo scetticismo verso gli americani e la loro moralità: l’assenza di esperienza politica e la mancanza di virtù civica li rendevano, affermava, del tutto incapaci di governarsi attraverso istituzioni liberali.
Già molti anni prima del fallimento della Gran Colombia, ad Angostura nel 1819, aveva proposto una specie di areopago che doveva controllare il rispetto dei principi morali nella repubblica. Questo «potere morale», come lo avrebbe chiamato lo stesso Bolívar alcuni anni dopo, composto da un presidente e quaranta membri, doveva esercitare un’autorità piena a indipendente in due ambiti di enorme importanza per il libertador: i costumi pubblici e l’educazione.
Anche se la proposta fu respinta dal congresso, il potere morale fu ripreso nella costituzione della Bolivia del 1826 con la camera dei censori, che doveva promuovere e proteggere l’esercizio della virtù civica. La carta boliviana del 1826 è importante non solo perché è il risultato del pensiero costituzionale del libertador, ma perché rappresenta uno strumento per far fronte ai pericoli che incombevano su molti Paesi del continente in quel momento: l’anarchia e la tirannia. A tal fine Bolívar stabiliva quattro poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario e elettorale) e un presidente a vita che aveva inoltre il potere di eleggere il suo successore. Questa costituzione vitalizia, che fu estesa anche al Perù nel dicembre di quello stesso anno, non fu accettata dalle elite creole in quanto, non solo assomigliava molto alla monarchia, ma violava uno dei principi più apprezzati dai liberali: l’alternanza nelle cariche come mezzo per evitare la tirannia.
Tuttavia, nei decenni successivi, questo modello tornò ad apparire grazie ad alcuni generali che avevano servito negli eserciti di Bolívar. Nel 1837, il generale Santa Cruz, dopo aver temporaneamente unito il Perù e la Bolivia in una confederazione, promulgò una costituzione in base alla quale il potere esecutivo era nelle mani di un protettore che rimaneva in carica dieci anni e il senato, i cui membri erano vitalizi, era nominato dallo stesso protettore.
Nel 1843, in Ecuador il generale Juan José Flores proclamò una costituzione simile con un presidente che rimaneva in carica otto anni e con un senato vitalizio.
Tali regimi ebbero comunque vita breve. La dittatura peruviana del 1824, la proposta di presidenza vitalizia del 1826, la direzione suprema colombiana del 1828 hanno fatto pensare a Bolívar come a un uomo incline al potere autocratico. In realtà, buona parte dei suoi principi, delle sue attitudini nei confronti dei problemi politici e sociali, delle sue proposte e delle sue misure legislative possono qualificarsi come liberali. Il problema fu che la sua stessa esperienza politica e militare lo convinsero progressivamente della necessità di governi con poteri molto concentrati per rispondere alle minacce di anarchia.
L’adozione di un immaginario politico moderno contrastava con una realtà profondamente diversa, non tanto, come pensava Bolívar, per la mancanza di virtù politiche e morali, quanto piuttosto per la sopravvivenza di corpi territoriali che non svanirono con l’indipendenza, ma che anzi si trovarono rafforzati dalla crisi della monarchia e dalla loro articolazione con i nuovi principi liberali.
L’idea di anarchia e debolezza dei nuovi Paesi è insita anche nel progetto bolivariano di creazione di un’istanza politica panamericana. Nel dicembre 1824 il libertador, in qualità di capo di stato del Perù, inviò infatti una comunicazione ai governi di Colombia, Messico, Río de la Plata e Cile per riunire un’assemblea di rappresentanti plenipotenziari di ognuno di questi Paesi nell’istmo di Panama. L’obiettivo di Bolívar era la creazione di un congresso che fungesse da «consiglio nei grandi conflitti, da punto di contatto di fronte ai pericoli comuni, da interprete dei trattati in caso di difficoltà e da conciliatore delle nostre differenze».
L’idea non era quindi quella di formare una federazione latino-americana, simile a quella degli Stati Uniti. Si trattava piuttosto di un accordo tra i vari Paesi affinché si giungesse a istituire un congresso continentale permanente che si occupasse principalmente della difesa dei nuovi Stati verso l’esterno. Non è un caso che pochi mesi dopo la convocazione e alcuni mesi prima del congresso di Panama fosse stata pubblicata postuma l’opera incompiuta di Bernardo Monteagudo Ensayo sobre la necesidad de una federación general entre los estados hispano-americanos y plan de su organización (1825). In questo saggio Monteagudo collocava l’America latina nel contesto degli equilibri e delle lotte che si stavano conducendo su scala mondiale, riflettendo sul ruolo egemonico dei governi europei e della Santa Alleanza. Introdusse un linguaggio completamente nuovo per l’America latina, legando le sorti della libertà e dell’unione sudamericana a una stretta alleanza militare, che avrebbe dovuto estendersi alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Monteagudo collocava quindi la libertà dei nascenti Stati sudamericani nel contesto di una federazione generale che doveva affidare ad un Congresso permanente, formato dai plenipotenziari in rappresentanza dei rispettivi Paesi, la responsabilità di regolare le scelte di politica estera e di difesa. La riunione voluta da Bolívar ebbe luogo nel giugno del 1826 a Panama, ma fu un sostanziale fallimento, non solo a causa della limitata partecipazione dei Paesi (vi furono solo rappresentanti del Messico, dell’America centrale, della Colombia e del Perù, oltre a un osservatore britannico e uno olandese), ma anche per il fatto che non si raggiunse alcun accordo significativo.
Túpac Amaru non riuscì a portare dalla sua parte la vecchia nobiltà incaica di Cuzco, città posta sotto assedio dai ribelli alla fine del dicembre del 1780. Carlo V aveva infatti concesso patenti spagnole di nobiltà ereditaria ai nobili Inca negli anni Quaranta del Cinquecento, e la nobiltà indigena di Cuzco si era posta al vertice della gerarchia sociale, grazie anche ai matrimoni con l’élite creola. Ciononostante questi nobili conservavano un forte senso del loro ruolo storico di discendenti degli Inca. Vedevano in Túpac Amaru un semplice curaca rurale, respingendo totalmente la sua ambizione di raggiungere lo status reale di inca. La loro esperienza storica li portava piuttosto a riporre fiducia nei processi giudiziari, nelle contrattazioni tipiche del sistema imperiale spagnolo e nel re di Spagna, l’arbitro imparziale che garantiva la giustizia. [...]
Dopo la rottura dell’assedio di Cuzco, l’esercito reale, fatto di truppe regolari, milizie, e indigeni lealisti, si mise sulle tracce di Túpac Amaru, catturandolo all’inizio dell’aprile del 1781, insieme alla moglie e al figlio. Mentre la sommossa continuava a espandersi, fu processato per la rivolta e giustiziato: prima di essere squartato nella piazza di Cuzco, fu obbligato a presenziare all’esecuzione della moglie, del figlio e di altri ribelli catturati. Il terribile spettacolo era stato allestito per raffigurare la morte della monarchia Inca. [...]
La battaglia di Trafalgar (20 ottobre 1805) sancì invece la scomparsa dell’intera flotta della monarchia spagnola, la quale si trovò così senza risorse, né militari, né finanziarie, per difendere il suo immenso impero. Nonostante i Borboni spagnoli avessero creduto che l’alleanza con Napoleone avrebbe garantito ai territori della monarchia una valida difesa di fronte sia alle pretese britanniche che ai possibili interessi napoleonici sulle colonie americane, la sconfitta di Trafalgar significò un colpo tremendo per le entrate provenienti dalle rendite americane, in quanto, a causa della rottura del sistema delle flotte, il traffico marittimo tra Spagna e America si interruppe. La situazione era così grave che la Corona fu costretta a rinunciare al sistema di monopolio e a permettere a imbarcazioni neutrali di trasportare l’argento novo-ispano nella penisola per pagare gli obblighi finanziari. [...]
con l’aiuto degli inglesi la corte portoghese era fuggita nel frattempo a Rio de Janeiro, evitando all’America portoghese quella frammentazione territoriale che invece caratterizzerà i territori spagnoli a partire dal 1808. [...]
Il trattato di Fontainebleau contiene anche un’altra clausola importante: l’autorizzazione, concessa dalla Corona, per il passaggio di un esercito francese di 28.000 uomini sul suolo spagnolo. In realtà le truppe francesi che oltrepassarono i Pirenei furono molto più numerose e Godoy, vedendo arrivare i francesi a Madrid, preparò la fuga del re verso la Nuova Spagna, seguendo l’esempio portoghese. Ma la fuga si arrestò a Aranjuez, dove nel frattempo era scoppiata una sommossa, guidata dal figlio, Ferdinando, che si proclamò a sua volta re. Napoleone approfittò delle divisioni interne alla famiglia reale per realizzare ciò a cui aveva da sempre aspirato: la sostituzione della dinastia borbonica e l’integrazione della monarchia spagnola all’impero attraverso la «Confederazione del Mezzogiorno», insieme ai regni dell’Italia e del Portogallo. Tra il 5 e il 10 maggio 1808, a Bayona, dove erano stati convocati da Bonaparte, si consumarono le celebri abdicazioni: Ferdinando restituì la corona a suo padre, che a sua volta abdicò in favore di Napoleone. Questi, il 3 di luglio, cedette a suo fratello Giuseppe «i diritti alla corona di Spagna e delle Indie» e tre giorni dopo fu approvata una costituzione, la carta di Bayona, la quale prevedeva la completa sottomissione della Spagna alla politica di stato francese. A partire dalla pubblicazione della notizia sulla Gazeta de Madrid, il 20 maggio 1808, la maggioranza della popolazione insorse, dando inizio a quella che la storiografia spagnola definisce la «guerra di indipendenza». Gli alleati francesi divennero traditori e Napoleone «il corso ateo» o «l’incarnazione del demonio». I perfidi nemici inglesi si trasformarono invece in «alleati» necessari e Manuel Godoy nel colpevole delle disgrazie della «nazione cattolica» spagnola. Ferdinando VII, il traditore dell’Escorial, diveniva infine il «Deseado». Ufficiali, giudici e leader popolari si sollevarono e dichiararono guerra a Bonaparte. [...]
Oltre ad aver decretato l’assenza di un re legittimo, i fatti del 1808 avevano evidenziato l’incapacità delle istituzioni centrali della monarchia a guidare la resistenza di fronte alle operazioni napoleoniche di sostituzione dinastica e assorbimento costituzionale. Invece di opporsi, le più importanti istituzioni peninsulari, a cominciare dal Consiglio di Castiglia, accettarono le abdicazioni come un fatto legittimo e promossero il riconoscimento della nuova monarchia. In questo modo, i centri tradizionali di potere e di governo della monarchia non solo si dimostrarono inetti a dirigere qualsiasi forma di opposizione alla dinastia e al progetto napoleonici, ma, seguendo l’esempio dei re e agendo in modo illegale, si rivelarono anche incapaci di esercitare qualsiasi forma di tutela sulla sovranità e sui diritti dinastici dei Borboni, lasciando che altre istituzioni risolvessero tali questioni. Inoltre, all’inizio della crisi, la monarchia non si trovò solo senza re e senza istituzioni centrali, ma anche, in molti casi, senza istituzioni locali o territoriali. In effetti, i capitani generali e gli intendenti di provincia, in larga parte nominati da Godoy, spesso si trovarono indecisi tra la loro lealtà a quest’ultimo – il che significava riconoscere implicitamente Bonaparte – e la pressione locale a favore della resistenza, che aumentò in seguito alle notizie sulla brutale repressione del 2 di maggio a Madrid da parte delle truppe comandate da Joaquin Murat. [...]
