Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta.
Baruch Spinoza
Baruch Spinoza
“Io non presento Dio come giudice”
Baruch Spinoza (1632-1677) invece ha tutte le caratteristiche del filosofo che piace agli intelligenti, un po’ per via della sua storia personale, e cioè la famiglia di ebrei sefarditi costretti a lasciare il Portogallo per rifugiarsi nella liberale Olanda e la successiva scomunica della sua stessa comunità con relativo tentativo di accoltellamento (senza dimenticarsi del suo lavoro ufficiale, il molatore di lenti, che ce lo rende più simpatico e più vicino a noi uomini comuni), un po’ per il carattere della sua filosofia, ovvero del Dio immanente che non odia e che non giudica nessuno e che regola tutto secondo necessità.
Non staremo qua a sottilizzare, io l’Etica e il Tractatus ogni tanto li spilucco, andremo per grandi linee.
Nell’Etica Spinoza tratta i vari aspetti dell’esistenza come problemi logico-geometrici, e infatti una cosa ha compreso Spinoza, che gli uomini agiscono sull’impulso delle passioni e del timore (conoscenza inadeguata), occorre quindi seguire la via della ragione (conoscenza adeguata, che per un filosofo è anche naturale).
Dietro a questa ambiziosa opera di trasposizione aritmetica delle questioni umane si muove il fondamento della sua filosofia: non esistono due dimensioni separate della realtà quali le intendeva Cartesio, la realtà materiale e quella immateriale del pensiero sono i due aspetti della medesima sostanza divina.
Per Spinoza tutto è in Dio. Noi stessi siamo emanazioni della sostanza divina, siamo fatti della Sua stessa sostanza, quasi un’eresia. Ma c’è di più. Dio tutto determina non già secondo una sua libera scelta, ma secondo la sua intima natura di essere perfettissimo:
“La natura di Dio e le sue proprietà, e cioè che esiste necessariamente; che è unico; che è ed agisce per la sola necessità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose e in qual modo; che tutte le cose sono in Dio e dipendono da lui in modo tale che senza di lui non possono né essere, né essere concepite; e, infine, che tutte le cose sono state predeterminate da Dio non secondo la libertà della sua volontà, ossia per suo assoluto beneplacito, ma secondo la sua assoluta natura ossia infinita potenza”. (Etica).
Dio non può esimersi dal creare il mondo così com’è, il mondo è l’implicazione stessa della sua natura (riflessi neoplatonici), il mondo scaturisce da Dio come il triangolo scaturisce dalle proprietà geometriche ad esso correlate. Producendo il mondo Dio crea anche anche se stesso, necessariamente. Niente di ciò che può essere creato viene quindi lasciato non accadere (sarebbe come se il triangolo tralasciasse qualcuna delle sue proprietà, impossibile).
Si capisce bene perché Spinoza, pur vedendo Dio in ogni cosa, fosse considerato ateo:
perché l’idea di Dio veicolata dalle religioni è quella di libero giudice delle questioni umane, tolto il libero arbitrio a Dio, tolta la sua potenza, la sua funzione giudicante nei confronti dell’uomo (noi moderni invece riteniamo che questa funzione giudicante è solo una pretesa umana che viene attribuita a Dio per farsi più intimidatoria).
Eppure Spinoza parla di etica, e l’etica implicherebbe, nel pensiero comune, il libero arbitrio. Ebbene, per Spinoza non può esistere libero arbitrio, l’uomo che pensasse di essere libero sarebbe come una pietra che, lanciata per aria, pensasse di essere essa stessa la causa del suo movimento. E quindi, come si fa ad essere responsabili delle proprie azioni?
L’unica responsabilità che abbiamo è assecondare la necessità delle cose, è questa la strada che guida il virtuoso: astenersi dalle passioni che oscurano la ragione (riflessi stoici), farsi sospingere dalle leggi della natura senza abbandonarsi al timore, alla rabbia, alla vendetta.
Si potrebbe obiettare a Spinoza che se tutto è necessità, allora non si pone nemmeno il problema di scegliere la strada della ragione, perché sarebbe la necessità a imporci la sua scelta. Ma in fondo Spinoza era un brav’uomo e una persona “buona” nel più vero senso della parola e va bene così.
http://fmentis.tumblr.com/post/167898722006/baruch-spinoza
Il 24 novembre 1632 nasceva Baruch Spinoza,
filosofo della modernità, della ragione e della libertà, oppositore di ogni forma di pregiudizio..
La conoscenza non è soltanto fonte di gioia intellettuale, ma anche di libertà e di felicità..
Si distacca da Cartesio per ristabilire l'unità dell'essere..
Dio,uomo e natura non rappresentano più tre istanze distinte, ma una realtà necessaria e unica..
"Attraversare la vita non con paura e pianto, ma in serenità, letizia e ilarità.."
Baruch Spinoza
Essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare. Georg Wilhelm Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, 2, pp. 109-110)
Spinoza è un punto talmente importante della filosofia moderna, che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo. Georg Wilhelm Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, 2, p. 137)
È [...] inesatto chiamare ateo Spinoza soltanto perché non distingue Dio dal mondo. Con altrettanta e più ragione lo spinozismo potrebbe piuttosto definirsi acosmismo, in quanto in esso non il sistema cosmico, l'essenza finita, l'universo, ma soltanto Dio è considerato sostanziale e gli si attribuisce vita perenne. Spinoza afferma che ciò che si chiama mondo non esiste affatto: è soltanto una forma di Dio, non è niente in sé e per sé. L'universo non ha vera realtà: tutto è gettato nell'abisso dell'unica identità. Non c'è quindi nulla nella realtà finita; questa non ha verità alcuna; secondo Spinoza, quello che è è soltanto Dio. È adunque vero tutto il contrario di quanto si sostiene da coloro che incolpano Spinoza di ateismo: semmai in lui c'è troppo Dio.
«Mi sono spesso meravigliato che uomini, i quali si vantano di professare la religione cristiana, e cioè l'amore, la gioia, la pace, la moderazione e la lealtà con tutti, contendessero tra di loro con tanto astiosa irruenza e si odiassero a vicenda con sì feroce e costante accanimento, da far capire da ciò, piuttosto che dall'esercizio di quelle virtù, la specie di fede da ciascuno professata; le cose sono ormai arrivate al punto, che quasi non si può più distinguere di chi si tratti, se di un Cristiano, cioè, o di un Turco o di un Ebreo o di un Pagano, se non dalla veste esteriore di ognuno e dal culto o dalla Chiesa che frequenta o dall'opinione che segue o dal maestro sulla cui parola suole giurare. Per il resto conducono tutti la stessa vita».
Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico
In conformità alla decisione degli angeli e al pronunciamento dei santi, secondo l’ispirazione del sommo Iddio e l’approvazione di questa comunità, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e scacciamo Baruch de Espinoza. […] Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si posa e sia maledetto quando si leva, sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Che Dio non lo perdoni mai! Che l’ira e il furore di Dio si infiammino contro quest’uomo e su di lui riversino tutti gli anatemi e le maledizioni che sono iscritti nei libri della Legge. Dio annienterà il suo nome sotto il cielo e lo separerà, per il suo male, da tutta la stirpe d’Israele con tutte le maledizioni del cielo che sono iscritte nei libri della Legge. […] Noi ordiniamo che nessuno abbia rapporti con lui né orali né scritti, che nessuno gli presti alcun soccorso, che nessuno stia mai insieme a lui sotto un tetto o nel raggio di quattro passi, che nessuno legga mai un’opera scritta e pubblicata da lui.
Cherem del 27 luglio 1656, una scomunica e una maledizione implacabili contro Baruch Spinoza.
Baruch Spinoza nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da genitori di religione ebraica forzatamente convertiti al cristianesimo.
Baruch Spinoza
Baruch Spinoza
“Io non presento Dio come giudice”
Baruch Spinoza (1632-1677) invece ha tutte le caratteristiche del filosofo che piace agli intelligenti, un po’ per via della sua storia personale, e cioè la famiglia di ebrei sefarditi costretti a lasciare il Portogallo per rifugiarsi nella liberale Olanda e la successiva scomunica della sua stessa comunità con relativo tentativo di accoltellamento (senza dimenticarsi del suo lavoro ufficiale, il molatore di lenti, che ce lo rende più simpatico e più vicino a noi uomini comuni), un po’ per il carattere della sua filosofia, ovvero del Dio immanente che non odia e che non giudica nessuno e che regola tutto secondo necessità.
Non staremo qua a sottilizzare, io l’Etica e il Tractatus ogni tanto li spilucco, andremo per grandi linee.
Nell’Etica Spinoza tratta i vari aspetti dell’esistenza come problemi logico-geometrici, e infatti una cosa ha compreso Spinoza, che gli uomini agiscono sull’impulso delle passioni e del timore (conoscenza inadeguata), occorre quindi seguire la via della ragione (conoscenza adeguata, che per un filosofo è anche naturale).
Dietro a questa ambiziosa opera di trasposizione aritmetica delle questioni umane si muove il fondamento della sua filosofia: non esistono due dimensioni separate della realtà quali le intendeva Cartesio, la realtà materiale e quella immateriale del pensiero sono i due aspetti della medesima sostanza divina.
Per Spinoza tutto è in Dio. Noi stessi siamo emanazioni della sostanza divina, siamo fatti della Sua stessa sostanza, quasi un’eresia. Ma c’è di più. Dio tutto determina non già secondo una sua libera scelta, ma secondo la sua intima natura di essere perfettissimo:
“La natura di Dio e le sue proprietà, e cioè che esiste necessariamente; che è unico; che è ed agisce per la sola necessità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose e in qual modo; che tutte le cose sono in Dio e dipendono da lui in modo tale che senza di lui non possono né essere, né essere concepite; e, infine, che tutte le cose sono state predeterminate da Dio non secondo la libertà della sua volontà, ossia per suo assoluto beneplacito, ma secondo la sua assoluta natura ossia infinita potenza”. (Etica).
