lunedì 26 novembre 2018

Italo Calvino. Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto, e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto.

Rilassati, raccogliti, allontana da te ogni altro pensiero. 
Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto.
Italo Calvino

Ogni incontro di due esseri al mondo è uno sbranarsi. Vieni con me‚ io ho la conoscenza di questo male e sarai più sicura che con chiunque altro; perché io faccio del male come tutti lo fanno; ma‚ a differenza degli altri‚ io ho la mano sicura. 
Italo Calvino.


Mi fermai, battei le palpebre: non capivo niente.
Niente, niente del tutto: non capivo le ragioni delle cose, degli uomini, era tutto senza senso, assurdo. E mi misi a ridere.
Italo Calvino

Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto, e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto.
Cesare Pavese.

E poi non sapevo più cosa guardare e guardai il cielo.
Italo Calvino


- Perché indugi in malinconie inessenziali?
- Perché mi manca l’essenziale accanto a me.
Italo Calvino, “Le città invisibili”.


Poi c’è anche questo fatto dell’anonimato, del poter sentirsi in mezzo alla folla ad osservare tutti, scomparendoci dentro, quasi sentendosi invisibili.
Italo Calvino


Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
Italo Calvino, Lezioni americane
Visibilità 

La vita d'una persona consiste in un insieme d'avvenimenti di cui l'ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l'insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché una volta inclusi in una vita, gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico ma risponde a un'architettura interna. Uno per esempio legge in età matura un libro importante per lui, che gli fa dire “Come potevo vivere senza averlo letto!” e anche “Che peccato che non l'ho letto da giovane!”. Ebbene, queste affermazioni non hanno molto senso, soprattutto la seconda, perché dal momento che lui ha letto quel libro, la sua vita diventa la vita di uno che ha letto quel libro, e poco importa che l'abbia letto presto o tardi, perché anche la vita precedente alla lettura ora assume una forma segnata da quella lettura.
Italo Calvino, Palomar


I ricordi sono ancora là, nascosti nel grigio gomitolo del cervello, nell'umido letto di sabbia che si deposita nel fondo del torrente dei pensieri: se è vero che ogni grano di questa sabbia mentale conserva un momento della vita fissato in modo che non si possa più cancellare ma seppellito da miliardi e miliardi d'altri granelli. Sto cercando di riportare alla superficie una giornata, una mattina, un'ora tra il buio e la luce all'aprirsi di quella giornata. Da anni non ho più smosso questi ricordi, rintanati come anguille nelle pozze della memoria.
Italo Calvino, “Ricordo di una battaglia”.

mercoledì 21 novembre 2018

Romana Petri, Ovunque io sia. (...) di ogni cosa che ci sta dentro siamo padroni solo noi, e di un amore immaginato addirittura più che di un amore vero, perché se è vero ci viviamo insieme, ci sta accanto, mica dentro. Con l'amore vero ci si unisce, con quello che non c'è, invece, si diventa proprio tutt'uno.

(...) di ogni cosa che ci sta dentro siamo padroni solo noi, e di un amore immaginato addirittura più che di un amore vero, perché se è vero ci viviamo insieme, ci sta accanto, mica dentro. 
Con l'amore vero ci si unisce, con quello che non c'è, invece, si diventa proprio tutt'uno.
Romana Petri, Ovunque io sia


La vita non è altro che le tante cose che accadevano. E'così per tutti pensò tra se, e solo all'idea di essere come gli altri, si sentì piena di un orgoglio mai provato prima.
Romana Petri, Ovunque io sia

E poi non siamo tutti uguali. Anche i dolori, sai, non è che si possono misurare con la bilancia o con il centimetro. Ognuno porta il peso che può.
Romana Petri, Ovunque io sia


Era un uomo totalmente esterno, ogni cosa in lui era evidente, sembrava che i pensieri li rendesse parola ancora prima di averli terminati.
Romana Petri, Ovunque io sia


Le cose finiscono solo quando finiscono, ma fino a che non finiscono noi siamo qui. Pensarlo conta molto. Bisogna solo avere un'altra concezione del tempo. Se tornando a casa penserà "io sono qui" si sentirà molto meglio di quanto si sentirebbe se dovesse cominciare a chiedersi "per quanto tempo ci sarò ancora?"
Romana Petri, Ovunque io sia



La prima volta che lo vidi,fu proprio in quegli occhi che andai a finire.
Arrivai sul bordo,sarebbe bastato un passo indietro e sarei stata salva.
Ma io di passi indietro non ne feci solo uno,ne feci moltissimi ma solo per prendere la rincorsa e poi tuffarmi.
Sentii il mio corpo cadere tra quelle dolcissime acque e dissi “Amen”.
E da quel momento cominciai a navigare,ma sempre in silenzio,muta,più muta di un pesce.
Romana Petri, Baciamoci ora


Trattasi di gente che,pur andando sempre insieme,sono stati anche solitari,proprio come se dietro si fossero portati un posto vuoto,
che la vita non ha mai riempito.
Ci sono coppie,al cinema o al teatro che stanno sedute insieme,al ristorante occupano un tavolo solo per loro,
ma ognuno ha accanto a sé una sedia immaginaria dove la persona giusta non si è mai seduta.


Io ero quel libro e fino a quel momento ero stato chiuso e non ero mai stato letto da nessuno.
E mi è sembrato d’impazzire perché all’improvviso è come se avessi scoperto che la vita vissuta,quella vera,non era nemmeno stata la mia.
La mia se n’era rimasta chiusa dentro le pagine di quel libro e dunque mai nata.
“Ecco dov’erano tutte le parole che non sono mai riuscita a dire”


«Voi bipolari siete così.»
«Non siamo bipolari, ancora con questa storia. Sei noioso, eh? Siamo gente di temperamento. 
Si chiamano sbalzi di umore. Alti e bassi. E in un giorno può succedere anche molte volte. 
Un momento ti rapisce il passato e subito dopo sei proiettato nel futuro.»
Romana Petri, Figli dello stesso padre

L'islam e l'universo.

L'islam e l'universo.


Salam - islam - muslim 
Tre parole che descrivono la religione dell'islam. 
- Assalam alaycom, è il saluto del islam che vuol dire LA PACE SIA CON VOI 
- islam, il nome della religione e significa PACE .
- muslim, e la persona che crede in Dio e tutti suoi messaggeri, e significa SOTTOMESSO.

Quindi, muslim è un credente sotto messo a Dio e prega solo a Dio e chiede aiuto e il perdono da Dio direttamente.


DA RICCO MERCANTE A PROFETA: LA VITA DI MAOMETTO.
Maometto (570-632) è stato il fondatore dell’Islam, religione che conta oggi quasi due miliardi di fedeli in tutto il mondo.

Monoteisti come ebrei e cristiani, i musulmani non la considerano una religione nuova, ma sostengono che Maometto abbia restaurato il culto di Abramo nella sua purezza: infatti egli è ritenuto l’ultimo esponente di una tradizione profetica, tra cui spiccano per importanza Abramo stesso e Gesù. 

Ebraismo, Cristianesimo e Islam sono le tre “religioni del libro”.

Molte fonti scritte parlano di Maometto: apparteneva ad un ramo secondario della tribù Quraysh, una famiglia di commercianti molto potente e conosciuta a La Mecca, dove egli nacque.

Rimase presto orfano di padre e di madre, così sotto la tutela dello zio paterno e del nonno fu avviato anch’egli alla carriera di mercante, grazie alla quale viagiò molto, incontrando molte comunità ebraiche e cristiane.
Si sposò a venticinque anni con Khadija bint Khuwaylid (556-619), vedova per la quale egli era entrato in servizio come mercante e fondamentale nella sua vita, in quanto condivise per prima in assoluto l'esperienza religiosa del marito.

Infatti, tra i trenta e i quarant’anni Maometto attraversò una profonda crisi religiosa, durante la quale si interrogò su Dio e sulla natura, divenendo un nomade solitario e appartandosi spesso in ritiro. Nel 610, secondo la tradizione, sul monte Hira ebbe la prima visione, durante la quale l’arcangelo Gabriele gli rivelò l’unicità di Allah, di cui Maometto divenne il portavoce: questa sarebbe stata conosciuta come “la notte del potere e del destino”.

Tre anni dopo l'esperienza mistica, iniziò a predicare la fede in un unico dio, Allah, in una Mecca al tempo dominata da religioni pagane di vario genere e dal Cristianesimo
Per molti anni, tuttavia, furono pochi i concittadini che Maometto riuscì a convertire: tra di essi, Abu Bakr (573-634), suo coetaneo e amico intimo — che per altro sarebbe stato il suo successore come guida della comunità musulmana e califfo — e un piccolo gruppo di persone che di lì a poco sarebbero divenute suoi collaboratori: i Dieci Benedetti.