Si formarono diciassette giunte che, legittimate dal principio neo-scolastico della retroversione del potere al popolo in assenza del monarca, assunsero la sovranità e combatterono contro i francesi. In generale, le giunte peninsulari si dedicarono soprattutto a organizzare la resistenza contro i francesi attraverso il reclutamento delle milizie, la riscossione delle imposte e l’amministrazione delle entrate. [...] Dal momento della loro fondazione, le giunte che si opponevano alle armate francesi non si presentarono come il prodotto di un popolo che resisteva agli ordini del re, ma come una nazione che agiva in nome del proprio sovrano, imprigionato dal nemico. [...]
La crisi del 1808 in America.
Le informazioni sui drammatici fatti che ebbero luogo nella penisola (l’abdicazione di Carlo IV a favore di Ferdinando, le sommosse del 2 maggio a Madrid, l’abdicazione della famiglia reale a Bayona, l’installazione delle Cortes di Bayona e l’elaborazione di una costituzione concessa dal sovrano, la nomina di Giuseppe Bonaparte come re della monarchia spagnola, la creazione di giunte locali) giunsero nei porti americani dell’Atlantico durante l’estate del 1808. [...]
Gli abitanti del Nuovo Mondo si trovarono assediati sia da notizie diverse e contraddittorie che da richieste di lealtà provenienti da più parti. Da un lato, Napoleone aveva inviato emissari in America affinché le autorità coloniali riconoscessero Giuseppe I come nuovo re; dall’altro, il Consiglio di Castiglia e le giunte di Siviglia, delle Asturie e di Granada chiedevano alle province americane di essere riconosciuti come i depositari della sovranità del re assente. Altre informazioni contraddittorie, invece, indicavano che Carlota Joaquina, moglie del principe reggente del Portogallo Giovanni VI, che nel frattempo si era stabilito con la corte a Rio de Janeiro, reclamava il suo diritto a governare i regni americani in qualità di reggente e in nome di suo fratello, Ferdinando VII. Questa situazione creò sconcerto tanto nelle autorità reali quanto negli abitanti dei territori americani. Chi governava la monarchia spagnola? Chi meritava obbedienza? Tuttavia, nonostante la forte incertezza, quello che emerse nel 1808 non fu tanto la debolezza dell’impero quanto la sua forza ideologica e politica: gli americani espressero in modo unanime la loro fedeltà a Ferdinando VII, la loro opposizione a Napoleone e il loro impegno a difendere la fede e la patria contro i francesi [...]
Alla notizia delle abdicazioni di Bayona, il municipio di Buenos Aires, così come quelli di altre città del vicereame, si rifiutò di riconoscere Napoleone e decise di governare in nome di Ferdinando VII. Tuttavia, il viceré Santiago Liniers decise di attendere ulteriori notizie prima di respingere il nuovo sovrano. A questo punto, il governatore di Montevideo, Francisco Javier Elío, ripudiò il viceré, accusandolo di tradimento, e convocò un cabildo abierto che istituì una giunta di peninsulari per governare in nome di Ferdinando VII. Gli spagnoli europei della provincia uruguayana furono ben presto emulati da quelli di Buenos Aires, i quali organizzarono una cospirazione per istituire una giunta di governo composta interamente da peninsulari. Gli spagnoli americani, che controllavano le truppe e le milizie, reagirono, esiliando i cospiratori in Patagonia e prendendo in mano le redini del governo, sempre in nome di Ferdinando VII13. La formazione o meno di giunte fu condizionata dalla capacità delle autorità e dei notabili implicati nel progetto, così come dal momento in cui giunsero le notizie dalla penisola. Quella di Montevideo, istituita il 21 settembre 1808, presieduta dal governatore Elío, era composta da alti funzionari e ufficiali dell’esercito, grandi commercianti e proprietari terrieri, parroci, giudici locali e avvocati. Nel caso novo-ispano, invece, le divisioni tra la Audiencia, il municipio, il viceré e i grandi commercianti crearono una situazione estremamente confusa, che si risolse con un colpo di stato il 15 settembre 1808. Di fronte alla volontà dei membri del cabildo della capitale di convocare una giunta del regno e ai tentennamenti del viceré, i grandi commercianti, legati prevalentemente a interessi peninsulari, sostenuti dai magistrati della Audiencia e dagli emissari della giunta di Siviglia, che nel frattempo avevano raggiunto Città del Messico, arrestarono alcuni membri del municipio e sostituirono il viceré José de Iturrigaray con Pedro Garibay. [...]
Non potevano i monarchi spagnoli attribuirsi la facoltà di disporre dei loro vassalli e del loro patrimonio, né passare la corona ad altre persone senza il consenso della «nazione». In conclusione, non si poteva obbedire agli ordini provenienti dalla Spagna poiché si trattava di un atto che andava contro le leggi del regno. [...]
Dalla Giunta Centrale alle giunte americane: la rappresentanza delle province.
È indubbio che i fatti di Bayona rappresentano un evento unico non solo nella storia della monarchia spagnola, ma in quella di tutte le dinastie europee. Mai una famiglia regnante aveva consegnato la corona a uno straniero senza una guerra o un’alleanza familiare. Fin dal medioevo, infatti, ogni dottrina regalista si basava su un principio fondamentale: l’inalienabilità dei diritti e dei beni della corona, che tra l’altro fu introdotta come clausola nell’atto di giuramento che il sovrano doveva compiere prima di accedere al trono. Questo principio implicava la distinzione tra re come persona fisica e il re come persona giuridica, tra il patrimonio privato del re e quello della corona, alienabile il primo, inalienabile il secondo perché appartenente all’ufficio e non alla persona 17. Essendo il monarca un amministratore della corona, non poteva disfarsi del suo patrimonio senza il consenso del regno. I Borboni compirono dunque un atto illegittimo, poiché non rispettarono il primo dovere di una monarchia, l’inalienabilità del regno. [...]
[...] le conseguenze create dalla vacatio regis non riguardavano solo il problema di chi dovesse governare l’impero, ma metteva in discussione la legittimità stessa del sistema politico. L’illegittimità delle abdicazioni creò cioè una vacatios legis a livello locale, perché i funzionari, essendo di nomina regia, non ebbero più un’autorità riconosciuta. Da qui il ricorso alla formazione di giunte di governo autonome, che furono, come abbiamo visto, istituzioni di rottura ma anche di continuità con il passato. Le rivoluzioni ispaniche nacquero dunque come una legittima resistenza all’illegalità degli atti di governo, come lo fu appunto la cessione della corona nelle mani di Bonaparte. [...]
a partire dalla famosa battaglia di Bailén, quando l’esercito napoleonico fu sconfitto dalle forze armate spagnole nella campagna di Jaén, nel sud della Spagna. La notizia della sconfitta dei francesi si diffuse rapidamente sia nella penisola che nel resto d’Europa e in America. Per la prima volta dopo anni, l’esercito napoleonico veniva battuto sul suolo europeo, facendo intravedere agli spagnoli la possibilità di sconfiggere il nemico e vincere la guerra. In seguito a Bailén, due obiettivi fondamentali furono raggiunti nella penisola: l’unificazione degli sforzi contro le truppe francesi e la visibilità di un potere alternativo a quello francese, che custodisse i diritti di Ferdinando almeno sino alla fine della guerra. La vittoria e le sue ripercussioni portarono infatti, nei mesi successivi, alla creazione della Giunta Centrale spagnola, che si riunì il 25 settembre del 1808 con il nome di «Suprema e Governativa del Regno».
Fu composta da due rappresentanti per ogni giunta peninsulare e fu presieduta dal conte di Floridablanca, a cui successe, nel dicembre dello stesso anno, il marchese di Astorga. Oltre che per coordinare gli sforzi bellici, la Giunta Centrale fu creata per arrestare il processo di federalizzazione della penisola, successivo alle abdicazioni, e per impedire che tale processo colpisse anche i territori americani. In effetti, anche se si conformò in modo federativo, essendo composta dai rappresentanti delle giunte provinciali, si presentava come l’organo che governava tutta la monarchia in nome di Ferdinando VII. Tuttavia, il tentativo di centralizzazione del potere da parte della Giunta Centrale fallì, in quanto non riuscì a ridurre il potere delle giunte provinciali e locali a semplici strumenti di governo. La sua autorità fu apertamente disobbedita in numerose occasioni, poiché le giunte locali ritenevano di godere di una legittimità politica superiore. Alcune di queste, come quella sivigliana, pretesero persino di erigersi come unico governo legittimo della monarchia, esigendo obbedienza da altre autorità, come quelle americane, o negando l’autonomia ad altre province, come quella di Granada. Altre giunte, invece, come quelle della Galizia, Castiglia e León progettarono confederazioni particolari come rimedio all’assenza di un potere collettivo della monarchia. La Giunta Centrale fu dunque il tentativo di creare un governo generale della monarchia in sostituzione delle istituzioni centrali, screditate sia dalla condotta dei Borboni che dal proprio comportamento. Ma, come abbiamo visto, tale tentativo fallì non solo perché un governo solido e centrale non giunse mai a consolidarsi, ma anche e soprattutto perché, come scrisse un osservatore britannico nella Quarterly Review, in Spagna si era consolidato un sistema di «repubbliche municipali indipendenti», che potevano dar vita unicamente a delle «convenzioni federali»19. In questo consistette la rivoluzione peninsulare sino alla convocazione delle Cortes di Cadice: nella moltiplicazione di poteri e istituzioni rappresentative locali e provinciali all’interno di una monarchia dove poteri territoriali più ampi e rappresentativi erano sempre stati deboli. Questi corpi acquisirono, nel contesto della crisi, un potere così ampio che giunsero a esercitare un ruolo importante persino nelle Cortes, dove inviarono i propri rappresentanti, i quali firmarono il testo della costituzione del 1812 non solo con nome e cognome, ma anche come «deputato della giunta di», seguito dal nome della stessa. Nei territori americani, come vedremo, la crisi monarchica produrrà le stesse dinamiche di frammentazione territoriale e di moltiplicazione di poteri e istituzioni locali e provinciali: le giunte americane, come quelle peninsulari, furono una risposta di auto-tutela di fronte alla crisi. [...]
Real Orden del 22 gennaio 1809, attraverso la quale la Giunta Centrale concesse la rappresentanza e la parità politica ai territori americani. Inserendosi nella linea strategica stabilita dalla Carta di Bayona nei confronti dei sudditi e territori americani, il decreto affermava che «i domini spagnoli delle Indie non erano colonie», ma formavano parte integrante della monarchia spagnola. Allo stesso tempo, il decreto convocava i rappresentanti americani a formar parte della Giunta Centrale, nella misura di uno per ogni vicereame e capitanía generale: in totale dieci rappresentanti provenienti dal Río de la Plata, Nuova Granada, Nuova Spagna, Perù, Cile, Venezuela, Cuba, Porto Rico, Guatemala e Filippine.
Ciò implicò un cambiamento trascendentale, in quanto per la prima volta i rappresentanti dei territori americani furono integrati in un organo sovrano della monarchia spagnola. Tuttavia, il decreto del gennaio 1809 si rivelò un’arma a doppio taglio. Se da un lato, condusse a un riconoscimento generalizzato della legittimità della Giunta Centrale da parte dei territori americani, favorendo anche la messa in pratica di importanti processi elettorali, dall’altro legittimò il principio secondo cui la sovranità si trovava nei vari regni che costituivano la monarchia. Affermare che i territori americani erano «parte essenziale e indipendente» della monarchia implicava fare riferimento a un linguaggio che aveva un significato concreto nella cultura giuridica e politica dell’epoca. «Parte essenziale» di un corpo politico poteva esserlo solo una comunità perfetta, ossia dotata di una costituzione o forma politica propria e con capacità autonoma di rappresentanza. Il resto erano «parti accessorie» che, in quanto tali, non costituivano un’entità politica: erano semplici paesi o colonie che non possedevano la capacità di autotutelarsi. Il decreto, quindi, oltre a offrire ai territori americani la possibilità di eleggere propri delegati ed essere rappresentanti nella Giunta Centrale, affermando che i territori americani avevano gli stessi diritti politici di quelli peninsulari, offrì alle élite creole l’argomento teorico per costituire proprie giunte autonome. [...]
