martedì 22 maggio 2012

Eraclito. Panta Rei. Tutto Scorre. non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume


Panta Rei – Tutto scorre – Eraclito



Diceva Eraclito, più di duemila anni fa, che non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume.

Dicevano i Greci sempre più di duemila anni fa che l’ “adunaton”, l’impossibile per eccellenza, è che ciò che è avvenuto possa non essere avvenuto. Ogni nostro istante non è mai uguale all’altro e noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro, da un tempo all’altro.
Tutto cambia dentro e fuori di noi anche se non sempre riusciamo a percepire questo continuo cambiamento. La cosa più appariscente di noi, il nostro corpo, da un istante all’altro è sempre diverso e noi viviamo in questa continua diversità e di questa continua diversità.

In noi nasce e muore qualcosa in ogni momento della nostra esistenza ed in ogni momento noi non siamo più quello che eravamo un momento prima, il nostro corpo è cambiato, la nostra mente è cambiata, il nostro pensiero è un altro pensiero che lo si voglia o no. Perdiamo cellule del nostro corpo perdiamo neuroni del nostro cervello che non torneranno mai più, perdiamo ricordi sommersi da altri continuamente sorgenti che si sovrappongono pronti anch’essi a sparire nel nulla, nel vuoto della nostra memoria e gli stessi che crediamo di conservare sono diversi da un momento all’altro. Per quanto grande sia quello che noi chiamiamo memoria, essa non è mai capace di trattenere fermare per un attimo il nostro continuo divenire.

Tutti gli eventi sono continuamente mutevoli come il paesaggio che ci corre via veloce da un finestrino di un treno e del quale ben poco riusciamo a trattenere. Un po’ di anni fa ne ebbi questa precisa sensazione in un particolare momento. Mi trovavo un giorno nell’isola di Giava sulla costa sud orientale ed era verso il tramonto. Avevo lasciato la via asfaltata e mi ero addentrato a piedi in un sentiero appena segnato in una fitta vegetazione equatoriale per cercare le rive di un fiume che non doveva essere molto distante. Non c’era nessun motivo per farlo se non la curiosità di vedere qualcosa che supponevo ci fosse, qualcosa che era semplicemente un fiume, un fiume come un altro, come tanti altri fiumi. Ma volevo vedere proprio quello. Dopo un tortuoso percorso del sentiero in un mondo di ombre sempre più fitto, nel silenzio profondo che spesso precede il calare del sole, arrivai improvvisamente sulla riva fra la fitta vegetazione, uscendo nella luce.
Non c’era neppure la sponda del fiume perché le piante sorgevano dall’acqua nascondendola completamente e dovetti attaccarmi ad un piccolo albero per non scivolare. La corrente era veloce, molto veloce e l’acqua di color grigio cupo come il cielo che si rispecchiava, si frangeva in superficie in un infinità di sottili rivoli che intrecciandosi fra loro, componendosi e ricomponendosi in mille modi, creavano una serie di disegni in continua mutazione che l’occhio percepiva ed immediatamente perdeva senza possibilità di fermarne uno, di individuarlo e ricordarlo. Un silenzio assoluto, Il moto stesso dell’acqua non produceva neppure un leggero fruscio. Gli uccelli che fino a pochi istanti prima mi avevano accompagnato con il loro canto ora tacevano. Non so quanto tempo sono rimasto là, forse un secondo o forse un’ora. In quegli istanti guardavo l’immobilità del moto e questa espressione contraddittoria solo in apparenza, mi ha accompagnato poi per tutti gli anni seguenti e l’immagine più vera? dell’immobilità del moto che non oso chiamare eterno perché ancora non ho compreso il significato di questa parola.


Ma mentre, attaccato al mio albero, quasi sospeso sull’acqua che fuggiva via dai miei sensi verso una dimensione irraggiungibile, improvvisamente alle mie spalle il tempo irruppe con la violenza della sua inesorabilità, con il suo "verbo", con il suo suono, riempiendo anche gli angoli più nascosti della boscaglia ma anche le mie fibre più interne. Il suono di una enorme campana invisibile era esploso improvviso e le vibrazioni si propagavano attorno e si prolungavano verso un tempo ed uno spazio inesauribile ed indefinibile senza direzione. Non sapevo che era una campana, una enorme campana di bronzo che avrei trovato di lì a poco sulla via del ritorno e che percossa con una grossa mazza di legno emanava quel suono basso e profondo che vibrava a lungo nella foresta. Lungo il sentiero del ritorno c’era una tettoia nascosta nel folto della vegetazione, costruita con grossi tronchi che sorreggevano la grande campana e ne sopportavano il peso. Era lì da gran tempo e chi passava poteva far risuonare il suo richiamo. Provai anch’io ed ascoltai il suono che si diffondeva ed espandeva, sommergendo come una ondata tutto attorno e provai ad immaginare verso chi quel mio messaggio fosse diretto nel e fuori del tempo.

Mi ricordai di Eraclito, mi ricordai di me stesso e di come cambiavo continuamente e di come non fossi mai, in ogni istante lo stesso come quelle piccole onde che il ramo di una pianta generava in continuazione sull’acqua mai uguali una all’altra mai uguali a se stesse.
Ecco che un giorno nel quale si compivano per me un certo numero di anni della mia vita, volli cercare di documentare me stesso attraverso quelle variazioni che sono di più immediata percezione e per me e per chi mi guardi da fuori, le variazioni della mia fisionomia che avrei potuto definire con “variazioni fisionomiche di essere umano nel corso del ventesimo secolo. Per registrarle in qualche modo ho ricercato fra le vecchie fotografie quelle che bene o male mi rappresentavano sia pure con discontinuità nelle varianti fisionomiche nel corso degli anni, la maggior parte foto di vecchie tessere. Eccole qua ed eccomi qua a domandarmi che cosa ha a che fare questa figura di vecchio con quella del giovane soldato o quella dell’infante. Ma!! Chissà se hanno mai avuto qualcosa in comune fra loro se non il tempo inesorabile che le portava via.
Tratto dal sito http://www.cigv.it/