Dio non può esimersi dal creare il mondo così com’è, il mondo è l’implicazione stessa della sua natura (riflessi neoplatonici), il mondo scaturisce da Dio come il triangolo scaturisce dalle proprietà geometriche ad esso correlate. Producendo il mondo Dio crea anche anche se stesso, necessariamente. Niente di ciò che può essere creato viene quindi lasciato non accadere (sarebbe come se il triangolo tralasciasse qualcuna delle sue proprietà, impossibile).
Si capisce bene perché Spinoza, pur vedendo Dio in ogni cosa, fosse considerato ateo:
perché l’idea di Dio veicolata dalle religioni è quella di libero giudice delle questioni umane, tolto il libero arbitrio a Dio, tolta la sua potenza, la sua funzione giudicante nei confronti dell’uomo (noi moderni invece riteniamo che questa funzione giudicante è solo una pretesa umana che viene attribuita a Dio per farsi più intimidatoria).
Eppure Spinoza parla di etica, e l’etica implicherebbe, nel pensiero comune, il libero arbitrio. Ebbene, per Spinoza non può esistere libero arbitrio, l’uomo che pensasse di essere libero sarebbe come una pietra che, lanciata per aria, pensasse di essere essa stessa la causa del suo movimento. E quindi, come si fa ad essere responsabili delle proprie azioni?
L’unica responsabilità che abbiamo è assecondare la necessità delle cose, è questa la strada che guida il virtuoso: astenersi dalle passioni che oscurano la ragione (riflessi stoici), farsi sospingere dalle leggi della natura senza abbandonarsi al timore, alla rabbia, alla vendetta.
Si potrebbe obiettare a Spinoza che se tutto è necessità, allora non si pone nemmeno il problema di scegliere la strada della ragione, perché sarebbe la necessità a imporci la sua scelta. Ma in fondo Spinoza era un brav’uomo e una persona “buona” nel più vero senso della parola e va bene così.
http://fmentis.tumblr.com/post/167898722006/baruch-spinoza
filosofo della modernità, della ragione e della libertà, oppositore di ogni forma di pregiudizio..
La conoscenza non è soltanto fonte di gioia intellettuale, ma anche di libertà e di felicità..
Si distacca da Cartesio per ristabilire l'unità dell'essere..
Dio,uomo e natura non rappresentano più tre istanze distinte, ma una realtà necessaria e unica..
"Attraversare la vita non con paura e pianto, ma in serenità, letizia e ilarità.."
Baruch Spinoza
Essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare. Georg Wilhelm Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, 2, pp. 109-110)
Spinoza è un punto talmente importante della filosofia moderna, che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo. Georg Wilhelm Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, 2, p. 137)
È [...] inesatto chiamare ateo Spinoza soltanto perché non distingue Dio dal mondo. Con altrettanta e più ragione lo spinozismo potrebbe piuttosto definirsi acosmismo, in quanto in esso non il sistema cosmico, l'essenza finita, l'universo, ma soltanto Dio è considerato sostanziale e gli si attribuisce vita perenne. Spinoza afferma che ciò che si chiama mondo non esiste affatto: è soltanto una forma di Dio, non è niente in sé e per sé. L'universo non ha vera realtà: tutto è gettato nell'abisso dell'unica identità. Non c'è quindi nulla nella realtà finita; questa non ha verità alcuna; secondo Spinoza, quello che è è soltanto Dio. È adunque vero tutto il contrario di quanto si sostiene da coloro che incolpano Spinoza di ateismo: semmai in lui c'è troppo Dio.
Georg Wilhelm Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, 2, p. 137)
Gli uomini sono ben lungi dal poter essere facilmente guidati dalla ragione; ciascuno è sospinto dai suoi personali impulsi al piacere e gli animi spessissimo sono a tal punto dominati dall'invidia, dalla collera, che nessun posto resta per la capacità di riflettere e giudicare.
Spinoza
L'onore è di grande impedimento perché, per conseguirlo, dobbiamo necessariamente condurre la vita secondo le opinioni degli uomini, fuggendo ciò che essi generalmente fuggono e cercando ciò che essi generalmente cercano.
Baruch Spinoza, 'Trattato sull'emendazione dell'intelletto', 5
«Il denaro ha apportato un vero compendio di tutte le cose; onde è accaduto che la sua immagine suole occupare in sommo grado la Mente del volgo, perché la gente volgare non può immaginare alcuna specie di Letizia se non con l’accompagnamento dell’idea della moneta come causa. […] Ma quelli che conoscono il vero uso della moneta e regolano la misura della ricchezza solo sul bisogno, vivono contenti di poco».
Baruch Spinoza, dall' Ethica
"Cercare il denaro, o qualunque altra cosa, nella misura sufficiente a sostenere vita e salute e a conformarci a quei costumi della società che non si oppongono al nostro scopo.
Denique tantum nummorum, aut cuiuscumque alterius rei quaerere, quantum sufficit ad vitam, et valetudinem sustentandam, et ad mores civitatis, qui nostrum scopum non oppugnant, imitandos."
Baruch Spinoza, Trattato sull'emendazione dell'intelletto
Dopo che l'esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili; e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l'animo ne era turbato, decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l'animo fosse affetto; anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.
Baruch Spinoza
"Nulla, dunque, è più utile all'uomo che l'uomo stesso: nulla, dico, di più eccellente per conservare il proprio essere gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto in modo che le menti e i corpi di tutti formino quasi una sola Mente ed un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti cerchino insieme per sé l'utile comune di tutti; donde segue che gli uomini che sono guidao nulla per sé che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti."
Baruch Spinoza, "Baruch Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico", Libro IV, Scolio della Prop. XVIIIti dalla ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscon
Spinoza
“Sono sulla bocca di tutti i detti: quante teste, tanti pareri; ciascuno abbonda nel proprio senso;
le differenze dei cervelli non sono minori di quelle dei palati: e tutti questi detti mostrano abbastanza che gli uomini giudicano delle cose secondo la disposizione del loro cervello, e le immaginano piuttosto che conoscerle intellettualmente. Se, infatti, le avessero conosciute intellettualmente, esse avrebbero il potere, se non di attirare, almeno di convincere tutti.”
~ B. Spinoza, “Etica”, I, Appendice
La perfezione e l'imperfezione sono in realtà soltanto modi del pensare, cioè nozioni che siamo soliti inventare per il fatto che confrontiamo gli uni agli altri individui della stessa specie o genere.
Baruch Spinoza
le differenze dei cervelli non sono minori di quelle dei palati: e tutti questi detti mostrano abbastanza che gli uomini giudicano delle cose secondo la disposizione del loro cervello, e le immaginano piuttosto che conoscerle intellettualmente. Se, infatti, le avessero conosciute intellettualmente, esse avrebbero il potere, se non di attirare, almeno di convincere tutti.”
~ B. Spinoza, “Etica”, I, Appendice
La perfezione e l'imperfezione sono in realtà soltanto modi del pensare, cioè nozioni che siamo soliti inventare per il fatto che confrontiamo gli uni agli altri individui della stessa specie o genere.
Baruch Spinoza
L'onore è di grande impedimento perché, per conseguirlo, dobbiamo necessariamente condurre la vita secondo le opinioni degli uomini, fuggendo ciò che essi generalmente fuggono e cercando ciò che essi generalmente cercano.
Baruch Spinoza, 'Trattato sull'emendazione dell'intelletto', 5
«Il denaro ha apportato un vero compendio di tutte le cose; onde è accaduto che la sua immagine suole occupare in sommo grado la Mente del volgo, perché la gente volgare non può immaginare alcuna specie di Letizia se non con l’accompagnamento dell’idea della moneta come causa. […] Ma quelli che conoscono il vero uso della moneta e regolano la misura della ricchezza solo sul bisogno, vivono contenti di poco».
Baruch Spinoza, dall' Ethica
"Cercare il denaro, o qualunque altra cosa, nella misura sufficiente a sostenere vita e salute e a conformarci a quei costumi della società che non si oppongono al nostro scopo.
Denique tantum nummorum, aut cuiuscumque alterius rei quaerere, quantum sufficit ad vitam, et valetudinem sustentandam, et ad mores civitatis, qui nostrum scopum non oppugnant, imitandos."
Baruch Spinoza, Trattato sull'emendazione dell'intelletto
Dopo che l'esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili; e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l'animo ne era turbato, decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l'animo fosse affetto; anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.
Baruch Spinoza
"Nulla, dunque, è più utile all'uomo che l'uomo stesso: nulla, dico, di più eccellente per conservare il proprio essere gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto in modo che le menti e i corpi di tutti formino quasi una sola Mente ed un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti cerchino insieme per sé l'utile comune di tutti; donde segue che gli uomini che sono guidao nulla per sé che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti."
Baruch Spinoza, "Baruch Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico", Libro IV, Scolio della Prop. XVIIIti dalla ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscon
Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico
In conformità alla decisione degli angeli e al pronunciamento dei santi, secondo l’ispirazione del sommo Iddio e l’approvazione di questa comunità, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e scacciamo Baruch de Espinoza. […] Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si posa e sia maledetto quando si leva, sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Che Dio non lo perdoni mai! Che l’ira e il furore di Dio si infiammino contro quest’uomo e su di lui riversino tutti gli anatemi e le maledizioni che sono iscritti nei libri della Legge. Dio annienterà il suo nome sotto il cielo e lo separerà, per il suo male, da tutta la stirpe d’Israele con tutte le maledizioni del cielo che sono iscritte nei libri della Legge. […] Noi ordiniamo che nessuno abbia rapporti con lui né orali né scritti, che nessuno gli presti alcun soccorso, che nessuno stia mai insieme a lui sotto un tetto o nel raggio di quattro passi, che nessuno legga mai un’opera scritta e pubblicata da lui.
Cherem del 27 luglio 1656, una scomunica e una maledizione implacabili contro Baruch Spinoza.