La famosa Real Orden del 22 gennaio 1809 aveva quindi provocato un profondo dibattito sull’uguaglianza politica tra le due parti della monarchia, che si divise in due questioni principali: il diritto degli americani di costituire proprie giunte governative e l’uguaglianza della rappresentanza negli organi centrali della monarchia, la Giunta Centrale prima e le Cortes poi. In effetti, mentre i deputati peninsulari alla Giunta Centrale furono trentasei, quelli attribuiti ai territori americani furono solo nove. Nonostante le numerose proteste contro la disuguaglianza rappresentativa nella Giunta Centrale, tutta l’America partecipò alle prime elezioni generali dell’impero.
Si trattava di un modello di rappresentanza di antico regime: ad ogni regno corrispondeva un rappresentante, eletto dai cabildos delle città capitali, le quali rappresentavano in teoria tutto il territorio del loro distretto. In realtà, le città americane coinvolte nel processo elettorale furono circa un centinaio, in quanto la procedura elettorale si svolgeva in due turni: i cabildos delle città principali eleggevano tre individui, tra cui ne veniva estratto a sorte uno, che diventava così il rappresentante della città; terminate tutte le elezioni, il viceré o il governatore designava, sulla base di queste nomine, e con l’aiuto di alcuni membri della audiencia, un’altra terna, da cui veniva estratto a sorte un individuo, che si convertiva così nel deputato del vicereame o della capitanía generale alla Giunta Centrale. Il ricorso alla sorte era considerato un intervento della Provvidenza, garante dell’ordine naturale, e confermava la natura tradizionale del sistema elettorale: la rappresentanza del regno coincideva infatti con quella delle città principali, e queste, a loro volta, erano rappresentate dai rispettivi municipi. I deputati erano considerati veri e propri procuradores ed erano dotati di istruzioni, secondo l’antico modello del mandato imperativo che vincolava i rappresentanti ai rappresentati 21.
La figura del procurador, munito di istruzioni, non implicava dunque una delega della sovranità: ciò spiega per quale motivo la sovranità della Giunta Centrale non fu mai pienamente riconosciuta né nella penisola, né in America. Nonostante la novità straordinaria di queste elezioni, i deputati americani (eccetto quello della Nuova Spagna che risiedeva nella penisola) non arrivarono mai a fare parte della Giunta Centrale, a causa della sua dissoluzione nel gennaio del 1810, quando le truppe francesi invasero l’Andalusia.
Tuttavia, i processi rappresentativi avevano provocato anche in America un rafforzamento della sovranità provinciale, in quanto, eleggendo il loro deputato alla giunta peninsulare i cabildos cabeceras, quelli cioè autorizzati ad eleggere i deputati, divennero i rappresentanti legittimi di tutti gli interessi del loro spazio territoriale.
Tra il 1809 e il 1810, nelle aree dove non si era ancora proceduto alla designazione dei deputati alla giunta centrale, il numero delle città investite del diritto di prendere parte alla votazione aumentò 22. Questo fu particolarmente evidente nel caso del Río de la Plata, dove il 6 ottobre del 1809, un nuovo decreto concesse il diritto di voto a tutte le città che avevano un cabildo. L’ampliamento di questo diritto fu provocato innanzitutto dalle numerose proteste espresse dalle città in un primo tempo escluse dal voto – particolarmente vivaci furono quelle delle città messicane 23 –, e in secondo luogo dalla difficoltà a identificare le città cosiddette cabezas de provincia. In Spagna queste corrispondevano alla divisione in province, mentre in America non era chiaro a quali circoscrizioni corrispondessero (alle intendenze, ai corregimientos, alle subdelegaciones). Ma soprattutto, l’ampliamento del diritto di voto nascondeva un’altra tensione fondamentale: quella tra le città.
La questione della rappresentanza paritaria tra Spagna e America si riprodusse infatti anche a livello locale, dove costituì un primo segnale dell’incipiente crisi degli spazi provinciali e delle gerarchie territoriali del sistema coloniale. L’ampia richiesta di partecipazione al voto da parte delle città minori si spiega con il privilegio che la partecipazione al voto implicava: un cabildo che votava veniva infatti riconosciuto come rappresentante virtuale di un territorio; ciò ne legittimava l’autonomia non solo di fronte alle autorità spagnole, ma anche alle altre città. Oltre a determinare un rafforzamento della sovranità provinciale, grazie ai processi rappresentativi, la famosa Real Orden del gennaio del 1809 provocò effetti ben più immediati in America, ossia la creazione delle prime due giunte autonome che si formarono nel luglio e nell’agosto del 1809, rispettivamente a La Paz e Quito. La creazione di queste due giunte deve infatti essere messa in relazione con la mancanza di rappresentatività dei due territori nella Giunta Centrale spagnola. Essendo entrambi delle Audiencias, furono incorporate nella rappresentanza dei due vicereami cui appartenevano, ossia quello del Río de la Plata nel caso di Charcas e quella della Nuova Granada nel caso di Quito. Tuttavia, entrambi i territori avevano goduto di un’ampia autonomia, perché distanti dalle capitali dei rispettivi vicereami, Buenos Aires e Bogotà.
[...] arrivò la notizia della sconfitta delle truppe spagnole a Ocaña (nei pressi di Ciudad Real) nel novembre del 1809 e della successiva occupazione dell’Andalusia da parte delle truppe francesi. In seguito, come conseguenza della sconfitta, arrivarono le notizie della dissoluzione della Giunta Centrale e della creazione di una Reggenza, composta da cinque membri, nel gennaio del 1810. Infine, arrivò la notizia dell’istallazione di José Bonaparte alla corte di Madrid e del fatto che la guerra contro i francesi era quasi definitivamente persa, in quanto rimanevano libere, ma assediate, le sole città di Cadice, Valencia, Zaragoza e Girona. Queste notizie furono più o meno indirettamente la causa che portò alla formazione di giunte americane nel corso del 1810. Credendo persa la penisola e non potendo più contare sulla Giunta Centrale, varie città si ribellarono alla possibilità di sottomissione a una nuova metropoli francese.
Se nei primi anni successivi alla crisi del 1808, la lealtà alla corona spagnola non era mai stata messa in discussione, in questa seconda fase la maggior parte delle giunte non riconobbe la Reggenza. Oltre al timore di venire invasi da Napoleone e dalle sue truppe, quello che colpì fortemente gli americani fu il fatto di non poter più contare su un organo come la Giunta Centrale, che rappresentasse le istanze dell’autonomismo creolo all’interno di un movimento riformista della monarchia.
La sfiducia nei confronti di altre istituzioni peninsulari spinse i creoli a dotarsi di apparati di potere che, se da un lato contribuivano a svincolare gli americani da istituzioni che erano ormai in mano francese, dall’altro manifestavano chiaramente una volontà autonomista ma sempre rivendicata in nome e in difesa del re.
Anche se nella maggior parte dei casi si parlava di «indipendenza», non si trattava in realtà di un’indipendenza totale rispetto alla penisola, ma di un’indipendenza rispetto alla sorte della Corona in Spagna. Il re e la dinastia non possedevano più il diritto di governare in America come era stato sino ad allora: il vincolo tra la penisola e i territori americani era costituito ormai solo dalla forma di stato, ossia la monarchia. Detto in altro modo, i rivoluzionari delle giunte che si formarono nel 1810 aspiravano alla separazione dalla Corona – nel caso in questione dalla Reggenza, erede dei Borboni o dei Bonaparte – e al mantenimento dei legami con la monarchia. Questa era dunque concepita come un’entità politica federale, in cui la sovranità era compartita tra le varie parti che la costituivano.
Contrariamente ai primi due anni della crisi, i territori americani si divisero in varie posizioni. Se, da un lato, la politica divenne pubblica e le aspirazioni alla sovranità si diversificarono, dall’altro gli spazi si frammentarono. Da qui la complessità del biennio 1810-1812: mentre alcuni territori riconobbero la Reggenza, altri vi si opposero apertamente e altri ancora, come nel caso di Caracas, optarono per posizioni repubblicane. Quello che successe nel 1810 fu un autentico fiorire di giunte, che ebbe un forte effetto di contagio: non si verificarono effetti di imitazione – la diversità nelle forme e obiettivi delle giunte americane fu evidente –, ma di mimetismo33.
Tuttavia, un elemento comune alla maggioranza dei governi autonomi americani è che non si trattava più di un deposito della sovranità: di fronte alle notizie disastrose provenienti dalla penisola, il re non era più il titolare del potere supremo, ma erano i pueblos i nuovi soggetti sovrani. Sull’ambivalenza del termine pueblo torneremo in seguito. Quello che importa qui sottolineare è che le nuove giunte non si concepivano come rappresentanti del re, ma come rappresentanti dei pueblos che, in assenza del monarca, riassumevano la sovranità. E ciò avveniva mentre nella stessa penisola le Cortes, che si erano riunite dopo la dissoluzione della Giunta Centrale, dichiaravano, nel settembre del 1810, che la sovranità non risiedeva più nel monarca o nelle giunte che ne avevano rivendicato il deposito, ma nella «nazione», dando a questa un significato ampio (la nazione spagnola includeva i territori europei e americani) e moderno (l’ente politico e collettivo che incarna il popolo). Non si trattava quindi di un insieme politico federale, come quello che rivendicavano gli americani, ma di una monarchia liberale e centralista. La tensione tra spinte centraliste e centrifughe non investì, come vedremo, solo il rapporto tra Cadice (dove risiedevano le Cortes) e le capitali americane, ma anche quello tra queste e le città provinciali.
Dalla giunta alla Repubblica: Venezuela, 1810-1812
La prima giunta americana che si formò nel 1810 fu quella di Caracas, il 19 di aprile. In seguito alle notizie provenienti dalla penisola, [...] destituì il capitano generale e le altre autorità spagnole, le quali furono imbarcate verso la penisola. In una comunicazione alla Reggenza, si affermava l’illegittimità della stessa istituzione iberica: come era possibile che nella penisola si fosse creata una nuova istanza di potere senza averlo previamente comunicato agli americani e senza la loro partecipazione? [...]
Il popolo si identificava con la nazione e questa era composta solo da coloro che possedevano terre o altri beni. Il congresso fu infatti composto da creoli che avevano svolto incarichi nell’amministrazione coloniale, da proprietari terrieri, commercianti, ufficiali dell’esercito e membri della gerarchia ecclesiastica. Uno dei decreti più discussi fu la Dichiarazione di Indipendenza del 5 luglio 1811, in quanto segnò la scomparsa definitiva di una soluzione di tipo confederativo all’interno della monarchia e implicò la proclamazione della repubblica. Sebbene l’atto non accusasse la metropoli di aver sfruttato il Venezuela, centrandosi piuttosto sull’illegittimità delle abdicazioni di Bayona, la rottura con la Spagna fu totale: le autorità spagnole risposero con un blocco economico e successivamente con l’invio di un esercito. [...] Sebbene avesse dichiarato l’uguaglianza dei diritti, manteneva il requisito della proprietà per accedere all’elettorato attivo. Inoltre, il governo stabilì una guardia nazionale con il compito di controllare gli schiavi e di ridurre il fenomeno del vagabondaggio. [...] L’esecutivo affidò allora il comando militare al generale Francisco Miranda che partì alla volta di Valencia con un esercito di 4 mila uomini. Dopo un assedio durato più di un mese, Miranda ottenne la resa incondizionata della città. [...] all’inizio del 1812 quando il capitano Domingo Monteverde, proveniente da Portorico, arrivò nella città di Coro al comando di un esercito per recuperare il Venezuela alla causa realista. Le sue vittorie furono in gran parte il risultato del malcontento della maggioranza della popolazione e in molti casi le città e i villaggi passarono dalla parte dei realisti senza spargimenti di sangue. [...] La repubblica cadde definitivamente il 25 luglio 1812, quando Miranda accettò la resa. Arrestato dagli spagnoli, fu inviato in prigione a Cadice, dove morì nel 1816. Il generale Monteverde divenne capitan general del Venezuela, ma il suo governo, estremamente impopolare a causa della confische di proprietà e della repressione, dovette nuovamente affrontare le forze repubblicane [...] Bolívar, che riconquistò la capitale nell’agosto del 1813. Iniziava così la seconda repubblica venezuelana, che, tuttavia, fu ben diversa dalla prima: per non ripetere gli stessi errori, Bolívar stabilì una sorta di dittatura militare. La seconda repubblica, come la prima, dovette difendersi dai baluardi realisti e, in particolare, dall’esercito di Boves che lanciò una campagna spietata contro i repubblicani. Terminò alla fine del 1814 con la fuga di Bolívar e della maggior parte degli ufficiali patrioti. [...]