La Rivelazione dimostrava la verità di quanto scritto nel Vangelo, cioè che nessuno può essere profeta in patria: nel 622, infatti, a pochi anni dalla morte del suo adorato zio e protettore, fu costretto a scappare da La Mecca perché il ramo principale della sua famiglia lo voleva morto dopo l’annunciazione dei versetti che condannavano l'idolatria e il politeismo. La fuga sarebbe stata conosciuta come Egira – l’emigrazione – ed essi si rifugiarono a Yazrib, che verrà rinominata Medina: “la città del Profeta”.

Sotto il secondo califfo Omar ibn al-Khattab (589-644), il 622 sarebbe stato trasformato nel primo anno del calendario islamico (che ha undici giorni in meno rispetto a quello giuliano-gregoriano).

A Medina, i seguaci di Maometto crebbero di numero e formarono la “Costituzione di Medina”, un’alleanza con alcuni clan ebrei e pagani per porre fine alle guerre intertribali della città, anche se gli ebrei furono successivamente estromessi come "fedeli che non accettano la ultima e vera parola di Dio".

Nel 629 Maometto tornò a La Mecca e la conquistò, così accrescendo il suo potere e la sua influenza, a tal punto che spesso, oltre ai tributi, egli richiedeva la conversione.
Negli ultimi anni della sua vita estese la sua influenza militare, politica e religiosa a tutta la penisola arabica, trasformando quelle terre sempre viste per la loro storica frammentarietà come innocue – soprattutto da #bizantini e #persiani – in una vera e propria minaccia.
Continuò a vivere a Medina e nel 632 compì il suo ultimo viaggio a La Mecca, dove affermò che «tutti i musulmani sono fratelli e devono combattere uniti finché non esisterà solo un Dio».
Morì lo stesso anno.
La sua improvvisa scomparsa senza aver indicato esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della #Umma, la comunità di fedeli musulmani, lasciò un grande vuoto che si ripercuote ancora oggi, ma questo sarà oggetto di approfondimento nei prossimi appuntamenti.
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[Nell’immagine: miniatura del XVI Secolo nella quale Maometto è raffigurato senza il tradizionale velo sul volto, tratta dall'Athār al-baqiya (Tracce dei secoli passati) di al-Bīrūnī]
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L’EREDITA’ DI MAOMETTO E I CALIFFI “BEN GUIDATI”.
Aver riunito tutte le tribù beduine della Penisola Araba intorno alla nuova fede strappandole da secolari spirali di violenze, vendette e guerre sanguinose, permise a Maometto, il nabì, l’ultimo dei profeti inviati da Allah, di creare le condizioni per la straordinaria propagazione di cui l’Islam fu protagonista in quegli anni. 

Morto a Medina nel 632 durante un pellegrinaggio alla Mecca, il Profeta però, non aveva fatto alcun cenno al tipo di organizzazione politica che avrebbe dovuto lasciare alla sua comunità. Alla sua morte, il problema più grande da risolvere per i fedeli di Allah fu quello di capire come mantenere il modello teocratico messo in piedi da Maometto, cercando, allo stesso tempo, di individuare una personalità carismatica che svolgesse il ruolo di garante. 

Dopo diversi confronti serrati, gli uomini più vicini al Profeta giunsero ad un accordo: il suo successore sarebbe dovuto essere un uomo stimato, leale e fedele agli insegnamenti del maestro. Per questo venne individuato come erede un califfo, ovvero un “vicario” incaricato di far rispettare la legge trasmessa da Dio in rappresentanza di Maometto e della sua memoria. 

La scelta cadde su Abu Bakr, suocero del Profeta. 
Dal 632 al 661 si aprì così un trentennio di storia islamica in cui la Umma, cioè la comunità dei fedeli, fu retta da quattro califfi, Abu Bakr, Omar ibn al Jatab, Othman Ibn Afán e Alì Ibn Abi Talib che la tradizione ha indicato con l'appellativo di rashidun cioè califfi “ben guidati” in quanto ortodossi al messaggio di Dio e scelti sulla base di criteri di merito e non di appartenenza familistica.

Il sistema di gestione del potere cominciò però a scricchiolare tra il 656 e il 661 quando la morte violenta del terzo califfo rashidun, Othman, portò alla nomina di Alì come successore. Questo, genero e cugino di Maometto, molto critico sugli sviluppi presi dall’Islam dopo la morte del Profeta, venne fortemente osteggiato dai Qurayshiti, i seguaci di Othman, che sostenuti da Aisha, la terza moglie di Maometto, insorsero contro il nuovo califfo. 

I Qurayshiti di Othman vennero però sconfitti nel 656 nei pressi di Bassora nella cosiddetta “battaglia del Cammello” dove il fronte ribelle venne trucidato dalle forze di Alì e Aisha fu rispedita a Medina dove venne relegata per il resto della sua vita. Il vortice di vendette era stato però nuovamente innescato. 
Così abbastanza rapidamente si formò una nuova corrente d’opposizione con a capo Muawiya, cugino di Othman nonché potente governatore della Siria. 

Ne nacque una nuova guerra culminata nella battaglia di Siffin che militarmente non portò ad un nulla di fatto ma che sotto il profilo politico spinse le parti ad un nuovo accordo con il quale le pretese avanzate da Muawiya, vennero legittimate: questo in particolare lamentava l’irrituale elezione di Alì avvenuta illegalmente poiché dettata da criteri di appartenenza familistica; inoltre accusava il califfo di inettitudine poiché incapace di sventare il presunto assassinio di Othman.

La situazione giunse d'improvviso ad una svolta: proprio mentre ci si avviava verso un nuovo scontro, Alì cadde vittima di un attentanto. Da quel momento i sostenitori della legittimità di Othman decisero di affidare il titolo di califfo all'affidabilità di una famiglia che ricca e potente avrebbero garantito la continuità politica nella gestione delle questioni religiose.

Nacque così la dinastia degli Omayyadi proprio mentre i sostenitori di Alì attuarono la prima scissione all’interno dell'Islam dando origine ad una nuova comunità, quella degli sciiti (da shiatu Alì, cioè fazione di Alì)

Fu proprio nel trentennio che trascorse tra la morte di Maometto e lo scisma del mondo islamico tra sunniti (seguaci di Othman) e gli sciiti (i seguaci di Alì) che l’Islam visse la più importante e rapida espansione territoriale della sua storia.





SUNNA E SHIAT, LA FRAMMENTAZIONE  DEL MONDO ISLAMICO.
Esistono numerose differenze sia religiose sia di carattere politico tra le due principali correnti del mondo islamico: il sunnismo (Sunniti) e lo sciismo (SCIITI). 

Storicamente le prime divaricazioni nelle interpretazioni della fede riguardarono inizialmente solo aspetti di carattere dinastico:

i sunniti infatti riconoscevano la possibilità di giungere all’elezione califfale tra tutti i membri della tribù, ossia i Qurayshiti, che restarono fedeli alla figura del terzo califfo Othman; gli sciti invece consideravano papabili per l’elezione solo coloro che fossero discendenti diretti del Profeta, in particolare di Alì e Fatima, unica figlia di Maometto che aveva avuto due figli maschi, Hasan e Hussein. 

Questa differenza portò nel tempo ad una distanza sempre più netta tra le due comunità anche nel modo di esercitare il ruolo di guida dei fedeli: infatti mentre il califfo sunnita è considerato un capo esclusivamente temporale privo di poteri in ambito religioso, l’imam sciita è identificato quale guida spirituale dell'intera comunità in possesso di conoscenze sacre esclusive. In virtù di ciò l'imam è in grado di dispensare insegnamenti e prescrizioni a tutti i fedeli perché guidato direttamente dal Profeta. 

Inoltre, sommariamente, si può sostenere che in relazione alle due comunità si possono indicare ulteriori differenze che riguardano anche il riconoscimento di determinate diversità nell’interpretazione delle Scritture e del diritto. I sunniti infatti fondano la loro fede nell’attenzione all'originale comprensione del Corano e della Sunna, l'insieme di racconti della vita del Profeta dal tono esemplare da imparare a memoria e replicare nella vita individuale.