http://www.pomodorozen.com/zen/panta-rei-tutto-scorre-eraclito/




Eraclito, vissuto ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C., è di famiglia aristocratica (addirittura discendente da famiglia regale) e lo stile stesso in cui scrive risente di questa influenza aristocratica (nella sua opera arriverà a dire: "UNO È PER ME DIECIMILA, SE È IL MIGLIORE"). Nel suo libro  Peri fusewV  (Sulla natura) traspare palesemente un atteggiamento di disprezzo per la massa popolare (definita come un branco di "cani" che gli abbaiano contro). Va subito precisato, però, che l'aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale. Secondo la tradizione, Eraclito avrebbe depositato il suo libro (di cui ci sono pervenuti parecchi frammenti) nel tempio di Artemide ad Efeso: egli compie questo gesto senz'altro per il fatto che il tempio era il luogo più sicuro per la custodia (all'epoca le biblioteche non c'erano) , ma anche perché era tipicamente aristocratico riallacciarsi al sapere della casta sacerdotale ed arcaica. Eraclito ritiene dunque che il tempio sia l'unico luogo idoneo a custodire il suo scritto: egli infatti NUTRE GRANDE SFIDUCIA NELLA POSSIBILITÀ CHE IL MESSAGGIO DA LUI CONSEGNATO ALLO SCRITTO POSSA ESSERE COMPRESO DALLA MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI. CIÒ DIPENDE DAI CONTENUTI DI ESSO, LONTANI DALLE ESPERIENZE DELLA VITA COMUNE, MA ANCHE DAL LINGUAGGIO E DALLA FORMA NEI QUALI QUESTI CONTENUTI SONO ESPRESSI. In effetti ancora oggi non si è riusciti a comprendere la natura dell'opera di Eraclito, sebbene possediamo numerosi frammenti (oltre 100): essa era infatti costituita di aforismi, vale a dire paginette autonome e singole. Il fatto che fosse un libro "aforistico" non significa che fossero idee campate in aria o che Eraclito saltasse di palo in frasca, cambiando in continuo argomenti: ogni frase, ogni pagina può in qualche modo essere collegata ad altre in modo argomentativo. Va senz'altro notato che ERACLITO FU PROBABILMENTE IL PRIMO A FARE COLLEGAMENTI FORMA-CONTENUTO: dal momento che i contenuti erano complessi, anche lo stile e la forma dovevano essere complessi: È COME SE ERACLITO VOLESSE SOTTOLINEARE LA DIFFICOLTÀ DEL CONTENUTO TRAMITE LA DIFFICOLTÀ DELLA FORMA (TANT'È CHE VENIVA SPESSO DENOMINATO "L'OSCURO" O "IL PIANGENTE"): Aristotele stesso, nel tratteggiare le qualità stilistiche proprie dei filosofi, cita Eraclito come esempio in negativo. SOCRATE STESSO DICE CHE PER PENETRARE NEL SENSO DEI DISCORSI DI ERACLITO OCCORREREBBE ESSERE DEI "PALOMBARI DI DELO". Ma Eraclito era pienamente consapevole della difficoltà di interpretazione del suo libro: da buon aristocratico, diceva che non tutti gli uomini erano in grado di capire cosa dicesse: solo i migliori ce l'avrebbero fatta. In Eraclito perfino gli accenti sono ambigui: IL TERMINE GRECO "BIOS" (bioV) , AD ESEMPIO, LETTO "BIÒS" SIGNIFICA "ARCO" , MA LETTO "BÌOS" SIGNIFICA "VITA" (SONO ADDIRITTURA ANTITETICI I SIGNIFICATI: L'ARCO È UN QUALCOSA CHE PROVOCA LA MORTE, CHE È L'OPPOSTO DELLA VITA). E' INTERESSANTE E FAMOSO IL FRAMMENTO IN CUI ERACLITO DICE "LA NATURA AMA NASCONDERSI" (fusiV filei kruptein) : CON CIÒ, EGLI INTENDE SOTTOLINEARE CHE NON È FACILE TROVARE LA REALTÀ, MA OCCORRE APRIRE BENE GLI OCCHI; LO STESSO STILE ERACLITEO – COSÌ OSCURO - PUÒ ALLORA ESSERE INTESO COME UN INVITO A STARE IN GUARDIA. In Eraclito vi è UNA CONVINZIONE DI FONDO: CHE L'INTERA REALTÀ SIA GOVERNATA DA UN SOLO PRINCIPIO (come dicevano i Milesi), A CUI TUTTO È COLLEGATO. Dirà che QUESTI LEGAMI CHE LEGANO LA NATURA SONO DETTATI DAL LogoV (Logos): NEL MONDO C'È UNA RAGIONE CHE LO FA ANDARE AVANTI E UN DISCORSO CHE LO LEGA. SIA RAGIONE SIA DISCORSO VENGONO PROPRIO TRADOTTI AMBEDUE CON "LOGOS", TERMINE CHE RIVESTE UNA MIRIADE DI SIGNIFICATI. Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del LOGOS COSMICO. QUESTO È COMUNE A TUTTI GLI UOMINI, MA ESSI NON SONO IN GRADO DI COMPRENDERLO PERCHÈ RESTANO RINCHIUSI NEL LORO ORIZZONTE PRIVATO. ERACLITO PARAGONA QUESTI UOMINI A COLORO CHE DORMONO E LI CHIAMA "DORMIENTI", IN CONTRAPPOSIZIONE CON COLORO CHE SON DESTI: quale è la differenza tra le due categorie? Quando siamo SVEGLI siamo in grado di METTERE IN COMUNE LE ESPERIENZE: non siamo soli, ma c'è un comune terreno d'intesa. Quando invece DORMIAMO e CIASCUNO DI NOI VIVE NEI SOGNI IN UN MONDO INTERAMENTE SUO. I DORMIENTI quindi, nel caso degli uomini che Eraclito così definisce, sono coloro che RINUNCIANO AL LOGOS COSMICO, CHE CI CONSENTE DI CAPIRE INSIEME LA REALTÀ. Certo suona strano che un aristocratico parli di LOGOS COMUNE-COSMICO: in realtà la questione è che quel "comune" logos "cosmico" si riferisce non a tutti gli uomini, ma a pochi: SOLO AI MIGLIORI , E NON AI DORMIENTI. Ma cerchiamo di comprendere che cosa Eraclito intenda con "LOGOS COMUNE, COSMICO": come accennato, LA PAROLA LOGOS È POLISEMANTICA ed è quindi bene non tradurla. Essa SI RICONNETTE AL VERBO GRECO "LEGO", CHE IN ORIGINE SIGNIFICAVA "LEGARE" MA CHE POI PASSÒ A SIGNIFICARE "PARLARE". Logos vuol dire, tra le varie cose, DISCORSO: c'è l'idea di PIÙ PAROLE CHE VENGONO TRA LORO LEGATE PER ASSUMERE UN SIGNIFICATO. Può anche significare "DISCORSO INTERIORE" in quanto prima di parlare, si effettua un ragionamento, un dialogo interno a noi stessi. Quindi PASSÒ A SIGNIFICARE "RAGIONAMENTO" e da qui "RAGIONE", ossia la facoltà di effettuare ragionamenti. Per Eraclito però i significati della parola logos sono essenzialmente tre: 1) La ragione che governa l'universo 2) Il pensiero che comprende questa ragione universale 3) il discorso che esprime questa conoscenza (dunque il discorso che Eraclito pone per iscritto nel suo testo). COSÌ COME ABBIAMO UN LOGOS DENTRO DI NOI (LA RAGIONE) , ERACLITO DICE CHE ANCHE NELLA REALTÀ CI DEVE ESSERE UN LOGOS COSMICO, dove logos ha valenza di "ragione" : IL LOGOS È QUEL QUALCOSA CHE FA FUNZIONARE L'UNIVERSO. Eraclito afferma che IL LOGOS CHE ABBIAMO NELLA NOSTRA MENTE NON È DIVERSO DA QUELLO COSMICO. Per arrivare a dire questo, probabilmente, Eraclito si deve essere sagacemente chiesto: "COME È CHE QUELLO CHE NOI PENSIAMO ESISTE ANCHE NELLA REALTÀ?". Questo è anche un modo per rispondere alla domanda: "come si ricollegano le leggi della natura e del mondo? ". Di fatto, ERACLITO NEGA L'ESISTENZA DI UN DIO, MA AMMETTE QUELLA DI UNA RAGIONE UNIVERSALE: C'È UN NESSO TRA LA RAGIONE CHE GOVERNA IL MONDO E QUELLA CHE GOVERNA LA NOSTRA MENTE: sono la stessa cosa e dunque l’ambiguità espositiva nell'opera "Perì fuseos" è dettata dal LOGOS STESSO, CHE FÀ SÌ CHE LA NATURA AMI NASCONDERSI. Certo è difficile comprendere questo logos universale, ma non è impossibile: L'UOMO CE LA PUÒ FARE USANDO QUEL FRAMMENTO DI LOGOS A SUA DISPOSIZIONE, INSITO DENTRO DI LUI: LA RAGIONE, che NON È NIENT'ALTRO CHE UN PEZZETTINO DI LOGOS UNIVERSALE DI CUI TUTTI DISPONIAMO. Quindi tutti partiamo dallo stesso livello, ma solo i migliori riescono ad emergere e ad avvicinarsi al logos cosmico. I DORMIENTI SONO COLORO CHE NON CI RIESCONO NÈ CI PROVANO: PER RAGGIUNGERE IL LOGOS UNIVERSALE BISOGNA COOPERARE, NON AGIRE DA SOLI E NEL PROPRIO INTERESSE: Eraclito dice "BISOGNA SEGUIRE CIÒ CHE È COMUNE; INFATTI CIÒ CHE È COMUNE DI TUTTI. MA PUR ESSENDO IL LOGOS DI TUTTI , LA FOLLA VIVE COME SE AVESSE UN PROPRIO ED ESCLUSIVO CRITERIO PER GIUDICARE". Eraclito era del parere che una città per funzionare avesse bisogno delle LEGGI: COME IL LOGOS COSMICO GOVERNA IL MONDO, COSÌ LE LEGGI GOVERNANO LA CITTÀ. ANCHE LE LEGGI (nomoi), COME LA MENTE UMANA, RAPPRESENTANO UN FRAMMENTO DI LOGOS UNIVERSALE. IN ERACLITO MATURA L'IDEA CHE LA LEGGE UMANA DERIVI DA QUELLA NATURALE, della fusiV (natura). TUTTE LE LEGGI UMANE - NELLA MISURA IN CUI SONO GIUSTE - ATTINGONO AD UN'UNICA LEGGE COSMICA. A quei tempi vi era anche chi diceva che le leggi umane fossero puramente CONVENZIONALI e NON C'ENTRASSERO NULLA CON LA NATURA. Sebbene Eraclito arrivi ad ammettere che il principio sia il logos, un'ENTITÀ ASSOLUTAMENTE ASTRATTA, tuttavia EGLI SENTE IL BISOGNO DI INCARNARLO IN QUALCOSA DI MATERIALE, E PIÙ PRECISAMENTE NEL FUOCO. ERACLITO DICE CHE L'UNIVERSO NON È IL PRODOTTO DI DEI O UOMINI, MA UN ORDINE UNIVERSALE UNICO ED ETERNO. EGLI LO IDENTIFICA CON "IL FUOCO SEMPRE VIVENTE" . Con il riferimento al fuoco, Eraclito non intende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi, tradizionalmente attribuita agli ionici a partire da Aristotele (Metafisica, I), dell'unicità del principio. Intende piuttosto insistere sulla PECULIARITÀ DI COMPORTAMENTO DEL FUOCO: si accende e si spegne regolarmente secondo una misura, come appare anche dal sole, che ora brilla (di giorno) e ora si spegne (di notte). La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue INCESSANTI TRASFORMAZIONI è infatti regolata da UNA MISURA. LA MOBILITÀ DEL TUTTO NON È UN DIVENIRE CASUALE O DISORDINATO, MA È REGOLATA SECONDO RITMI PRECISI. Eraclito sostiene che NON SI TRATTI SOLO DELLA SUCCESSIONE DI UN OPPOSTO ALL'ALTRO, DEL GIORNO ALLA NOTTE, DELLA VITA ALLA MORTE E COSÌ VIA. La GUERRA (polemoV) assurge a simbolo e insieme REGOLA DI TUTTO CIÒ CHE AVVIENE NELL'UNIVERSO: QUESTO È CARATTERIZZATO DA UN'ARMONIA SUPERIORE CONSISTENTE NELL'UNITÀ E IDENTITÀ DEGLI OPPOSTI IN TENSIONE TRA LORO (coincidentia oppositorum). Quindi anche per Eraclito LA RICERCA DELL'UNITÀ, AL DI SOTTO DELL'APPARENTE MOLTEPLICITÀ E DISPERSIONE DI CIÒ CHE APPARE AI PIÙ, È L'OBIETTIVO PRIMARIO. LA GUERRA ("POLEMOS È SIGNORE DI TUTTE LE COSE") TRA GLI OPPOSTI NON È ESPRESSIONE DI INGIUSTIZIA, come ritengono i più e come aveva detto Anassimandro: IL DIVENIRE DI TUTTE LE COSE È IL RISULTATO DEL PERENNE CONFLITTO CHE PERMEA IL TUTTO E SI ESPRIME NELL'INCESSANTE TENSIONE E TRASFORMAZIONE DI UN CONTRARIO NELL'ALTRO. Il fuoco suggerisce bene l'idea di questo COSTANTE DIVENIRE, di DINAMICITÀ, di TRASFORMAZIONE e di IDENTITÀ DEGLI OPPOSTI: DOVE C'È IL FUOCO C'È LA VITA, MA IL FUOCO PORTA ANCHE LA MORTE (COME "BIOS" DENOTA SIA LA VITA SIA L’ARCO MORTIFERO). ERACLITO POLEMIZZERÀ MOLTISSIMO CON I PITAGORICI (ED IN PARTICOLARE CON PITAGORA CHE DEFINIRÀ "INVENTORE DI COLTELLI", VALE A DIRE DELL'ARTE TAGLIENTE DELLA RETORICA, CHE MIRA AD AFFASCINARE L'ASCOLTATORE CON DIALOGHI RAFFINATI, MA PRIVI DI VERITÀ), che SOSTENEVANO LA PACE E L'ARMONIA DEI CONTRASTI E CHE VEDEVANO NELLA MUSICA LA STRUTTURA NUMERICA DELLA REALTÀ. PER LUI LA VERA ARMONIA È LA TENSIONE TRA I CONTRASTI (armonia discors): SE PRENDIAMO UN ARCO O UNA LIRA, NOTIAMO CHE ESSI FUNZIONANO FIN TANTO CHE LA STRUTTURA DATA DAL CONTRASTO E DALLA TENSIONE DEGLI OPPOSTI REGGE. DIVENIRE SIGNIFICA PROPRIO PASSARE DA UN OPPOSTO ALL'ALTRO. Mentre nella nostra società si tende a dare un valore negativo alla guerra, Eraclito (e in forza di ciò sarà amatissimo ad esempio da Hegel) dice che POLEMOS (LA GUERRA) È IL PADRE DI TUTTE LE COSE, È CIÒ CHE RENDE LIBERI O SCHIAVI GLI UOMINI. Da notare che NON SI PUÒ CONOSCERE PIENAMENTE UNA COSA SE NON SI CONOSCE IL SUO OPPOSTO: NON SI PUÒ CONOSCERE DAVVERO LA SCHIAVITÙ SE NON SI SA CHE COSA SIA LA LIBERTÀ. Per Eraclito la guerra è una grande cosa anche perchè DETERMINA QUALI SIANO GLI UOMINI PIÙ VALEVOLI E QUELLI INFERIORI: anche nella guerra c'è dunque un frammento di logos universale. PER ERACLITO C'È ARMONIA SOLO QUANDO I CONTRARI SONO IN TENSIONE. In un suo frammento, Eraclito afferma che IL DIAMETRO DEL SOLE SIA DI UN PIEDE UMANO, il che è un'assurdità e lui lo sapeva bene: con quest'affermazione sconcertante egli vuole dire che, COSÌ COME È ASSURDA LA SUA AFFERMAZIONE, TALI SONO ANCHE TUTTE QUELLE CHE SI ARRESTANO ALL’APPARENZA, giacchè "LA NATURA AMA NASCONDERSI". In un altro frammento dice di aver indagato se stesso ("ho indagato me stesso"): salta all'occhio questa affermazione perchè sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto gnwqi sauton (conosci te stesso): lui dice di aver indagato se stesso ed emerge il legame di Eraclito con il mondo arcaico e sacro, tipicamente aristocratico, quel mondo a cui aveva voluto affidare il proprio scritto. Probabilmente quest'affermazione va riferita ad un'importante constatazione di Eraclito: voleva conoscere il logos dell'anima e DICE DI AVER SCOPERTO CHE L'ANIMA NON HA DIMENSIONI, NON È DEFINITA: "PER QUANTO TU POSSA CAMMINARE, E NEPPURE PERCORRENDO INTERA LA VIA, TU POTRESTI MAI TROVARE I CONFINI DELL'ANIMA: COSÌ PROFONDO È IL SUO LÓGOS". Dice che il suo logos è profondo, quasi con l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima. Eraclito biasima anche Esiodo, l'autore di quella specie di Bibbia dei Greci che è la "Teogonia", che tra le varie coppie di contrari aveva individuato il giorno e la notte, ma che non le aveva individuate come identità di opposti. In un frammento Eraclito dice "la via in su ed in giù è unica ed identica": un qualsiasi percorso in pendenza è sia salita sia discesa e ciò significa che le stesse cose possono contemporaneamente essere opposte ed identiche ed in particolare traspare l'identificazione degli opposti: la salita e la discesa sono tra loro opposti, ma si identificano. Interessante è il frammento in cui dice: "il fulmine governa tutte le cose" ; il fulmine è strettamente connesso al fuoco, che governa tutto ed è l'attributo principale di Zeus, il padre degli dei. Gli Stoici pensavano che vi sarebbe stato un grande anno in cui vi sarebbe stato un incendio che avrebbe portato alla conflagrazione del mondo (ekpurosiV) e che dopo ciò ne sarebbe nato uno nuovo. Essi amavano Eraclito perchè pensavano di leggere nei suoi frammenti idee simili, quali la conflagrazione. In effetti c'è un frammento eracliteo in cui si dice che IL FUOCO PUÒ CAMBIARSI IN TUTTE LE COSE E CHE TUTTE LE COSE SI POSSONO CAMBIARE IN FUOCO, ma Eraclito intende semplicemente dire che una parte di cose viene di continuo cambiata in fuoco, e una parte di fuoco viene di continuo cambiata in cose. C'È UN EQUILIBRIO: Eraclito non intendeva assolutamente parlare di conflagrazioni: si tratta di interpretazioni errate da parte degli stoici. Uno dei frammenti senz'altro più famosi di Eraclito è quello che dice : "NEGLI STESSI FIUMI SCENDIAMO E NON SCENDIAMO, SIAMO E NON SIAMO ": troppo spesso è stato interpretato come il manifesto della "FILOSOFIA DEL DIVENIRE", del panta rei ("TUTTO SCORRE"), come se Eraclito ci stesse suggerendo che non possiamo mai bagnarci due volte nelle stesse acque di un fiume, giacchè esse si rinnovano incessantemente. In realtà l’indirizzo dell’incessante divenire che regola la realtà sarà intrapreso, più che da Eraclito (nel quale pure non è assente), dal suo discepolo Cratilo (futuro maestro di Platone): egli ESTREMIZZERÀ LE POSIZIONI DI ERACLITO E DIVENTERÀ IL FILOSOFO DEL "TUTTO SCORRE": a suo avviso È ADDIRITTURA IMPOSSIBILE DARE I NOMI ALLE COSE PERCHÈ ESSE CAMBIANO DI CONTINUO (NOI CHIAMIAMO PO UN FIUME MA NON È CORRETTO, PERCHÈ LE ACQUE SI RINNOVANO IN CONTINUAZIONE E IL FIUME NON È MAI LO STESSO); SI FISSA ARTIFICIALMENTE UNA COSA CHE NON È FISSABILE PERCHÈ IN CONTINUA MUTAZIONE. Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche: È IMPOSSIBILE CONOSCERE QUALCOSA CHE CAMBIA SEMPRE. Quindi in teoria, DAL MOMENTO CHE NON SI POSSONO ATTRIBUIRE NOMI, BISOGNEREBBE LIMITARSI AD INDICARE LE COSE COL DITO, SENZA CHIAMARLE PER NOME. In realtà Eraclito, con il frammento del fiume, sta argomentando in favore della coincidenza degli opposti, mettendo in luce come quando ci immergiamo in un fiume siamo in esso e al contempo non siamo in esso (poiché nel fiume le acque cambiano di continuo). Circa l'identità degli opposti, egli dice anche che "IL MARE È L'ACQUA PIÙ PURA E IMPURA, PER I PESCI POTABILE E SALUTARE, PER GLI UOMINI IMBEVIBILE E LETALE": in questo frammento si può anche scorgere il famoso RELATIVISMO ASSOLUTO DI PROTAGORA, ad avviso del quale IL MIELE C'È CHI LO SENTE DOLCE E CHI LO SENTE AMARO, MA NON SI PUÒ EFFETTIVAMENTE DIRE SE ESSO SIA AMARO O DOLCE: DIPENDE DA COME CIASCUNO LO SENTE. Durissima è la critica condotta da Eraclito contro i sapienti del suo tempo (Pitagora, Ecateo, Esiodo, Omero, tutta "gente dalla doppia testa"), accusati di polumaqia, il "SAPERE MOLTE COSE": LA VERA CONOSCENZA DEV’ESSERE QUELLA DELL’UNICO LOGOS. 