La seconda giunta che si formò nel 1810 fu quella di Buenos Aires, alcune settimane dopo quella di Caracas. [...] La giunta non riconobbe la Reggenza, ma, contrariamente a quella di Caracas, non ruppe i suoi legami con Ferdinando VI [...] la giunta capitalina inviò proprie truppe nel Paraguay, nell’Alto Perù e all’interno del Río de la Plata con l’obiettivo di riunire, sotto la sua sovranità, tutti i territori che avevano fatto parte del vicereame a partire dal 1776. [...] I radicali stabilirono una linea dura contro gli spagnoli europei: fecero decadere dai loro posti molti funzionari peninsulari e proibirono agli europei di occupare uffici pubblici e di partecipare alle elezioni. Molti, poi, furono arrestati ed espulsi. Nel gennaio del 1811 istituirono infine un tribunale di Pubblica Sicurezza il cui scopo era perseguire i sovversivi.
[...] il Paraguay dichiarò la sua autonomia da Buenos Aires e da qualsiasi potenza straniera il 17 maggio 1811. Pochi giorni dopo si riunì un congresso, in cui erano rappresentate tutte le province, il quale istituì una giunta superiore formata da cinque uomini, tra cui l’avvocato creolo José Gaspar Rodríguez de Francia, conosciuto come il dottor Francia. Il congresso propose a Buenos Aires la costituzione di una federazione del Río de la Plata, all’interno della quale i territori avrebbero goduto della parità politica, ma i porteños rifiutarono la proposta. Nell’agosto del 1813 il congresso proclamò il Paraguay una repubblica indipendente e un anno dopo Francia, paventando la minaccia di un’invasione porteña o brasiliana, si fece eleggere dittatore supremo per cinque anni. Due anni dopo convinse il Congresso a eleggerlo dittatore a vita. Il congresso non fu più riunito e Francia, conosciuto come «il Supremo», governò il Paraguay sino alla sua morte, nel 1840. [...]
La Nuova Granada rappresenta, insieme al Venezuela, lo spazio dove i movimenti giuntisti dell’America spagnola assunsero un carattere più radicale. Fu a Mompox e Cartagena che furono dichiarate le prime emancipazioni esplicite dalla Spagna e fu in questa regione dove si promulgarono le prime costituzioni scritte del mondo ispanico, ancora prima che le Cortes pubblicassero la loro nel marzo del 1812. [...]
Tutte queste tensioni esplosero non appena sbarcarono a Cartagena, l’8 maggio 1810, i delegati regi, Antonio Villacencio, Carlos Montúfar e José de Cos Iriberri, inviati dalla penisola per rafforzare i legami tra la Reggenza e i territori americani. Questi, in effetti, portarono con loro non solo le notizie della dissoluzione della Giunta Centrale, dell’istituzione di un Consiglio di Reggenza e dell’occupazione quasi totale della penisola da parte dei francesi, ma anche quella della formazione di una giunta a Caracas, il 19 aprile.
Giunte locali si formarono allora a Cartagena, Cali, Pamplona e Socorro prima che nella capitale, Bogotá. Qui, il 20 di luglio, i membri della élite mobilizzarono la plebe urbana al fine di obbligare il viceré a convocare una giunta. Si formò allora una Giunta Suprema del Nuovo Regno di Granada, presieduta dal viceré Amar y Borbón, e composta da venticinque membri oltre che dal vicepresidente, José Miguel Pey, alcalde primero del municipio della città e uno dei principali dirigenti del movimento a favore dell’autonomia. Come per i casi già analizzati, la giunta della capitale non poteva però definirsi sovrana su tutto il territorio della Nuova Granada, tanto più che si era formata dopo le giunte delle città secondarie. In queste circostanze, Santafé non poteva di certo conservare la sua preminenza politica, salvo se avesse richiesto cortesemente alle altre giunte il riconoscimento del suo carattere supremo. Tale riconoscimento poteva avvenire solo se la giunta della capitale avesse adottato una soluzione federativa: era l’unica forma di stato che poteva conciliare la creazione di un governo centrale con l’indipendenza e la libertà di ogni provincia. In effetti, la giunta di Santafé invitò le province a eleggere i propri deputati a un congresso incaricato di redigere una costituzione: [...] Si disegnava in questo modo una sorta di monarchia confederativa, a cui potevano partecipare altri stati sovrani. La Confederazione delle Province Unite della Nuova Granada, invece, promulgò la sua costituzione, l’Atto di Federazione, il 27 novembre dello stesso anno. La carta creava una vera e propria confederazione di province autonome, con un esecutivo estremamente debole, collegiale e rotatorio. La sovranità confederale era destinata a rappresentare e difendere i diritti dei pueblos e delle province davanti alle nazioni e quindi a dichiarare guerra, stabilire relazioni diplomatiche e organizzare il commercio internazionale. La vera sovranità apparteneva tuttavia alle province, in quanto il congresso, più che una camera deliberante, non era che un luogo dove i diversi governi provinciali negoziavano compromessi diplomatici, come avveniva negli Stati Uniti prima del 1787. [...] La sconfitta delle forze rivoluzionarie in Venezuela, nel 1814, alterò temporaneamente l’equilibrio del potere a favore della federazione. Bolívar, nominato nel frattempo capo delle Province Unite, e gli altri generali venezuelani sconfissero i centralisti di Cundinamarca, incorporando così la provincia più ricca e popolosa della Nuova Granada alla federazione. Ma invece di dirigere le forze contro i realisti di Santa Marta, il generale si diresse in primo luogo contro la città di Cartagena, ancora indipendente. Ciò dette modo ai soldati peninsulari di sbarcare a Barranquilla e di conquistare progressivamente tutto il territorio neogranadino tra il 1815 e il 1816. Bogotà fu l’ultima città a cadere, nel maggio del 1816. [...]
Le forze rivoluzionarie, composte ormai da un esercito di 80.000 uomini, puntarono su Città del Messico, ma i realisti lo fermarono prima nel monte di Las Cruces e infine a Guadalajara, dove i ribelli furono definitivamente sconfitti. Hidalgo e altri leader furono catturati alcuni mesi dopo mentre stavano per varcare la frontiera con gli Stati Uniti in cerca di armi. Il padre Hidalgo fu condannato a morte a Chihuahua, il 30 luglio 1811, dopo un processo che lo aveva accusato di alto tradimento. [...] Il piano, meglio conosciuto come Plan Calleja, prevedeva che tutti i villaggi intorno alla capitale si dotassero di milizie proprie. Rispetto alle milizie dell’epoca borbonica, il viceré introdusse importanti novità: il reclutamento degli indigeni, proibito in precedenza; la mescolanza etnica e razziale, dato che si incorporarono alle milizie bianchi, meticci, pardos senza distinzione di classe; l’elezione degli ufficiali da parte delle compagnie stesse; la creazione di un fondo di arbitrios (imposte locali) in ogni villaggio per coprire le spese di guerra. Tali misure non solo permisero agli indigeni di godere per la prima volta del fuero militare, ossia della possibilità di essere esonerati dalla giurisdizione civile e di non pagare il tributo, ma dettero la possibilità ai pueblos di esercitare una forte autonomia fiscale, poiché con la scusa del pagamento delle contribuzioni di guerra, cessarono di pagare le imposte dovute alla Corona 58. Progressivamente, le forze realiste di Calleja riconquistarono vari territori: normalmente entravano nelle città in mano agli insorti, deponevano le autorità e, in molti casi, invece di condannarli o eliminarli, li invitavano a unirsi alle file realiste. [...]
Dalla Nazione Spagnola all’Indipendenza.
[...] Il tentativo della Cortes fu quindi quello di ricostruire un’unità che si era rotta nel 1808 e che aveva continuato a frammentarsi nel corso degli anni. I costituenti gaditani individuarono nella nazione il nuovo titolare della sovranità della monarchia. Il primo decreto afferma infatti: «i deputati che compongono questo congresso e che rappresentano la nazione spagnola, si dichiarano legittimamente costituiti in Cortes Generali e Straordinarie, e che risiede in queste la Sovranità nazionale». Tuttavia la «nazione spagnola» a cui facevano riferimento i costituenti non si limitava solo alla parte europea della monarchia, ma comprendeva anche i territori americani e asiatici (Filippine). La monarchia si era trasformata in nazione e la nazione, come la costituzione, divennero transcontinentali, un fenomeno impensabile per le classiche teorie sullo stato-nazione. Sino al 1812, anno di pubblicazione della costituzione liberale spagnola, nessun impero aveva difatti avuto una costituzione. I territori americani (e filippini) furono quindi invitati a eleggere propri rappresentanti. La maggior parte riuscirono a incorporarsi alle Cortes solo nella primavera del 1811; per quei territori che non avevano potuto celebrare le elezioni a causa della guerra, si optò per un sistema di supplenti, da scegliersi tra gli americani che si trovavano già a Cadice o nei dintorni. Tuttavia, nonostante il principio di parità politica affermato dalla Giunta Centrale spagnola nel gennaio del 1809, la disparità di rappresentanza tra i deputati spagnoli e quelli americani fu estremamente evidente: ventinove deputati americani su 104 in totale. Questo non solo provocò il rifiuto di numerosi territori americani di riconoscere la legittimità del nuovo organo, ma dimostrò che, malgrado le dichiarazioni formali, gli spagnoli peninsulari si ritenevano superiori agli americani. [...] Il motivo principale che spinse numerosi territori americani a non riconoscere la sovranità della nazione spagnola fu la forte disuguaglianza tra spagnoli e americani nelle Cortes. Quest’ultimi non potevano riconoscere la legittimità politica di un potere costituente in cui erano stati condannati sin dall’inizio in minoranza. [...] L’applicazione del regime costituzionale gaditano produsse cambiamenti radicali nel territorio americano, determinando la scomparsa definitiva delle gerarchie coloniali, già entrate in crisi in seguito ai fatti del 1808. [...] l’atteggiamento delle autorità coloniali derivava essenzialmente da una cultura politica e giuridica che, come abbiamo in parte visto, non accettava il principio della supremazia della legge. Le norme costituzionali, così come quelle legislative, non si concepivano come automaticamente applicabili di per sé, ma come dimostra il caso novoispano in merito alla abolizione del tributo, necessitavano di un ulteriore intervento da parte dei magistrati. In base alle antiche leggi fondamentali della monarchia (che i costituenti riconfermarono), questi infatti avevano il diritto di interpretare le leggi e modificarle in base alle circostanze locali. Il famoso principio se acata pero no se cumple (si riceve ma non si applica), di origine castigliana, prevedeva che i funzionari potessero sospendere l’applicazione di un’ordinanza se la ritenevano in contrasto con la giustizia locale [...] la costituzione fu applicata in molte aree americane causando, come già anticipato, una rivoluzione del potere locale. L’applicazione dell’articolo 310 sull’elezione dei municipi costituzionali provocò la formazione di migliaia di ayuntamientos. Laddove esistevano poche decine di cabildos nell’epoca coloniale, come ad esempio nella Nuova Spagna, si assistette alla formazione di più di mille municipi, molti dei quali si costituirono in prossimità dei villaggi indigeni. La carta liberale aveva in effetti abolito la distinzione tra repúblicas de indios e de españoles dando la possibilità a tutti di eleggere i propri municipi. [...] Oltre alla loro natura rappresentativa, l’attribuzione della giustizia in prima istanza favorì la trasformazione del municipio latino-americano in un potere autonomo e sovrano rispetto allo stato. [...]