Baruch Spinoza nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da genitori di religione ebraica forzatamente convertiti al cristianesimo.
I suoi studi sono prevalentemente rivolti alla lingua ebraica ed ai testi biblici nutrendo un forte interesse per i testi classici latini e per la scolastica medievale.
Nel 1656 il suo essere alternativo lo porta ad una scomunica per eresie praticate ed insegnate: questo fatto lo conduce ad un’isolamento dalla comunità, dalla sinagoga e soprattutto, dai familiari.
Decide di abbandonare la sua amata Amsterdam per trasferirsi in un piccolo villaggio ed osservare il precetto rabbinico che voleva imparasse un mestiere manuale: diviene molatore e tagliatore.
Nel 1661 Spinoza pubblica i “Principi della filosofia di Cartesio” con una appendice di “Pensieri Metafisici”.
Nel 1664 pubblica la scrittura dell’”Ethica more geometrico demonstrata” . L’opera vede la luce solo dopo la sua morte, inserita nella raccolta dal titolo “Opera Posthuma” (1677) che comprende anche il “Trattato sull’emendazione dell’intelletto”, il “Trattato Teologico-Politico”, l’ “Epistolario” e una grammatica ebraica, il “Compendium grammatices linguae hebreae”.
Nel 1670 pubblica il ” Tractatus theologico-politicus”, opera che analizza L’Antico Testamento negandone la sua origine divina.
Baruch Spinoza muore il 21 febbraio 1677.
La tesi centrale del suo pensiero filosofico è l’identificazione panteistica, con Dio e con la natura, criticando la visione tradizionale del finalismo di Dio, poiché lo stesso perderebbe perfezione se desiderasse le cose per un fine.
Il famoso “cogito ergo sum” sintetizza la necessità che il pensiero trovi una sua corrispondenza all’interno della realtà senza rimanerne al di fuori; nascono così due mondi: quello del pensiero e quello del reale.
http://www.lintervista.it/baruch-spinoza/
Una pietra riceve una certa quantità di moto da una causa esterna che la spinge, in virtù della quale, in seguito, cessando la spinta della causa esterna, continuerà necessariamente a muoversi. Questa permanenza della pietra nel moto è dunque coatta, non perché è necessaria, ma perché deve essere definita per l’impulso della causa esterna. […] Ora supponi, per favore, che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi e sappia che tende, per quanto può, a continuare a muoversi. Questa pietra, poiché è cosciente soltanto della sua pulsione e a questa non indifferente, crede di essere liberissima e di non perseverare nel moto per nessun’altra causa che non sia la sua volontà. Questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di avere e che consiste soltanto nell’essere gli uomini consapevoli del loro appetito e ignari delle cause dalle quali sono determinati. Così il bambino crede di volere liberamente il latte; il fanciullo irato di volere la vendetta e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che poi, da sobrio, vorrebbe aver taciuto. Così, colui che delira, il ciarlatano e molti di questa razza credono di agire per libero decreto della mente, non di essere trasportati dall’impulso. […] Benché l’esperienza insegni più che a sufficienza che gli uomini nulla possono controllare meno dei loro appetiti e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono le cose migliori e seguono le peggiori, credono tuttavia di essere liberi.
Baruch Spinoza, Epistola 74 a G. H. Schuller
Una pietra riceve una certa quantità di moto da una causa esterna che la spinge, in virtù della quale, in seguito, cessando la spinta della causa esterna, continuerà necessariamente a muoversi. Questa permanenza della pietra nel moto è dunque coatta, non perché è necessaria, ma perché deve essere definita per l’impulso della causa esterna. […] Ora supponi, per favore, che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi e sappia che tende, per quanto può, a continuare a muoversi. Questa pietra, poiché è cosciente soltanto della sua pulsione e a questa non indifferente, crede di essere liberissima e di non perseverare nel moto per nessun’altra causa che non sia la sua volontà. Questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di avere e che consiste soltanto nell’essere gli uomini consapevoli del loro appetito e ignari delle cause dalle quali sono determinati. Così il bambino crede di volere liberamente il latte; il fanciullo irato di volere la vendetta e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che poi, da sobrio, vorrebbe aver taciuto. Così, colui che delira, il ciarlatano e molti di questa razza credono di agire per libero decreto della mente, non di essere trasportati dall’impulso. […] Benché l’esperienza insegni più che a sufficienza che gli uomini nulla possono controllare meno dei loro appetiti e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono le cose migliori e seguono le peggiori, credono tuttavia di essere liberi.
Baruch Spinoza, Epistola 74 a G. H. Schuller
"Con Spinoza l'æterna substantia, l'intima natura del mondo, che lui stesso chiama Dio, è il Signore che applaude la sua stessa creazione, e scopre che tutto è molto buono. Spinoza ha privato Dio solo della personalità. Così, secondo lui anche il mondo è del tutto eccellente e come dovrebbe essere: quindi l'uomo non ha niente altro da fare che vivere, "agere, suum Esse conservare ex Fondamento proprium Utile quærendi" (Eth, iv pr 67); egli deve anche gioire nella sua vita finché dura; del tutto in conformità con l'Ecclesiaste ix. 7-10. In breve, si tratta di ottimismo: pertanto, il suo lato etico è debole, come nel Vecchio Testamento; anzi, è falso, e in parte rivoltante. Con me, d'altra parte, la volontà, o la natura interiore del mondo, non è affatto Geova, è piuttosto, per così dire, il Salvatore crocifisso, o il ladro crocifisso, in base a come si risolve. Perciò il mio insegnamento etico è conforme a quello del cristianesimo, completamente e nelle sue più alte tendenze, e non di meno con quello del brahmanesimo e del buddhismo. Spinoza non riuscì a liberarsi dell'ebraismo; quo Semel est imbuta recens Servabit odorem. Il suo disprezzo per gli animali, che, come semplici cose per il nostro uso, dichiara anche essere senza diritti, è completamente ebraico, e, insieme con il panteismo, è allo stesso tempo assurdo e detestabile (Eth., IV., Appendice , c. 27).
Con tutto questo Spinoza resta un grandissimo uomo."
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Epifilosofia
“Quanto più concepiamo l’uomo come libero, tanto più siamo costretti ad ammettere che deve necessariamente conservare se stesso ed essere padrone della sua mente. Il che mi sarà facilmente concesso da chiunque non confonda la libertà con la contingenza. La libertà è infatti una virtù, ossia una perfezione. Tutto ciò che rimanda all’impotenza dell’uomo non può quindi riferirsi alla sua libertà. Ne consegue che l’uomo non può affatto definirsi libero perché può non esistere o perché può non avvalersi della ragione. È libero solo in quanto ha il potere di esistere e di agire secondo le leggi della natura umana”
Baruch Spinoza, dal Trattato teologico-politico (II, 7)
NATURA NATURANS
da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Natura naturans è un'espressione latina, traducibile con natura naturante, che trova la sua prima concezione nella scolastica e successivamente nel filosofo Giordano Bruno nell'opera De la causa, principio et uno del 1584. Ritroviamo questa concezione nel pensiero del filosofo olandese Baruch Spinoza. Il verbo "naturare", un neologismo latino, vuole rendere l'azione tipica della natura, ovvero il produrre della natura la sua stessa realtà. L'espressione è conosciuta soprattutto perché assume in contrapposizione alla natura naturata, un valore fondante nel pensiero del grande filosofo seicentesco Baruch Spinoza. La natura naturante è in tale concezione l'intervento immanente, come perpetua attività generatrice, di Dio, che rende la natura perfetta accompagnandone costantemente il divenire secondo le leggi della sua propria necessità razionale. Secondo la concezione panteistica di Spinoza, infatti, Dio è la natura e la natura è divina: questa identificazione può però essere intesa in due sensi diversi, dal punto di vista dinamico (la natura naturante, nel divenire della sua perfezione), e statico (natura naturata, ovvero la perfezione come risultato compiuto).
Assiomi, o Princìpi evidenti di per sé
1. Ogni cosa che è sussiste in se stessa o in un’altra cosa.
2. Ciò che non è suscettibile d’esser concepito mediante il concetto di altre cose deve essere pensato assolutamente, per sé.
3. Posta una causa specifica, da essa segue necessariamente un effetto; e, al contrario, se non sia posta alcuna causa specifica è impossibile che segua un effetto.
4. La conoscenza di un effetto dipende dalla conoscenza della sua causa, e la implica.
5. Le cose che non hanno nulla di comune l’una con l’altra non possono nemmeno essere comprese l’una per mezzo dell’altra; ossia il concetto dell’una non implica il concetto dell’altra.
6. Un’idea vera deve accordarsi con il suo oggetto-quale-esso-è-in-sé.
7. Qualsiasi cosa che possa pensarsi non-esistente ha un’essenza che non implica l’esistenza.
Spinoza
Forma le idee positive prima delle negative
Spinoza, da "Opere. Trattato sull'emendazione dell'intelletto
Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati dal passato e dall'avvenire.
Non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l'avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l'avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali.
Baruch Spinoza
Io non attribuisco alla natura né bellezza, né bruttezza, né ordine né confusione, giacché le cose non si possono dire belle o brutte, ordinate o confuse, se non relativamente alla nostra immaginazione.
Baruch Spinoza
Essere ciò che siamo e diventare ciò che possiamo diventare è l'unico scopo della vita.
Baruch Spinoza
Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta.
Baruch Spinoza
Gli uomini non nascono civili, lo diventano.
Baruch Spinoza
La Mente umana non conosce il Corpo umano né sa che esiste se non mediante le idee delle affezioni da cui il Corpo è affetto.
Baruch Spinoza. L’etica; 2^ parte; XIX Prop.
Falso è il vanto di chi pretende di possedere, all'infuori della ragione, un altro spirito che gli dia la certezza della verità
Baruch Spinoza
Chi vive guidato dalla ragione si sforza, per quanto può, di ricambiare l'odio, l'ira, il dispregio, eccetera, di altri contro di lui, con l'amore, ossia con la generosità.