http://www.filosofico.net/eracli.html



frammenti di Eraclito, dove ricorre la parola Lógos, SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia


frammenti di Eraclito, dove ricorre la parola Lógos. Numerazione Diels-Kranz, versione italiana di Gabriele Giannantoni, Laterza, 1975, salvo altra indicazione.
    • Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo lógos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo. [fr. 1]
    • Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo lógos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza. [fr. 2]
    • [...] il fuoco, ad opera del lógos e del dio che governa tutte le cose, è trasformato, passando per l’aria, in umido, che è come il seme dell’ordine universale e che egli chiama «mare»; [dal fr. 31]
    • A Priene nacque Biante, figlio di Teutames: la sua espressione [lógos] è superiore a quella degli altri. [Colli, A 103]
    • Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos. [fr. 45]
    • Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno. [fr. 50]
    • Da questo lógos, con il quale soprattutto continuamente sono in rapporto e che governa tutte le cose, essi discordano e le cose in cui ogni giorno si imbattono essi le considerano estranee. [fr. 72]
    • L’uomo stupido ama stupirsi di ogni discorso [lógos]. [fr. 87]
    • Di tutti coloro di cui ho ascoltato i discorsi [logous] nessuno è arrivato al punto di riconoscere che ciò che è saggio è separato da tutti. [fr. 108]
    • E’ proprio dell’anima un lógos che accresce se stesso. [fr. 115]
Per prima cosa, si farà notare che in sei occorrenze la parola è usata in senso assoluto: il lógos; mentre in altre cinque il termine è sinonimo di «parola», «discorso», «espressione». Fatta notare la vastità dell’area semantica, si propone di connotare questo lógos in base alle sei occorrenze in cui esso viene usato in senso assoluto. Ne risulterà che
    • il lógos è sempre, quindi eterno (fr. 1);
    • il lógos è comune a tutti (fr. 2) e governa tutte le cose (frr. 31 e 72);
    • non viene ascoltato (fr. 50) dall’uomo che preferisce le proprie opinioni personali (fr. 2);
    • la maggioranza degli uomini non ha intelligenza del lógos (fr. 1), mentre, se lo ascoltasse, perverrebbe a scoprire che tutto è uno (fr. 50).

da: SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia.



αιων παις παιζων πεσσευων παιδος η βασιληιη - IL TEMPO È UN BIMBO CHE GIOCA, CON LE TESSERE DI UNA SCACCHIERA: DI UN BIMBO È IL REGNO
Eraclito
Fonte: Hippolytus, Refutatio contra omnes haereses 9, 9, 4

Il gioco come simbolo del mondo
A cura di Marco Menna


Può sembrare strano occuparsi del gioco dal punto di vista filosofico; gioco e pensiero appartengono a dimensioni di vita contrapposte: la lieta spensieratezza del gioco, che unisce realtà e fantasia, appare molto lontana da ogni critico e riflessivo esame delle cose, tipico del pensiero filosofico. Tuttavia, come ha saputo dimostrare il filosofo tedesco Eugen Fink (1905-1975), allievo di Husserl e di Heidegger all’università di Friburgo, anche il gioco può essere un degno oggetto d’indagine da parte della filosofia.

IL GIOCO È, SECONDO FINK, UN ELEMENTO FONDAMENTALE DELLA NOSTRA CULTURA, che deve essere recuperato in un rinnovato pensiero (non metafisico) del mondo.
Nei due saggi filosofici riguardanti il gioco di cui è autore, OASI DELLA GIOIA (1957) e IL GIOCO COME SIMBOLO DEL MONDO (1960), il punto di partenza (ma potremmo dire anche di arrivo) della sua riflessione è offerto dal riferimento ad una felice intuizione di Eraclito che, nel Frammento 52, scrive: “IL CORSO DEL MONDO È UN FANCIULLO CHE GIOCA A DADI (O CON LE PIETRUZZE), UNA REGALE SIGNORIA DEL FANCIULLO”. Eraclito non usa il termine KRONOS (tempo), ma AION (il corso del mondo, l’eterno); il motivo ispiratore del frammento è il rapporto d’identità tra l’eternità e la fanciullezzaL’ETERNO HA LA FRESCHEZZA DELLA FANCIULLEZZA, IN QUANTO NEL SUO IMPERITURO VIVERE È UN CONTINUO TRASFORMARSI E RINNOVARSI; il suo dominio (signoria) possiede la gioiosità schietta e semplice della vita del fanciullo.
L’immagine del bambino che gioca a dadi permette a Fink di cogliere nel fenomeno umano del gioco un significato universale, una “trasparenza cosmica”: sia il gioco, sia il mondo si prestano a essere chiariti l’uno alla luce dell’altro. Vi è naturalmente una differenza “ontologica” (direbbe Heidegger) tra il gioco come fenomeno umano - che si svolge tra enti “intramondani” quali l’uomo e le cose - e il gioco del mondo. Tuttavia, la PECULIARITÀ DELL’UOMO COME ESSERE-NEL-MONDO - ossia quell’ente che, nonostante sia “GETTATO” NEL MONDO, si rapporta consapevolmente al mondo stesso e lo “comprende” – fa sì che il gioco umano possa essere assunto in quanto simbolo del gioco cosmico.

Secondo il senso comune, il GIOCO è un’attività marginale dell’esistenza umana, che si contrappone al LAVORO E ALLE ATTIVITÀ “SERIE” DELLA VITANella vita adulta, osserva Fink, i giochi sono spesso tecniche ripetitive di passatempo e tradiscono il fatto che spesso nascono dalla noia. Invece PER IL FANCIULLO IL GIOCO SEMBRA ESSERE “UN SANO MEZZO DI ESISTENZA”. Attraverso il gioco, il bambino realizza la sua fondamentale “apertura al mondo”.
Il gioco è caratterizzato dalla totale GRATUITÀ, DALLA LIBERTÀ, DA UN SENSO DI GIOIA PAGANA PER IL SENSIBILE in cui viene sperimentato il “piacere dell’apparenza”. Esso, tuttavia, si presenta come “un’oasi della gioia” perché, proprio quando obbligo, lavoro, cura e responsabilità iniziano a impegnare le energie del giovane in crescita, il gioco rischia di perdere del tutto il suo significato originario e il suo carattere di azione spontanea, di slancio vitale. Secondo Fink proprio per questo è importante cercare di conservare quanto più possibile la spontaneità, la fantasia, l’iniziativa di chi gioca.
IL GIOCO APPARTIENE IN MODO ESSENZIALE ALLA COSTITUZIONE ONTOLOGICA DELL’ESISTENZA UMANA; COME AFFERMA SCHILLER: “L’UOMO C’È INTERAMENTE LÌ DOVE GIOCA”.
Il gioco non è quindi simbolo del mondo nel senso che il mondo possa essere oggettivamente concepito come gioco; non è, come per Platone, “un’immagine mobile dell’eterno”; il gioco è simbolo del mondo nel senso che in esso si esprime il modo dell’uomo di rapportarsi  al mondo e “all’altro”, perché ogni gioco, anche quello del fanciullo più solitario, “ha un orizzonte di coinvolgimento degli altri”, di apertura verso l’altro.
FINK RITORNA A ERACLITO ATTRAVERSO NIETZSCHE, ricordando un famoso passo tratto da La filosofia nell’epoca tragica dei greci: “UN NASCERE E UN PERIRE, UN COSTRUIRE E UN DISTRUGGERE, CHE SI SVOLGANO IN UN’INNOCENZA ETERNAMENTE UGUALE, SI RITROVANO IN QUESTO MONDO SOLO ATTRAVERSO IL GIOCO DELL’ARTISTA E DEL FANCIULLO”.
Se L’ESSENZA DEL MONDO È PENSATA COME GIOCO, ne consegue che l’uomo è l’unico ente in grado di corrispondere al tutto che agisce. Si capisce quindi perché alcuni grandi pensatori e poeti abbiano richiamato l’attenzione in modo così profondo sul potente significato del gioco.


Si rimanda alla lettura dei due saggi di Eugen Fink sopra citati:

“Il gioco come simbolo del mondo”, edizioni Hopefulmonster;
“Oasi della gioia”, edizioni 10/17 (purtroppo fuori catalogo e quindi non acquistabile).