Gli sciti invece, nonostante si debbano considerare tradizionalisti sotto molti aspetti, private le Scritture di quelle parti che ritengono essere state aggiunte successivamente dal terzo califfo Othman, si mostrano paradossalmente più orientati ad una maggiore innovazione nell'interpretazione della parola di Dio vista la centralità che assume la figura dell’imam all'interno della comunità dei fedeli. [...]




IL CALIFFATO DEGLI ORTODOSSI (632-661)
Dopo la morte di Maometto (570-632), non avendo egli lasciato disposizioni sul suo successore, fu riconosciuto per generale consenso Abu Bakr (573-634), suocero di #Maometto e uno dei primi compagni a seguirlo durante la fuga a Medina.

L’unico tra essi a non concedere il suo consenso fu ʿAlī (599-661), suo nipote e genero, offeso per una decisione presa in sua assenza e per non essere stato egli stesso scelto, visto che era il marito della figlia del Profeta, Fatima (605-633).

La tradizione con la quale Abū Bakr si fece forza per la mancata eredità fu quella dell'aver sentito dire a Maometto che «i profeti non hanno eredi».

Questo avrebbe spaccato qualche decennio dopo l’islam in due rami distinti, tutt’oggi i maggioritari del mondo musulmano: 
gli Sciiti, che ritenevano che solo i discendenti di ʿAlī dovevano essere a capo della comunità musulmana e che quindi non riconoscevano i primi tre #califfi, e i #Sunniti, secondo i quali alla guida politica e spirituale della #Umma poteva accedere qualunque musulmano pubere, di buona moralità, di sufficiente dottrina e sano di corpo e di mente.

Abū Bakr fu il primo califfo di quella che sarebbe stata ricordata come al-Julafa al-Rasidun, “l’epoca dei Califfi illuminati”, corrispondente ai primi quattro, eccezionali perché scelti per “elezione” dai compagni di Maometto.

Abū Bakr 
— califfo nel 632-634 — scatenerò la Ridda, una serie di operazioni militari volte a sottomettere di nuovo le numerose tribù arabe che, con la morte di Maometto, si erano ritenute in diritto di recuperare la loro primitiva libertà d'azione.

Dopo la morte di Abu Bakr, con l'elezione di ʿOmar ibn al-Khaṭṭāb (589-644) — califfo nel decennio 634-644 — e con la Penisola Arabica finalmente riunita sotto il vessillo islamico, le armate musulmane si riversarono in Siria, Persia ed Egitto, conquistando territori inimmaginabili.

Molti cristiani a quel tempo vedevano nei musulmani non degli invasori infedeli, ma dei liberatori dal giogo di Costantinopoli. 

Infatti, pur discriminati sul piano fiscale, i cristiani sottomessi agli Arabi godevano di una pressione fiscale di gran lunga inferiore a quella imposta dall’apparato burocratico bizantino; inoltre, le eresie cristiane — come il monofisismo, molto diffuso in Egitto — erano perseguitate da Costantinopoli, ma tollerate dai Califfi. 

Omar fu assassinato dal suo schiavo a Medina.

Gli succedette ʿUthmān b. ʿAffān (574-656), — califfo nel 644-656 — i cui più grandi meriti furono l’aver fatto redigere la prima versione ufficiale del Corano, fino a quel momento scritto su vari supporti improvvisati: 
foglie della palma, pezzi di legno, pergamena, papiro. 

Le prime quattro copie manoscritte complete furono inviate nelle quattro rispettive città principali della Umma, e le versioni discordanti vennero bruciate. 

Inoltre riformò il calendario musulmano basandolo sulla data dell’Egira. 
Fu assassinato probabilmente sotto ordine di ʿAlī.

Fu così che ʿAlī ibn Abī Ṭālib — califfo nel 656-661 — salì finalmente al Califfato, dopo essere stato scartato per ben tre volte.

Dovette fronteggiare la fitna – guerra civile – e morì assassinato dalla setta dei karingiti, dissidenti islamici nati proprio perché ritenevano giusto uccidere un musulmano che si fosse macchiato di un crimine religioso, in questo caso aveva messo la logica umana di fronte ai dettami del profeta: era nata la prima riflessione teologica all'interno della Umma islamica, nemmeno trenta anni dopo la morte di Maometto.

In un primo momento fu scelto il figlio di Alì come suo successore, Hasan ibn ʿAlī ibn Abī Tālib (624/625-669/670), ma dopo neanche un anno “abdicò” in favore del potente e influente Muʿawiya ibn Abi Sufyan (603-680): iniziava così il califfato degli Omayadi, che sarebbe durato per più di un secolo.


STORIA DELL’ISLAM MEDIEVALE.
A cura di Lorenzo Paci. 
LA DINASTIA ABBASIDE E L’IMPERO ARABO.
[...]

Il califfato abbaside è ritenuto il massimo momento di apogeo della cultura islamica, oltre a risultare il più lungo periodo di dominio dinastico sul mondo arabo, pur perdendo progressivamente potere rispetto alle dinastie di emiri locali (che finirono per riconoscerne l'autorità solo nominalmente) e dovendo abbandonare le province occidentali di al-Andalus, Maghreb e Ifriqiya nelle mani rispettivamente degli Aghlabidi omayyadi e del califfato fatimide.

Ciò che risulta più stupefacente della dinastia abbaside è l'enorme sviluppo culturale che il suo governo portò al mondo arabo: praticamente in ogni campo dello scibile, dall'astronomia all'alchimia, dalla matematica alla medicina, all'ottica e così via, vide gli scienziati arabi in prima linea del progresso scientifico.
Ciò fece del periodo abbaside una età dell'oro islamica che si protrasse dalla fondazione di Baghdad alla metà del XIII secolo

L'allargamento dei domini abbasidi portò però a una progressiva crescita delle difficoltà del califfato, in parte causate dalle differenze etniche e culturali ma, più semplicemente, da una certa incapacità del centro di amministrare saggiamente le periferie.

Nel XI secolo i Turchi Selgiuchidi, provenienti dalle steppe dell'Asia centrale, cominciarono a penetrare nei territori dell'impero e nel 1055 entrarono a Baghdad e, anche se accolti favorevolmente dal califfo, imposero di fatto la loro autorità facendo valere la loro pesante tutela. 

Il colpo finale fu inflitto nel 1258 con l'invasione dei Mongoli, che occuparono Baghdad, la distrussero in parte e massacrarono il califfo e tutti i suoi, ponendo così fine al califfato abbaside.

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LA LUCE DELL’ISLAM SI È SPENTA: LA DISTRUZIONE DI BAGHDAD (1258).
Nel cuore del medioevo Baghdad era una delle città più ricche, belle e popolose del mondo. 
Faro di cultura, oltre a essere un polo commerciale per il passaggio della via della seta, era anche la sede del califfato Abbaside, che oltre a provvedere all’abbellimento della città (dagli autori paragonata a un paradiso in terra) avevano fatto costruire la Bayt Al-Hikma, un’immensa biblioteca contenente opere in lingua greca, sanscrita, araba, medio persiana e copta. Vi era inoltre un’università pubblica e un ospedale, aperto gratuitamente a soggetti di ogni sesso, età e razza

Tutto ciò venne distrutto dalla furia cieca dei mongoli.

Baghdad, pinnacolo della cultura mediorientale e infinitamente superiore alle coeve città europee, venne stretta d’assedio dall’esercito di Hulegu Khan, fratello del khan mongolo Munke. La forza riunita dal condottiero assommava a ben 150.000 uomini, una cifra raggiunta reclutando un guerriero mongolo ogni 10 abitanti. 

Tra i membri della spedizione si trovavano inoltre ingegneri cinesi, tra cui il comandante Guo Kan, soldati cristiani della Georgia 
(decisi a vendicarsi del saccheggio della loro Tbilisi), dell’Armenia e del principato di Antiochia. I cinesi si rivelarono cruciali, poiché capaci di costruire immense catapulte con cui scagliare sostanze incendiarie per martellare le difese della metropoli. 

Stipati in una città non preparata a un assedio, i difensori si arresero dopo un breve assedio: 
il 10 febbraio i mongoli entrarono a Baghdad e iniziò un vero e proprio eccidio. 

Si stimano i morti tra 400.000 e 800.000, cifre enormi, sia per comprendere la grandezza della città, che l’entità del massacro. 

Hulegu chiese ad ogni soldato di portare almeno 20 teste di cittadini, pena la morte. Cinesi e cristiani rimasero inorriditi da tale scempio, tanto che la notizia riecheggiò per l’intero mondo conosciuto. 