Baruch Spinoza
Chi vive guidato dalla ragione si sforza, per quanto può, di ricambiare l'odio, l'ira, il dispregio, eccetera, di altri contro di lui, con l'amore, ossia con la generosità.
Baruch Spinoza
Con quanta imprudenza molti cercano di levar di mezzo un tiranno senza essere in grado di eliminare le cause che fanno del principe un tiranno.
Baruch Spinoza
Ciò che determina il nostro amore, che orienta la nostra scelta, è unicamente il nostro sentimento, non è affatto la qualità reale dell’oggetto del nostro affetto, né, peggio ancora, i “valori” trascendenti ai quali si presume esso corrisponda. Non è l’eccellenza, la bontà o la bellezza di una cosa, di un’idea o di una persona che ce le rende desiderabili, ma soltanto il fatto di associarvi un accrescimento della nostra energia vitale, ossia gioia, in loro presenza
Bento de Spinoza, L’utile.
“Gli uomini fanno tutto per un fine, cioè per l’utile, che appetiscono; onde avviene che desiderano sapere sempre solamente le cause finali delle cose passate, e che dopo averle udite, si acquietino; certo perché non hanno nessuna causa di dubitare ulteriormente. Se poi non possono udirle da qualcuno, non resta che rivolgersi a se stessi, e riflettere sui fini da cui essi stessi sogliono essere determinati a cose simili, e cosi di necessità, giudicano l’indole altrui alla stregua della loro. Poi, trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi, che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio, gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevar pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi stessi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso. Ma anche l’indole di questi, per non averne mai sentito dir nulla, doverono giudicare alla stregua della loro, e quindi stabilirono che gli Dei indirizzano tutto a uso degli uomini, per legarli a sé ed essere da loro tenuti in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, secondo la loro indole, affinché Dio li preferisse agli altri, e dirigesse tutta la natura ad uso della loro cieca cupidità e insaziabile avidità. E così questo pregiudizio si mutò in superstizione, e mise profonde radici nelle menti; e questa fu la causa per cui ognuno si studiò, col massimo sforzo, di capire e di spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma mentre cercavano di dimostrare che la natura non fa niente invano (che cioè non sia ad uso degli uomini), sembra che non abbiano dimostrato, se non che la natura e gli Dei delirano proprio come gli uomini. Guarda dunque a che punto si è arrivati!”
BENTO de SPINOZA (1632 – 1677), “Etica. Dimostrata secondo l’ordine geometrico e divisa in cinque parti” (I ed. anomima, Jan Rieuwertsz, Amsterdam 1677, postuma), introduzione e trad. [condotta sull’ed. qui sotto riportata] di Sossio Giametta, Boringhieri, Torino 1973 (settima impressione, prima edizione 1959), Parte prima ‘Dio’, ‘Appendice’, pp. 59 – 60.
“ Homines omnia propter finem agere, videlicet propter utile, quod appetunt; unde fit, ut semper rerum
peractarum causas finales tantum scire expetant et, ubi ipsas audiverint, quiescant; nimirum, quia nullam habent causam ulterius dubitandi. Sin autem easdem ex alio audire nequeant, nihil iis restat, nisi ut ad semet se convertant et ad fines, a quibus ipsi ad similia determinari solent, reflectant et sic ex suo ingenio ingenium alterius necessario judicant.
Porro cum in se et extra se non pauca reperiant media, quae ad suum utile assequendum non parum conducant ut ex. gr. oculos ad videndum, dentes ad masticandum, herbas et animantia ad alimentum, solem ad illuminandum, mare ad alendum pisces, etc.; hinc factum, ut omnia naturalia tanquam ad suum utile media considerent; et quia illa media ab ipsis inventa, non autem parata esse sciunt, hinc causam credendi habuerunt aliquem alium esse, qui illa media in eorum usum paraverit. Nam postquam res ut media consideraverunt, credere non potuerunt easdem se ipsas fecisse; sed ex mediis, quae sibi ipsi parare solent, concludere debuerunt dari aliquem vel aliquos naturae rectores, humana praeditos libertate, qui ipsis omnia curaverint et in eorum usum omnia fecerint. Atque horum etiam ingenium, quandoquidem de eo nunquam quid audiverant, ex suo judicare debuerunt atque hinc statuerunt Deos omnia in hominum usum dirigere, ut homines sibi devinciant et in summo ab iisdem honore habeantur; unde factum, ut unusquisque diversos Deum colendi modos ex suo ingenio excogitaverit, ut Deus eos supra reliquos diligeret et totam naturam in usum caecae illorum cupiditatis et insatiabilis avaritiae dirigeret. Atque ita hoc praejudicium in superstitionem versum et altas in mentibus egit radices; quod in causa fuit, ut unusquisque maximo conatu omnium rerum causas finales intelligere easque explicare studeret.
Sed dum quaesiverunt ostendere naturam nihil frustra (hoc est, quod in usum hominum non sit) agere, nihil aliud videntur ostendisse quam naturam Deosque aeque ac homines delirare. Vide quaeso, quo res tandem evasit!”
BARUCH DE SPINOZA, “Ethica Ordine Geometrico demonstrata et in quinque Partes distincta”, in ID., “Opera”, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschafen, Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, s. d. ma 1925, Vier Bände, Band II (S. 45 – 308), Pars prima ‘De Deo’, ‘Appendix’, S. 78 – 79.
Bento de Spinoza, L’utile.
“Gli uomini fanno tutto per un fine, cioè per l’utile, che appetiscono; onde avviene che desiderano sapere sempre solamente le cause finali delle cose passate, e che dopo averle udite, si acquietino; certo perché non hanno nessuna causa di dubitare ulteriormente. Se poi non possono udirle da qualcuno, non resta che rivolgersi a se stessi, e riflettere sui fini da cui essi stessi sogliono essere determinati a cose simili, e cosi di necessità, giudicano l’indole altrui alla stregua della loro. Poi, trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi, che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio, gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevar pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi stessi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso. Ma anche l’indole di questi, per non averne mai sentito dir nulla, doverono giudicare alla stregua della loro, e quindi stabilirono che gli Dei indirizzano tutto a uso degli uomini, per legarli a sé ed essere da loro tenuti in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, secondo la loro indole, affinché Dio li preferisse agli altri, e dirigesse tutta la natura ad uso della loro cieca cupidità e insaziabile avidità. E così questo pregiudizio si mutò in superstizione, e mise profonde radici nelle menti; e questa fu la causa per cui ognuno si studiò, col massimo sforzo, di capire e di spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma mentre cercavano di dimostrare che la natura non fa niente invano (che cioè non sia ad uso degli uomini), sembra che non abbiano dimostrato, se non che la natura e gli Dei delirano proprio come gli uomini. Guarda dunque a che punto si è arrivati!”
BENTO de SPINOZA (1632 – 1677), “Etica. Dimostrata secondo l’ordine geometrico e divisa in cinque parti” (I ed. anomima, Jan Rieuwertsz, Amsterdam 1677, postuma), introduzione e trad. [condotta sull’ed. qui sotto riportata] di Sossio Giametta, Boringhieri, Torino 1973 (settima impressione, prima edizione 1959), Parte prima ‘Dio’, ‘Appendice’, pp. 59 – 60.
“ Homines omnia propter finem agere, videlicet propter utile, quod appetunt; unde fit, ut semper rerum
peractarum causas finales tantum scire expetant et, ubi ipsas audiverint, quiescant; nimirum, quia nullam habent causam ulterius dubitandi. Sin autem easdem ex alio audire nequeant, nihil iis restat, nisi ut ad semet se convertant et ad fines, a quibus ipsi ad similia determinari solent, reflectant et sic ex suo ingenio ingenium alterius necessario judicant.
Porro cum in se et extra se non pauca reperiant media, quae ad suum utile assequendum non parum conducant ut ex. gr. oculos ad videndum, dentes ad masticandum, herbas et animantia ad alimentum, solem ad illuminandum, mare ad alendum pisces, etc.; hinc factum, ut omnia naturalia tanquam ad suum utile media considerent; et quia illa media ab ipsis inventa, non autem parata esse sciunt, hinc causam credendi habuerunt aliquem alium esse, qui illa media in eorum usum paraverit. Nam postquam res ut media consideraverunt, credere non potuerunt easdem se ipsas fecisse; sed ex mediis, quae sibi ipsi parare solent, concludere debuerunt dari aliquem vel aliquos naturae rectores, humana praeditos libertate, qui ipsis omnia curaverint et in eorum usum omnia fecerint. Atque horum etiam ingenium, quandoquidem de eo nunquam quid audiverant, ex suo judicare debuerunt atque hinc statuerunt Deos omnia in hominum usum dirigere, ut homines sibi devinciant et in summo ab iisdem honore habeantur; unde factum, ut unusquisque diversos Deum colendi modos ex suo ingenio excogitaverit, ut Deus eos supra reliquos diligeret et totam naturam in usum caecae illorum cupiditatis et insatiabilis avaritiae dirigeret. Atque ita hoc praejudicium in superstitionem versum et altas in mentibus egit radices; quod in causa fuit, ut unusquisque maximo conatu omnium rerum causas finales intelligere easque explicare studeret.
Sed dum quaesiverunt ostendere naturam nihil frustra (hoc est, quod in usum hominum non sit) agere, nihil aliud videntur ostendisse quam naturam Deosque aeque ac homines delirare. Vide quaeso, quo res tandem evasit!”
BARUCH DE SPINOZA, “Ethica Ordine Geometrico demonstrata et in quinque Partes distincta”, in ID., “Opera”, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschafen, Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, s. d. ma 1925, Vier Bände, Band II (S. 45 – 308), Pars prima ‘De Deo’, ‘Appendix’, S. 78 – 79.
Benedetto Spinoza. Le idee sono racconti o storie mentali della natura.