L’indipendenza assoluta: restaurazione e guerre.
Se guardiamo alla storia latinoamericana, ci rendiamo conto che esiste un netto contrasto tra l’epoca coloniale e quella successiva all’indipendenza. Prima dello scoppio dei movimenti di indipendenza, e contrariamente all’esperienza europea, i territori americani non avevano sperimentato guerre o conflitti su larga scala, ma fenomeni di violenza sporadici e localizzati, provocati dagli attacchi delle potenze straniere alle coste o alle isole caraibiche, dalle rivolte indie e da alcune ribellioni antifiscali.
Le guerre di indipendenza significarono quindi l’inizio di una mobilitazione senza precedenti nell’America spagnola: dopo il 1810, società che non erano abituate a convivere con la violenza, si ritrovarono coinvolte in una serie infinita di ribellioni e guerre, non solo tra indipendentisti e realisti, ma anche tra città e città, ovvero tra governi ribelli che pretendevano imporre l’autorità di una provincia o di una regione sulle altre. L’incremento del grado di violenza non significò solo un aumento delle imposizioni sulla società locale – come la leva forzosa, l’estrazione di risorse per il rifornimento degli eserciti, la distruzione di raccolti e proprietà –, ma anche un maggior e più diretto coinvolgimento della stessa nell’organizzazione delle forze armate, nella partecipazione ai conflitti, nella fabbricazione delle armi, ecc.
Il modello utilizzato nei primi conflitti tra giunte o tra città è quello delle milizie borboniche, ossia di corpi stanziali e territorializzati, che godevano del fuero militare e che riflettevano le gerarchie sociali. Come abbiamo in parte visto, fu il modello utilizzato da Calleja come controffensiva all’insurrezione di Hidalgo. Tuttavia, la creazione di corpi militari che difendessero la patria oltre il proprio pueblo, per la conquista di altri territori, incontrava molti ostacoli. Mentre le milizie erano accettate dagli abitanti dei pueblos, in quanto garantivano i privilegi del fuero, i battaglioni regolari erano considerati corpi lontani ed estranei: la resistenza dei villaggi alla coscrizione fu molto forte e generalizzata. [...] le giunte e i loro tentativi di indipendenza furono facilmente sconfitti dai realisti. Il modello di milizia civica fu messo in crisi quando i realisti, per sconfiggere i ribelli, si avvalsero di alcune sollevazioni popolari. [...] L’apparizione della guerra popolare è profondamente legata alla scelta dei realisti di utilizzare i settori popolari per sconfiggere i ribelli. Tuttavia, il loro coinvolgimento aprì il vaso di Pandora: i ribelli non ebbero altra soluzione se non imitare i realisti. [...]
[...] il ritorno all’assolutismo aggravò ancora di più il conflitto. Gli anni che vanno dal 1814 al 1820 sono caratterizzati infatti dal ristabilimento dell’antico regime nella monarchia spagnola. Dopo la firma del trattato di Valençay (11 dicembre 1813), attraverso il quale Napoleone aveva riconosciuto la fine della guerra nella penisola iberica, restituendo a Ferdinando VII tutti i diritti a cui questi aveva rinunciato nel 1808, il re Borbone non riconobbe la costituzione, ma decretò il ritorno all’assolutismo. Attraverso un vero e proprio colpo di stato, nel maggio del 1814, dichiarò nulla e senza effetti la costituzione e tutta l’opera giuridica delle Cortes, ordinò la detenzione delle autorità costituzionali, dei reggenti, ministri e deputati liberali. Le Cortes furono chiuse, i municipi costituzionali e le deputazioni provinciali dissolti.
Il ritorno alla monarchia assoluta va naturalmente inserito nel contesto europeo del Congresso di Vienna, successivo alla sconfitta di Napoleone. L’Europa del 1814 si fondò infatti sul principio legittimista delle monarchie assolute come frutto del diritto divino. Tale contesto non si fondava solo su principi ideologici e religiosi, ma anche su un sistema di intervento militare contro qualsiasi tipo di regime liberale, sistema che si formalizzò nella Santa Alleanza di cui faceva parte anche la Spagna.
La restaurazione dell’assolutismo significò in teoria il ritorno al sistema istituzionale anteriore al 1808. A livello centrale, si ristabilì il sistema di consigli (di Castiglia, delle Indie, di Stato, dell’Inquisizione, delle finanze e della guerra), mentre a livello locale furono restaurate le audiencias, le capitanías e i vicereami con i viceré; si abolirono inoltre i municipi costituzionali e si ristabilirono i corregidores e alcaldes mayores nominati dal re. Tuttavia, il ritorno all’antico regime non fu affatto automatico, soprattutto nei territori americani. [...]
Ferdinando VII non avrebbe mai accettato l’indipendenza dei territori americani; anzi, cercò di recuperarli in tutti modi, indebitando ancora di più le già scarse casse dello stato. E non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che il mantenimento dell’antico regime in Spagna dipendeva, per la sua stessa sopravvivenza, dalle rendite americane. Di fronte all’offensiva spagnola e alla fine del liberalismo gaditano, agli americani non restava altra alternativa che la lotta armata. All’inizio del 1814 i realisti controllavano la maggior parte dei territori americani, anche se alcuni erano in parte caratterizzati dalle guerre (Nuova Spagna, Venezuela e Nuova Granada). Solo nel Río de la Plata e in Paraguay i ribelli avevano definitivamente trionfato.
La prima preoccupazione di Ferdinando fu dunque quella di recuperare il Venezuela e la Nuova Granada e, a questo scopo, si reclutò, tra il 1814 e il 1820, un esercito di 40 mila uomini tra soldati e ufficiali. La spedizione più importante fu quella del maresciallo Pablo Morillo, il cui esercito salpò da Cadice nel febbraio del 1815. Due mesi dopo Morillo entrava a Caracas, dove creò un consiglio di guerra permanente contro i ribelli e istituì una Junta de Secuestros per confiscare i beni dei patrioti che avevano appoggiato la causa repubblicana. Dopo aver esatto un prestito di 200 mila pesos, si diresse verso la Nuova Granada, lasciando il Venezuela al comando del generale Salvador de Moxó.
L’esercito di Morillo sbarcò a Cartagena il 20 di agosto 1815 e, dopo aver assediato la città per più di cento giorni, la obbligò alla resa il 6 dicembre. Anche qui la repressione fu durissima. Stessa sorte toccò al resto della Nuova Granada e a Santafé che capitolò nel maggio 1816. Qui Morillo creò il Tribunale di Purificazione che condannò e fucilò numerosi patrioti liberali, come Villacencio, Carbonell, Camillo Torres. Bolívar, con l’arrivo delle truppe di Morillo, era fuggito in Giamaica e, in seguito all’alleanza tra Spagna e Inghilterra, da qui era sbarcato a Haiti. Il suo arrivo sull’isola non fu solitario: in seguito alle sconfitte dei ribelli in Venezuela e Nuova Granada, circa 250 membri dei governi e degli stati maggiori dei due paesi giunsero nelle Antille.
La scelta di Haiti non fu casuale e assunse un significato particolare. Il paese, guidato dal presidente Pétion, era infatti una repubblica di neri, che aveva raggiunto l’indipendenza dai francesi dopo una rivoluzione e una sanguinosa guerra razziale; il nord, invece, era dominato dall’imperatore Christophe, successore di Dessalines. Il passaggio dei patrioti a Saint-Domingue ebbe importanti ripercussioni sul futuro delle guerre ispano-americane e sulla costruzione delle nuove repubbliche. Permise, in primo luogo, di superare certi pregiudizi nei confronti dell’isola, considerata come un paese appannaggio di capi guerrieri dediti alla violenza. Inoltre, l’accoglienza e l’aiuto offerto da Pétion ai patrioti ispano-americani dette al paese della rivoluzione dei neri il volto di una repubblica sorella, favorevole al sostegno della causa ribelle. Mentre sino ad allora Haiti aveva evocato immagini essenzialmente negative nelle menti delle élite ispano-americane e in primo luogo in quelle delle regioni caraibiche, dove era sempre vivo il ricordo del massacro dei bianchi da parte di Dessalines, il soggiorno di Bolívar e degli altri patrioti sull’isola contribuì a cambiare radicalmente la percezione della rivoluzione che aveva messo sottosopra il paese dal 1791 al 1804. I riferimenti haitiani lasciavano la sfera dell’emozione, dove l’avevano relegata i discorsi catastrofisti, per far parte di quella razionale. Tale metamorfosi non derivava solo dalla migliore conoscenza degli eventi e della realtà dell’isola, ma anche dalle trasformazioni delle ambizioni dei patrioti. La proclamazione della guerra a morte aveva infatti implicato l’adozione di una strategia militare che mirava al massacro degli avversari e l’esempio haitiano permetteva appunto di incanalare l’energia del conflitto verso un solo scopo – l’annientamento del nemico –, favorendo il superamento della guerra civile24.
Nonostante il timore di Bolívar e gli altri dirigenti repubblicani verso la pardocrazia, ossia di un eventuale sovvertimento delle gerarchie razziali, dove i pardos (liberi di colore) avrebbero potuto trasformarsi in una massa incontrollabile e sterminare i bianchi, così come era avvenuto ad Haiti, l’eventualità non remota di una sconfitta definitiva contro gli spagnoli portò a un ribaltamento delle posizioni dei patrioti nei confronti degli schiavi. Invece di condurre ad un inasprimento della loro condizione servile, l’esperienza haitiana convinse gli stati maggiori repubblicani della necessità di integrare gli schiavi alla categoria di soldati e quindi di cittadini. Riconoscere la libertà agli schiavi che si fossero arruolati con le truppe patriottiche aveva un duplice vantaggio: dal punto di vista militare, la repubblica avrebbe guadagnato dei soldati favorevoli al regime; dal punto di vista politico, significava poter sventare qualsiasi minaccia di ribellione di schiavi. [...]
Il decreto di guerra a morte e l’esperienza haitiana obbligarono Bolívar a costruire un esercito in grado di servire alla lotta a carattere nazionale. Oltre ad arruolare in massa meticci, pardos, mulatti e schiavi, il libertador cercò di razionalizzare l’esercito concedendo promozioni in base al merito [...] Grazie a queste trasformazioni le truppe patriote riuscirono a riconquistare, nel corso del 1819, la Nuova Granada (vedi fig. 19). I patrioti poterono così finalmente contare su un territorio esteso e relativamente popolato e quindi fonte di ingressi fiscali. Ciò permise loro di proseguire e intensificare la regolarizzazione dell’esercito, facendo ricorso alla coscrizione massiva della popolazione neogranadina. Dal 1812 al 1822, le forze repubblicane passarono da 7.000 uomini circa a più di 30.000. Il sequestro di popolazione fu formidabile: a partire dal 1821 le forze repubblicane rappresentavano, in proporzione alla popolazione, le stesse dimensioni della Grande Armée di Napoleone26.
