L'islam e l'universo.
Salam - islam - muslim
Tre parole che descrivono la religione dell'islam.
- Assalam alaycom, è il saluto del islam che vuol dire LA PACE SIA CON VOI
- islam, il nome della religione e significa PACE .
- muslim, e la persona che crede in Dio e tutti suoi messaggeri, e significa SOTTOMESSO.
Quindi, muslim è un credente sotto messo a Dio e prega solo a Dio e chiede aiuto e il perdono da Dio direttamente.
DA RICCO MERCANTE A PROFETA: LA VITA DI MAOMETTO.
Maometto (570-632) è stato il fondatore dell’Islam, religione che conta oggi quasi due miliardi di fedeli in tutto il mondo.
Monoteisti come ebrei e cristiani, i musulmani non la considerano una religione nuova, ma sostengono che Maometto abbia restaurato il culto di Abramo nella sua purezza: infatti egli è ritenuto l’ultimo esponente di una tradizione profetica, tra cui spiccano per importanza Abramo stesso e Gesù.
Ebraismo, Cristianesimo e Islam sono le tre “religioni del libro”.
Molte fonti scritte parlano di Maometto: apparteneva ad un ramo secondario della tribù Quraysh, una famiglia di commercianti molto potente e conosciuta a La Mecca, dove egli nacque.
Rimase presto orfano di padre e di madre, così sotto la tutela dello zio paterno e del nonno fu avviato anch’egli alla carriera di mercante, grazie alla quale viagiò molto, incontrando molte comunità ebraiche e cristiane.
Si sposò a venticinque anni con Khadija bint Khuwaylid (556-619), vedova per la quale egli era entrato in servizio come mercante e fondamentale nella sua vita, in quanto condivise per prima in assoluto l'esperienza religiosa del marito.
Infatti, tra i trenta e i quarant’anni Maometto attraversò una profonda crisi religiosa, durante la quale si interrogò su Dio e sulla natura, divenendo un nomade solitario e appartandosi spesso in ritiro. Nel 610, secondo la tradizione, sul monte Hira ebbe la prima visione, durante la quale l’arcangelo Gabriele gli rivelò l’unicità di Allah, di cui Maometto divenne il portavoce: questa sarebbe stata conosciuta come “la notte del potere e del destino”.
Tre anni dopo l'esperienza mistica, iniziò a predicare la fede in un unico dio, Allah, in una Mecca al tempo dominata da religioni pagane di vario genere e dal Cristianesimo.
Per molti anni, tuttavia, furono pochi i concittadini che Maometto riuscì a convertire: tra di essi, Abu Bakr (573-634), suo coetaneo e amico intimo — che per altro sarebbe stato il suo successore come guida della comunità musulmana e califfo — e un piccolo gruppo di persone che di lì a poco sarebbero divenute suoi collaboratori: i Dieci Benedetti.
La Rivelazione dimostrava la verità di quanto scritto nel Vangelo, cioè che nessuno può essere profeta in patria: nel 622, infatti, a pochi anni dalla morte del suo adorato zio e protettore, fu costretto a scappare da La Mecca perché il ramo principale della sua famiglia lo voleva morto dopo l’annunciazione dei versetti che condannavano l'idolatria e il politeismo. La fuga sarebbe stata conosciuta come Egira – l’emigrazione – ed essi si rifugiarono a Yazrib, che verrà rinominata Medina: “la città del Profeta”.
Sotto il secondo califfo Omar ibn al-Khattab (589-644), il 622 sarebbe stato trasformato nel primo anno del calendario islamico (che ha undici giorni in meno rispetto a quello giuliano-gregoriano).
A Medina, i seguaci di Maometto crebbero di numero e formarono la “Costituzione di Medina”, un’alleanza con alcuni clan ebrei e pagani per porre fine alle guerre intertribali della città, anche se gli ebrei furono successivamente estromessi come "fedeli che non accettano la ultima e vera parola di Dio".
Nel 629 Maometto tornò a La Mecca e la conquistò, così accrescendo il suo potere e la sua influenza, a tal punto che spesso, oltre ai tributi, egli richiedeva la conversione.