Eraclito:
αιων παις παιζων πεσσευων παιδος η βασιληιη
Fonte: Hippolytus, Refutatio contra omnes haereses 9, 9, 4


Per chi vuole aprofondire lo studio del Frammento di Eraclito -il n. 48 nell’edizione di Carlo Diano e Giuseppe Serra (cfr. bibliografia)- propongo la trascrizione delle lezioni di cui dispongo, cominciando proprio da quella di Diano e Serra.
Traduzione:
IL TEMPO È UN BIMBO CHE GIOCA, CON LE TESSERE DI UNA SCACCHIERA: DI UN BIMBO È IL REGNO
Commento:
Questo è davvero un frammento difficile, come provano le numerose e diverse interpretazioni che ne sono state tentate (vedi Mondolfo “Testimonianze e imitazioni” Firenze 1972, pp 65-8). Ci limiteremo perciò ad alcune osservazioni, Intanto αιων. Che si tratti di «tempo» in senso generale ed astratto è impossibile, sia per la qualità della parola greca, sia per l’epoca alla quale il frammento appartiene. Ma ciò non impedisce che αιων, se significa «il tempo della vita» (ved. per es. Kirk p. XIII, che rinvia a Onians, The Origins of the European Thought, Cambridge 1951, p. 405 nt. 8; che poi αιων significhi «vecchiaia», come vuole Marcovich, p. 341, è falso: l’equazione αιων= γηρας proposta dallo scolio ad Eschilo, Ag. 106, è evidentemente dedotta dal contesto), significhi insieme il tempo del mondo: si tratterà infatti di quel tempo concreto che abbraccia eventi vissuti dall’uomo. Saremmo obbligati a scegliere fra tempo della vita e tempo del mondo, solo se potessimo assumere in Eraclito una concezione astratta del tempo (cfr. αιων da Omero ad Aristotele, Padova 1961, pp. 75-6 e nt. 118). Questo tempo è παις παιζων, un bambino che gioca: πεσσευων «con le tessere delle scacchiera». Il gioco (παιδια) è cosa da bambini, e il bambino è νηπιος, infans e sprovveduto. Ma questo gioco coi πεσσοι vuole abilità ed intelligenza (che sarebbero interamente sostituite dal caso se πεσσευειν significasse αστραγαλιζειν, «giocare ai dadi» [per la connessione fra i dadi e la τυχη vedi A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma 1958 pp. 168-9) L'alliterante giuntura παιζων πεσσευων è dunque, per così dire un ossimoro, che non è lecito risolvere in maniera banale, supponendo che il bimbo «non comprende le regole del gioco» (Snell Schriften, p. 145 nt. 2). A non comprendere il gioco è piuttosto l'uomo: è l'uomo il vero bambino rispetto al quel «fanciullo divino» che è il tempo (cfr. frr. 71, 68, 70). Quando infine a παιδος η βασιληιη, preferirei intendere con Diano, che «il tempo è il regno di un bambino», piuttosto che «il regno (e cioè il potere su tutte le cose) è di un bambino» (cfr. per es. Snell, Marcovich).

Veniamo ora alla lezione di Giorgio Colli, "La sapienza greca" vol III (cfr. Bibliografia).
14[A 18]
Traduzione:
LA VITA È UN FANCIULLO CHE GIOCA, CHE SPOSTA I PEZZI SULLA SCACCHIERA: REGGIMENTO DI UN FANCIULLO
Commento:
Appendice 13 b.
… Al di là cadono le distinzioni e le forme, anche quelle dell’intimità e dell’unità tutto si fa lieve e senza scopo, regna l’eterna gioventù dell’insondabile αιων: αιων παις παιζων πεσσευων παιδος η βασιληιη (14[A 18])
(G. Colli, Physis kryptesthai philei. Studi silla filosofia greca, Milano 1948, 150-154, «Congiungimenti straziati»)
Appendice 16.
In vetta il simbolo prende il nome di Dioniso. In lui il simbolo accenna alla casualità e la restaurazione alla necessità. Dicono i testi orfici: «Efesto fece uno specchio per Dioniso, e il dio guardandovi dentro e contemplando la propria immagine, si gettò a creare la pluralità»; e ancora «Dioniso, posta l’immagine nello specchio a quella tenne dietro e così fu frantumato nel tutto». Ma il simbolo è manifestato imperfettamente da queste testimonianze neoplatoniche. Lo specchio non soltanto è un’indicazione della natura illusoria del mondo, ma dalla nascita di questo esclude ogni forma do creazione, di volontà, di azione. Tutto è fermo: la vita e il fondo della vita sono un dio che si guarda allo specchio.
Ma Dioniso è un fanciullo. Ancora gli orfici dicono: «nonostante sia giovane e fanciullo tra gli invitati» e «era fanciullo Iacco». E passatempi di fanciullo sono i suoi attributi, la trottola, la palla, i dadi. Nell’insondabile c’è un gioco di violenza che è l’archè: in questa è un comando che è una sospensione. Ciò che è godimento di un impulso è anche sofferenza di un’oppressione: questa ambiguità questa oscurità su di sé è intollerabile, la pena di questa coincidenza stabilisce il comando di chiarificazione, è lo specchio che divide gioia da dolore. Il fanciullo Dioniso accenna allo stato originario, che nella sua complessità meglio è designato dall’espressione eraclitea «reggimento di un fanciullo» (14[A 18]).
Il comando giocondo, arbitrario, causale si biforca nell’espressione attraverso le categorie del necessario e del contingente. Nell’archè dev’essere presente anche la sospensione, il librarsi indeciso, perché questa coincidenza non può mai essere superata. Quindi la legge suprema che traduce nella sfera delle espressioni seconde questa natura distaccata dell’archè dovrà essere un comando alternativo, poiché l’alternativa è l’unica forma in cui la dualità di giuoco e violenza può essere sottoposta ad un comando. Nell’alternativa il giuoco continua appunto a sussistere nell’incertezza della decisione, e c’è anche il comando nella violenza di escludere altre possibilità. Fuori del logos giuoco e violenza sono inscindibilmente commisti, ed è proprio il radicale specchio di Dioniso che, riflettendo questo contenuto magmatico, lascia scorgere sulle sua superficie le immagini chiarificate dell’apparenza, rette dal dominio alternativo tra il necessario e il casuale.
(G. Colli, Filosofia dell’espressione, Milano 1969, 52-53, «Il fanciullo allo specchio»)

Hermann Diels e Walter Kranz, “I presocratici. Testimonianze e frammenti” vol I (cfr. Bibliografia).
22 B 52
Traduzione:
Il tempo è un fanciullo che giuoca spostando i dadi: il regno di un fanciullo
Commento:
Nota 45
Che quanto accade nel tempo sia per Eraclito qualcosa di puramente casuale e privo di scopo, come il giuoco dei fanciulli (vedi supra n. 2) non è facile ammettere a meno che si voglia pensare ad una contrapposizione tra αιων (il tempo) e il λογος (l’eterno), tra ciò che accade nel tempo e l’ordine universale; altra ipotesi è quella di pensare che qui Eraclito polemizzi con altri, analogamente a quanto si vedrà a proposito di B 124 (cfr. n. 56)

Edwar Hussey, “I presocratici” (cfr. Bibliografia).
pag. 50
Traduzione:
“Il tempo (aion) è un fanciullo che gioca spostando i pezzi: il regno di un fanciullo“
Commento:
L’inestricabile combinazione di «lotta» fra due opposti e «giustizia» come insieme di leggi è chiarita da un’ulteriore immagine sorprendente:
Qui, come probabilmente in Anassimandro, il «Tempo» è nome di Dio, con un’associazione etimologica alla sua eternità. La divinità infinitamente vecchia è un fanciullo che gioca una partita a scacchi, muovendo, secondo le regole, i pezzi cosmici in lotta.
Nell’analogia dell’arco e della lira, non è sorprendente che l’ordine e l’unità del kosmos debbano dipendere dall’esistenza di forze opposte. Ma, come abbiamo visto della discussione del fr. 51, è possibile essere incerti sul vero pensiero di Eraclito: una tensione fra opposti, una oscillazione fra essi o entrambi? Si argomentò a favore dell’oscillazione affermando la palintropos harmonie come più validamente interpretata, se intesa in quanto regolare, nel modo in cui l’arco e la lira funzionano attraverso avvicendamenti nel tempo: le braccia dell’arco si tendono indietro e insieme, ma poi scattano avanti e separatamente, così come le note alte e basse si alternano nei suoni della lira; gli stessi avvicendamenti appaiono nell’interpretazione del sistema fisico di Eraclito.
Interpretando il termine come «tensione» la lotta tra gli opposti sarà sempre giustamente equilibrata, essendo i vantaggi ottenuti in una regione di forza sempre simultaneamente controbilanciati da uguali vantaggi altrove conquistanti la forza opposta. Interpretando il termine come «oscillazione», la lotta può in ogni luogo andare a favore di uno dei due opposti, ma alternativamente, essendo l’avvicendamento soggetto a una legge che determina i periodi in cui ognuno prevale. Dovrebbe essere chiaro che le similitudini dell’arco e della lira favoriscono già l’interpretazione nel senso di «oscillazione», per quanto concerne la cosmologia, poiché quando l’arco e la lira sono in funzione vi è oscillazione nel tempo. Né vale come smentita il fatto che Platone, in un famoso passo (Sofista 242 D – 243 A), contrapponga la tensione eraclitea all’oscillazione empedoclea. L’interesse di Platone è qui l’ontologia, non la cosmologia; è la realtà fondamentale, non le apparenze. Numerose altre testimonianze vanno nella stessa direzione. Così il fr. 67, già citato, accenna a Dio come all’unità che sta dietro ad almeno due coppie di opposti, espressi da oscillazioni, cioè giorno-notte e inverno-estate e (se le annotazioni di Teofrasto sono attendibili) anche guerra-pace e sazietà-fame erano i nomi indicativi di periodi più lunghi di oscillazione cosmica (DK A 1 B 65).
Le più attendibili fra le fonti più tarde, Aristotele (particolarmente De coelo 279 b, 14-17 e 280 a, 11-19) e Teofrasto, concordano nell’attribuire a Eraclito una teoria dell’«oscillazione» dei processi cosmici. Contro tutto ciò, non esiste una singola testimonianza chiaramente attendibile a favore di una cosmologia della «tensione »

Eraclito:
“οδος ανω χατω μια χαι ωυτη”
Fonte: Hippolytus, Refutatio contra omnes haereses 9, 10, 4

Tavola di concordanza
Diano-Serra fr. 31
Diels-Kranz 22 B 60
Marcovich fr. 33
Colli 14 [A 33]
Hussey pp. 42-44


Per chi vuole aprofondire lo studio del Frammento di Eraclito -il n. 31 nell’edizione di Carlo Diano e Giuseppe Serra (cfr. bibliografia)- propongo la trascrizione delle lezioni di cui dispongo, cominciando proprio da quella proposta da Diano e Serra.
Traduzione:
La via in su e la via in giù sono una e la medesima
Commento:
Data l’interpretazione di Diano (Studi pag. 32) che abbiamo riportata di sopra, decidere se questo frammento sia esclusivamente «la raffigurazione di una ulteriore coincidentia oppositorum» (Marcovich, p. 121), oppure sia «una metafora del frammento fisico 31 Diels-Kranz (= frr. 39, 40 Diano)» (ibd.), non è importante: quella intepretazione può infatti tollerare entrambe le alternative (cfr. Calogero, Logica, I, p. 82).