Le proteste si moltiplicarono e le diserzioni divennero importanti, arrivando, in alcuni casi, al 10 per cento degli effettivi ogni mese. Anche la riscossione fiscale acquisì dimensioni mai viste e il malcontento della popolazione aumentò notevolmente. Si trattava comunque di azioni doverose, dato l’alto costo dell’esercito repubblicano. L’armistizio firmato a Santa Ana de Trujillo (Venezuela) nel 1820 tra Pablo Morillo e Simón Bolívar mise fine alla guerra a morte, tramite un trattato di regolamentazione dei combattimenti. Trattandosi di un accordo tra la Spagna e la Colombia, implicò anche il riconoscimento automatico dello stato colombiano.
Certamente, il ritorno del regime liberale in Spagna, con la rivoluzione di Riego nel gennaio del 1820, aveva favorito un cambiamento di rotta da parte spagnola. Da qui in avanti, la Spagna combatteva contro soldati regolari e non contro banditi o ribelli; questi, inoltre, rappresentavano ormai una nazione in formazione: l’armistizio aveva implicitamente riconosciuto il diritto dei patrioti a trasformarsi in nazione e il conflitto in guerra internazionale. Gli spagnoli americani si convertirono così in colombiani grazie alla dinamica della guerra, caratterizzata da un abbandono della guerriglia, la formalizzazione dell’esercito, l’istituzionalizzazione del governo patriota. Fu la guerra quindi a far superare il momento dei pueblos e a dare forma alla sovranità della nazione. In primo luogo, andando oltre le antiche corporazioni territoriali, le forze armate dettero una base territoriale ai futuri stati nazionali.
Così come definito dalla costituzione di Angostura, futura Ciudad Bolívar, nel febbraio del 1819, la nazione colombiana coincideva con le regioni liberate dalle armi. Inoltre, la formazione di una potente amministrazione militare aveva fornito allo stato nascente un esecutivo forte, il governo militare di Bolívar e Santander. Da lotta di bassa intensità tra città e province, la lotta si era trasformata progressivamente in guerra civile tra americani e, infine, in una lotta di liberazione nazionale. La partecipazione dei gruppi popolari alla guerra popolarizzò il conflitto trasformando l’esercito in nazione; questa, a sua volta, si formò su un territorio conquistato dal popolo, ovvero l’esercito 27. Le guerre contribuirono quindi alla formazione di un’identità patriottica e nazionale. [...]
La liberazione dell’America del Sud si deve, oltre che all’esercito bolivariano, a quello di San Martín. Figlio di spagnoli e educato a Madrid, San Martín aveva fatto carriera militare nella guerra peninsulare contro i francesi. Arrivato a Buenos Aires nel 1812, assunse il comando del battaglione dei granatieri e partecipò ai conflitti che opponevano la capitale rioplatense alle province del Nord. Tuttavia, come Bolívar, pensava che la guerra dovesse essere globale americana: sino a quando vi erano territori in mano alla monarchia spagnola, questi potevano rappresentare una minaccia per il resto dei territori liberati. L’obiettivo finale era dunque l’annientamento degli spagnoli e la liberazione di tutto il continente. Appoggiato dal governo autonomo di Buenos Aires, cominciò quindi a costruire un esercito del Sud, definito appunto l’«esercito delle Ande».
A partire dal 1810, l’attività militare rioplatense si era concentrata su due fronti, l’Alto Perù e la Banda Orientale (Uruguay), dando vita a due eserciti principali: quello del Nord o «Ausiliario del Perù» e quello dell’Est o della «Capitale». Avendo sperimentato nei loro primi quattro anni di vita numerose vittorie ma anche sconfitte, avanzamenti ma anche retrocessioni, questi due gruppi armati si trovarono nel 1815 usurati e politicamente divisi in varie fazioni.
Di fronte alla restaurazione e all’avanzata realista nel continente, il Direttorio, che nel frattempo guidava il governo autonomo di Buenos Aires, decretò la creazione di una nuova forza, più regolare, più professionale e meglio equipaggiata rispetto alle precedenti. L’Esercito delle Ande si appoggiò sin da subito su una triade concreta di poteri geografici e politico-istituzionali:
1) sulla Loggia Lautaro, un gruppo segreto di azione politica per l’indipendenza delle Province Unite e del Cile, istituita dallo stesso San Martín e da Carlos de Alvear;
2) lo stato centrale del Río de la Plata, che dal 1816 fu guidato da Juan Martín de Pueyrredón;
3) il governo-intendenza di Cuyo, sotto la guida dello stesso San Martín.
Mentre la Loggia coordinava l’azione politica ai due lati della cordigliera, lo stato centrale forniva appoggio militare (alcune vecchie unità furono riassegnate alle Ande), ma soprattutto finanziario al nuovo esercito, e il territorio di Cuyo sopportava la maggior parte del peso del reclutamento e della organizzazione logistica delle spedizioni. Quest’ultimo punto dimostra che il processo di formazione dell’esercito è inseparabile dalla riorganizzazione completa dell’intendenza di Cuyo, dopo la nomina di San Martín a governatore-intendente della stessa nel 1814. Il generale si concentrò immediatamente sulla militarizzazione della regione, dirigendo la totalità delle risorse umane, economiche e materiali della società locale alla formazione dell’esercito. Creare un corpo di guerra come l’Esercito delle Ande a partire da una regione marginale e demograficamente debole come Cuyo implicava una riorganizzazione completa delle priorità: non solo si dirottarono al mantenimento dell’esercito le risorse fiscali ordinarie (decime e alcabalas) e straordinarie (prestiti, contributi di guerra, vendita di terre, lotterie provinciali), ma si instaurò una vera e propria economia di guerra destinata a coprire i bisogni materiali, dallo sfruttamento di argento, piombo e rame, all’allevamento di vacche, cavalli e muli, alla costruzione di grandi officine militari, tessili e di fabbricazione di armi e di equipaggiamenti. Il reclutamento della truppa combinò praticamente tutte le forme conosciute sul continente: il volontariato, la coscrizione, l’incorporazione massiva di schiavi e vagabondi, la mobilizzazione di numerosi contingenti miliziani. Così, due anni dopo l’installazione di San Martín a Cuyo, l’esercito iniziò a oltrepassare le Ande con una forza di più di 5 mila uomini, che corrispondeva approssimativamente alla metà della popolazione maschile e adulta locale28.
L’esercito delle Ande fu il più regolare degli eserciti del Sud: le sue unità potettero contare su un livello tecnico eccellente, permettendo ai patrioti di ottenere importanti vittorie. Alla fine del 1817 l’esercito raggiunse Santiago dove un’assemblea nominò San Martín comandante in capo dell’Esercito Unito delle Ande e del Cile, dopo che egli aveva rinunciato alla presidenza del paese. Al suo posto l’assemblea elesse come presidente Bernardo O’Higgins, che nel febbraio 1818, nonostante la sopravvivenza di alcuni territori realisti a sud del paese, dichiarò l’indipendenza del Cile. Il nuovo presidente aiutò economicamente le forze di San Martín a proseguire la campagna contro il Perù. Nonostante la sua forza, l’esercito di San Martín, contrariamente a quello di Bolívar, non riuscì mai a essere un esercito «nazionale». Oltre che dagli abitanti della regione di Cuyo, che partecipavano all’esercito in modo sproporzionato rispetto ad altre zone del Río de la Plata, dopo la vittoria in Cile, questo era formato in buona parte anche da cileni e per lo più finanziato dal governo di questo paese. È per questo motivo che San Martín decise di rifondare ancora una volta l’esercito, chiamandolo Esercito Libertador del Perù.
Ma, cosa significava per i patrioti liberare un paese? Come per il caso cileno, in cui i realisti non furono mai definitivamente sconfitti, ritirandosi a sud e occupando varie zone del paese, nel caso peruviano fu ancora più chiaro che liberare il paese significava occupare militarmente la sua capitale, non tanto per il suo valore strategico dal punto di vista territoriale, quanto piuttosto per la presenza in questa della colonna vertebrale dell’amministrazione spagnola. Liberare il Perù equivaleva a conquistare il controllo dello stato, rompendo i vincoli amministrativi con la Corona e formando un nuovo governo. L’Esercito Libertador prese possesso di Lima il 6 luglio 1821, un anno dopo l’inizio della campagna, avendo usurato le truppe realiste senza però averle mai incontrate in una battaglia decisiva. Contrariamente al caso cileno, dove rinunciò all’offerta di farsi carico del governo, nel caso peruviano San Martín assunse la quasi totalità del potere pubblico, trasformandosi in «protettore» del Perù. Il protettorato era una specie di dittatura nella quale il capo militare di un esercito di occupazione prendeva le redini del potere pubblico, riunendo in una sola persona il potere esecutivo, legislativo e militare. Questa dittatura fu presentata da San Martín come transitoria, frutto dello stato di eccezione in cui si trovava il Perù, ancora circondato da truppe nemiche. Il protettorato era quindi la nuova formula per far fronte alle esigenze politiche della guerra di indipendenza: era la risposta a tutte le esperienze delle giunte, triumvirati, congressi, direttorio, risultate fallimentari. Assumendo direttamente il potere, i libertadores potevano assicurarsi che le risorse non mancassero agli eserciti e che le divisioni interne non minassero gli sforzi militari. Il protettorato rappresentava anche una risposta alla particolare situazione dell’esercito, ossia quella di una macchina da guerra senza stato. Mentre l’appoggio del territorio del Río de la Plata era ormai quasi inesistente, quello del Cile si faceva ogni giorno più tenue, soprattutto dal punto di vista finanziario. L’esercito necessitava quindi di uno stato che gli garantisse un forte sostegno, stabilizzando e normalizzando il suo funzionamento. Il Perù poteva rivestire questa funzione, ma per lo stesso motivo doveva essere mantenuto sotto lo stretto controllo dell’esercito.
In altri contesti, come quello messicano, la guerra significò una trasformazione dell’organizzazione fiscale, che ebbe importanti conseguenze sulla costruzione del nuovo stato. Mentre prima della guerra la riscossione fiscale era centralizzata, durante il conflitto i dirigenti militari preferirono dividerla tra le varie città e pueblos, affinché ognuno di questi avesse le risorse necessarie per sostenere le forze accantonate nelle proprie giurisdizioni. Questa regionalizzazione del sistema fiscale era in fondo una diretta conseguenza del sistema ideato da Calleja, il quale prevedeva un ampio coinvolgimento delle popolazioni nella difesa del territorio attraverso le milizie.
Contrariamente al caso degli eserciti sudamericani, il finanziamento della guerra non favorì dunque una centralizzazione del potere fiscale nelle mani di pochi dirigenti, ma casomai un rafforzamento del potere delle province a scapito di quello di Città del Messico. Il risultato fu comunque il trionfo sulla ribellione. [...]
Il triennio liberale e la fine delle guerre.
La decade del 1820, che vide l’indipendenza trionfare in tutti i territori dell’America spagnola (tranne Cuba e Portorico), si aprì con la seconda tappa costituzionale. Le truppe accantonate in Andalusia, mal pagate e soggette a epidemie, si sollevarono sotto la guida del tenente colonnello Rafael del Riego a Cabezas de San Juan, vicino a Siviglia, il I gennaio del 1820, dando avvio alla seconda rivoluzione liberale, che si estese ben presto a tutta la penisola. Le giunte che si erano formate nelle varie città obbligarono Ferdinando VII ad accettare la costituzione gaditana e la convocazione delle Cortes. Queste, riunitesi a Madrid, decretarono l’applicazione della costituzione del 1812 così come di tutte le leggi e decreti del primo periodo liberale, mettendo termine alla monarchia assoluta. Tuttavia, le circostanze non erano più quelle di dieci anni prima: il re era presente, Napoleone era stato definitivamente sconfitto e le monarchie assolute erano tornate al potere.