Negli ultimi anni della sua vita estese la sua influenza militare, politica e religiosa a tutta la penisola arabica, trasformando quelle terre sempre viste per la loro storica frammentarietà come innocue – soprattutto da #bizantini e #persiani – in una vera e propria minaccia.
Continuò a vivere a Medina e nel 632 compì il suo ultimo viaggio a La Mecca, dove affermò che «tutti i musulmani sono fratelli e devono combattere uniti finché non esisterà solo un Dio».
Morì lo stesso anno.
La sua improvvisa scomparsa senza aver indicato esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della #Umma, la comunità di fedeli musulmani, lasciò un grande vuoto che si ripercuote ancora oggi, ma questo sarà oggetto di approfondimento nei prossimi appuntamenti.
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[Nell’immagine: miniatura del XVI Secolo nella quale Maometto è raffigurato senza il tradizionale velo sul volto, tratta dall'Athār al-baqiya (Tracce dei secoli passati) di al-Bīrūnī]
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L’EREDITA’ DI MAOMETTO E I CALIFFI “BEN GUIDATI”.
Aver riunito tutte le tribù beduine della Penisola Araba intorno alla nuova fede strappandole da secolari spirali di violenze, vendette e guerre sanguinose, permise a Maometto, il nabì, l’ultimo dei profeti inviati da Allah, di creare le condizioni per la straordinaria propagazione di cui l’Islam fu protagonista in quegli anni.
Morto a Medina nel 632 durante un pellegrinaggio alla Mecca, il Profeta però, non aveva fatto alcun cenno al tipo di organizzazione politica che avrebbe dovuto lasciare alla sua comunità. Alla sua morte, il problema più grande da risolvere per i fedeli di Allah fu quello di capire come mantenere il modello teocratico messo in piedi da Maometto, cercando, allo stesso tempo, di individuare una personalità carismatica che svolgesse il ruolo di garante.
Dopo diversi confronti serrati, gli uomini più vicini al Profeta giunsero ad un accordo: il suo successore sarebbe dovuto essere un uomo stimato, leale e fedele agli insegnamenti del maestro. Per questo venne individuato come erede un califfo, ovvero un “vicario” incaricato di far rispettare la legge trasmessa da Dio in rappresentanza di Maometto e della sua memoria.
La scelta cadde su Abu Bakr, suocero del Profeta.
Dal 632 al 661 si aprì così un trentennio di storia islamica in cui la Umma, cioè la comunità dei fedeli, fu retta da quattro califfi, Abu Bakr, Omar ibn al Jatab, Othman Ibn Afán e Alì Ibn Abi Talib che la tradizione ha indicato con l'appellativo di rashidun cioè califfi “ben guidati” in quanto ortodossi al messaggio di Dio e scelti sulla base di criteri di merito e non di appartenenza familistica.
Il sistema di gestione del potere cominciò però a scricchiolare tra il 656 e il 661 quando la morte violenta del terzo califfo rashidun, Othman, portò alla nomina di Alì come successore. Questo, genero e cugino di Maometto, molto critico sugli sviluppi presi dall’Islam dopo la morte del Profeta, venne fortemente osteggiato dai Qurayshiti, i seguaci di Othman, che sostenuti da Aisha, la terza moglie di Maometto, insorsero contro il nuovo califfo.
I Qurayshiti di Othman vennero però sconfitti nel 656 nei pressi di Bassora nella cosiddetta “battaglia del Cammello” dove il fronte ribelle venne trucidato dalle forze di Alì e Aisha fu rispedita a Medina dove venne relegata per il resto della sua vita. Il vortice di vendette era stato però nuovamente innescato.
Così abbastanza rapidamente si formò una nuova corrente d’opposizione con a capo Muawiya, cugino di Othman nonché potente governatore della Siria.