“Perché queste due nozioni, cioè il vero e il falso, siano capite bene cominceremo dal significato della parola, dal quale apparirà che esse non sono altro che denominazioni estrinseche delle cose e che a queste vengono attribuite solo retoricamente. Ma poiché il volgo inventa per primo i vocaboli che poi vengono usati dai filosofi, ci appare necessario che colui che cerca il primo significato di un qualche vocabolo debba ricercare che cosa esso abbia significato dapprima presso il volgo, particolarmente laddove manchino altre cause che possano esser dedotte dalla natura della lingua per fare tale ricerca. Dunque mi pare che il primo significato di vero e falso abbia avuto origine dai racconti: fu detto vero quel racconto che riferiva un fatto realmente accaduto; falso quello che riferiva un fatto non accaduto in nessun luogo. Ma i filosofi usarono poi questo primo significato per designare l’adeguamento o il non adeguamento dell’idea col suo ideato; per cui si dice idea vera quella che ci mostra la cosa come essa è in sé, falsa quella che ci mostra la cosa diversamente da quello che è in realtà. Infatti le idee non sono altro che racconti o storie mentali della natura. Ma poi questo significato fu traslato metaforicamente da qui alle cose mute, come quando diciamo l'oro vero o falso, quasi che l’oro, posto sotto i nostri occhi, ci narri qualcosa di sé stesso, che è o non è in esso.”
BENEDETTO SPINOZA (1632 – 1677), “Pensieri metafisici” (1663), a cura di Enrico De Angelis, SE, Milano 2009 (I ed. 1990), Parte prima, 6. ‘L’uno , il vero e il bene’, o ‘ Cosa il vero e che cosa il falso, sia in senso comune che in linguaggio filosofico’, pp. 171 – 172.
Bento de Spinoza. Gli animali: loro affetti, loro essenza e nostra utilità.
“Gli affetti degli animali che si dicono irrazionali (in verità non possiamo affatto dubitare che i bruti sentano, dal momento che abbiamo conosciuto l’origine della mente) differiscono dagli affetti degli uomini tanto, quanto la loro natura differisce dalla natura umana. Il cavallo e l’uomo spinti entrambi dalla libidine di procreare; ma quello della libidine equina, questo da quella umana. Cosí anche le libidini e gli appetiti degli insetti, dei pesci e degli uccelli, devono essere ancora diversi. Benché dunque ogni individuo viva contento della propria natura, di cui consta, e di essa goda, tuttavia la vita di cui ognuno è contento, e il godimento di uno differisce tanto per natura dal godimento di un altro, quanto l’essenza dell’uno differisce dall’essenza dell’altro.
[…]
La vera virtú non è niente altro che vivere sotto la sola guida della ragione; e perciò l’impotenza consiste solo nel fatto che l’uomo si lascia guidare dalle cose che sono al di fuori di lui, e da esse è determinato a fare quelle cose che esige la costituzione comune delle cose esterne, e non quelle che esige la sua natura, in sé sola considerata. E questo è quanto ho promesso di dimostrare nello scolio della proposizione 18 di questa parte. Di qui appare chiaro, che quella legge di non ammazzare gli animali è fondata piú sulla vana superstizione e la femminea misericordia che sulla ragione. La norma di ricercare il nostro utile insegna la necessità di congiungerci con gli uomini, ma non con gli animali o le cose, la cui natura è diversa dalla natura umana; lo stesso diritto invece che essi hanno su di noi, noi abbiamo su di loro. Poiché anzi il diritto di ognuno è definito dalla virtú o dalla potenza di ognuno, gli uomini hanno sulle bestie un diritto di gran lunga maggiore che non le bestie sugli uomini. Non nego tuttavia che i bruti sentano; nego bensí che per questo non sia lecito provvedere alla nostra utilità, e servircene a piacere e trattarli e come piú ci conviene; poiché non convengono con noi per natura, e i loro affetti sono per natura diversi dagli affetti umani (vedi lo scolio della proposizione 57, parte terza).”
BENTO DE SPINOZA (1632 – 1677), “Etica dimostrata secondo l’ordina geometrico” (1677, postumo [per volontà dello stesso Spinoza, l’ed. riporta solo le sue iniziali, B.d.S., mentre tace il nome dell’editore - Jan Rieuwertsz - e il luogo – Amsterdam - per non far correre rischi ai responsabili della pubblicazione]), trad. di Sossio Giametta Boringhieri, Torino 1973 (settima impressione, 1959 prima edizione), Parte Terza ‘Origine e natura degli affetti’, Proposizione 57. ‘Qualunque affetto di ogni individuo differisce dall’affetto di un altro tanto, quanto l’essenza dell’uno differisce dall’essenza dell’altro’, ‘Scolio’, pp. 188 – 189; Parte Quarta ‘Parte Quarta ‘La schiavitú umana’ ossia le forze degli affetti’, Proposizione 37. ‘Il bene, che ognuno che persegue la virtú appetisce per sé, lo desidererà anche per gli altri uomini, e tanto piú, quanto maggiore conoscenza di dio avrà’, ‘Scolio’ I, pp. 248 – 249.
“ Affectus animalium quæ irrationalia dicuntur (bruta enim sentire nequaquam dubitare possumus postquam mentis novimus originem) ab affectibus hominum tantum differre quantum eorum natura a natura humana differt. Fertur quidem equus et homo libidine procreandi; at ille libidine equina hic autem humana. Sic etiam libidines et appetitus insectorum, piscium et avium alii atque alii esse debent. Quamvis itaque unumquodque individuum sua qua constat natura, contentum vivat eaque gaudeat, vita tamen illa qua unumquodque est contentum et gaudium nihil aliud est quam idea seu anima ejusdem individui; atque adeo gaudium unius a gaudio alterius tantum natura discrepat quantum essentia unius ab essentia alterius differt.
[…]
Vera virtus nihil aliud sit quam ex solo rationis ductu vivere atque adeo impotentia in hoc solo consistit quod homo a rebus quæ extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur quæ rerum externarum communis constitutio, non autem ea quæ ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque hæc illa sunt quæ in scholio propositionis 18 hujus partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quærendi necessitudinem cum hominibus jungere sed non cum brutis aut rebus quarum natura a natura humana est diversa sed idem jus quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscujusque jus virtute seu potentia uniuscujusque definitur, longe majus homines in bruta quam hæc in homines jus habent. Nec tamen nego bruta sentire sed nego quod propterea non liceat nostræ utilitati consulere et iisdem ad libitum uti eademque tractare prout nobis magis convenit quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi (vide school. prop. 57. p. 3).”
BARUCH de SPINOZA, “Ethica Ordine Geometrico demonstrata” (Lateinisch-Deutsch), von Wolfgang Bartuschat (Herausgeber, Vorwort, Übersetzer), Meiner, Hamburg 2010, Pars Tertia ‘De Origine et Natura affectuum’, Propositio LVII ‘Quilibet uniuscujusque individui affectus ab affectu alterius tantum discrepat quantum essentia unius ab essentia alterius differt’, ‘Scholium’, S. 328/330; Pars Quarta ‘De Servitute Humana seu de affectuum viribus’, Propositio XXXVII ‘Bonum quod unusquisque qui sectatur virtutem, sibi appetit, reliquis hominibus etiam cupiet et eo magis quo majorem Dei habuerit cognitionem’, ‘Scholium’ I, S. 440/442.
...l'utilità è categoria razionale prettamente umana: dare un fine (nel doppio senso di scopo e termine) all'azione... qui Spinoza la estende, umanamente e, quindi, fondandola "più sulla vana superstizione e la femminea misericordia che sulla ragione", all'animale... in qualche modo riconoscendogli la stessa ragione di cui fa vanto per l'uomo... entrambi, alla fine, brutalmente libidinosi...
Bento de Spinoza. Gli animali: loro affetti, loro essenza e nostra utilità.
“Gli affetti degli animali che si dicono irrazionali (in verità non possiamo affatto dubitare che i bruti sentano, dal momento che abbiamo conosciuto l’origine della mente) differiscono dagli affetti degli uomini tanto, quanto la loro natura differisce dalla natura umana. Il cavallo e l’uomo spinti entrambi dalla libidine di procreare; ma quello della libidine equina, questo da quella umana. Cosí anche le libidini e gli appetiti degli insetti, dei pesci e degli uccelli, devono essere ancora diversi. Benché dunque ogni individuo viva contento della propria natura, di cui consta, e di essa goda, tuttavia la vita di cui ognuno è contento, e il godimento di uno differisce tanto per natura dal godimento di un altro, quanto l’essenza dell’uno differisce dall’essenza dell’altro.
[…]
La vera virtú non è niente altro che vivere sotto la sola guida della ragione; e perciò l’impotenza consiste solo nel fatto che l’uomo si lascia guidare dalle cose che sono al di fuori di lui, e da esse è determinato a fare quelle cose che esige la costituzione comune delle cose esterne, e non quelle che esige la sua natura, in sé sola considerata. E questo è quanto ho promesso di dimostrare nello scolio della proposizione 18 di questa parte. Di qui appare chiaro, che quella legge di non ammazzare gli animali è fondata piú sulla vana superstizione e la femminea misericordia che sulla ragione. La norma di ricercare il nostro utile insegna la necessità di congiungerci con gli uomini, ma non con gli animali o le cose, la cui natura è diversa dalla natura umana; lo stesso diritto invece che essi hanno su di noi, noi abbiamo su di loro. Poiché anzi il diritto di ognuno è definito dalla virtú o dalla potenza di ognuno, gli uomini hanno sulle bestie un diritto di gran lunga maggiore che non le bestie sugli uomini. Non nego tuttavia che i bruti sentano; nego bensí che per questo non sia lecito provvedere alla nostra utilità, e servircene a piacere e trattarli e come piú ci conviene; poiché non convengono con noi per natura, e i loro affetti sono per natura diversi dagli affetti umani (vedi lo scolio della proposizione 57, parte terza).”