Bambini, anziani, donne, nessuno fu risparmiato e pochissimi vennero presi come schiavi. Ma la distruzione non si limitò alle vite umane: la città fu rasa al suolo, la biblioteca con tutti i suoi libri distrutta. Si narra che il Tigri divenne nero dall'inchiostro delle pergamene gettate tra le sue acque

Il califfo vene ucciso secondo la tradizione: 
per evitare che il suo sangue sacro macchiasse la terra, venne avvolto in un tappeto e triturato dal passaggio di cavalli e soldati sopra il suo corpo. 

Dopo che le orde mongole se ne andarono, Baghdad non esisteva più. Anche se venne ricostruita, nonché poi distrutta ancora dalle forze di Tamerlano, non raggiunse mai lo splendore dell’epoca abbaside. 

Inoltre, il millenario sistema di canalizzazione e irrigazione che congiungeva le acque della regione in un labirinto di viadotti acquatici venne distrutto dai mongoli, tale che da portare all'inaridimento dell'intera regione, oggi desertica.

COS’È VERAMENTE IL “JIHAD”?
Il “jihad”, tradotto in genere con “guerra santa”, significa letteralmente lo ‹‹sforzo›› da compiere per percorrere ‹‹la via di Dio›› e riguarda più precisamente la ‹‹lotta contro gli infedeli››
Esso non rientra tra i cinque fondamenti dell’islam (fede, preghiera, elemosina, digiuno, pellegrinaggio), anche se i fedeli sono insistentemente esortati a metterlo in pratica. Tuttavia, gli sciiti, a differenza degli altri gruppi, lo pongono tra i fondamenti della loro religione.

Il dovere del jihad (questo vocabolo non ha plurale) è innanzitutto dovere della comunità nel suo insieme e non del singolo individuo, una condizione permanente che troverà termine soltanto quando il mondo sarà diventato territorio dell’islam o della pace, quando cioè tutti gli uomini avranno accolto la fede in Allah e nel suo inviato Maometto.
In contrapposizione ad alcuni movimenti tradizionalisti e radicali (ISIS), che ancora oggi sostengono l’applicazione della forza in questa spinta missionaria, la maggioranza delle scuole e dei giuristi islamici sottolinea l’aspetto pacifico del jihad.
Accanto all’aspetto generale e a quello missionario, il terzo aspetto essenziale del jihad è quello interiore, consiste nello sforzo che ogni musulmano fa per prestare ad Allah la dovuta obbedienza, osservando e seguendo i suoi comandamenti.

Teocrazia.
Una teocrazia è un sistema di governo nel quale le autorità religiose e politiche si fondono e nel quale si governa secondo precetti religiosi. 

Letteralmente dal greco, il termine "teocrazia" corrisponde al "governo di Dio" mentre in arabo è espresso con il termine "hukuma diniyya" ovvero "governo dei religiosi" proprio ad indicare i limiti strutturali nell'applicabilità della teocrazia.

La separazione tra Stato e religione nell'Islam comincia ad emergere nel IX secolo con la classe degli "ulama" che avevano un certo grado di indipendenza dal califfo. 

Altri studiosi datano questa separazione al 945 quando cessò il doppio potere, temporale e spirituale, del califfo abbaside. 

Tuttavia, ci si accorse ben presto che vi erano aree giuridiche non direttamente derivabili dalla legge coranica e, pertanto, iniziò a svilupparsi il concetto di "siyasa" (politica, governo) volto ad indicare una serie atti giuridici conformi alla legge coranica, ma non derivabili da essa. 

Il concetto di siyasa trovò piena applicazione nell'Impero Ottomano anche se, tali atti, non erano mai superiori né tantomeno eguali alla shari'a, che fungeva da limite costituzionale.



QUESTIONE ISLAMICA. 
In un vecchio libro di Paul Bairoch – Lo sviluppo bloccato – si poteva leggere che intorno all’anno Mille le tre grandi civilizzazioni culturali del mondo di allora, l’arabo-islamica, l’europeo-cristiana e la cino-confuciana erano grosso modo allo stesso livello

Chiunque sia stato a Cordova, a Granada e nell’Andalusia spagnola non ha difficoltà a riconoscere lo splendore e la raffinatezza a cui erano giunti i musulmani di Spagna

Poi, sempre in quel torno di tempo tra il IX e l’XI secolo successe qualcosa, e da allora le tre civilizzazioni culturali hanno cominciato a marciare secondo propri indirizzi e velocità.

È proprio in quell’epoca che Robert R. Reilly in un suo recente volume The closing of muslim mind – How the intellectual suicide created the modern islamist crisis (ISI Book, 2010) individua le cause mentali-culturali che hanno condotto una splendida civilizzazione culturale verso uno dei più grandi drammi intellettuali nella storia umana.

Non occorre aver letto un solo rigo di Carl Schmitt per arguire che il pensiero politico ha origini teologiche e neanche uno di Max Weber per intuire che dalle grandi opzioni religiose e dai voltaggi mentali-culturali che esse determinano derivano esiti economici inaspettati (qui assumo come feconda la tesi di Weber, ovviamente, anche se c’è chi non la ritiene probante a spiegare i take off o i ristagni dell’economia).

Suicidio intellettuale. 
Lo storico delle idee sa che è proprio da come sistemi le cose in cielo che organizzi quelle in terra, e che un dibattito teologico può risultare ferale per un’intera civiltà. È proprio a una serrata disputa teologica avvenuta tra il IX e i X secolo dell’era cristiana all’interno dell’Islam che Reilly fa risalire il declino intellettuale del mondo musulmano; è a partire dal rifiuto del pensiero greco (de-ellenizzazione) di una delle fazioni teologiche in lotta risultata alla fine vincente e all’abbandono progressivo della ragione –il dono dei greci- nella maggior parte del mondo sunnita, che si innescherà il processo di involuzione a cui oggi assistiamo

Da allora in poi sarà la teologia non la filosofia a decidere tutto
le cose del cielo e quelle della terra. Reilly cita la frase del più grande studioso musulmano del XX secolo, Fazlur Rahman: “Un popolo che priva se stesso della filosofia necessariamente si espone a un depauperamento di idee fresche – nei fatti commette suicidio intellettuale”.

La chiusura della mente musulmana. 
Questo dibattito ebbe luogo nei grandi centri della civiltà musulmana – Damasco, Bagdad e Cordova -, e oppose due scuole religiose: 
i Mu’taziliti e gli Asciariti (Ash’arite Islam). 
La corrente Mu’tazilita che nel nostro linguaggio potremmo definire “liberale” e “razionalista”, influenzata dal pensiero greco di cui vuole conservare l’eredità filosofica, intende coniugare fede e ragione. Gli esponenti più noti (per noi) sono Al Farhabi, Avicenna e Averroè, mentre dal lato Ash’arita “tradizionalista” e mistico si situeranno Ibn Hanbal (che ancora oggi è una delle figure di riferimento in Arabia Saudita) e soprattutto Al Ghazali (“pivotal figure” e “la seconda persona più importante nell’Islam subito dopo Maometto”, lo definisce Reilly) che sarà il grande trionfatore, colui che starà rispetto al Profeta come Paolo di Tarso a Gesù Cristo.

Il centro del dibattito, galvanizzato dal primo incontro con la filosofia greca, sarà quello tipico di ogni religione monoteista: lo status della ragione in relazione alla rivelazione di Dio e alla sua onnipotenza. 
In che rapporto sta la ragione nell’incontro dell’uomo con Dio? 
C’è rapporto tra la ragione e la rivelazione divina? 
E la cosa più importante: può la ragione conoscere la verità? 

Deve risultare chiaro, e ciò vale anche per molte questioni che riguardano il cristianesimo, che il Corano, come il Vangelo, non danno delle teologie belle e pronte (né Maometto né Gesù erano teologi) ma è il lavorio incessante proprio della teologia a sviluppare nozioni di Dio allo stesso tempo implicite ed esplicite nei Testi Sacri.

La chiusura avvenne in due modi: 
uno di negare alla ragione di conoscere alcunché, l’altro di licenziare la realtà come non conoscibile. Tipicamente: la ragione non può conoscere, o, non c’è nulla da conoscere. Entrambi gli approcci saranno sufficienti a ritenere irrilevante la realtà, ed entrambi filtreranno attraverso la corrente vincitrice, quella Asharita, nel mondo Sunnita. Radicale volontarismo (Dio è pura volontà) e occasionalismo (non c’è rapporto di causa ed effetto nell’ordine naturale ) saranno perciò i binari entro cui viene fatta la ricognizione della realtà da questo Islam trionfante. Ciò determinerà la negazione del principio di causalità. Nel mondo sunnita musulmano “la realtà diventa inaccessibile” perché le vedute di certi teologi tra nono e dodicesimo secolo sono prevalse, è in estrema sintesi il tema di questo lavoro.