Ne nacque una nuova guerra culminata nella battaglia di Siffin che militarmente non portò ad un nulla di fatto ma che sotto il profilo politico spinse le parti ad un nuovo accordo con il quale le pretese avanzate da Muawiya, vennero legittimate: questo in particolare lamentava l’irrituale elezione di Alì avvenuta illegalmente poiché dettata da criteri di appartenenza familistica; inoltre accusava il califfo di inettitudine poiché incapace di sventare il presunto assassinio di Othman.
La situazione giunse d'improvviso ad una svolta: proprio mentre ci si avviava verso un nuovo scontro, Alì cadde vittima di un attentanto. Da quel momento i sostenitori della legittimità di Othman decisero di affidare il titolo di califfo all'affidabilità di una famiglia che ricca e potente avrebbero garantito la continuità politica nella gestione delle questioni religiose.
Nacque così la dinastia degli Omayyadi proprio mentre i sostenitori di Alì attuarono la prima scissione all’interno dell'Islam dando origine ad una nuova comunità, quella degli sciiti (da shiatu Alì, cioè fazione di Alì).
Fu proprio nel trentennio che trascorse tra la morte di Maometto e lo scisma del mondo islamico tra sunniti (seguaci di Othman) e gli sciiti (i seguaci di Alì) che l’Islam visse la più importante e rapida espansione territoriale della sua storia.
SUNNA E SHIAT, LA FRAMMENTAZIONE DEL MONDO ISLAMICO.
Esistono numerose differenze sia religiose sia di carattere politico tra le due principali correnti del mondo islamico: il sunnismo (Sunniti) e lo sciismo (SCIITI).
Storicamente le prime divaricazioni nelle interpretazioni della fede riguardarono inizialmente solo aspetti di carattere dinastico:
i sunniti infatti riconoscevano la possibilità di giungere all’elezione califfale tra tutti i membri della tribù, ossia i Qurayshiti, che restarono fedeli alla figura del terzo califfo Othman; gli sciti invece consideravano papabili per l’elezione solo coloro che fossero discendenti diretti del Profeta, in particolare di Alì e Fatima, unica figlia di Maometto che aveva avuto due figli maschi, Hasan e Hussein.
Questa differenza portò nel tempo ad una distanza sempre più netta tra le due comunità anche nel modo di esercitare il ruolo di guida dei fedeli: infatti mentre il califfo sunnita è considerato un capo esclusivamente temporale privo di poteri in ambito religioso, l’imam sciita è identificato quale guida spirituale dell'intera comunità in possesso di conoscenze sacre esclusive. In virtù di ciò l'imam è in grado di dispensare insegnamenti e prescrizioni a tutti i fedeli perché guidato direttamente dal Profeta.
Inoltre, sommariamente, si può sostenere che in relazione alle due comunità si possono indicare ulteriori differenze che riguardano anche il riconoscimento di determinate diversità nell’interpretazione delle Scritture e del diritto. I sunniti infatti fondano la loro fede nell’attenzione all'originale comprensione del Corano e della Sunna, l'insieme di racconti della vita del Profeta dal tono esemplare da imparare a memoria e replicare nella vita individuale.
Gli sciti invece, nonostante si debbano considerare tradizionalisti sotto molti aspetti, private le Scritture di quelle parti che ritengono essere state aggiunte successivamente dal terzo califfo Othman, si mostrano paradossalmente più orientati ad una maggiore innovazione nell'interpretazione della parola di Dio vista la centralità che assume la figura dell’imam all'interno della comunità dei fedeli. [...]
IL CALIFFATO DEGLI ORTODOSSI (632-661)
Dopo la morte di Maometto (570-632), non avendo egli lasciato disposizioni sul suo successore, fu riconosciuto per generale consenso Abu Bakr (573-634), suocero di #Maometto e uno dei primi compagni a seguirlo durante la fuga a Medina.
L’unico tra essi a non concedere il suo consenso fu ʿAlī (599-661), suo nipote e genero, offeso per una decisione presa in sua assenza e per non essere stato egli stesso scelto, visto che era il marito della figlia del Profeta, Fatima (605-633).