BENTO DE SPINOZA (1632 – 1677), “Etica dimostrata secondo l’ordina geometrico” (1677, postumo [per volontà dello stesso Spinoza, l’ed. riporta solo le sue iniziali, B.d.S., mentre tace il nome dell’editore - Jan Rieuwertsz - e il luogo – Amsterdam - per non far correre rischi ai responsabili della pubblicazione]), trad. di Sossio Giametta Boringhieri, Torino 1973 (settima impressione, 1959 prima edizione), Parte Terza ‘Origine e natura degli affetti’, Proposizione 57. ‘Qualunque affetto di ogni individuo differisce dall’affetto di un altro tanto, quanto l’essenza dell’uno differisce dall’essenza dell’altro’, ‘Scolio’, pp. 188 – 189; Parte Quarta ‘Parte Quarta ‘La schiavitú umana’ ossia le forze degli affetti’, Proposizione 37. ‘Il bene, che ognuno che persegue la virtú appetisce per sé, lo desidererà anche per gli altri uomini, e tanto piú, quanto maggiore conoscenza di dio avrà’, ‘Scolio’ I, pp. 248 – 249.
“ Affectus animalium quæ irrationalia dicuntur (bruta enim sentire nequaquam dubitare possumus postquam mentis novimus originem) ab affectibus hominum tantum differre quantum eorum natura a natura humana differt. Fertur quidem equus et homo libidine procreandi; at ille libidine equina hic autem humana. Sic etiam libidines et appetitus insectorum, piscium et avium alii atque alii esse debent. Quamvis itaque unumquodque individuum sua qua constat natura, contentum vivat eaque gaudeat, vita tamen illa qua unumquodque est contentum et gaudium nihil aliud est quam idea seu anima ejusdem individui; atque adeo gaudium unius a gaudio alterius tantum natura discrepat quantum essentia unius ab essentia alterius differt.
[…]
Vera virtus nihil aliud sit quam ex solo rationis ductu vivere atque adeo impotentia in hoc solo consistit quod homo a rebus quæ extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur quæ rerum externarum communis constitutio, non autem ea quæ ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque hæc illa sunt quæ in scholio propositionis 18 hujus partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quærendi necessitudinem cum hominibus jungere sed non cum brutis aut rebus quarum natura a natura humana est diversa sed idem jus quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscujusque jus virtute seu potentia uniuscujusque definitur, longe majus homines in bruta quam hæc in homines jus habent. Nec tamen nego bruta sentire sed nego quod propterea non liceat nostræ utilitati consulere et iisdem ad libitum uti eademque tractare prout nobis magis convenit quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi (vide school. prop. 57. p. 3).”
BARUCH de SPINOZA, “Ethica Ordine Geometrico demonstrata” (Lateinisch-Deutsch), von Wolfgang Bartuschat (Herausgeber, Vorwort, Übersetzer), Meiner, Hamburg 2010, Pars Tertia ‘De Origine et Natura affectuum’, Propositio LVII ‘Quilibet uniuscujusque individui affectus ab affectu alterius tantum discrepat quantum essentia unius ab essentia alterius differt’, ‘Scholium’, S. 328/330; Pars Quarta ‘De Servitute Humana seu de affectuum viribus’, Propositio XXXVII ‘Bonum quod unusquisque qui sectatur virtutem, sibi appetit, reliquis hominibus etiam cupiet et eo magis quo majorem Dei habuerit cognitionem’, ‘Scholium’ I, S. 440/442.
...l'utilità è categoria razionale prettamente umana: dare un fine (nel doppio senso di scopo e termine) all'azione... qui Spinoza la estende, umanamente e, quindi, fondandola "più sulla vana superstizione e la femminea misericordia che sulla ragione", all'animale... in qualche modo riconoscendogli la stessa ragione di cui fa vanto per l'uomo... entrambi, alla fine, brutalmente libidinosi...
Pare che si divertisse a fare combattere i ragni tra di loro....
questo è almeno quello che Schopenhauer riporta su di lui...
Bento de Spinoza. La superstizione non ha origine dalla ragione.
“Se gli uomini potessero dirigere tutte le loro cose con sagge e certe decisioni, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché SPESSO SI TROVANO IN DIFFICOLTÀ TALI CHE NON SANNO PRENDERE ALCUNA DECISIONE, e poiché di solito, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smoderatamente, FLUTTUANO MISERAMENTE TRA LA SPERANZA E LA PAURA, IL LORO ANIMO È QUANTO MAI INCLINE A CREDERE A QUALSIASI COSA: QUANDO È PRESO DAL DUBBIO, ESSO È FACILMENTE SOSPINTO OR QUA OR LÀ, E TANTO PIÙ QUANDO ESITA AGITATO DALLA SPERANZA E DALLA PAURA, MENTRE NEI MOMENTI DI FIDUCIA È PIENO DI VANITÀ E PRESUNZIONE. Credo che nessuno ignori queste cose, benché io sia CONVINTO CHE LA MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI NON CONOSCANO SE STESSI. Chiunque sia vissuto tra gli uomini, infatti, non può non aver osservato che LA MAGGIOR PARTE DI LORO, NELLE CIRCOSTANZE FAVOREVOLI, ANCORCHÉ IGNORANTISSIMI, SONO COSÌ TRONFI DI SAPIENZA DA RITENERSI OFFESI SE QUALCUNO VOGLIA DAR LORO CONSIGLI; mentre NELLE AVVERSITÀ NON SANNO DA CHE PARTE VOLTARSI E IMPLORANO CONSIGLIO AL PRIMO CHE CAPITA, e non c’è consiglio così insulso, così assurdo o inutile ch’essi non seguano; poi, ANCHE PER I MOTIVI PIÙ INSIGNIFICANTI, TORNANO A SPERARE IL MEGLIO E, DI NUOVO, A TEMERE IL PEGGIO; se infatti, mentre sono IN PREDA ALLA PAURA, vedono accadere qualcosa che fa loro ricordare qualche bene o male passato, ritengono che ciò annunci un evento favorevole o sfavorevole, e perciò, sebbene per cento volte si riveli inefficace, LO CHIAMANO BUONO O CATTIVO PRESAGIO. Se, poi, con grande meraviglia vedono qualcosa d’INSOLITO, lo credono un prodigio che indica l’ira degli dèi o della suprema divinità, prodigio che perciò essi – UOMINI SCHIAVI DELLA SUPERSTIZIONE E CONTRARI ALLA RELIGIONE – ritengono empio non placare con offerte o preghiere; e a questo modo FINGONO UN’INFINITÀ DI COSE e, quasi che tutta la natura impazzisse insieme a loro, la interpretano in maniera meravigliosa. Così stando le cose, vediamo che SONO ATTACCATISSIMI A OGNI SORTA DI SUPERSTIZIONE soprattutto coloro che desiderano smoderatamente i beni incerti, e che tutti, specialmente quando si trovano in pericolo e non sono in grado di soccorrere se stessi, implorano con preghiere e lacrime da donnicciuola l’aiuto divino, e CHIAMANO CIECA LA RAGIONE (perché non sa mostrare la via certa per raggiungere le cose vane che essi desiderano) E VANA L’UMANA SAPIENZA; invece I DELIRI DELLA LORO IMMAGINAZIONE, I LORO SOGNI e le loro puerili sciocchezze LI CREDONO RESPONSI DIVINI, anzi, CREDONO CHE DIO SIA AVVERSO AI SAPIENTI E CHE ABBIA SCRITTO I SUOI DECRETI NON NELLA MENTE, ma nei visceri degli animali, o che gli stolti, i folli e gli uccelli li annunzino per effetto dell’ispirazione divina e per istinto. FINO A TAL PUNTO IL TIMORE FA IMPAZZIRE GLI UOMINI! LA PAURA, DUNQUE, È LA CAUSA CHE DÀ ORIGINE, MANTIENE E FAVORISCE LA SUPERSTIZIONE. […] Da questa CAUSA DELLA SUPERSTIZIONE segue dunque che tutti gli uomini sono a essa sottoposti per natura (checché ne dicano coloro secondo i quali ciò dipenderebbe dal fatto che tutti i mortali hanno qualche idea confusa della divinità); segue inoltre che essa deve essere oltremodo varia e instabile come tutte le stravaganze della mente e gli impeti della follia, e, infine, che è sostenuta con la speranza, l’odio, l’ira, l’inganno. Nessuna meraviglia, giacché la superstizione ha origine non dalla ragione, ma soltanto da un affetto, per di più efficacissimo. Quanto è facile, perciò, che gli uomini siano presi da qualsivoglia genere di superstizione, altrettanto difficile è fare in modo che essi persistano in un unico e medesimo genere. Al contrario, POICHÉ IL VOLGO RIMANE SEMPRE IN UNO STATO DI MISERIA, proprio per questo non sta mai a lungo in quiete, ma GLI PIACE SOPRATTUTTO CIÒ CHE È NUOVO E NON L’HA ANCORA DELUSO: INSTABILITÀ che fu causa di molti tumulti e di guerre atroci. Infatti, come appare evidente dalle cose ora dette, e come osservò molto bene lo stesso Rufo (IV, 10), «NIENTE RIESCE PIÙ DELLA SUPERSTIZIONE A DIRIGERE LA MOLTITUDINE»; onde avviene che questa sia facilmente indotta, col pretesto della religione, ora ad ADORARE COME DEI I LORO RE, ORA A ESECRARLI E A DETESTARLI COME UNA PESTE comune al genere umano. Allo scopo di evitare questo male, CI SI È DEDICATI CON IL MASSIMO IMPEGNO A ORNARE LA RELIGIONE, vera o falsa, di un culto e un apparato tali che essa fosse avvertita come un fardello sempre più grave e venisse costantemente osservata da tutti con il massimo scrupolo; cosa che è riuscita assai bene ai Turchi, i quali RITENGONO ILLECITO PERFINO IL DISCUTERE e riempiono il giudizio di ciascuno di tanti pregiudizi da NON LASCIARE NELLA MENTE NESSUNO SPAZIO ALLA RETTA RAGIONE, NEPPURE PER DUBITARE.”