La chiusura della mente musulmana ha creato quella crisi di cui il moderno terrorismo è solo una manifestazione. Essa è molto più vasta e profonda e fa sì che il mondo Arabo stia in fondo a tutte le classifiche dello sviluppo umano; che lo spirito scientifico vi sia ormai moribondo; che nella sola Spagna siano stati tradotti in un solo anno ciò che nell’intero mondo arabo è stato tradotto in un secolo; che alcune persone in Arabia saudita ritengano che nessun uomo è sbarcato sulla luna (a dire il vero anche qualche grillino da noi); che l’uragano Katrina sia ritenuto un chiaro castigo divino.

A fianco di questa lettura ho rispolverato il vecchio libro di Ernest Renan Averroès et l’Averroïsme (4 ed. 1882) dove si possono leggere alcuni brani in cui la visione di Reilly trova singolare conferma retrospettiva. Leggo in Renan: “lo sviluppo intellettuale rappresentato dai dotti arabi fu fino alla fine del XII secolo superiore a quello del mondo cristiano. Ma non riuscì a passare nelle istituzioni; la teologia oppose a questo riguardo una barriera insuperabile. Il filosofo musulmano restò sempre un dilettante o un funzionario di corte. Il giorno in cui il fanatismo fece paura ai sovrani, la filosofia scomparve, i manoscritti furono distrutti per ordine regio, e solo i cristiani si ricordarono che l’islamismo aveva avuto dei dotti e dei pensatori. La filosofia araba offre l’esempio a un di presso unico di una altissima cultura soppressa quasi istantaneamente senza lasciare traccia, e quasi dimenticata dal popolo che l’ha creata. L’islamismo svelò in questa circostanza ciò che è estremamente consentaneo al suo genio. 

Anche il cristianesimo è stato poco favorevole allo sviluppo della scienza positiva; è riuscito ad arrestarlo in Spagna e a ostacolarlo in Italia; ma non l’ha soffocato, e anche gli elementi più elevati della famiglia cristiana hanno finito per riconciliarsi con detta scienza. Incapace di trasformarsi e di ammettere alcun elemento di vita civile e profana, l’islamismo strappò dal suo seno ogni germe di cultura razionale. (…) Il mondo musulmano entrò da allora in poi in questo periodo di ignorante brutalità se non per ricadere in una triste agonia dove si dibatte sotto i nostri occhi”.

Aggiungo infine che la tesi forte e ardita di Reilly– far risalire un dramma mondiale ad alcuni eventi teologici accaduti otto nove secoli fa – diventa più difendibile se la si pone in un’ottica di “lunga durata” come ci ha insegnato Fernand Braudel. Riferito alla nostra realtà questo approccio ci ricorda la tesi di David Abulafia che fa risalire la frattura tra Nord e Sud d’Italia non al Risorgimento ma alla fondazione del Regno Normanno al Sud e dell’Italia dei Comuni al Nord, allo stesso modo in cui Robert Putnam fa risalire il maggior rendimento delle istituzioni al Nord alla maggiore “tradizione civica” risalente al Medioevo e ai Comuni. Voglio dire che se ti poni in una logica di studio delle radici profonde, a furia di scavare scopri che esse sono lunghe in maniera insospettabile, e che c’è un momento in cui si biforcano, prendono una direzione piuttosto che un’altra: compito di chi studia è individuare questo “momento originario” in cui la realtà storica prende una piega piuttosto che un’altra.

IL SUICIDIO INTELLETTUALE MUSULMANO ALLA BASE DELL’ATTUALE CRISI ISLAMICA.
ALFIO SQUILLACI




venerdì 16 novembre 2018

LA GUERRA CIVILE RUSSA TRA BIANCHI E ROSSI

LA GUERRA CIVILE RUSSA TRA BIANCHI E ROSSI – PROLOGO.
Le strazianti vicende che spaccarono il più grande paese del mondo nei cinque anni che andarono dal 1917 al 1922 sono poco conosciute nel mondo occidentale, che sbrigativamente le liquida con la laconica storia che, nella notte tra il 6 e il 7 Novembre – 24 e 25 Ottobre per il calendario giuliano che seguiva al tempo la Russia ortodossa, da lì la dicitura Oktyabr’skaya Revolyutsiya o “Rivoluzione di Ottobre” – i bolscevichi presero il potere assaltando il Palazzo d’Inverno a Pietrogrado, simbolica sede dell’odiato potere zarista.

Ancora ancora si cita l’accordo di Brest-Litovsk, in cui Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, accettò condizioni di pace dure ed umilianti nel marzo del 1918 per portar fuori la Russia dalla guerra, consegnando temporaneamente agli Imperi Centrali migliaia di stabilimenti industriali, centinaia di migliaia di chilometri quadrati delle terre più ricche e densamente popolate, oltre che enormi depositi di riserve naturali sparsi tra Polonia, Bielorussia, Stati baltici, Ucraina, Finlandia.

Infine vi è il capitolo cupo e al contempo misterioso che ha attratto la curiosità di avventurieri, truffatori e studiosi di tutto il mondo, ovvero lo sterminio dell’intera famiglia imperiale, svoltosi la notte tra il 16 e il 17 luglio del 1918 presso Ekaterinburg, in cui non vennero risparmiati neanche la giovanissima principessa Anastasija – celebre per il cartone Disney, che le regala un futuro alternativo dopo una serie di disavventure e la lotta con Rasputin – e l’erede al trono Aleksej, rispettivamente di 17 e di 14 anni.

Ecco, a parte questo, la Russia sovietica è data per assodata dopo la rivoluzione, per poi riapparire nel grande palcoscenico della storia come vittima dell’aggressione hitleriana nel 1941, vincitrice del Secondo Conflitto Mondiale sul fronte degli alleati per poi diventare, subito dopo, il nuovo nemico del mondo libero una volta esaurito il suo scopo come strumento di logoramento delle forze tedesche nel titanico fronte orientale, il più grande teatro di guerra della storia umana.

In questi articoli andremo invece a scoprire cosa accadde durante la Guerra Civile, che rimase per almeno due anni in bilico e che coinvolse, cosa ancora meno conosciuta ai più, quasi tutte le forze militari degli ex alleati della Russia zarista, ormai vincitori del Primo Conflitto Mondiale, che inviarono truppe, vettovaglie, denaro, armi e rifornimenti alle armate bianche nella speranza che queste ultime potessero restaurare l’antico ordine o perlomeno una democrazia oligarchico-autoritaria di tipo capitalista con cui continuare a commerciare senza il timore dell’esperimento comunista.

La Graždanskaja vojna v Rossii o “Guerra Civile Russa” travolse le vite di innumerevoli esseri umani, riportò il paese ad un livello pre-industriale e pre-moderno che azzerava i seppur timidi miglioramenti che la Russia era riuscita ad ottenere negli ultimi cinquant’anni e la condusse al suo quasi completo sfaldamento con secessioni, l’occupazione o la distruzione di buona parte del suo territorio più ricco, la carestia e l’interruzione dei più basilari moderni servizi pubblici che trasformarono Mosca e Pietrogrado in città spettrali, pericolose e degradate come mai visto prima.

Il suo teatro operativo risultava immenso, con i suoi 24 milioni di km² e gli oltre 170 milioni di abitanti. Questo potenziale umano e spaziale era stato rovesciato contro gli austro-tedeschi in un fronte che andava dal Baltico ai Carpazi e contro i turchi ottomani in Armenia, Georgia, Azerbaijan e Anatolia. Tra il 1914 e il 1917 ben quattordici milioni di soldati erano stati mobilitati e via via inviati al fronte, spesso con un solo fucile ogni due o tre soldati, a fare da carne da cannone contro gli esplosivi ad alto potenziale, le mitragliatrici e le truppe ben addestrate ed equipaggiate di Berlino, che ne aveva falciato in tre anni di guerra oltre la metà. Sono cifre da capogiro, capaci di mandare a pezzi anche il paese più forte e solido, cosa che la Russia non era. Nella sola offensiva Brusilov, organizzata nei mesi estivi del 1916 da un esercito dissanguato che contava già ben cinque milioni di perdite, la vittoria strategica sugli austriaci – poi vanificata dalla controffensiva tedesca – era costata un milione e mezzo di caduti, feriti, prigionieri e dispersi.