La tradizione con la quale Abū Bakr si fece forza per la mancata eredità fu quella dell'aver sentito dire a Maometto che «i profeti non hanno eredi».
Questo avrebbe spaccato qualche decennio dopo l’islam in due rami distinti, tutt’oggi i maggioritari del mondo musulmano:
gli Sciiti, che ritenevano che solo i discendenti di ʿAlī dovevano essere a capo della comunità musulmana e che quindi non riconoscevano i primi tre #califfi, e i #Sunniti, secondo i quali alla guida politica e spirituale della #Umma poteva accedere qualunque musulmano pubere, di buona moralità, di sufficiente dottrina e sano di corpo e di mente.
Abū Bakr fu il primo califfo di quella che sarebbe stata ricordata come al-Julafa al-Rasidun, “l’epoca dei Califfi illuminati”, corrispondente ai primi quattro, eccezionali perché scelti per “elezione” dai compagni di Maometto.
Abū Bakr
— califfo nel 632-634 — scatenerò la Ridda, una serie di operazioni militari volte a sottomettere di nuovo le numerose tribù arabe che, con la morte di Maometto, si erano ritenute in diritto di recuperare la loro primitiva libertà d'azione.
Dopo la morte di Abu Bakr, con l'elezione di ʿOmar ibn al-Khaṭṭāb (589-644) — califfo nel decennio 634-644 — e con la Penisola Arabica finalmente riunita sotto il vessillo islamico, le armate musulmane si riversarono in Siria, Persia ed Egitto, conquistando territori inimmaginabili.
Molti cristiani a quel tempo vedevano nei musulmani non degli invasori infedeli, ma dei liberatori dal giogo di Costantinopoli.
Infatti, pur discriminati sul piano fiscale, i cristiani sottomessi agli Arabi godevano di una pressione fiscale di gran lunga inferiore a quella imposta dall’apparato burocratico bizantino; inoltre, le eresie cristiane — come il monofisismo, molto diffuso in Egitto — erano perseguitate da Costantinopoli, ma tollerate dai Califfi.
Omar fu assassinato dal suo schiavo a Medina.
Gli succedette ʿUthmān b. ʿAffān (574-656), — califfo nel 644-656 — i cui più grandi meriti furono l’aver fatto redigere la prima versione ufficiale del Corano, fino a quel momento scritto su vari supporti improvvisati:
foglie della palma, pezzi di legno, pergamena, papiro.
Le prime quattro copie manoscritte complete furono inviate nelle quattro rispettive città principali della Umma, e le versioni discordanti vennero bruciate.
Inoltre riformò il calendario musulmano basandolo sulla data dell’Egira.
Fu assassinato probabilmente sotto ordine di ʿAlī.
Fu così che ʿAlī ibn Abī Ṭālib — califfo nel 656-661 — salì finalmente al Califfato, dopo essere stato scartato per ben tre volte.
Dovette fronteggiare la fitna – guerra civile – e morì assassinato dalla setta dei karingiti, dissidenti islamici nati proprio perché ritenevano giusto uccidere un musulmano che si fosse macchiato di un crimine religioso, in questo caso aveva messo la logica umana di fronte ai dettami del profeta: era nata la prima riflessione teologica all'interno della Umma islamica, nemmeno trenta anni dopo la morte di Maometto.
In un primo momento fu scelto il figlio di Alì come suo successore, Hasan ibn ʿAlī ibn Abī Tālib (624/625-669/670), ma dopo neanche un anno “abdicò” in favore del potente e influente Muʿawiya ibn Abi Sufyan (603-680): iniziava così il califfato degli Omayadi, che sarebbe durato per più di un secolo.
STORIA DELL’ISLAM MEDIEVALE.
A cura di Lorenzo Paci.
LA DINASTIA ABBASIDE E L’IMPERO ARABO.
[...]
Il califfato abbaside è ritenuto il massimo momento di apogeo della cultura islamica, oltre a risultare il più lungo periodo di dominio dinastico sul mondo arabo, pur perdendo progressivamente potere rispetto alle dinastie di emiri locali (che finirono per riconoscerne l'autorità solo nominalmente) e dovendo abbandonare le province occidentali di al-Andalus, Maghreb e Ifriqiya nelle mani rispettivamente degli Aghlabidi omayyadi e del califfato fatimide.