Veniamo ora a Diels-Kranz 22 B 60, vol I (cfr. Bibliografia)
Traduzione:
“Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù“
Commento:
nota 49
Anche in questo caso, l’interpretazione che è stata prevalentemente tentata di questo frammento (lo status quaestionis in ZELLER-MONDOLFO op. cit., I 4, pp. 193-7) è stata indirizzata a collocarlo nella ricostruzione della cosmologia eraclitea (anche qui sulla base di interpretazioni antiche: cfr. B 31, B 76, B 125, oltre la dossografia): la via all’in su e la via all’ingiù sarebbero i processi inversi nel fuoco.
Ma dopo quanto abbiamo osservato fin qui (cfr. in particolare, a proposito di B 48, B 49 a e B 59, le note 41, 43, e 48) ci sembra che il senso esatto del frammento sia quello colto da CALOGERO, op. cit., pp. 82-3, e cioè che una ed identica è la strada che per un verso si compie in salita e per altro in discesa e che tuttavia ha per nome «salita» o «discesa» (come ancora oggi capita nella toponomastica delle strade): il contrasto tra «nome» e «cosa» non è altro che un aspetto della tensione degli opposti insita in tutto.

Giorgio Colli 14 [A 33], La sapienza greca, vol III (cfr. Bibliografia)
Traduzione:
“La strada all’in su e la via all’in giù è una sola e la medesima“
Appunti per un commento:
Diog. L. 9, 9, indica in Teofrasto il primo falsificatore in senso fisico di questo aforisma.
Mia interpretazione: orfica-eleusina, si vedano i passi in apparato. L’allusione è alle due regioni di Core (e di Dioniso).
Il passo di Filone De vit. Mos. I, 6, 31 mette ανω χατω in relazione con la τυχη che gioca a scacchi ( v. 14 [A 98], cf. Gutrhrie 478, 2). {Cf. App. 13 b, 27}
Appendice 27
Il conoscere come essenza della vita e come culmine della vita: tale è l’indicazione di Orfeo. E allora la conoscenza diventa anche una norma di condotta: teoria e prassi coincidono. Difatti c’è un discorso orfico antico che parla delle «strade», quelle da seguire e quelle da evitare, quelle degli iniziati, e quelle dei volgari. La via, il sentiero è un’immagine, un’allusione che ritorna nell’età dei sapienti, in Eraclito (14 [A 28, 33, 35, 94]), in Parmenide, in Empedocle.
(La sapienza greca, I, 43)

Edward Hussey invece preferisce interpretare il frammento insieme con -più precisamente il 114, il 61, il 48, il 111, ed i 57 e 88- nell’ambito del tentativo di esplicitare il significato del termine logos in Eraclito. Edward Hussey pp. 42-44 “I presocratici” (cfr. Bibliografia)
Traduzione:
“Uno e identico il cammino all’insù e il cammino all’ingiù“
Commento:
… il logos è ugualmente vero e ugualmente accessibile a tutti e ignora i punti di vista personali: per usare una terminologia attuale è oggettivo, non soggettivo. Ma la legge che il logos esprime, la «legge divina» è di gran lunga più rigorosa e imparziale di qualsiasi legge umana e di conseguenza «parlare con intelligenza» implica essere più attentamente «rispettoso delle legge» di qualsiasi buon cittadino.
Il significato più limitato che qui può acquistare il termine logos è perciò qualcosa come «il vero valore della legge dell’universo». Ma se questo fosse tutto, sarebbe difficile spiegare perché Eraclito sceglie di significare ciò con la sola parola «logos». Conoscendolo, possiamo supporre che ci siano ulteriori livelli di significato implicito nel termine. Una chiave esplicativa si può trovare nello sviluppo del significato di logos in questo periodo. Nella prima metà del secolo V il significato di «ragione» o «ragionamento» pare sicuramente confermato. Questo significato si sviluppò, presumibilmente, da quello di «proporzione», già attestato in Eraclito (fr. 31). Ciò che è ragionevole o non ragionevole si significa in rapporto alla proporzione o fuori dalla proporzione. Benché non ci siano testimonianze dirette, è probabile che questo evolversi del significato fosse già in atto alla fine del sesto secolo, e che Eraclito qui ci giochi attorno. Se quanto detto è corretto, il suo pensiero sottintende un logos significante di una proporzione o analogia dell’universo; e dunque che il logos è ragionevole, così come la legge che esprime, in virtù di questa proporzione. La ragionevolezza del logos risolverebbe inoltre un problema cui Eraclito non offre direttamente una soluzione; quale testimonianza pubblica della sua stessa verità porta con sé il logos, dal momento che non può essere una rivelazione puramente personale?
E’ questa un’ipotesi non confermata, a meno che non si dimostri senz’appello a proporzioni e analogie nella spiegazione dell’universo che ci è data da Eraclito. In effetti, alcuni di tali ricorsi sono già stati citati: tutte le similitudini possono essere viste come analogie e una diretta affermazione di proporzione è presente nel fr. 79 (uomo: Dio; fanciullo: uomo). Più avanti, in questo capitolo, sarà evidente che l’idea di analogia, come guida alla verità, fu indubiamente presente alla mente di Eraclito, e che il tentativo di creare analogie fra parole e cose, frasi e situazioni, è uno dei principi del suo stile straordinario. Soprattutto il valore di un gran numero di frammenti in cui Eraclito descrive diverse situazioni paradossali ricavate dall’esperienza quotidiana, consiste proprio nel fornire analogie. Esaminiamo ora questi frammenti. Considerate le seguenti affermazioni:
“Il mare è l’acqua più pura e più lurida, per i pesci bevibile e salutare, per gli uomini imbevibile e mortale (fr. 61)”.
“L’arco ha per nome «vita», ma come opera la morte (fr. 48)”. -La parola bios può significare sia «vita» sia «arco»-
“Uno e identico il cammino all’insù e il cammino all’ingiù (fr. 60)”. -Il nostro frammento-
“La malattia rende dolce e gradita la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo (fr. 111)”.
Abbiamo scelto questi quattro frammenti perché in essi le parole di Eraclito sono indubiamente autentiche. Essi sono rappresentativi di un intero gruppo di frammenti il cui pesniero centrale è tratto, univocamente, come in questi dall’esperienza comune. Dei primi tre, ciascuno offre alla considerazione un solo soggetto familiare e quindi procede alla dimostrazione che nell’ambito dell’unità di quel soggetto coesistono opposti dello stesso tipo. Il fr. IV è meno esemplare, in quanto non presenta un’unità esplicita, ma dimostra invece che gli opposti nominati sono dipendenti uno dall’altro per le loro qualità essenziali. Un’altra differenza importante, interna al fr. IV, è che gli opposti in questione sembrano pensati come successivi e non coesistenti.
E’ necessario ricordare che esaminare questi frammenti in modo astratto equivale ad imporre loro un modello che può trarre in inganno. Eraclito non usava un vocabolario astratto. Almeno uno dei frammenti citati, quello riguardante il «cammino», può essere interpretato come assertivo della non coesistenza di opposti in una sola realtà, ma della loro identità. Il «cammino all’insù» è l’opposto del cammino «all’ingiù»: eppure sono identici. Altri frammenti esplicato l’indubia volontà di Eraclito di affermare che certi opposti non erano semplicemente coesistenti o mutuamente interdipendenti, ma identici l’un l’altro:
“[Esiodo] non sapeva cosa fossero il giorno e la notte: sono infatti un’unica cosa (fr. 57)”.
“La stessa cosa è [in noi] il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; questi infatti trasformandosi sono quelli e quelli di nuovo, trasformandosi, sono questi (fr. 88)”.

Parmenide:

Tavola di concordanza
Reale-Ruggiu Fr. 2
Diels-Kranz 28 B 2
Hussey pag. 79
Fonti:
Proco, Comm. al Tim; I 345, 18-27
Simplicio, Comm. alla Fisica; 116, 25-117,1
§ Orbene, io ti dirò -e tu ascolta e ricevi la mia parola-
quali sono le vie di ricerca che sole si possano pensare:
L’una che “è” e che non è possibile che non sia
-è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità-
l’altra che “non è” e che è necessario che non sia.
E ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.
Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile,
né potresti esprimerlo.
-Traduzione di Giovanni Reale “Parmenide. Poema sulla natura” (cfr. Bibliografia)-

§ Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole
quali vie di ricerca sono le sole pensabili:
l’una che è e che non è possibile che non sia,
è il sentiero della Persuasione (giacché questa tien dietro alla Verità);
l’altra che non è e che non è possibile che non sia,
questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile:
perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),
né lo puoi esprimere.
-Traduzione da: Hermann Diels e Walter Kranz “I Presocratici. Testimonianze e frammenti” (cfr. Bibliografia)-

§ Orsù, io ti dirò (e tu ascolta attentamente la mia parola) quali vie di ricerca sono le sole pensabili; l’una che è e che non è possibile che non sia -questa è la via della persuasione, infatti tiene dietro alla verità; la seconda che non è e che è necessario che non sia- e questo, te lo dichiaro, è un sentiero del tutto imperscutabile (fr. 2, parzialmente).
-Traduzione da: Edward Hussey “I presocratici” (cfr. Bibliografia)-

La letteratura critica per questo frammento, e ciò vale per tutto il Poema, è sconfinata quindi riporterò soltanto la nota di Giovanni Reale alla traduzione. Questa nota mi pare sintetizzi efficacemente il corso delle interpretazioni proposte e gli interrogativi che Parmenide continua a stimolare in ogni animo appassionato.
§ Il v. 3 e di conseguenza il v. 5 sono difficilissimi da tradurre, perché bisogna stabilire quale sia il soggetto, e su questo punto gli studiosi hanno assunto le posizioni più disparate che possiamo riassumere nel modo che segue:
1) Tradizionalmente si pensava che il soggetto fosse l’Essere e qualcuno proponeva addirittura di leggere h men opwV <εon> esti etc.
2) Alcuni hanno pensato ad un pronome impersonale «esso (it, on, es) è».
3) Altri hanno ritenuto che il soggetto sia la «realtà».
4) Altri ancora hanno pensato alla «verità».
5) Si è pensato pure che il soggetto potesse essere un indefinito «qualcosa» (in greco τι), e quindi il v. 3 direbbe: «qualcosa è».
6) Qualcuno ha pensato di risolvere il problema traducendo «esiste» e «non esiste», senza soggetto in senso forte.
7) C’è stato altresì chi ha sostenuto la tesi che il soggetto sia proprio «la via», «una via», e «l’altra via».
8) Non pochi pensano di esplicitare la traduzione in questo modo: «l’una che è … l’altra che non è». (Ma in questo modo il problema viene non risolto, ma solo spostato).
Un quadro completo con la relativa documentazione si trova nella nostra nota Le esegesi del fr. 2 (già 4) in Zeller-Reale, pp 184-190. I nuovi studi non hanno modificato le cose. L’esplicitazione « che è», o «<énonçant>: est» (O’Brien-Frère, Le poème de Parmenide, p. 16) lascia tutto in sospeso e ripropone il problema. E’ evidente che Parmenide pensa all’Essere come soggetto, come espliciterà nel fr. 8; ma qui viene mantenuto implicito nell’«è», dando ad «è», come dicevamo, un senso ontologico globale. L’efficacia di questi versi sta proprio nella loro voluta apparente indeterminatezza linguistica che è, in realtà, espressione di una assolutezza metafisica veramente radicale. Per l’esegesi cfr. infra, pp. 210-232.

Parmenide:

Tavola di concordanza
Reale-Ruggiu Fr. 3
Diels-Kranz 28 B 3
Hussey pag.
Fonti:
Clemente di Alessandria, Stromata, II 440, 12
Plotino, Enneadi, V 1,8
… το γαρ αυτο νοειν εστιν τε χαι ειναι.