Le crude cifre, a questi livelli, perdono di umanità ed è difficile percepirle come tali. 
Eppure, a questi lutti infiniti vanno aggiunte le sofferenze di milioni di uomini e donne del paese che, ormai prostrato dal conflitto, moriva letteralmente di fame mentre l’inflazione andava alle stelle, generando mercato nero, sfruttamenti di ogni tipo e degradazione nelle città e nelle campagne.

Nikolaj II Aleksandrovič Romanov, imperatore di tutte le Russie, risultava cieco e sordo alle voci che si levavano dal suo popolo martoriato e dai comandi militari che, pian piano, si accorgevano che l’opposizione e la ribellione stavano montando tra la truppa, gli operai e i contadini. Stanco della leadership nella conduzione della guerra, decise di rimuovere il comandante in capo del suo stato maggiore, il cugino Nikolaj Nikolaevič Romanov, per prendere in mano lui stesso le redini dell’esercito, peraltro con risultati persino peggiori rispetto ai generali che lo avevano preceduto.

Tutto questo portò, quasi spontaneamente e in modo irresistibile ma non pianificato, ai disordini dei primi mesi del 1917, che a causa dell’ennesima riduzione dei rifornimenti di cibo in città, fecero scoppiare la rivolta dei soviet di operai e soldati – a cui si aggiunse perfino parte della polizia zarista, ultimo baluardo difensivo a favore della dinastia – a Pietrogrado.

Travolto dagli eventi, con la Duma – il parlamento russo che lui aveva sempre osteggiato e tradito, promettendo maggiori poteri legislativi nei bui giorni della prove generali di rivoluzione nel 1905 ma che poi si era rimangiato per tornare all’autocrazia – che aveva formato un governo provvisorio nella sua capitale, lo tzar decise di abdicare. In principio aveva pensato di lasciare il trono al figlio malato di emofilia Aleksej, all’epoca tredicenne, ma poi ci aveva ripensato in favore del fratello Michail Aleksandrovič Romanov. A questa decisione di abdicazione, stabilita il 15 marzo del 1917, si oppose il ministro della giustizia Aleksandr Fëdorovič Kerenskij, vero leader di quella primissima fase rivoluzionaria, che riuscì ad ottenere la rinuncia al trono da parte di quest’ultimo già il giorno successivo alla deposizione di Nikolaj II, decretando de facto la fine del dominio trisecolare della dinastia Romanov sul paese e in generale della monarchia.

Da quel momento il potere effettivo passò a Kerenskij che, uomo carismatico membro del Partito Socialista Rivoluzionario, in principio alleato e poi avversario dei bolscevichi, più radicali nella loro lotta alla borghesia e ai membri del vecchio regime. Al contrario Kerenskij cercò fino alla fine di coinvolgere proprio questi ultimi, unendoli alla fazione socialista moderata nella creazione di un nuovo governo democratico-liberale su cui gettare le basi per il futuro del paese. Divenuto all’apogeo del suo potere e prestigio, oltre che ministro della giustizia, anche quello della guerra, prese però la fatale decisione di mantenere gli impegni con gli alleati di Francia e Gran Bretagna e proseguire così il conflitto contro gli Imperi Centrali.

L’ultima grande offensiva russa della Grande Guerra prese il suo nome e coinvolse ben quattro armate in Galizia. Durata appena venti giorni e costata altre 60.000 perdite, fu un pesante scacco per il governo provvisorio e indebolì grandemente la sua leadership, rimasta sorda alle sempre più forti richieste di pace del popolo ormai esausto. 

Lavr Georgievič Kornilov organizzò quindi un colpo di Stato militare che istaurò una breve ed effimera Repubblica Russa, che rimase in vita appena un mese ma bastò a forzare la mano a Kerenskij che si alleò, armandoli, con i bolscevichi di Lenin e Trotskij, che lo aiutarono a rovesciare il golpe ma di fatto posero le basi anche per la fine del suo governo.

Prima delle elezioni che non erano sicuri di vincere i due leader fecero scattare la precedentemente citata Rivoluzione d’Ottobre, con l’assalto al Palazzo d’Inverno celebrato dal film di propaganda “Oktjabr’” – “Ottobre”, di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, realizzato nel 1928.

Kerenskij fuggì nell’antica città di Pskov, da cui cercò di reprimere la ribellione venendo però sconfitto pochi giorni dopo a Pulkovo, ad appena una trentina di chilometri dal centro della capitale. Umiliato e consapevole di non avere più sufficiente sostegno per ribaltare la situazione, decise di espatriare in Francia, lasciando campo libero ai due fronti che si sarebbero scontrati negli anni successivi: i rossi di Lenin e i bianchi di Kornilov, Denikin, Kolčak, Judenič e Wrangel.




Alberto Massaiu

https://www.albertomassaiu.it/guerra-civile-russa-prima-parte/?fbclid=IwAR2DkWm9AoycIaYD2UYpclRLgYB10mMW7aULFl8USlWm328g0hcONzgIhUg


Romanticismo ed idealismo

Il Romanticismo come esaltazione del sentimento.
[...] nell'uso comune quasi sempre [si] identifica il termine "romantico" con gli aggettivi "sentimentale" "poetico" ecc.
Tuttavia, quest'accezione ristretta del termine [...] con il tempo ha finito per apparire riduttiva: il suo rischio [...] è di privilegiare esclusivamente l'aspetto letterario e artistico del Romanticismo, mettendone in ombra le componenti filosofiche.

[Il] Romanticismo [...] è pieno di ambivalenze, poiché in esso coesistono, ad esempio, il primato dell'individuo e quello della società, l'esaltazione del passato c l'attesa messianica del futuro, l'evasione nel fantastico e il realismo, il titanismo e il vittimismo, il sentimentalismo e il razionalismo ecc.

[...] atteggiamento, che è tipico della cultura romantica: la polemica contro l'intelletto illuministico. [...] entrambe mirano a risolvere il medesimo problema, ovvero il ritrovamento di una via per l'Assoluto

Ora, è soltanto sulla base della constatazione di tali atteggiamenti similari che possiamo catalogare alcuni autori come "romantici", distinguendoli così da quelli di altre età, e che possiamo dire, ad esempio, che mentre Voltaire e Diderot sono degli "illuministi" Novalis, Schelling e Schleiermachcr sono dei "romantici".

Tratti che caratterizzano la "filosofìa romantica".
[La] Germania costituisce l'anima e il centro, soprattutto filosofico, del Romanticismo europeo, ci soffermeremo in particolare sul Romanticismo tedesco.

Il rifiuto della ragione illuministica e la ricerca di altre vie d'accesso alla realtà e all'Assoluto.

La polemica contro la ragione illuministica.
[...] I romantici [...] sono tutti d'accordo nel respingere la ragione illuministica. 
Infatti, come si e visto, il Romanticismo nasce proprio con il ripudio di quel tipo di ragione della quale l'Illuminismo aveva fatto [...] il proprio strumento interpretativo del mondo. Già incriminata del "bagno di sangue" della Rivoluzione francese e del militarismo napoleonico, la ragione dei philosophes viene anche ritenuta incapace di comprendere la realtà profonda dell'uomo, dell'universo e di Dio.
Di conseguenza, messa da parte la ragione prevalentemente empiristico-scientifica dell'Illuminismo e del criticismo, che aveva sbarrato le porte alla metafìsica, i romantici cercano altre vie di accesso alla realtà e all'infinito [...].

L'esaltazione del sentimento. 
Alcuni, soprattutto poeti e artisti, individuano nel sentimento l'organo più funzionale per rapportarsi alla vita e per penetrare nell'essenza [...] dell'universo.

Quella del sentimento è una categoria spirituale che l'antichità classica aveva per lo più ignorato o disprezzato, e che soltanto il Settecento illuministico aveva cominciato a riconoscere nella sua forza. 

Nel Romanticismo il sentimento finisce per acquistare un valore predominante, soprattutto in virtù delle idee diffuse dal movimento letterario-politico denominato Sturm und Drang (cioè, letteralmente, "Tempesta e Impeto"), che per primo denuncia l'incapacità della ragione finita dell'uomo, nei limiti a essa imposti da Kant, di cogliere gli aspetti più profondi della realtà.

Il sentimento come organo dell'infinito.
[...] il sentimento di cui parlano i romantici sia qualcosa di più profondo e "intellettuale" del sentimento comunemente inteso [...], il sentimento viene ritenuto in grado di aprire a nuove dimensioni della psiche e di risalire alle sorgenti primordiali dell'essere. 