In ogni modo e nonostante i tentativi di coloro più vicini al re, le Cortes non giunsero mai ad emettere una risoluzione sulla possibilità di riconquistare l’America con le armi. La strategia politica passò piuttosto per una riconciliazione degli interessi attraverso il sistema costituzionale: l’invio di delegati, un’amnistia generale per coloro che avevano partecipato alle guerre, un alt al fuoco immediato furono le soluzioni proposte dalle Cortes. Malgrado l’atteggiamento conciliante delle Cortes verso i territori americani, lo scontro di interessi tra i deputati spagnoli e quelli americani portò a una definitiva frattura nel febbraio del 1822. Se, in un primo tempo, il desiderio di autonomia dei secondi si era concretizzato nella richiesta di un aumento del numero delle deputazioni provinciali e di una nuova struttura fiscale decentralizzata, in un secondo momento i deputati americani arrivarono a chiedere la realizzazione di un vero e proprio progetto confederale, che prevedeva l’istituzione di Cortes americane: in America centrale (Nuova Spagna e Guatemala) con capitale Città del Messico, nella parte settentrionale del continente sudamericano (Nuova Granada, Quito e Venezuela) con capitale Santafé e a sud (Perù, Río de la Plata e Cile) con capitale Buenos Aires. Il progetto era coerente con l’idea federativa dell’impero e negava la pretesa dei liberali spagnoli di centralizzare la sovranità nelle Cortes di Madrid. Tuttavia, l’opposizione nell’assemblea legislativa e i disordini in varie città spagnole, ritardarono la discussione del progetto, favorendo, nel frattempo, l’indipendenza di uno dei più accaniti fautori del piano, la Nuova Spagna.
Di fronte al rafforzamento, in seno alle Cortes, dell’ala moderata, i deputati americani abbandonarono definitivamente i loro seggi. L’emergere della controrivoluzione nella penisola iberica durante l’estate del 1822 e il trionfo militare della stessa un anno dopo, grazie all’invio di un esercito francese da parte della Santa Alleanza, pose definitivamente termine alla possibilità di uno stato liberale della monarchia che includesse l’America.
La Nuova Spagna fu uno dei territori dove il ritorno del costituzionalismo fu accolto con più entusiasmo. Dopo la fine dell’insurrezione di Hidalgo e Morelos, le speranze di autogoverno si erano mantenute grazie al ruolo dei Guadalupes e di altre società segrete. La restaurazione del regime costituzionale gaditano offrì ai novoispani la possibilità di auto-gestirsi, grazie alle diputaciones provinciali e agli ayuntamientos costituzionali. [...]
Questa radicalizzazione spaventò sia i settori più conservatori della società messicana, come l’esercito e la Chiesa [...].
Si iniziò quindi a pensare a forme alternative di governo, compresa l’idea di una monarchia costituzionale sotto la seconda generazione della dinastia spagnola. L’ufficiale realista Agustín de Iturbide ricevette l’incarico dal viceré Apocada di elaborare, insieme ai dirigenti politici creoli, un progetto di compromesso che integrasse anche i militari e gli ecclesiastici. Tale programma, conosciuto come Plan de Iguala (così chiamato per il luogo in cui fu pubblicato), prevedeva il mantenimento della religione cattolica come religione di stato, l’indipendenza della Nuova Spagna e una monarchia costituzionale2. Il governo rimaneva formalmente nelle mani di Ferdinando VII, a cui però veniva chiesto di presentarsi personalmente in Messico; in caso contrario, doveva designare un altro membro della casa reale. Inoltre, il documento designava l’esercito come difensore delle «tre garanzie»: la religione, l’indipendenza e la «stretta relazione tra americani e europei». Il Plan, accettato sia da conservatori che liberali, offriva la possibilità di un cambiamento senza correre il rischio di innescare una rivoluzione con imprevedibili conseguenze sociali; inoltre, evitava la rottura radicale con la metropoli. Tuttavia, il viceré Apocada non lo accettò, provocando una grave crisi politica e la reazione dei militari, guidati da Iturbide. La crisi si risolse con la nomina di un nuovo viceré, O’Donojú, inviato dalle Cortes per sostituire Apocada e per mantenere i vincoli con la Nuova Spagna. I due si incontrarono a Córdoba, il 24 di agosto del 1821, dove siglarono un trattato che riconosceva l’indipendenza delle Nuova Spagna come «Impero Messicano» e annunciava l’istallazione di un Consiglio di Reggenza e di una Giunta Governativa, riconoscendo allo stesso tempo il governo formale di Ferdinando VII e la costituzione spagnola. Il rifiuto del trattato da parte delle Cortes di Madrid determinò la separazione della Nuova Spagna dalla monarchia spagnola: nel maggio del 1822, Iturbide fu proclamato imperatore di una monarchia ereditaria con il nome di Augustín I. L’indipendenza del Messico, che avvenne senza guerre né violenze, fu così una conseguenza diretta della rivoluzione liberale spagnola e della sua incapacità di accettare l’autogoverno politico rivendicato dai novoispani (vedi fig. 19).
L’indipendenza della Nuova Spagna influenzò anche quella centroamericana.
L’indipendenza della Capitanía General de Guatemala, che comprendeva i territori del Chiapas e dell’America centrale attuale, fu proclamata il 15 settembre 1821, da una giunta di notabili, composta dai membri del municipio e della deputazione provinciale del Guatemala, che convocò un congresso. Nel frattempo, però, il municipio di Ciudad Real di Chiapas aveva aderito al Plan de Iguala e riconosciuto il governo di Iturbide. Ciò obbligò le autorità guatemalteche a decidere se aderire o meno all’impero messicano. Mentre la maggior parte delle province, inclusa Guatemala, accettarono l’unione con il Messico, all’inizio del 1822, San Salvador rifiutò l’incorporazione, istallando una giunta di governo che si dichiarò indipendente sia dalla Spagna che dal Messico. La provincia fu poi invasa dalle truppe messicane nel febbraio del 1823. [...]
Nel continente sudamericano, l’introduzione del regime costituzionale, in quei territori ancora sotto il controllo spagnolo, fu pesantemente condizionata dalle guerre. Mentre il Río de la Plata, il Cile, il Venezuela e gran parte delle Nuova Granada avevano raggiunto l’indipendenza, vi erano ancora numerosi territori da liberare (Quito, Perù e Charcas).
Nel caso dell’Audiencia di Quito, il ritorno del regime liberale spagnolo favorì la creazione di vari governi autonomi. Prima Guayaquil (ottobre 1820), poi Cuenca e altre città (novembre 1820) dichiararono la loro indipendenza dalla Spagna. Mentre queste ultime furono immediatamente riconquistate dalle truppe spagnole, la repubblica di Guayaquil, che si era data una costituzione liberale, simile per molti aspetti a quella gaditana, sopravvisse per due anni, sino alla sua incorporazione nella Gran Colombia.
La posizione strategica della città permise al governo di sopravvivere: non solo era l’unico porto della Audiencia, ma durante questi anni costituì anche una sorta di stato cuscinetto tra i due eserciti di liberazione, quello proveniente da nord, guidato da Bolívar, e quello di San Martín che era arrivato in Perù. L’indipendenza della provincia, che in questi due anni aveva usufruito di una totale libertà commerciale, terminò nel 1822 quando il generale Sucre, comandante in capo delle forze repubblicane inviate da Bolívar a liberare la Audiencia, liberò prima Cuenca e poi Quito (battaglia di Pichincha) dalle forze spagnole. Il territorio quitegno fu dunque incorporato alla Repubblica di Colombia, come Distretto del Sud. L’integrazione della Audiencia allo stato colombiano era già stata approvata dal Congresso di Angostura nel 1819, al quale però nessun rappresentante del regno aveva partecipato. Tuttavia, l’incorporazione alla nuova repubblica fu preceduta da una serie di adesioni formali dei municipi delle città e dei pueblos, attraverso i quali si dichiarava la volontà di entrare a far parte del nuovo stato 4. Questi atti non esprimevano un generico desiderio di adesione alla Gran Colombia, quanto piuttosto una manifestazione dei propri poteri sovrani.
In Perù, il ristabilimento del regime costituzionale spagnolo coincise con l’arrivo dell’esercito di San Martín, che sbarcò a Pisco (al sud di Lima) nel settembre del 1820. Il generale non cercò tuttavia di conquistare il territorio con la forza ma cercò di negoziare con le autorità spagnole: era convinto che l’indipendenza poteva essere raggiunta solo con l’accordo delle classi dirigenti peruviane. Iniziò quindi a scrivere numerose lettere a personaggi preminenti per convincerli ad appoggiare il suo piano di stabilire una monarchia costituzionale ma indipendente. Le autorità spagnole rifiutarono il progetto e si stabilirono nel sud del paese (a Cuzco) lasciando il nord, dove molte città si erano nel frattempo dichiarate indipendenti, ai patrioti. San Martín si istallò a Lima dove istituì un protettorato, sperando che i realisti americani passassero nelle file dei patrioti. Inoltre, le misure che il libertador impose (come la libertà de vientres5 , l’abolizione del tributo indigeno o i decreti contro la Chiesa), unite ai prestiti forzosi sulla popolazione locale, crearono un sentimento ostile nei confronti del governo da parte di settori importanti della popolazione locale. San Martín allora si rivolse a Bolívar in cerca di aiuto e i due si incontrarono a Guayaquil nel gennaio del 1822. Nella riunione, divenuta poi uno dei grandi eventi dell’indipendenza, si discussero due punti essenziali: l’eventuale passaggio di Guayaquil dalla Colombia al Perù e l’aiuto delle truppe bolivariane per terminare la guerra in territorio peruviano. Dato che in nessuno dei due casi San Martín riuscì ad ottenere ciò che voleva, rinunciò a tutte le sue cariche e delegò il potere esecutivo al congresso di Lima. Con l’abbandono del generale si aprì una fase politica molto convulsa, caratterizzata in primo luogo da lotte tra fazioni interne. Di fronte alla situazione di caos, il congresso ricorse a Bolívar, a cui si concesse in un primo momento l’autorità politica e militare. Nel frattempo il congresso emanò, nel novembre del 1823, una costituzione, la prima dello stato peruviano, in cui si stabilì una repubblica. Ma di fronte all’ammutinamento delle truppe rioplatensi e cilene nel porto del Callao, le quali non ricevevano il salario da mesi, i realisti occuparono sia il porto che la capitale. A questo punto il congresso ricorse ancora una volta a Bolívar, che fu nominato dittatore del Perù nel febbraio del 1824. La politica bolivariana si focalizzò nella formazione di un esercito per sconfiggere definitivamente i realisti; obiettivo che fu raggiunto alcuni mesi dopo ad Ayacucho (9 dicembre 1824), l’ultima grande battaglia realista del continente.
La vittoria di Ayacucho facilitò anche l’indipendenza di Charcas (Bolivia), dato che rese possibile la concentrazione delle forze di Sucre nelle campagne dell’Alto Perù. Sconfitte le ultime autorità spagnole, Sucre, entrato a La Paz, convocò un congresso delle province dell’Alto Perù. Questa decisione aprì la strada alla formazione di uno stato indipendente sia da Buenos Aires che da Lima, le due capitali dell’Alto Perù durante l’epoca coloniale. In effetti, il contesto di guerra in cui si era ritrovato il territorio di Charcas a partire dalla crisi del 1808 aveva consolidato una forte autonomia politica e di governo che non era più possibile cancellare con un’eventuale subordinazione al Rio de la Plata o al Perù6 . L’Assemblea Generale dei Deputati delle Province dell’Alto Perù si istallò a Chuquisaca nell’agosto del 1825, dove firmò l’atto di indipendenza e giurò la sua «volontà irrevocabile di governarsi e di darsi la costituzione, leggi e autorità più adatte alla sua futura felicità come nazione». Nasceva così la repubblica di Bolivia, con capitale Sucre e con un governo rappresentativo e centralizzato.