§ …Infatti lo stesso è pensare ed essere.-Traduzione di Giovanni Reale “Parmenide. Poema sulla natura” (cfr. Bibliografia)-
Nota 13.
Si veda il parallelo del fr. 8, vv 34 e ss. Per uno stato della questione, che i più recenti studi non hanno sostanzialmente mutato, si veda la nostra Nota sulle interpretazioni del fr. 3 e dei versi 34 ss. del fr. 8, in Zeller-Reale, pp. 218-231. Che questo fr. 3, anziché autentico, possa essere un adattamento del v. 34 del fr. 8 è molto improbabile. Anche in questo caso abbiamo mantenuto nella traduzione le parole originali, con il loro senso globale. Per altre traduzioni più sfumate, cfr. O’Brien-Frère, Le poème de Parménide pp. 19 s.
§ Il rapporto essere-pensare
Il frammento è citato da Clemente d’Alessandria e da Plotino. Segue immediatamente il fr. 2 e spiega come testimonia il γαρ iniziale, perché il non-essere non può essere né detto né conoscituto.
La traduzione più ovvia del frammento, è quella qui proposta: infatti lo stesso è pensare ed essere
Il testo pone quindi un rapporto di identità fra due termini che nel linguaggio e nel sentire comuni non sono posti come identici. Inoltre, la possibilità dell’identità da parte di Parmenide significa anche il mantenimento della distinzione tra i due, giacché solo in quanto distinti insieme sono posti come identici.
Come va intesa tale identità? Nel senso che i due termini hanno la medesima natura, malgrado essi non siano percepiti come tali nel senso comune e quindi occorre escludere ogni differenza di essenza. Come abbiamo detto altrove, le ipotesi per chiarire in quale senso venga qui usato il concetto di αυτο (identità), è che l’uno dei due termini sia riconducibile all’altro. In questo caso, l’identità si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. In questa implicazione, o il pensiero si riconduce all’Essere, o l’Essere al pensiero. Ulteriormente, si deve poter tradurre l’implicazione nel senso o che l’Essere implica il pensiero, senza tuttavia che il pensiero a sua volta implichi l’Essere, o anche viceversa. In questo caso, il rapporto di implicazione si traduce in realtà in una relazione di inclusione: o nel pensiero non è contenuto l’Essere, mentre nell’Essere è necessariamente contenuto il pensiero; oppure nell’Essere non è compreso il pensiero, mentre nel pensiero l’Essere è compreso. Dunque, nella prima ipotesi si verrebbe a dire che non ogni pensiero è necessariamente identico con l’Essere; e può anche accadere che un pensiero possa non essere, oppure che il pensiero possa anche avere per proprio contenuto il nulla. Nella seconda ipotesi considerata, invece, poiché nell’Essere non è compreso il pensiero, potrebbe accadere che esista un essere che non è esperesso nel pensiero; quindi, mentre ogni pensiero è Essere, non ogni Essere è anche pensiero.
Ma l’identità potrebbe anche valere come rapporto di reciproca implicazione: sicché non solo l’Essere implica il pensiero, ma anche il pensiero implica l’Essere. In questo caso ogni essere è tale solo in quanto espresso nel pensiero, e ogni pensiero è Essere, non solo in quanto esso esiste come pensiero, ma anche e soprattutto in quanto esso può costituirsi come tale solo in quanto ogni contenuto del pensiero è Essere. E quest’ultima proposizione è da intendersi nel senso che senza l’Essere neppure si dà pensiero, e quindi il pensiero non può avere contenuto altro dall’Essere.
Per determinare la soluzione possibile, dobbiamo, nell’ipotesi che la collocazione del frammento sia corretta, esaminare come questo si rapporta e conclude le tesi espeoste da Parmenide nei frammenti precedenti.
Indubbiamente sussistono consistenti punti di contatto con la tematica della via affrontata nel fr. 2; qui non si parla di vie di ricerca che sole si possono pensare, cioè delle possibilità che sole sono aperte al pensare. Dunque l’opposizione tra le vie è il fondamento del costituirsi dello stesso penasre, come tale. La decisione fra è-non è, infatti, decide della stessa effettuazione del pensare: il non è, per ciò viene posto come espressione di un sentiero nel quale è impedito, lo stesso procedere del pensare; e ciò in quanto non potresti conoscere ciò che non è, perché è impossibili, né potresti esprimerlo (fr. 2,6-8). Dunque, non solo si afferma che il nulla non è conoscibile, ma si dice anche che il pensare, che si propone come come oggetto il nulla, neppure è in grado di costituirsi. Positivamente, questa tesi dice che pensare e dire si costituiscono solo in quanto hanno come proprio oggetto l’εον, sono cioè necessariamante conoscere e dire l’Essere. Senza l’Essere, neppure conoscere e dire sono. Inoltre, questo significa anche che il contenuto in vista del quale conoscere e dire tendono, è lo stesso Essere. Il τελος che consente a conoscere e dire di compiersi, è l’Essere. Ma in quanto l’Essere costituisce lo stesso conoscere in quanto Essere, l’Essere allora come contenuto e τελος del conoscere e del dire non è qualcosa di altro, di ulteriore o di esterno ad essi, bensì è immanente. E quindi, l’effettuazione del conoscere e del dire divengono per ciò stesso testimonianza dell’Essere.
Dunque, i termini che singolarmente costituiscono il fr. 3, sono presenti nel fr. 2. Il pensare può pensare solo la via che dice è, ma nello stasso tempo la via è il pensare. Così, mediante la tematica della via, e attraverso la mediazione della via, si pone quest’ultima come identica allo stesso pensare. Insieme si sono poste le condizioni per concludere all identità di pensare e Essere. Questa identità significa che il pensare implica l’Essere, nel senso che il pensare è espressione dell’Essere e di nient’altro. Ma l’identità pone anche la reciproca: e cioè che l’Essere si costituisce e si esprime come pensare. Senza il pensare, l’Essere diviene indicibile e impensabile, riveste le stesse carattristiche del nulla. L’un termine, dunque, si affida all’altro. Conoscente e conosciuto, pensiero ed Essere sono identici.
La tesi dell’identità di conoscente e conosciuto gioca un ruolo essenziale nel Poema parmenideo, ed essa ricompare esplicitamente anche nella doxa dove, nel caso del sensibile, è ancora affermata da Parmenide nel fr. 16,2-4, costituendo dunque una riformulazione del fr. 3 «nel conteso della dottrina dell’opinione».
Il fr. 16 termina dicendo che il pieno è pensiero, dove, come vedremo, το πλεον è lo stesso Essere. Dunque, l’identità di pensare ed Essere viene esplicitamente riformulata anche nella doxa e costituisce un momento di sutura essenziale con l’αληθεια. Audenque traduce: il pensato è identico alla pienezza dell’Essere.
Altra questione è invece quella che, a partire dalla identità, e cioè dall’asserto che l’Essere è necessariamente espresso dal pensare, deduce che, senza questa espressione, neppure è possibile parlare dell’Essere. Questo passo ulteriore viene compiuto, secondo noi, solo nel fr. 8,34 ss.
Rimane invece acquisito che v’è pensare solo in quanto v’è pensiero dell’Essere. Questa proposizione consente di vanificare immediatamente ogni tentativo del pensiero di allontanarsi dall’essere. Quindi, il non-essere è l’impensabile. In questo senso, la Verità acquisita nel fr. 2 ha un valore metodologico formidabile e si esprime in termini positivi nella tesi posta nel fr. 3, che trae la conclusione del procedere fondato nel fr. 2.
Questa interpretazione viene ribadita nel fr. 6,1, dove si afferma: E’ necessario che il dire ed il pensare che l’Essere sia. Qui dire e pensare sono rivondotti all’εον, sono cioè la stessa cosa che το εον. La tesi è fondata sulla proposizione che dice: l’Essere è, il nulla non è (εστι γαρ ειναι, μηδεν δ’ ουχ εστιν, cfr. fr, 6,1). Solo se il dire e il pensare hanno per contenuto l’Essere, essi sono, cioè si costituiscono come tali: altrimenti, neppure sono.
Parmenide ha così esplicitato una valenza essenziale del giudizio copulativo, quella di identità, che sottende la differenza che sussiste tra soggetto e predicato. Quando cioè si dice che «X è Y» si afferma che v’è identità tra soggetto e predicato e predicato e soggetto, sia che questa espressione indica il perfetto pareggiamento dell’uno nell’altro, sia che essi sono ricondotti l’uno nell’altro; in tutti i casi essi sono di identica natura. Ora nel fr. 3 il giudizio «il pensiero è Essere», mediante la esplicitazione dell’αυτο, evidenzia che il rapporto che sussiste tra i due è di identità. Lo stesso giudizio, seppure espresso nella forma semplice, compare nel fr. 6. Essi cioè esprimono il medesimo pensiero.
Questa proposizione può ancora comparire nella forma negativa: «il non-essere non è né dicibile né pensabile», oppure «solo dell’Essere esiste dicibilità e pensabilità». L’ulteriore passo, che consiste nel porre anche la reciproca, e cioè che solo ciò che è pensabile, è, è guadagnato nel fr. 8,34 ss.
(Luigi Ruggiu, Commentario al frammento 3, pp. 233-236, op. cit.)

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Eraclito

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Eraclito, olio su tavola di Hendrick ter Brugghen1628Rijksmuseum (Amsterdam)
Eraclito (in greco antico Ἡράκλειτος ὁ ἘφέσιοςHērákleitos ho EphésiosEfeso535 a.C. – 475 a.C.) è stato un filosofo greco antico, uno dei maggiori filosofi presocratici.
Il suo pensiero risulta particolarmente difficile da comprendere ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclito aveva comunque fama di cripticità già nella sua epoca. Ad esempio Aristotele, che si suppone ne abbia letto integralmente l'opera, lo definisce "l'oscuro". Persino Socrate ebbe problemi a comprendere gli aforismi dell'"oscuro", sostenendo che erano profondi quanto le profondità raggiunte dai tuffatori di Delo.[1]

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Biografia [modifica]

Della vita di Eraclito si hanno pochissime notizie,[2] mentre della sua opera filosofica sono sopravvissuti, attraverso testimonianze, soltanto pochi frammenti. Nacque in una famiglia aristocratica[3]; il padre, dal nome incerto (le fonti riportano vari possibili nomi: Bautore, Blosone,[4] Blysone[5], Erachione, Erachino[6], Eraconte[7] o Eraconto[8] che, invece, a quanto presentato da Giannantoni si suppose essere il nome del nonno[3]), era un discendente di Androclo, il fondatore di Efeso, e possedeva mezzo stadio di terra e una coppia di buoi. Nonostante discendesse da una famiglia di nobile origine, a Eraclito non interessava né la fama né il potere né la ricchezza; infatti, nonostante in quanto primogenito avesse diritto al titolo di basileus[3] (che in greco significava re ed era la massima autorità sacerdotale), rinunciò a esso in favore del fratello minore[9].
E quando il re di Persia Dario, dopo aver letto il suo libro Sulla natura, lo invitò a corte promettendogli grandi onori[10], Eraclito rifiutò la sua proposta, rispondendogli che, mentre "tutti quelli che vivono sulla terra sono condannati a restare lontani dalla verità a causa della loro miserabile follia" (che per Eraclito consiste nel "placare l'insaziabilità dei sensi" e nell'ambizione al potere), lui invece è immune dal desiderio e rifugge ogni privilegio, fonte d'invidia, restando a casa sua e accontentandosi di quel poco che ha. Per il suo distacco dai beni materiali e il disprezzo per il potere e per la ricchezza, Eraclito non piaceva molto agli Efesini, che erano esattamente l'opposto; per questo venne criticato dagli Efesini quando riuscì a convincere il tiranno Melancoma ad abdicare e ad andare a vivere nei boschi, ad aperto contatto con la natura[11]. Visse in solitudine nel tempio di Artemide ove, stando a quanto dice Diogene Laerzio, depose il suo libro, «avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo»[12]. Mentre Teofrasto sostiene che, a causa del temperamento melanconico di Eraclito, esso non fu mai portato a termine e fu scritto in modo discontinuo[13]. Il testo sempre a quanto presentato da Diogene Laerzio «godette di una tale fama che alcuni se ne fecero seguaci e furono chiamati Eraclitei»[14]. La deposizione del libro nel tempio conferma peraltro il suo temperamento aristocratico, essendo un gesto volto a proteggerlo dalla massa degli umani.[15] Vivendo per lo più isolato, Eraclito trascorse gli ultimi anni prima della morte sui monti, cibandosi di sole piante.
Durante l'eremitaggio sui monti, si ammalò di idropisia e quindi «tornò in città e, in forma di enigma, chiese ai medici se fossero capaci di far sì che dall'inondazione venisse la siccità; e poiché quelli non lo comprendevano, si seppellì in una stalla sotto il calore dello sterco animale, sperando che l'umore evaporasse. Non avendone, neppure così, alcun giovamento, morì dopo essere vissuto sessant'anni.»[16]Ermippo presenta invece «ch'egli chiese ai medici se qualcuno fosse capace di essiccare l'umore vuotando gli intestini; alla loro risposta negativa, si distese al sole e ordinò ai ragazzi di ricoprirlo di sterco animale. Stando così disteso, il secondo giorno morì e fu seppellito nella piazza»[14]. Mentre Neante di Cizico «dice che era rimasto lì non essendo più riuscito a staccarsi lo sterco di dosso, e che, divenuto irriconoscibile per la deformazione, fu divorato dai cani»[14]. È possibile che la causa di morte di Eraclito sia stata proprio l'annegamento nello sterco di mucca,[17] anche se «Aristotene nell'opera Su Eraclito dice che era guarito dall'idropisia e che era morto per un'altra malattia; questo lo afferma anche Ippoboto»[18].