Ciò che risulta più stupefacente della dinastia abbaside è l'enorme sviluppo culturale che il suo governo portò al mondo arabo: praticamente in ogni campo dello scibile, dall'astronomia all'alchimia, dalla matematica alla medicina, all'ottica e così via, vide gli scienziati arabi in prima linea del progresso scientifico.
Ciò fece del periodo abbaside una età dell'oro islamica che si protrasse dalla fondazione di Baghdad alla metà del XIII secolo.
L'allargamento dei domini abbasidi portò però a una progressiva crescita delle difficoltà del califfato, in parte causate dalle differenze etniche e culturali ma, più semplicemente, da una certa incapacità del centro di amministrare saggiamente le periferie.
Nel XI secolo i Turchi Selgiuchidi, provenienti dalle steppe dell'Asia centrale, cominciarono a penetrare nei territori dell'impero e nel 1055 entrarono a Baghdad e, anche se accolti favorevolmente dal califfo, imposero di fatto la loro autorità facendo valere la loro pesante tutela.
Il colpo finale fu inflitto nel 1258 con l'invasione dei Mongoli, che occuparono Baghdad, la distrussero in parte e massacrarono il califfo e tutti i suoi, ponendo così fine al califfato abbaside.
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LA LUCE DELL’ISLAM SI È SPENTA: LA DISTRUZIONE DI BAGHDAD (1258).
Nel cuore del medioevo Baghdad era una delle città più ricche, belle e popolose del mondo.
Faro di cultura, oltre a essere un polo commerciale per il passaggio della via della seta, era anche la sede del califfato Abbaside, che oltre a provvedere all’abbellimento della città (dagli autori paragonata a un paradiso in terra) avevano fatto costruire la Bayt Al-Hikma, un’immensa biblioteca contenente opere in lingua greca, sanscrita, araba, medio persiana e copta. Vi era inoltre un’università pubblica e un ospedale, aperto gratuitamente a soggetti di ogni sesso, età e razza.
Tutto ciò venne distrutto dalla furia cieca dei mongoli.
Baghdad, pinnacolo della cultura mediorientale e infinitamente superiore alle coeve città europee, venne stretta d’assedio dall’esercito di Hulegu Khan, fratello del khan mongolo Munke. La forza riunita dal condottiero assommava a ben 150.000 uomini, una cifra raggiunta reclutando un guerriero mongolo ogni 10 abitanti.
Tra i membri della spedizione si trovavano inoltre ingegneri cinesi, tra cui il comandante Guo Kan, soldati cristiani della Georgia
(decisi a vendicarsi del saccheggio della loro Tbilisi), dell’Armenia e del principato di Antiochia. I cinesi si rivelarono cruciali, poiché capaci di costruire immense catapulte con cui scagliare sostanze incendiarie per martellare le difese della metropoli.
Stipati in una città non preparata a un assedio, i difensori si arresero dopo un breve assedio:
il 10 febbraio i mongoli entrarono a Baghdad e iniziò un vero e proprio eccidio.
Si stimano i morti tra 400.000 e 800.000, cifre enormi, sia per comprendere la grandezza della città, che l’entità del massacro.
Hulegu chiese ad ogni soldato di portare almeno 20 teste di cittadini, pena la morte. Cinesi e cristiani rimasero inorriditi da tale scempio, tanto che la notizia riecheggiò per l’intero mondo conosciuto.
Bambini, anziani, donne, nessuno fu risparmiato e pochissimi vennero presi come schiavi. Ma la distruzione non si limitò alle vite umane: la città fu rasa al suolo, la biblioteca con tutti i suoi libri distrutta. Si narra che il Tigri divenne nero dall'inchiostro delle pergamene gettate tra le sue acque.
Il califfo vene ucciso secondo la tradizione:
per evitare che il suo sangue sacro macchiasse la terra, venne avvolto in un tappeto e triturato dal passaggio di cavalli e soldati sopra il suo corpo.