BENTO DE SPINOZA (1632 - 1677), “Trattato teologico-politico” (I ed. anonima, J. Rieuwertsz, Amsterdam 1670 - data probabilmente falsa), in ID., “Etica / Trattato teologico-politico”, per il solo “Trattato”: introduzione, trad. e note di Alessandro Dini, ed. sp. RCS, Milano 2009 (I ed. Rusconi, Milano 1999), ‘Prefazione’, pp. 445 – 447.
Spinoza. Democrazia: associazione di tutti con il diritto a tutto ciò che può.
“Senza alcun contrasto col diritto naturale, la società può essere formata e ogni patto può essere sempre mantenuto con suprema fedeltà; soprattutto se ciascuno trasferisce tutta la sua potenza alla società, la quale soltanto, perciò, terrà il supremo diritto di natura su tutto, cioè il supremo potere, a cui ciascuno sarà tenuto a ubbidire o liberamente o per timore del supremo castigo.
Questo diritto della società si chiama democrazia, la quale, perciò, si definisce come l’associazione che ha collegialmente il diritto a tutto ciò che può.
Ne segue che la suprema potestà non è obbligata da nessuna legge, mentre invece tutti devono ubbidire a essa: questo, infatti, tacitamente o espressamente dovettero pattuirlo tutti allorché trasferirono a essa ogni propria potenza di difendersi, cioè ogni proprio diritto. Se infatti volevano conservarne per sé qualcuno, dovevano insieme provvedere al modo di poterlo di difendere; ma, siccome non lo fecero – né avrebbero potuto farlo senza divisione del potere e, di conseguenza, senza la sua distruzione –, perciò stesso si sottomisero completamente all’arbitrio della suprema potestà. Avendo fatto questo senza riserve, sia perché (come abbiamo detto) costretti dalla necessità sia perché persuasi dalla stessa ragione, ne segue che se non vogliamo essere nemici del potere e agire contro la ragione (la quale suggerisce di difendere il potere con tutte le forze), siamo obbligati a seguire perfettamente tutti i comandi della suprema potestà, per quanto comandi cose del tutto assurde: la ragione impone infatti di eseguire anche queste, per scegliere tra due mali il minore.
[…]
A ciò si aggiunge il fatto che nell’ambito del governo democratico c’è meno da temere cose assurde. Infatti, è quasi impossibile che la maggior parte di un’associazione, se è grande, convenga su qualcosa di assurdo. Inoltre, nell’ambito del governo democratico, c’è meno da temere cose assurde per il suo fondamento e il suo fine, il quale, come abbiamo già mostrato, è solo quello di evitare le cose assurde dell’appetito e di contenere gli uomini, per quanto è possibile, entro i limiti della ragione, perché vivano in pace e in concordia: e se si toglie questo fondamento, facilmente crollerà tutto l’edificio.
Dunque, il compito di provvedere a queste cose pesa soltanto sulla suprema potestà, mentre sui sudditi, come abbiamo detto, pesa il compito di eseguire i suoi comandi e di non riconoscere altro diritto all’infuori di quello che la suprema potestà dichiara esser tale.”
SPINOZA (1632 – 1677), “Trattato teologico politico” (1670. Anonimo, con nomi falsi dell’editore, della città e, probabilmente, anche con la data falsa), introduzione, trad. e note di Alessandro Dini, RCS, Milano 2009 (I ed. RCS-Bompiani 2004), Capitolo XVI ‘Dei fondamenti dello stato; del diritto naturale e civile di ciascuno e del diritto delle supreme potestà’, pp. 655 – 657.
Spinoza. Definizioni: Dio.
1. Per Causa di sé non intendo una realtà che produca attivamente se stessa, cosa che per la ragione sarebbe inconcepibile; intendo una realtà la cui essenza implica l’esistenza: ossia una realtà di tale natura che non possa essere pensata se non come esistente.
2. Si dice finita nel suo genere una cosa che può essere limitata da un’altra cosa della stessa natura. P. es., non diciamo che un corpo qualsiasi è finito perché possiamo sempre pensarne uno più grande che lo limita o lo delimita. Così, anche, un pensiero può essere limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non viene delimitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo.
3. Per Sostanza intendo una realtà che sussiste per sé ("causa di sé": vedi sopra) e che può essere pensata assolutamente, cioè senza bisogno di derivarne il concetto da quello di un’altra realtà.
4. Per Attributo intendo un’entità che l’intelletto percepisce tanto come manifestazione o aspetto della Sostanza quanto come costituente o struttura dell’essenza della Sostanza stessa.
5. Per Modo intendo una manifestazione circoscritta e individuabile (anche se infinita; vedi oltre) della Sostanza, ovvero una realtà che esiste grazie a (o sulla base di) un’altra realtà, senza la quale la realtà considerata è inconcepibile.
6. Per Dio intendo un Ente assolutamente infinito: cioè una Sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita.
Spiegazione: Dico infinita assolutamente, e non nel suo genere: infatti a un ente qualsiasi, infinito soltanto nel suo genere, non possiamo sostenere che manchino infiniti attributi; ma all’ente che è infinito assolutamente compete un’essenza alla quale, invece, è proprio tutto ciò che esprime un essere e che non implica alcuna negazione.
7. Si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che solo da se stessa è determinata ad agire; si dice invece necessaria, o piuttosto coatta, la cosa che è determinata da un’altra cosa, e con criteri certi e definiti, ad esistere e ad agire. (Quando sia impiegato in contrapposizione e "contingente" [= che può esserci o no] il termine "necessario" vale invece che non può non esserci: come si vedrà più avanti).
8. Per Eternità intendo l’esistenza stessa, in quanto essa è pensata discendere necessariamente dalla sola definizione di cosa eterna.
Spiegazione: Una tale esistenza si concepisce infatti - allo stesso modo dell’essenza della cosa eterna predetta - come una verità eterna (= affermazione il cui contrario non è logicamente concepibile): per la qual cosa essa non può spiegarsi per mezzo della durata o dei tempo; anche se la durata sia pensata senza principio e senza fine.
«Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente.
Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un certo modo, e non si da nulla di contingente. »
B.Spinoza, Etica, cit., p.110
Bento de Spinoza. I moti celesti non compongono armonia.
“Essi [gli uomini] credono che tutte le cose siano state fatte per loro, e dicono buona o cattiva, sana o putrida e corrotta la natura di una cosa, secondo come sono da essi affetti. Se, per esempio, il movimento, che i nervi accolgono dagli oggetti rappresentati mediante gli occhi, giova alla salute, si dicono ‹belli› gli oggetti da cui è causato, e ‹deformi› quelli che eccitano un moto contrario. […] E quelli infine, che stimolano le orecchie, si dice che fanno strepito, suono o armonia, e di quest’ultima gli uomini si sono talmente infatuati, da credere che anche Dio si diletti dell’armonia. Né mancano filosofi che hanno ritenuto fermamente che i moti celesti compongano un’armonia. Le quali cose tutte mostrano a sufficienza che ognuno ha giudicato secondo la disposizione del proprio cervello le cose, o piuttosto, che ha preso per cose le affezioni dell’immaginazione. Nessuna meraviglia quindi (per notare incidentalmente anche ciò), che siano sorte tra gli uomini le tante controversie, che possiamo osservare, e da esse infine lo scetticismo.”
BENTO de SPINOZA (1632 – 1677), “Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico” (1677, postumo), introduzione di Giorgio Colli, trad. di Sossio Giametta, Boringhieri, Torino 1973 (VII impressione, I ed. 1959), Parte prima ‘Dio’, ‘Appendice’, pp. 64 – 65.
“ Res omnes propter ipsos factas esse credunt; et rei alicujus naturam bonam vel malam, sanam vel putridam et corruptam dicunt prout ab eadem afficiuntur. Ex. gr. si motus, quem nervi ab objectis per oculos repraesentatis accipiunt, valetudini conducat, objecta a quibus causatur pulchra dicuntur, quae autem contrarium motum cient, deformia. […] Et quae denique aures movent, strepitum, sonum vel harmoniam edere dicuntur quorum postremum homines adeo dementavit ut Deum etiam harmonia delectari crederent. Nec desunt philosophi qui sibi persuaserint motus caelestes harmoniam componere. Quae omnia satis ostendunt unumquemque pro dispositione cerebri de rebus judicasse vel potius imaginationis affectiones pro rebus accepisse. Quare non mirum est (ut hoc etiam obiter notemus) quod inter homines tot quot experimur, controversiae ortae sint ex quibus tandem Scepticismus.”
BARUCH SPINOZA, “Ethica ordine geometrico demonstrata”, in ID., “Opera”, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972 (I ed. 1925), vol. II, Pars Prima ‘De Deo’, ‘Appendix’, p. 82.
Chi ricerca le vere cause dei miracoli e chi si studia di capire da saggio le cose naturali e non di meravigliarsene come uno stolto, è ritenuto e proclamato ora eretico ora empio da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli dèi.
Essi sanno infatti che, tolta l’ignoranza, viene meno lo stupore, l’unico mezzo che abbiano per sostener e difendere la loro autorità.
Etica, Parte II
Nato ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia ebrea sefardita originaria del Portogallo, Baruch Spinoza è uno dei massimi razionalisti del XVII secolo.
Come Descartes, Spinoza eredita dalla scolastica concetti e problematiche, in particolare la nozione di sostanza che concepisce come unica, in opposizione alla molteplicità delle sostanze aristoteliche.
Il distacco dalla scolastica è tuttavia evidente in entrambi:
la fisica aristotelica era infatti modellata sulla biologia e il vivente serviva da paradigma per la comprensione dell’insieme della natura, concepito finalisticamente [tutto tende verso un fine e non c’è dunque nulla di contingente o casuale nel mondo].