Anzi, il sentimento appare talora come l'infinito stesso [...]. In ogni caso esso si configura come il valore supremo [...]. 


Lo Sturm und Drang, cioè “tempesta e impeto”.
Alla ragione finita, cioè alla ragione di cui Kant aveva segnato le competenze e i limiti, lo Sturm und Drang contrappone la fede e il sentimento, sole facoltà capaci di cogliere gli aspetti più profondi della realtà, che rimangono inaccessibili alla ragione.

In questa prospettiva anti-illuministica si colloca anche il rinnovato interesse per il mondo naturale, interpretato non più in chiave meccanicistica, ma organicistica.

Le idee dello Sturm und Drang influenzano i giovani Schiller e Goethe, i quali tuttavia saranno indirizzati dalla filosofia kantiana ad ammettere il valore della ragione anche nella comprensione e nel chiarimento di ciò che ragione non è, cioè della vita, del sentimento, dell’arte e della natura. Pertanto questi due autori, se da un lato riflettono alcuni temi del nascente Romanticismo, dall’altro confluiranno nel classicismo.

L'arte come chiave di lettura della realtà.
[Il] concetto dell'arte come intuizione filosofica in grado di attingere le profondità originarie della vita e di possedere l'infinito trova la sua più nota concettualizzazione in Schelling, che nell'arte individua l'organo tramite cui avviene la rivelazione dell'Assoluto a se medesimo.

[...] Schelling arriva a dire che l'universo è nient'altro che un'immensa opera d'arte generata da quel «poeta cosmico» che è l'Assoluto[...]  fin dall'inizio tra i romantici scoprono nell'arte gli attributi stessi di Dio: l'infinità e la creatività.

L'estetica romantica.
Ripudiati il principio di imitazione e le regole classicistiche, l'estetica romantica si configura cosi, nel modo più esplicito e impegnato, come un'estetica della creazione, poiché se all'uomo morale si riconosce ancora la necessità di un limite, di un ostacolo, al poeta è attribuita una libertà sconfinata e all'arte una spontaneità assoluta, che ne fa un'attività in perenne divenire, ossia dotata di inesauribile dinamicità creativa.

Storicamente, il Romanticismo tedesco ha come luogo di nascita la città di Jena.

I contatti con i filosofi idealisti.
Gli Schlegel stringono inoltre rapporti con Fichte, che hanno conosciuto a lena nel 1796 e di cui subiscono l'influsso filosofico, tanto da attribuirgli la paternità ideale dello stesso movimento romantico, e con Schelling (v. cap. 3), il cui pensiero sembra costituire, a un certo punto, la più compiuta incarnazione filosofica delle nuove idee. 

Lo stesso Hegel, amico negli anni giovanili di Hòlderlin e di Schelling, ha modo di conoscere le dottrine estetiche e filosofiche del cenacolo degli Schlegel, che in seguito criticherà aspramente, pur essendo inevitabilmente influenzato dal generale clima romantico.

Nel 1801, alla morte di Novalis, il gruppo di Jena si scioglie ma le sue idee si diffondono rapidamente in altri centri della Germania (Monaco, Dresda, Heidelberg ecc.) e all'estero.

[...] Hegel prende una drastica posizione polemica contro le varie filosofìe del sentimento e della fede, affermando che solo mediante la logica e la ragione, e non attraverso le nebulosità del pensiero poetico o mistico, risulta possibile un discorso fondato sull'infinito.
Rifacendosi alla distinzione kantiana tra intelletto e ragione, Hegel tende ad addossare al primo tutti i difetti che i romantici avevano attribuito alla scienza "analitica" ed empiristica dell'Illuminismo, e ad assegnare alla seconda, intesa alla maniera "dialettica", tutte le prerogative che i poeti avevano ascritto all'arte o alla fede, ossia:

■ la virtù di andare oltre la superficie del reale e di coglierne le strutture profonde;
■ l'idoneità a captare l'infinito e l'assoluto;
■ l'attitudine a pensare in modo sintetico e organico, ossia a spiegare le parti in relazione al tutto;
■ la predisposizione ad afferrare la dimensione processuale, cioè storica, della realtà.

Il senso dell'infinito.
La ricerca romantica dell'infinito.

Contrariamente a Kant, che aveva costruito una filosofia del finito e aveva fatto valere in ogni campo il principio del limite, i romantici cercano ovunque l'oltre-limite, ovvero ciò che rifugge dai contorni definiti e si sottrae alle leggi dell'ordine e della misura.

[...] l'infinito si qualifica come il protagonista principale dell'universo culturale romantico.

Tutti d'accordo nell'assegnare un ruolo primario all'infinito, i romantici si differenziano invece per il diverso modo di intenderlo e di concepirne i rapporti con il finito (l'uomo, la natura, la storia ecc.).

Il modello prevalente e quello panteistico.
Infatti il sentimento dell'immedesimazione (Eirìfiihhing) tra infinito e finito è cosi forte da far sì che i romantici, almeno all'inizio, tendano a concepire il finito come la realizzazione vivente dell'infinito, sia esso inteso alla maniera di un panteismo naturalistico di stampo spinoziano-goethiano, che identifica l'infinito con il ciclo eterno della natura, oppure di un panteismo idealistico, che identifica l'infinito con lo Spirito, ossia con l'umanità stessa, e che fa della natura un momento della sua realizzazione.

Modello trascendente.
Accanto al modello panteistico troviamo anche un'altra concezione dei rapporti tra finito e infinito, in virtù della quale l'infinito si distingue in qualche modo dal finito, pur rivelandosi in esso.

In questo caso il finito (l'uomo e il mondo) non appare più come la realtà stessa dell'infinito, ma come la sua manifestazione più o meno adeguata.

Pertanto, se il primo modello, sostenendo l'identità tra finito e infinito, è una forma di immanentismo e di panteismo, il secondo modello, affermando la distinzione tra finito e infinito, è una forma di trascendentismo e di teismo, che ammette la trascendenza dell'infinito rispetto al finito e considera l'infinito stesso come un Dio che è al di là delle sue manifestazioni mondane.

Ovviamente, mentre il panteismo si accompagna a una religiosità cosmica, diversa dalle fedi positive, il trascendentismo suole accompagnarsi, per lo più, all'accettazione di una qualche religione storica.

La vita come inquietudine e desiderio dell'infinito.
La Sehnsucht, l'ironia e il titanismo.
Un altro dei motivi ricorrenti della cultura romantica, presente nei poeti e nei filosofi, è la concezione della vita come inquietudine, aspirazione, brama, sforzo incessante. I romantici ritengono infatti che l'uomo sia in preda a un "demone dell'infinito", il quale fa sì che egli - insofferente di ogni limite e mai pago della realtà così com'è - viva in uno stato di irrequietezza e di tensione perenne, che lo porta a voler sempre trascendere gli orizzonti del finito.

Due tra le più noie esemplificazioni di questo modo di essere sono lo "spirito faustiano" delineato da Goethe, e lo Streben teorizzato da Fichte, che vede l'io impegnato in un infinito superamento del finito, coincidente con una battaglia mai conclusa per la conquista della propria umanità.

Di conseguenza, si può dire che l'intuizione romantica dell'uomo sia in funzione di quell'anelito all'infinito che è proprio di tale corrente culturale. Infatti è solo in relazione alla "brama di infinito" che si comprendono alcuni dei più emblematici "stati d'animo" romantici, che costituiscono l'oggetto preferito delle rappresentazioni letterarie.

L'espressione Sehnsucht, che può essere tradotta in italiano con "desiderio", "aspirazione struggente", "brama appassionata" ecc., costituisce «la più caratteristica parola del Romanticismo tedesco», poiché sintetizza l'interpretazione dell'uomo come desiderio e mancanza, ossia come desiderio frustrato di qualcosa (l'infinito, la felicità... ) che sempre sfugge.

La Sehnsucht (DESIDERIO) si identifica infatti con quell'aspirazione verso "il più" e "l'oltre" che, non trovando confini né mete precise, si risolve inevitabilmente, in un «desiderio di avere l'impossibile, di conoscere il non conoscibile[...].

[...] Sehnsucht tenda spesso a capovolgersi nel sentimento della noia, ossia del vuoto o della nullità delle cose e delle esperienze umane.
La situazione esistenziale implicita nel DESIDERIO, nella tensione verso l'Assoluto, si accompagna a due atteggiamenti psichici ben precisi: l'ironia e il titanismo.