Dopo che le orde mongole se ne andarono, Baghdad non esisteva più. Anche se venne ricostruita, nonché poi distrutta ancora dalle forze di Tamerlano, non raggiunse mai lo splendore dell’epoca abbaside.
Inoltre, il millenario sistema di canalizzazione e irrigazione che congiungeva le acque della regione in un labirinto di viadotti acquatici venne distrutto dai mongoli, tale che da portare all'inaridimento dell'intera regione, oggi desertica.
COS’È VERAMENTE IL “JIHAD”?
Il “jihad”, tradotto in genere con “guerra santa”, significa letteralmente lo ‹‹sforzo›› da compiere per percorrere ‹‹la via di Dio›› e riguarda più precisamente la ‹‹lotta contro gli infedeli››.
Esso non rientra tra i cinque fondamenti dell’islam (fede, preghiera, elemosina, digiuno, pellegrinaggio), anche se i fedeli sono insistentemente esortati a metterlo in pratica. Tuttavia, gli sciiti, a differenza degli altri gruppi, lo pongono tra i fondamenti della loro religione.
Il dovere del jihad (questo vocabolo non ha plurale) è innanzitutto dovere della comunità nel suo insieme e non del singolo individuo, una condizione permanente che troverà termine soltanto quando il mondo sarà diventato territorio dell’islam o della pace, quando cioè tutti gli uomini avranno accolto la fede in Allah e nel suo inviato Maometto.
In contrapposizione ad alcuni movimenti tradizionalisti e radicali (ISIS), che ancora oggi sostengono l’applicazione della forza in questa spinta missionaria, la maggioranza delle scuole e dei giuristi islamici sottolinea l’aspetto pacifico del jihad.
Accanto all’aspetto generale e a quello missionario, il terzo aspetto essenziale del jihad è quello interiore, consiste nello sforzo che ogni musulmano fa per prestare ad Allah la dovuta obbedienza, osservando e seguendo i suoi comandamenti.
Teocrazia.
Una teocrazia è un sistema di governo nel quale le autorità religiose e politiche si fondono e nel quale si governa secondo precetti religiosi.
Letteralmente dal greco, il termine "teocrazia" corrisponde al "governo di Dio" mentre in arabo è espresso con il termine "hukuma diniyya" ovvero "governo dei religiosi" proprio ad indicare i limiti strutturali nell'applicabilità della teocrazia.
La separazione tra Stato e religione nell'Islam comincia ad emergere nel IX secolo con la classe degli "ulama" che avevano un certo grado di indipendenza dal califfo.
Altri studiosi datano questa separazione al 945 quando cessò il doppio potere, temporale e spirituale, del califfo abbaside.
Tuttavia, ci si accorse ben presto che vi erano aree giuridiche non direttamente derivabili dalla legge coranica e, pertanto, iniziò a svilupparsi il concetto di "siyasa" (politica, governo) volto ad indicare una serie atti giuridici conformi alla legge coranica, ma non derivabili da essa.
Il concetto di siyasa trovò piena applicazione nell'Impero Ottomano anche se, tali atti, non erano mai superiori né tantomeno eguali alla shari'a, che fungeva da limite costituzionale.
QUESTIONE ISLAMICA.
In un vecchio libro di Paul Bairoch – Lo sviluppo bloccato – si poteva leggere che intorno all’anno Mille le tre grandi civilizzazioni culturali del mondo di allora, l’arabo-islamica, l’europeo-cristiana e la cino-confuciana erano grosso modo allo stesso livello.
Chiunque sia stato a Cordova, a Granada e nell’Andalusia spagnola non ha difficoltà a riconoscere lo splendore e la raffinatezza a cui erano giunti i musulmani di Spagna.
Poi, sempre in quel torno di tempo tra il IX e l’XI secolo successe qualcosa, e da allora le tre civilizzazioni culturali hanno cominciato a marciare secondo propri indirizzi e velocità.