[...] il progetto bolivariano della Gran Colombia, che univa in un unico stato i territori del Venezuela, della Nuova Granada e del regno di Quito. La nuova repubblica fu fondamentalmente il risultato di anni di guerra, durante i quali si formarono stretti vincoli politici tra patrioti venezuelani e neogranadini. La collaborazione tra i due eserciti era iniziata nel 1813, quando il governo indipendente della Nuova Granada, presieduto da Camillo Torres, aveva inviato aiuti militari alla seconda repubblica venezuelana, e si concluse nel 1819 quando le truppe di Bolívar liberarono definitivamente la Nuova Granada.
Nello stesso anno fu convocato il congresso di Angostura che si concluse con la pubblicazione della Legge Fondamentale della Repubblica di Colombia, con cui il Venezuela e la Nuova Granada furono riunite nella nuova repubblica.[...] La costituzione di Cúcuta creò uno stato fortemente centralista, frantumando i desideri federalisti delle élite provinciali. L’adozione di una sovranità unica e astratta, ubicata nella nazione («la sovranità risiede essenzialmente nella nazione», dichiarava l’articolo 2) fu una conseguenza delle esperienze negative dei regimi federalisti durante la crisi. Il libertador era convinto che il maggior pericolo per la sopravvivenza della nuova repubblica venisse dalla divisione tra città [...]
Fu questa frammentazione che spinse i dirigenti della nuova repubblica a creare un regime fortemente centralista con un esecutivo molto forte. Inizialmente, infatti, furono ristabilite le «quattro cause», attraverso la reintroduzione del sistema delle intendenze. La non applicazione a livello locale del principio di divisione dei poteri e il ricorso al modello coloniale borbonico furono, molto probabilmente, altrettante reazioni all’esproprio giurisdizionale da parte dei pueblos.
La repubblica fu infatti divisa in dipartimenti con a capo gli intendenti, organi del potere esecutivo, direttamente nominati dal presidente. A questi funzionari furono attribuiti gli stessi poteri degli intendenti borbonici: giustizia, polizia, finanze e guerra.
In realtà, nonostante l’adozione di un regime centralista, con la rigida subordinazione dei poteri locali al potere esecutivo, il concetto di sovranità unitaria e indivisibile non si impose nemmeno durante il periodo della Gran Colombia. L’estrema eterogeneità delle comunità, l’esistenza di realtà economiche e sociali così diverse tra di loro impedì di ridurre la frammentazione al principio di unicità della nazione. Malgrado il centralismo del discorso costituzionale e legislativo della repubblica colombiana, di fatto i poteri delle province e delle città restarono molto ampi: i municipi continuarono ad amministrare le risorse comunali, ad esercitare la giustizia, ad intervenire nella formazione ed organizzazione delle milizie.
In un articolo della Gaceta de Colombia, organo di stampa del governo, si scriveva a proposito dei poteri sovrani dei municipi: «estamos recojiendo el amargo fruto de la tendencia de algunas municipalidades a la usurpación de los derechos y funciones de los verdaderos representantes del pueblo»10.
I tentativi federalisti delle città del nuovo stato portarono progressivamente alla disgregazione della Gran Colombia. Un primo e importante evento politico, in cui i municipi svolsero un ruolo da protagonisti, fu il tentativo venezuelano di staccarsi dalla Gran Colombia. Furono infatti le municipalità delle principali città a proclamare il generale José Antonio Páez, eroe dell’indipendenza e accusato dal congresso di violazioni alle garanzie costituzionali, capo politico e militare del loro dipartimento, disconoscendo l’autorità del governo di Bogotà (30 aprile 1826).
I fatti venezuelani ebbero una forte eco nei dipartimenti del Sud, dove, nel luglio dello stesso anno, i municipi delle tre principali città si pronunciarono per una riforma della costituzione del 1821. Guayaquil, Quito e Cuenca convocarono dei cabildos abiertos che si pronunciarono per una riforma in senso federale della costituzione e per l’abolizione di alcune leggi, come quella che aveva introdotto la contribuzione diretta (una tassa dal due al dieci per cento sugli immobili e sui redditi personali). Un mese dopo, le tre città, a cui si unì il municipio di Ibarra, fecero un nuovo «pronunciamento» a favore del libertador, affinché assumesse poteri straordinari per la redazione di una nuova costituzione. Questi atti confermano che le città e non il congresso detenevano il potere sovrano: le numerose iniziative per la riforma della costituzione non procedevano infatti da deputati o senatori, ma dai cabildos della repubblica. [...]
Dietro i caudillos che sconfissero Bolívar, c’erano infatti le élite creole: i generali che, come Flores, avevano fatto parte della sua armata, diventarono gli interpreti degli interessi locali. La frammentazione della Gran Colombia non fu quindi il frutto del progetto di un gruppo di militari, totalmente indipendenti dalla società, ma di rappresentanti di quella élite urbana che da sempre aveva rifiutato qualsiasi tentativo di centralizzazione.
La dimensione del ruolo storico del libertador e l’impossibilità pratica di applicare le sue idee in America fecero emergere il dramma dell’«uomo solo», come egli stesso si definì. L’ultima metafora creata da Bolívar dipinge un uomo torturato dal compito arduo e inutile, eternamente vanificato dalle onde, di condurre un aratro sul mare.
Alcune settimane prima della morte, così riassunse la situazione a Juan José Flores:
V. sabe que yo he mandado 20 años y de ellos no he sacado más que pocos resultados ciertos.
1°. La América es ingobernable para nosotros. 2°. El que sirve una revolución ara en el mar. 3°. La única cosa que se puede hacer en América es emigrar. 4°. Este país caerá infaliblemente en manos de la multitud desenfrenada, para después pasar a tiranuelos casi imperceptibles, de todos colores y razas. 5°. Devorados por todos los crímenes y extinguidos por la ferocidad, los europeos no se dignarán conquistarnos. 6°. Sí fuera posible que una parte del mundo volviera al caos primitivo, este sería el último período de la America.
Il fallimento politico e personale di Bolívar derivavano essenzialmente dal suo profondo scetticismo verso gli americani e la loro moralità: l’assenza di esperienza politica e la mancanza di virtù civica li rendevano, affermava, del tutto incapaci di governarsi attraverso istituzioni liberali.
Già molti anni prima del fallimento della Gran Colombia, ad Angostura nel 1819, aveva proposto una specie di areopago che doveva controllare il rispetto dei principi morali nella repubblica. Questo «potere morale», come lo avrebbe chiamato lo stesso Bolívar alcuni anni dopo, composto da un presidente e quaranta membri, doveva esercitare un’autorità piena a indipendente in due ambiti di enorme importanza per il libertador: i costumi pubblici e l’educazione.
Anche se la proposta fu respinta dal congresso, il potere morale fu ripreso nella costituzione della Bolivia del 1826 con la camera dei censori, che doveva promuovere e proteggere l’esercizio della virtù civica. La carta boliviana del 1826 è importante non solo perché è il risultato del pensiero costituzionale del libertador, ma perché rappresenta uno strumento per far fronte ai pericoli che incombevano su molti Paesi del continente in quel momento: l’anarchia e la tirannia. A tal fine Bolívar stabiliva quattro poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario e elettorale) e un presidente a vita che aveva inoltre il potere di eleggere il suo successore. Questa costituzione vitalizia, che fu estesa anche al Perù nel dicembre di quello stesso anno, non fu accettata dalle elite creole in quanto, non solo assomigliava molto alla monarchia, ma violava uno dei principi più apprezzati dai liberali: l’alternanza nelle cariche come mezzo per evitare la tirannia.
Tuttavia, nei decenni successivi, questo modello tornò ad apparire grazie ad alcuni generali che avevano servito negli eserciti di Bolívar. Nel 1837, il generale Santa Cruz, dopo aver temporaneamente unito il Perù e la Bolivia in una confederazione, promulgò una costituzione in base alla quale il potere esecutivo era nelle mani di un protettore che rimaneva in carica dieci anni e il senato, i cui membri erano vitalizi, era nominato dallo stesso protettore.
Nel 1843, in Ecuador il generale Juan José Flores proclamò una costituzione simile con un presidente che rimaneva in carica otto anni e con un senato vitalizio.
Tali regimi ebbero comunque vita breve. La dittatura peruviana del 1824, la proposta di presidenza vitalizia del 1826, la direzione suprema colombiana del 1828 hanno fatto pensare a Bolívar come a un uomo incline al potere autocratico. In realtà, buona parte dei suoi principi, delle sue attitudini nei confronti dei problemi politici e sociali, delle sue proposte e delle sue misure legislative possono qualificarsi come liberali. Il problema fu che la sua stessa esperienza politica e militare lo convinsero progressivamente della necessità di governi con poteri molto concentrati per rispondere alle minacce di anarchia.
L’adozione di un immaginario politico moderno contrastava con una realtà profondamente diversa, non tanto, come pensava Bolívar, per la mancanza di virtù politiche e morali, quanto piuttosto per la sopravvivenza di corpi territoriali che non svanirono con l’indipendenza, ma che anzi si trovarono rafforzati dalla crisi della monarchia e dalla loro articolazione con i nuovi principi liberali.
L’idea di anarchia e debolezza dei nuovi Paesi è insita anche nel progetto bolivariano di creazione di un’istanza politica panamericana. Nel dicembre 1824 il libertador, in qualità di capo di stato del Perù, inviò infatti una comunicazione ai governi di Colombia, Messico, Río de la Plata e Cile per riunire un’assemblea di rappresentanti plenipotenziari di ognuno di questi Paesi nell’istmo di Panama. L’obiettivo di Bolívar era la creazione di un congresso che fungesse da «consiglio nei grandi conflitti, da punto di contatto di fronte ai pericoli comuni, da interprete dei trattati in caso di difficoltà e da conciliatore delle nostre differenze».
L’idea non era quindi quella di formare una federazione latino-americana, simile a quella degli Stati Uniti. Si trattava piuttosto di un accordo tra i vari Paesi affinché si giungesse a istituire un congresso continentale permanente che si occupasse principalmente della difesa dei nuovi Stati verso l’esterno. Non è un caso che pochi mesi dopo la convocazione e alcuni mesi prima del congresso di Panama fosse stata pubblicata postuma l’opera incompiuta di Bernardo Monteagudo Ensayo sobre la necesidad de una federación general entre los estados hispano-americanos y plan de su organización (1825). In questo saggio Monteagudo collocava l’America latina nel contesto degli equilibri e delle lotte che si stavano conducendo su scala mondiale, riflettendo sul ruolo egemonico dei governi europei e della Santa Alleanza. Introdusse un linguaggio completamente nuovo per l’America latina, legando le sorti della libertà e dell’unione sudamericana a una stretta alleanza militare, che avrebbe dovuto estendersi alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Monteagudo collocava quindi la libertà dei nascenti Stati sudamericani nel contesto di una federazione generale che doveva affidare ad un Congresso permanente, formato dai plenipotenziari in rappresentanza dei rispettivi Paesi, la responsabilità di regolare le scelte di politica estera e di difesa. La riunione voluta da Bolívar ebbe luogo nel giugno del 1826 a Panama, ma fu un sostanziale fallimento, non solo a causa della limitata partecipazione dei Paesi (vi furono solo rappresentanti del Messico, dell’America centrale, della Colombia e del Perù, oltre a un osservatore britannico e uno olandese), ma anche per il fatto che non si raggiunse alcun accordo significativo.
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