Ironia.
L'ironia consiste nella "superiore"coscienza del fatto che ogni realtà finita, e quindi ogni impresa umana, grande o piccola, è nulla di fronte all'infinito.
Come tale, l'ironia e una conseguenza diretta del principio romantico secondo cui l'infinito può avere innumerevoli manifestazioni, senza che nessuna gli sia veramente essenziale: essa, infatti, consiste nel non prendere "sul serio" le manifestazioni particolari dell'infinito (la natura, le opere, l'io) e nel rifiutarsi di considerarle come cosa salda, in quanto non sono altro che espressioni provvisorie.

La filosofia è la vera patria dell'ironìa, che potrebbe venir definita bellezza logica.
(Schlegel)

La filosofia scioglie ogni cosa, relativizza l'universo. Come il sistema copernicano, essa scardina i punti fìssi e rende sospeso nel vuoto ciò che prima posava sul solido. Essa insegna la relatività di tutti i motivi e dì tutte le qualità.
(Novalis)

Il titanismo.
Se l'ironia palesa una sorta di filosofico humour, derivante dalla coscienza dei limiti del finito in quanto tale, il titanismo esprime invece un atteggiamento di sfida e di ribellione, proprio di chi si propone di combattere, pur sapendo che alla fine risulterà perdente e incapace di superare le barriere del finito. Tante vero che il titanismo, talora, mette capo al suicidio, visto come atto di sfida estrema verso il destino.

Il titanismo è detto anche "prometeismo" perché i romantici lo personificano nel mitico titano greco Prometeo, il quale,avendo rotto l'ordine fatale del mondo per donare agli uomini il fuoco, viene condannato da Zeus ad avere perennemente il fegato divorato da un'aquila.

[...] i romantici tendono a vedere in Prometeo il simbolo della ribellione.
L'atteggiamento opposto, ma complementare, al titanismo è il vittimismo, ossia la tendenza a sentirsi schiacciati da forze superiori (il destino, la società, la natura ecc.).


Tra i temi e gli atteggiamenti elencati, ce ne sono alcuni che non si ritrovano nel Romanticismo tedesco: evidenziali uno per uno.


  • affermazione della ragione dialettica
  • attenzione agli sviluppi del sapere scientifico
  • celebrazione della fede religiosa
  • concezione della vita come aspirazione e desiderio
  • culto dell’arte
  • esaltazione del sentimento
  • ricerca dell’ordine e della misura
  • rifiuto della metafisica
  • rifiuto della ragione illuministica
  • senso della nullità del finito


L'ironia e il titanismo.
L'inquietudine romantica dell'uomo che sa di tendere verso qualcosa che non potrà mai raggiungere si traduce in due atteggiamenti distinti: l'ironia e il titanismo.
Mentre l'ironia consiste nella coscienza del fatto che ogni realtà finita è un "nulla" di fronte all'infinito e pertanto va considerata nella sua mancanza e provvisorietà, il titanismo esprime un senso di ribellione a questo stato di cose, un tentativo di sfida tipico di chi cerca di combattere pur sapendo che alla fine dovrà arrendersi all'impossibilità di superare i limiti del finito.

L'amore è un altro dei temi prediletti del Romanticismo tedesco, su cui si soffermano sia poeti, sia filosofi.
L'esaltazione dell'amore discende soprattutto dalla preferenza accordata al sentimento e dalla ricerca di un'evasione dal quotidiano. Infatti l'amore appare ai romantici come il sentimento più forte e come l'estasi suprema, ovvero come la vita della vita stessa.

"L'amore è lo scopo finale della storia del mondo, l'amen dell'universo."
Novalis

Caratteristiche dell'amore romantico.

[Una] caratteristica dell'amore romantico risiede nella ricerca dell'unità assoluta degli amanti, ossia della completa fusione delle anime e dei corpi, in modo tale che «ciò che è due possa diventare uno». Presente nei poeti e negli artisti in generale, quest'aspetto dell'idealizzazione romantica dell'amore è stato espresso da Hegel con le formule più rigorose e significative.

Nelle Lezioni di estetica, ad esempio, Hegel scrive:
"L'amore è identificazione del soggetto con un'altra persona [...] il sentimento per cui due esseri non esistono che in un'unità perfetta e pongono in questa identità tutta la loro anima e il mondo intero. [...] Questa rinuncia a se stesso per identificarsi con un altro, quest'abbandono nel quale il soggetto ritrova tuttavia la pienezza del suo essere, costituisce il carattere infinito dell'amore."

L'amore come manifestazione dell'assoluto.
La terza caratteristica dell'amore romantico è la sua tendenza a caricarsi di significati simbolici e metafìsici. I romantici, infatti, pensano che l'amore, pur rivolgendosi a cose e a creature finite, scorga in esse manifestazioni o segni dell'assoluto, sia inteso panteisticamente nella forma dell'Uno-Tutto, sia interpretato trascendentisticamente nella forma di un Dio creatore. [...] il simbolo dell'universale armonia, ovvero della congiunzione tra uomo e natura, tra finito e infinito.

La nuova concezione della storia.
Un altro degli aspetti caratterizzanti del Romanticismo tedesco è costituito dall'interesse e dal culto per la storia, che fin dall'inizio tende a prendere la forma di uno storicismo antitetico all' "anti-storicismo" illuministico.

In realtà, anche l'Illuminismo si era esplicitamente occupato del mondo storico, proponendone una specifica concezione. Tuttavia, fin dal suo nascere, la cultura romantica procede alla teorizzazione di una nuova filosofia generale della storia, che, pur affondando le sue radici nel tardo Illuminismo tedesco, finisce per presentare caratteri oggettivamente antitetici a quelli dell'elaborazione dell'età dei Lumi.

Il PROVVIDENZIALISMO ROMANTICO.

Mentre per l'Illuminismo il soggetto della storia è l'uomo, per il Romanticismo risulta essere la provvidenza.

Gli esiti fallimentari della Rivoluzione francese e dell'impresa napoleonica avevano infatti contribuito a generare l'idea che a "tirare le fila" della storia non fosse l'uomo, ovvero l'insieme degli individui sociali, ma una potenza extra-umana e sovra-individuale, concepita come forza immanente o trascendente.

La storia finisce allora per apparire come il prodotto di un soggetto provvidenziale assoluto, che si viene progressivamente rivelando o realizzando nella molteplicità degli avvenimenti, dei quali costituisce il momento unificatore e totalizzante.

Guardata da questo punto di vista, la storia prende le sembianze di un processo globalmente positivo, in cui non si trova alcunché di irrazionale o di inutile, e in cui ogni regresso è soltanto apparente. Infatti la storia o è un progresso necessario e incessante, nel quale il momento successivo supera il precedente in perfezione e razionalità, o è una totalità perfetta, in cui tutti i momenti sono ugualmente razionali e perfetti (Hegel).

Sulla base di questa specifica interpretazione della storicità umana in termini provvidenzialistici, l'Illuminismo, agli occhi dei romantici, appare decisamente anti-storicista e la pretesa dei Philosopphes di "giudicare' la storia, rifiutandone alcuni momenti, del tutto insostenibile:

■ in primo luogo perché voler giudicare la storia equivale a intentare un "processo a Dio", che nella storia si manifesta e si realizza;
■ in secondo luogo perché ogni momento della storia costituisce l'anello necessario di una catena processuale complessivamente positiva;
■ in terzo luogo perché giudicare il passato alla luce dei valori del presente (che per gli illuministi erano i valori stessi dell'uomo: pace, benessere, pubblica felicità, libertà ecc.) significa misconoscere l'individualità e l'autonomia delle singole epoche, che hanno ognuna una specifica ragion d'essere in relazione alla totalità della storia e che perciò si sottraggono a ogni giudizio critico e comparativo.

Il giustificazionismo e il tradizionalismo romantico.
Tutto ciò spiega perché Io storicismo romantico si accompagni, per lo più, a una forma di tradizionalismo che non solo giustifica, ma in qualche modo "santifica" il passato, ritenendolo espressione dell'intervento di Dio nella storia e linfa vitale del presente e del futuro. Anche su questo punto la spaccatura tra l'Illuminismo francese e il Romanticismo tedesco è netta e radicale.

L'Illuminismo, che guardava al mondo storico in maniera umanistica e problematica, si era avvalso di una filosofia critica e riformatrice, che voleva liberarsi del passato poiché in esso scorgeva quasi esclusivamente errori, pregiudizi, violenze ecc. Il Romanticismo, che guarda alla storia secondo schemi provvidenzialistici e necessitaristici,

Pag. 588 (Pearson - L'ideale e il reale)



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