È proprio in quell’epoca che Robert R. Reilly in un suo recente volume The closing of muslim mind – How the intellectual suicide created the modern islamist crisis (ISI Book, 2010) individua le cause mentali-culturali che hanno condotto una splendida civilizzazione culturale verso uno dei più grandi drammi intellettuali nella storia umana.
Non occorre aver letto un solo rigo di Carl Schmitt per arguire che il pensiero politico ha origini teologiche e neanche uno di Max Weber per intuire che dalle grandi opzioni religiose e dai voltaggi mentali-culturali che esse determinano derivano esiti economici inaspettati (qui assumo come feconda la tesi di Weber, ovviamente, anche se c’è chi non la ritiene probante a spiegare i take off o i ristagni dell’economia).
Suicidio intellettuale.
Lo storico delle idee sa che è proprio da come sistemi le cose in cielo che organizzi quelle in terra, e che un dibattito teologico può risultare ferale per un’intera civiltà. È proprio a una serrata disputa teologica avvenuta tra il IX e i X secolo dell’era cristiana all’interno dell’Islam che Reilly fa risalire il declino intellettuale del mondo musulmano; è a partire dal rifiuto del pensiero greco (de-ellenizzazione) di una delle fazioni teologiche in lotta risultata alla fine vincente e all’abbandono progressivo della ragione –il dono dei greci- nella maggior parte del mondo sunnita, che si innescherà il processo di involuzione a cui oggi assistiamo.
Da allora in poi sarà la teologia non la filosofia a decidere tutto:
le cose del cielo e quelle della terra. Reilly cita la frase del più grande studioso musulmano del XX secolo, Fazlur Rahman: “Un popolo che priva se stesso della filosofia necessariamente si espone a un depauperamento di idee fresche – nei fatti commette suicidio intellettuale”.
La chiusura della mente musulmana.
Questo dibattito ebbe luogo nei grandi centri della civiltà musulmana – Damasco, Bagdad e Cordova -, e oppose due scuole religiose:
i Mu’taziliti e gli Asciariti (Ash’arite Islam).
La corrente Mu’tazilita che nel nostro linguaggio potremmo definire “liberale” e “razionalista”, influenzata dal pensiero greco di cui vuole conservare l’eredità filosofica, intende coniugare fede e ragione. Gli esponenti più noti (per noi) sono Al Farhabi, Avicenna e Averroè, mentre dal lato Ash’arita “tradizionalista” e mistico si situeranno Ibn Hanbal (che ancora oggi è una delle figure di riferimento in Arabia Saudita) e soprattutto Al Ghazali (“pivotal figure” e “la seconda persona più importante nell’Islam subito dopo Maometto”, lo definisce Reilly) che sarà il grande trionfatore, colui che starà rispetto al Profeta come Paolo di Tarso a Gesù Cristo.
Il centro del dibattito, galvanizzato dal primo incontro con la filosofia greca, sarà quello tipico di ogni religione monoteista: lo status della ragione in relazione alla rivelazione di Dio e alla sua onnipotenza.
In che rapporto sta la ragione nell’incontro dell’uomo con Dio?
C’è rapporto tra la ragione e la rivelazione divina?
E la cosa più importante: può la ragione conoscere la verità?
Deve risultare chiaro, e ciò vale anche per molte questioni che riguardano il cristianesimo, che il Corano, come il Vangelo, non danno delle teologie belle e pronte (né Maometto né Gesù erano teologi) ma è il lavorio incessante proprio della teologia a sviluppare nozioni di Dio allo stesso tempo implicite ed esplicite nei Testi Sacri.
La chiusura avvenne in due modi:
uno di negare alla ragione di conoscere alcunché, l’altro di licenziare la realtà come non conoscibile. Tipicamente: la ragione non può conoscere, o, non c’è nulla da conoscere. Entrambi gli approcci saranno sufficienti a ritenere irrilevante la realtà, ed entrambi filtreranno attraverso la corrente vincitrice, quella Asharita, nel mondo Sunnita. Radicale volontarismo (Dio è pura volontà) e occasionalismo (non c’è rapporto di causa ed effetto nell’ordine naturale ) saranno perciò i binari entro cui viene fatta la ricognizione della realtà da questo Islam trionfante. Ciò determinerà la negazione del principio di causalità. Nel mondo sunnita musulmano “la realtà diventa inaccessibile” perché le vedute di certi teologi tra nono e dodicesimo secolo sono prevalse, è in estrema sintesi il tema di questo lavoro.