Il pensiero [modifica]


Eraclito in un dipinto di Johannes Moreelse
Dell'opera di Eraclito ci rimangono testimonianze e frammenti sparsi, in forma di aforismi oracolari[19]. Sempre a quanto posto da Diogene Laerzio vi furono moltissimi che diedero interpretazioni del suo libro tra i quali: AntisteneEraclide PonticoCleanteSfero stoicoPausania detto l'Eraclitista, NicomedeDionisioDiodoto che negò che il testo trattasse della natura (essa introdotta solo a mo' di esempio) ma che riguardasse la politicaIeronimo e Scitino.[20]
Eraclito manifesta un atteggiamento filosofico che potremmo definire "iniziatico", ritenendo infatti di non poter essere compreso dalla moltitudine. A conferma di ciò disse:
(EL)
« εἷς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ἦι »
(IT)
« Uno è per me diecimila, se è il migliore »
(GalenoDe Dignoscendis Pulsibus; frammento 49[21])
Ma non si limitò alla folla, infatti criticò apertamente anche i più sapienti dell'epoca, colpevoli di non aver compreso l'unitarietà del Logos:
(EL)
« πολυμαθίη νόον (ἔχειν) οὐ διδάσκει· Ἡσίοδονγὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτις τε Ξενοφάνεά (τε) καὶ Ἑκαταῖον. »
(IT)
« Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo. »
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1; frammento 40[22])
In lui probabilmente sono presenti anche alcuni legami con la tradizione orfica e dionisiaca.[23] Eraclito è comunemente passato alla storia come il "filosofo del divenire"[24] legato al motto «tutto scorre» (pánta rhêi, in greco πάντα ῥεῖ), ma in realtà il famoso detto non è attestato nei frammenti giunti fino a noi ed è probabilmente da attribuirsi al suo discepolo Cratilo che svilupperà il pensiero del maestro, estremizzandolo. In ogni caso la formula lessicale "panta rei" verrà coniata ed utilizzata la prima volta da Simplicio in Phys., 1313, 11.

Gli svegli e i dormienti [modifica]

Ricorre nel pensiero filosofico di Eraclito la contrapposizione fra i desti e i dormienti:[25] è «unico e comune il mondo per coloro che sono svegli»,[26] ossia quelle persone, che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose,[27] mentre «agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo di quando non sono coscienti di quel che fanno dormendo»,[28] riferendosi alla mentalità degli uomini comuni, i dormienti appunto. Eraclito intende per filosofi tutti quelli che sanno indagare a fondo la loro anima, che, essendo illimitata, offre all’interrogando la possibilità di una ricerca altrettanto infinita.[29] Il pensiero eracliteo è quindi aristocratico,[30][31] in quanto egli definisce la maggioranza degli uomini superficiali, poiché tendono a dormire in un sonno mentale profondo che non permette loro di comprendere le leggi autentiche del mondo circostante.[32] Secondo Eraclito infatti «rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come animali».[33] La testimonianza di Diogene Laerzio conferma come Eraclito fosse uno «spregiatore del volgo».[34] [35]

I migliori e i più [modifica]

(GR)
« αἰρεῦνται γὰρ ἓν ἀντὶ ἁπάντων οἱ ἄριστοι, κλέος ἀέναον θνητῶν' οἱ δὲ πολλοὶ κεκόρηνται ὅκωσπερ κτήνεα »
(IT)
« Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie »
Clemente Alessandrino, Stromateis (Miscelanea)[36] )
Eraclito pone anche una contrapposizione tra i "migliori" (ἄριστοι, aristoi), i quali, a suo avviso, «preferiscono una sola cosa a tutte le altre: la gloria eterna alle cose caduche», e i "più" (οἱ δὲ πολλοὶ, oi de polloi), i quali «invece pensano solo a saziarsi come bestie».
Da tale contrapposizione si deduce che per Eraclito i "più" sono in maggioranza rispetto ai "migliori". Ancora, con queste premesse, si potrebbe attribuire ad Eraclito un pensiero non solo filosoficamente aristocratico, ma anche politicamente oligarchico, o monarchico:
(GR)
« νόμος καὶ βουλῆι πείθεσθαι ἑνός »
(IT)
« Legge è anche ubbidire alla volontà di uno solo »
Clemente Alessandrino, Stromateis (Miscelanea)[37])
e
(GR)
« εἷς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ἦι »
(IT)
« Uno è per me diecimila, se è il migliore »
GalenoDe Dignoscendis Pulsibus[38])
Si deduce di conseguenza una netta contrapposizione tra la "gloria eterna", la quale è sia ciò che è preferito dai "migliori" sia ciò che in quanto tale ne attesta l'essere "migliore", e tutte le altre cose, ossia quelle "caduche, mortali", tra le quali vi è anche il "pensare solo a saziarsi come bestie", che è quanto pensato dai "più".

La dottrina dei contrari [modifica]

(EL)
« Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους. »
(IT)
« Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. »
(Ippolito di Roma, Κατὰ πασῶν αἱρέσεως ἔλεγχος - Confutazione di tutte le eresie, IX, 9, 4; frammento 53[22])
La dottrina dell’unità dei contrari è forse l’aspetto più originale del pensiero filosofico eracliteo. La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc...) che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l’uno dell’altro, poiché vivono solo l’uno in virtù dell’altro: ciascuno dei due infatti può essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. Così, ad esempio, una salita può essere pensata come una discesa da chi vi si trova in cima.
Tra i contrari si crea una sorta di lotta. In questa dualità, questa guerra fra i contrari (polemos) in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vide quello che lui definiva il logos indiviso, ossia la legge universale della Natura.
Ed è proprio la dottrina dei contrari che fa di Eraclito il fondatore di una logica degli opposti, antitetica a quella aristotelica e fondata sulla legge del divenire della realtà. In essa, infatti, tesi e antitesi (essere e non-essere) sono una sintesi contraddittoria e permanente nella realtà che solo così può divenire, attraverso i suoi due coessenziali aspetti ("nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo"; "siamo e non siamo"); ed è antitetica alla logica aristotelica perché opposta al suo principio di non contraddizione e del terzo escluso ("Il mare è l'acqua più pura e impura: per i pesci è potabile e gli conserva la vita, per gli uomini è imbevibile e mortale"[39]).

L'arché [modifica]

I primi filosofi greci cercavano l'arché negli enti della realtà sensibile, a partire da Talete di cui restano solo testimonianze aristoteliche in cui sembrerebbe affermare che l'arché è l'acqua. In realtà, tale termine, a detta degli studiosi, è una teoria di stampo più prettamente aristotelico. È costante nella filosofia antica la consapevolezza che le cose derivino da un principio che in quanto tale è unico, ingenerato e imperituro, indivisibile ed immutabile; tuttavia la denominazione vera e propria di arché appartiene ad Aristotele.[40]
La dottrina delle quattro essenze fondamentali della Terra - acqua, terra, aria, fuoco -, fornisce gli elementi tra i quali i primi filosofi greci scelsero l' arché, i più generali tra i costituenti del mondo sensibile. Platone mostrerà che l' arché del sensibile sono le idee iperuraniche, e che dunque non può essere trovata nemmeno nei costituenti fondamentali, e che il sensibile postula l'esistenza di una realtà trascendente che lo causa.
Aristotele affermò che l'arché secondo Eraclito fosse il fuoco. In alcuni frammenti, effettivamente, sembra che Eraclito sostenga questa tesi: il fuoco, condensandosi, diventa aria, quindi acqua e poi terra; dopodiché, esso può rarefarsi per tornare ad essere acqua, aria, e in seguito fuoco.[41] Quindi tutto ha origine e fine nel fuoco. Questo permetterebbe di collegare Eraclito con le ricerche naturalistiche dei filosofi di Mileto. In realtà, è probabile che il riferimento al fuoco vada inteso in senso più metaforico: in questo elemento fisico sembra infatti mostrarsi la teoria ontologica di Eraclito. Il fuoco è sempre vivo, in continuo movimento; è in ogni momento diverso dal momento precedente, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Analogamente l'arché è il primo ed unico principio, la nascita e la morte, l'inizio e la fine: come il fuoco, che nella giusta misura ora si accende e ora si spegne.

L'universo come Dio-tutto [modifica]

Questa visione cosmologica sfocia nell'identificazione panteistica dell'universo con Dio, inteso come unità dei contrari, mutamento continuo e fuoco generatore. Questo Dio-tutto comprende quindi in sé ogni cosa, costituisce una realtà increata che esiste da sempre e per sempre. Eraclito crede anche nella ciclicità del cosmo, concepita come insieme di fasi alterne di distruzione-produzione, al punto che alcuni autori attribuiscono a lui il concetto di ekpyrosis, una sorta di grande conflagrazione universale.

Influenza su autori successivi [modifica]

La contrapposizione del "panta rei" eracliteo al pensiero di Parmenide, filosofo dell'essere, ebbe un'influenza determinante su Platone, il quale per risolverla cercherà di mostrare come il non-essere esiste solo in senso relativo, dando così un fondamento filosofico al senso greco del divenire. Hegel intravide in questo passaggio la dialettica fondamentale della filosofia greca. Secondo la sua interpretazione la filosofia di Parmenide è riassumibile nella frase "tutto è, nulla diviene" (tesi), mentre quella di Eraclito in "tutto diviene, nulla è" (antitesi); il momento di sintesi sarebbe quindi rappresentato da Platone.
Lo stesso Hegel si considerava filosoficamente erede di Eraclito al punto da affermare: «Non c'è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia). Eraclito però, a differenza di Hegel non concepiva il divenire come una progressiva presa di coscienza dell'assoluto; per lui il divenire sembra consistere piuttosto nelle variazioni di un identico sostrato o Lògos: «tutte le cose sono Uno e l'Uno tutte le cose»; «questo Cosmo è lo stesso per tutti... da sempre è, e sarà». Da questa visione del mondo verrà influenzato soprattutto lo stoicismo.
In seguito, se la tradizione filosofica aristotelica giudicò Eraclito incompatibile con i princìpi della logica formale, sebbene lo stesso Aristotele (come già Platone) ne accoglieva la teoria del divenire nel tentativo di conciliarla con la rigida staticità di Parmenide e introducendo così la dottrina del perenne passaggio dalla potenza all'atto, sarà presso i mistici neoplatonici che Eraclito troverà maggior fortuna. Secondo Plotino, che pure tiene fermi i capisaldi della logica parmenidea, «Eraclito seppe che l’Uno è eterno e spirituale: poiché solo ciò che è corporeo diviene eternamente e scorre» (Enneadi, V, 9). Anche i mistici cristiani come Meister Eckhart e Nicola Cusano poterono far propria la concezione eraclitea degli opposti collocandola su un piano trascendente e sovra-razionale: per costoro infatti, mentre sul piano immanente della vita quotidiana continuano a valere i princìpi della razionalità sillogistica, in Dio si troverebbe invece la comune radice di ciò che appare contraddittorio alla semplice ragione, perché in Lui è presente quell'unità degli opposti che esplicandosi e materializzandosi nel mondo giunge poi a diversificarsi.[42]
Eraclito verrà infine riabilitato del tutto da Hegel, il quale però reinterpretò la sua identità degli opposti non più in senso mistico e trascendente, ma in un'ottica immanente.
Anche Nietzsche ebbe un'alta stima di Eraclito: la sua grandezza, per il filosofo tedesco, sta anche nel fatto che la nobiltà di ciò che ha da dire non si presta alla chiarezza superficiale. Heidegger, che alla fine degli anni '60 tenne un famoso seminario sul filosofo greco insieme con Eugen Fink a Friburgo, ritiene che il concetto di verità, intesa come ἀλήθεια, come "non-nascondimento" (in tedesco Unverborgenheit), sia una sorta di parafrasi del frammento eracliteo n. 93 DK: "Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica": per Heidegger la filosofia di Eraclito serve come una conferma delle sue posizioni[43].