La chiusura della mente musulmana ha creato quella crisi di cui il moderno terrorismo è solo una manifestazione. Essa è molto più vasta e profonda e fa sì che il mondo Arabo stia in fondo a tutte le classifiche dello sviluppo umano; che lo spirito scientifico vi sia ormai moribondo; che nella sola Spagna siano stati tradotti in un solo anno ciò che nell’intero mondo arabo è stato tradotto in un secolo; che alcune persone in Arabia saudita ritengano che nessun uomo è sbarcato sulla luna (a dire il vero anche qualche grillino da noi); che l’uragano Katrina sia ritenuto un chiaro castigo divino.
A fianco di questa lettura ho rispolverato il vecchio libro di Ernest Renan Averroès et l’Averroïsme (4 ed. 1882) dove si possono leggere alcuni brani in cui la visione di Reilly trova singolare conferma retrospettiva. Leggo in Renan: “lo sviluppo intellettuale rappresentato dai dotti arabi fu fino alla fine del XII secolo superiore a quello del mondo cristiano. Ma non riuscì a passare nelle istituzioni; la teologia oppose a questo riguardo una barriera insuperabile. Il filosofo musulmano restò sempre un dilettante o un funzionario di corte. Il giorno in cui il fanatismo fece paura ai sovrani, la filosofia scomparve, i manoscritti furono distrutti per ordine regio, e solo i cristiani si ricordarono che l’islamismo aveva avuto dei dotti e dei pensatori. La filosofia araba offre l’esempio a un di presso unico di una altissima cultura soppressa quasi istantaneamente senza lasciare traccia, e quasi dimenticata dal popolo che l’ha creata. L’islamismo svelò in questa circostanza ciò che è estremamente consentaneo al suo genio.
Anche il cristianesimo è stato poco favorevole allo sviluppo della scienza positiva; è riuscito ad arrestarlo in Spagna e a ostacolarlo in Italia; ma non l’ha soffocato, e anche gli elementi più elevati della famiglia cristiana hanno finito per riconciliarsi con detta scienza. Incapace di trasformarsi e di ammettere alcun elemento di vita civile e profana, l’islamismo strappò dal suo seno ogni germe di cultura razionale. (…) Il mondo musulmano entrò da allora in poi in questo periodo di ignorante brutalità se non per ricadere in una triste agonia dove si dibatte sotto i nostri occhi”.
Aggiungo infine che la tesi forte e ardita di Reilly– far risalire un dramma mondiale ad alcuni eventi teologici accaduti otto nove secoli fa – diventa più difendibile se la si pone in un’ottica di “lunga durata” come ci ha insegnato Fernand Braudel. Riferito alla nostra realtà questo approccio ci ricorda la tesi di David Abulafia che fa risalire la frattura tra Nord e Sud d’Italia non al Risorgimento ma alla fondazione del Regno Normanno al Sud e dell’Italia dei Comuni al Nord, allo stesso modo in cui Robert Putnam fa risalire il maggior rendimento delle istituzioni al Nord alla maggiore “tradizione civica” risalente al Medioevo e ai Comuni. Voglio dire che se ti poni in una logica di studio delle radici profonde, a furia di scavare scopri che esse sono lunghe in maniera insospettabile, e che c’è un momento in cui si biforcano, prendono una direzione piuttosto che un’altra: compito di chi studia è individuare questo “momento originario” in cui la realtà storica prende una piega piuttosto che un’altra.
IL SUICIDIO INTELLETTUALE MUSULMANO ALLA BASE DELL’ATTUALE CRISI ISLAMICA.
ALFIO SQUILLACI