Note [modifica]

  1. ^ Cfr. González Calero Pedro, in Rido ergo sum, ed. Ponte alle Grazie, 2008.
  2. ^ Secondo quanto riportato di Diogene Laerzio ci sarebbero stati cinque Eracliti (Vite dei filosofi, IX 17). Secondo la traduzione di Giovanni Reale: «Ci furono cinque Eraclito: il primo è questo del quale ho parlato; il secondo è un poeta lirico, a cui è dovuto l'inno Dei dodici dèi; il terzo è un poeta elegiaco di Alicarnasso, rivolgendosi al quale Callimaco compose questa poesia: "Mi annunziò un tale... allunga la mano". Il quarto fu uno di Lesbo, che scrisse una Storia della Macedonia; il quinto fu uno che mescola il serio e il faceto, che prima di fare questo era stato suonatore di cetra» (da I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 363).
  3. ^ a b c «Per un panorama completo dei problemi e delle discussioni moderne su Eraclito, cfr. ZELLER-MONDOLFO, La filosofia dei Greci, cit. I 4. Riguardo alla famiglia di Eraclito, a parte l'incertezza del nome del padre (Blosone e Blisone [cfr. A 3 e 18 A 7]; Eraconte si è supposto essere il nome del nonno), si sa che era di nobile origine e che al suo capo spettava il titolo di βασιλεύς (cfr. A 2): il che può valere a spiegare l'atteggiamento aristocratico di Eraclito e la sua violenta polemica contro il governo democratico che si instaurò ad Efeso intorno al 478.» (I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Gabriele Giannantoni, ed. cit., p.179, nota 1)
  4. ^ Diogene LaerzioVite dei filosofi, IX 1.
  5. ^ Clemente AlessandrinoStromata, I 65.
  6. ^ Suida
  7. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 1, Secondo traduzione di Giovanni Reale in I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 317
  8. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 1, Secondo traduzione di Gabriele Giannantoni in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, p.179.
  9. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 6.
  10. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 13.
  11. ^ Clemente Alessandrino, Stromata, 1, 65.
  12. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 6. Tratto da I Presocratici. Testimonianze e frammenti
  13. ^ «Teofrasto sostiene che, a causa del suo temperamento melanconico, egli compose il suo scritto per un verso senza portarlo a termine e per l'altro in modo discontinuo». Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 6. Tratto da I Presocratici. Testimonianze e frammenti
  14. ^ a b c Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 4. Tratto da I Presocratici. Testimonianze e frammenti
  15. ^ Cfr. Eraclito su filosofico.net.
  16. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 3. Tratto da I Presocratici. Testimonianze e frammenti
  17. ^ Focus extraMorte e immortalità n° 41, p. 64.
  18. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 5. Tratto da I Presocratici. Testimonianze e frammenti
  19. ^ «[...] ricordiamo che alcuni, sulla base del carattere "discorsivo" di questo primo frammento, hanno negato che il libro di Eraclito fosse composto in stile aforistico e oracolare: se noi abbiamo questa impressione è solo per il modo in cui gli antichi hanno fatto le loro citazioni; e se Eraclito depose il libro nel tempio di Artemide (cfr. A 1 § 6) ciò può spiegarsi pensando che con ciò egli voleva assicurarne la conservazione. Tuttavia questo modo di citazione non può essere casuale e del resto Eraclito, di fronte all'incapacità a comprendere degli uomini, doveva dire di sé quel che dice l'oracolo delfico (B 93) e della Sibilla (B 92). Dai tentativi, fatti in seguito, di esporre in modo sistematico la filosofia di Eraclito, derivano le trattazioni dossografiche, del tipo di quella che troviamo in Diogene Laerzio.» (da I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 195).
  20. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 15-16.
  21. ^ Presentato anche da Simmaco e da Teodoro Prodromo in Epitalamio per le nozze di Giovanni Comneno e.... Taronita. Da I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 202, traduzione di Gabriele Giannantoni. Nella traduzione di Giovanni Reale: «Uno solo vale più di diecimila, se è il migliore». Da I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 353.
  22. ^ a b (FR)philoctetes.free.fr
  23. ^ Cfr. Eraclito. Dell'origine, a cura di A. Tonelli, Feltrinelli, 2005.
  24. ^ Così ad esempio G. Reale: «Per Eraclito le cose non hanno realtà se non appunto nel perenne divenire. È questo senza dubbio l'aspetto della dottrina di Eraclito divenuto più celebre, tosto fissato nella formula "tutto scorre" (pànta rhèi)» (da Il pensiero antico, p. 23, Vita e Pensiero, Milano 2001, ISBN 88-343-0700-3).
  25. ^ «Il motivo dell'opposizione sonno-veglia, connesso con quello dell'incapacità umana a comprendere il logos e la vera natura delle cose (cfr. quanto osservato a proposito di B 17, n. 28) è frequente in Eraclito: lo abbiamo già visto in B 1 e lo ritroveremo in B 26, B 73, B 75, B 87 e B 89. Al di là di molte sottili questioni ermeneutiche (per le quali si rinvia all'esposizione in Zeller-Mondolfoop. cit., I 4, pp. 279-87) e l'indubbia oscurità di alcune sue formule, il senso fondamentale sta nel parallelismo tra le coppie sogni-sonno e saggezza particolare (cfr. B 2)-vita. In altri termini le opinioni particolari degli uomini, proprio perché separate da "ciò che è saggio" (cfr. B 108 e n. 52) danno di ciò che vediamo un'immagine di alcunché di morto (unità di vivo e di morto cfr. B 62) e non hanno maggiore consistenza dei sogni che vediamo nel sonno. Per questo i "valori" notturni del sonno e della morte fanno tutt'uno con quelli "luminosi" della veglia e della vita.» Questa interpretazione è di Gabriele Giannantoni in I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 201.
  26. ^ Dal libro Sulla superstizione di Plutarco, in Diels-Kranz, 89. La traduzione dal greco antico in italiano di Gabriele Giannantoni risulta come segue: «unico e comune il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio particolare» (da I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 215). Quella di Giovanni Reale è invece: «Eraclito dice che per coloro che sono svegli esiste un mondo unico e comune, e che invece ciascuno di coloro che dormono torna nel proprio mondo» (da I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 363). La traduzione di Angelo Tonelli è infine: «Per i risvegliati c'è un cosmo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si involge in un mondo proprio.» (da Eraclito, Dell'Origine, a cura di Angelo Tonelli, Giangiacomo Feltrinelli Editore1993).
  27. ^ «Molti sono scadenti, pochi quelli che valgono» (fr. 14, A 72, Colli).
  28. ^ Diels-Kranz 1.
  29. ^ «Non potrai mai raggiungere i confini dell'anima, per quanto tu possa andare percorrendo per intero le sue vie: tanto profondo è il suo lògos» (fr. 45, Diels-Kranz).
  30. ^ Cfr. Eraclito su filosofico.net: «l'aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale».
  31. ^ «La tradizione lo ricorda come un uomo orgoglioso e solitario, difensore e sostenitore di valori aristocratici e poco comprensibili alla gente comune» (G. Granata, Filosofia, vol. I, pag. 25, Alpha Test, 2001).
  32. ^ «Per parte sua, il volgo, verso il quale l'aristocratico Eraclito non nutre se non disprezzo, si adagia in un'ignoranza presuntuosa» (F. Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, pag. 345, Mondadori, 1988).
  33. ^ Diels-Kranz 29.
  34. ^ «Eraclito depose il suo libro nel tempio di Artemide, avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero <solo>[integrazione di Diels] quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo. E questo sottolinea anche Timone [fr. 43 Diels], allorché dice:
    Tra di essi s'innalzò con il suo grido l'enigmatico Eraclito, dispregiatore della folla.
    Teofrasto sostiene che, a causa del suo temperamento melanconico, egli compose il suo scritto per un verso senza portarlo a termine e per altro in modo discontinuo. Antistene nelle Successioni [F.H.G. III 182*] riferisce un indizio della sua generosità: rinunciò infatti al potere regale in favore del fratello. Il suo scritto godette di una tale fama che alcuni se ne fecero seguaci e furono chiamati Eraclitei» Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 6. Tratto da I Presocratici. Testimonianze e frammenti.
  35. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 6.
  36. ^ In Diels-Kranz 29. Da I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 202, traduzione di Gabriele Giannantoni. Nella traduzione di Giovanni Reale: «Gli uomini migliori preferiscono una sola cosa a tutte le altre, ossia la gloria eterna alle cose mortali; i più, invece, amano saziarsi come le bestie». In I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 349.
  37. ^ In Diels-Kranz 33. Da I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 202, traduzione di Gabriele Giannantoni. Nella traduzione di Giovanni Reale: «Legge è anche ubbidire alla volonta dell'Uno». In I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 349
  38. ^ Presentato anche da Simmaco e da Teodoro Prodromo in Epitalamio per le nozze di Giovanni Comneno e.... Taronita. In Diels-Kranz 49. Da I presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. cit., p. 202, traduzione di Gabriele Giannantoni. Nella traduzione di Giovanni Reale: «Uno solo vale più di diecimila, se è il migliore». Da I presocratici. Prima traduzione integrale..., ed. cit., p. 353.
  39. ^ fr. 61
  40. ^ «La maggior parte di coloro che per primi filosofarono ritennero che i soli principi di tutte le cose fossero quelli di specie materiale, perché ciò da cui tutte le cose hanno l'essere, da cui originariamente derivano e in cui alla fine si risolvono, pur rimanendo la sostanza ma cambiando nelle sue qualità, questi essi dicono è l'elemento, questo è l'arché delle cose e perciò ritengono che niente si produce e niente si distrugge, poiché una sostanza siffatta si conserva sempre» (Aristotele, Metafisica, I, 3, 983b).
  41. ^ «Il fuoco vive della morte della terra e l'aria vive della morte del fuoco; l'acqua vive della morte dell'aria, la terra della morte dell'acqua» (Eraclito, frammento 76).
  42. ^ Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori, 2005.
  43. ^ Sulle interpretazioni di Nietzsche e Heidegger si veda quest'intervista di Remo Bodei, per l'Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche.

Bibliografia [modifica]

  • Eraclito, Die fragmente der Vorsokratiker, hrg von H. Diels e W. Kranz, Berlin, 1954
  • Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Milano, 1980
  • I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Gabriele GiannantoniArnoldo Mondadori Editore2009
  • I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Bompiani 2006
  • Diogene LaerzioVite dei filosofi
  • Clemente AlessandrinoStromata
  • Vittorio Macchioro, Eraclito. Nuovi studi sull'orfismo, Laterza, Roma-Bari, 1922
  • Carlo DianoIl pensiero greco da Anassimandro agli stoici, Bollati Boringhieri, Torino, 2007
  • Giorgio ColliLa sapienza greca. Eraclito, Vol. 3, Adelphi, Milano, 1980
  • Martin HeideggerEugen FinkEraclito, Laterza, Roma-Bari, 2010
  • Ivan Pozzoni, Eraclito de-crittato. L'ontologia civica di Eraclito d'Efeso, Limina Mentis, Villasanta, 2009

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