Interpreti della rivoluzione scientifica, Cartesio e Spinoza sostituiscono al finalismo aristotelico un modello meccanicistico: di ogni fenomeno si può dar conto attraverso gli urti della materia regolati da leggi. La natura stessa è l’insieme di queste leggi, universali e oggettive, che regolano ogni fenomeno, così che il caos e la contingenza non hanno alcun ruolo nella loro spiegazione.
"La natura infatti è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è una e medesima dappertutto; cioè le regole e le leggi della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e certe forme si tramutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve anche essere il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura"
[Etica, Parte III, P6].
Di qui un cambiamento radicale nel rapporto tra natura e scienza.
Le leggi della natura sono infatti interamente trasparenti alla mente umana perché traducibili in formule matematiche.
Deus sive natura
Dio, cioè la natura
Alle pretese della scienza moderna Spinoza fornisce una solida base metafisica, superando anche i risultati di Cartesio che aveva puntato ad assicurare alla mente umana una conoscenza salda e dotata di certezza. Per il filosofo francese, infatti, ciò che l’uomo conosce è il mondo come realmente è, cioè com’è fatto da Dio, ma non per questo l’uomo ha accesso alla mente e alla natura divine che, secondo Cartesio, avrebbe potuto (e potrebbe) creare logiche e mondi diversi, rendendo inaccessibile all’uomo la verità ultima di cui è fondamento. La scienza è così certa e oggettiva, ma metafisicamente relativa, poiché altri mondi sarebbero possibili.
Il Dio di Spinoza, invece non è libero: il mondo attuale è l’unico possibile [il suo ordine è necessario]. Ne consegue che la conoscenza umana non è solo vera, ma è anche assoluta, poiché non attesta solo come il mondo è fatto, ma rivela anche l’unico modo in cui poteva essere fatto. Quando è vera, la conoscenza umana coincide, dunque, con quella divina, così così che nessuna garanzia è richiesta per attestarne la certezza. Il fine della conoscenza non è così più la fondazione della certezza scientifica, ma, come per gli stoici, la felicità dell’uomo. [...]
Nel 1622 Spinoza inizia a stendere il Trattato sull’emendazione dell’intelletto (Tractatus de Intellectus Emendatione, rimasto incompiuto e pubblicato postumo come quasi tutte le opere del filosofo) nel quale, analogamente al cartesiano Discorso sul metodo, riflette sulla conoscenza e sulla ricerca della verità. In continuità con la tradizione ellenistica [cfr. il Protrettico aristotelico], il filosofo lega la ricerca del sapere alla felicità, come si legge nella bella introduzione: il filosofo lega la ricerca del sapere alla felicità, come si legge nella bella introduzione:
[1] Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutto ciò che spesso ci si presenta nella vita comune è vano e futile – e vedendo come tutto ciò che temevo direttamente o indirettamente non aveva in sé niente di buono né di cattivo, se non in quanto l’animo ne veniva commosso, decisi infine di ricercare se ci fosse qualcosa di veramente buono e capace di comunicarsi e da cui solo, respinti tutti gli altri falsi beni, l’animo potesse venire affetto; meglio ancora, se ci fosse qualcosa tale che, trovatolo e acquisitolo, potessi godere in eterno di continua e grandissima felicità.
[2] Dico «infine decisi»: infatti a prima vista sembrava pazzesco voler lasciare il certo per qualcosa d’ancora incerto. Consideravo appunto gli agi che s’acquistano con le ricchezze e con gli onori e vedevo che sarei stato costretto ad astenermi dal ricercarli se volevo dedicarmi seriamente ad altra, nuova indagine; e se poi la somma felicità si fosse trovata in essi, mi accorgevo che avrei dovuto rimanerne privo. Ma se non si fosse trovata lì e io avessi ricercato solo gli agi, anche in tal caso sarei rimasto privo della somma felicità.
Adriaen Van Utrecht, Natura morta (1644)
Adriaen Van Utrecht, (1644). In questa natura morta il pittore ritrae la mensa dei ricchi mercanti olandesi, colma di cibi rari e di origine lontana come il limone, l’uva, le ostriche
[3] Pensavo dunque se mai fosse possibile raggiungere una nuova impostazione della mia vita, o almeno la certezza su di essa, pur non mutando l’ordine ed il sistema normale della mia vita; ma lo tentai spesso invano. Infatti, ciò con cui per lo più si ha a che fare nella vita e che gli uomini, per quel che si può dedurre dalle loro opere, stimano sommo bene, si riduce a queste tre cose: le ricchezze, i successi, il piacere dei sensi. La mente viene da queste tre cose così distratta che non può affatto pensare ad un qualche altro bene.
[4] Infatti per ciò che riguarda il piacere dei sensi, l’animo ne viene tanto assorto come se riposasse in un qualche bene. Ciò gl’impedisce in maniera gravissima di dedicarsi ad altri pensieri. Ma dopo il godimento di quel piacere segue una grande tristezza che, se non annienta la mente, tuttavia la turba e la stordisce. Anche perseguendo ricchezze ed onori la mente si distrae non poco dal vero bene. E ciò particolarmente quando tali ricchezze ed onori si ricercano solo per se stessi, perché allora si suppone che essi siano il sommo bene.
[5] Dalla ricerca degli onori poi la mente viene assorbita molto di più, perché si ritiene sempre che essi siano dei beni di per sé e si considerano come fine ultimo al quale tutto si indirizza. Inoltre al conseguimento di queste due specie di beni non consegue, come invece a quello del piacere sensuale, il pentimento, ma quanto più si possiede di entrambi, tanto più aumenta la gioia e di conseguenza tanto più siamo eccitati ad aumentarli entrambi; ma se in qualche caso siamo delusi nella nostra speranza, allora nasce una grande tristezza. Infine la ricerca degli onori è di grande impedimento in quanto, per conseguirli, necessariamente bisogna regolare la vita secondo i criteri comuni, evitando ciò che tutti gli altri evitano e cercando ciò che tutti cercano.
[6] Vedendo dunque che tutte queste cose mi ostacolavano nella mia impresa di dare una nuova impostazione alla mia vita, anzi che vi erano tanto contrarie da essere necessario rinunciare alle une o all’altra, fui costretto a ricercare che cosa mi fosse più utile; infatti, come ho detto, mi sembrava voler lasciare un bene certo per uno incerto. Ma dopo un po’ di riflessione mi accorsi che se, tralasciate quelle norme di vita, mi fossi accinto a seguirne una nuova, avrei lasciato un bene per sua natura incerto (come si può chiaramente desumere da quanto è stato detto), per un bene incerto non per sua natura (ricercavo, infatti, un bene stabile), ma solo quanto al suo conseguimento.
[7] Meditando costantemente, arrivai alla conclusione che, purché potessi riflettere a fondo, avrei abbandonato dei mali certi per un bene certo. Vedevo, infatti, che versavo in estremo pericolo e che ero costretto a cercare con tutte le forze un rimedio, fosse esso anche incerto; come uno colpito da una malattia mortale che, prevedendo certa la morte se non si apporti un rimedio, è costretto a cercarlo, anche se esso è incerto, con tutte le forze, poiché in esso è riposta tutta la sua speranza; ma quei tali « beni » a cui tutti aspirano non solo non apportano nessun rimedio utile a conservare il nostro essere, ma anzi impediscono ciò; di frequente poi sono causa della perdita di coloro che li posseggono – se è lecito dirlo – e sempre causa della perdita di coloro che ne sono posseduti.
[8] Infatti ci sono moltissimi esempi di persone che hanno subito persecuzioni, fino a morirne, a causa delle proprie ricchezze; ed anche esempi di persone che per acquistare ricchezze si sono esposte a tanti pericoli da pagare infine con la vita la loro pazzia. Né sono meno numerosi gli esempi di persone che per conquistare onori o per difenderli hanno sofferto i mali più penosi. Infine sono innumerevoli gli esempi di persone che con i loro stravizi si sono affrettata la morte.
[9] In verità mi sembrava che tutti questi mali erano sorti dal fatto che ogni felicità o infelicità risiede solo nella qualità dell’oggetto col quale l’amore ci unisce. Infatti per ciò che non si ama non sorgeranno mai liti, non ci sarà tristezza se verrà meno, non invidia se sarà posseduto da un altro, non timore, non odio; in una parola, l’animo non si commuoverà affatto. Passioni, tutte queste, che invece hanno luogo nell’amore dei beni che possono perire, come sono tutti quelli dei quali abbiamo parlato.
[10] Ma l’amore per una cosa eterna ed infinita nutre l’animo di sola letizia, priva di ogni tristezza; cosa che è da desiderare grandemente e da ricercare con tutte le forze. Ora non senza ragione ho usato l’espressione seguente: « purché potessi riflettere seriamente ». Infatti, sebbene capissi certamente bene queste cose, non potevo tuttavia per questo spogliarmi di ogni desiderio di ricchezze, di piaceri e di successi sociali.
[11] Ma intanto constatavo che, per tutto il tempo che la mente faceva di questi pensieri, si distoglieva da quei falsi beni e pensava seriamente a una nuova condotta di vita. E ciò mi fu di grande consolazione. Infatti vedevo così che quei mali non erano tali da non voler cedere ai rimedi. E benché all’inizio queste pause fossero rare e durassero pochissimo, tuttavia, dopo che il vero bene mi divenne sempre più noto, esse furono più frequenti e più lunghe, particolarmente dopo essermi reso conto che l’acquisizione di ricchezze o il piacere e la gloria nuocciono nella misura in cui li si ricerchi per se stessi e non come mezzi per altri fini; ma se li si ricerca come mezzi allora resteranno contenuti entro certi limiti e non saranno affatto di ostacolo, anzi di grande aiuto (come mostreremo a suo luogo) per arrivare al fine per il quale si ricercano.
[Tractatus de intellectus emendazione]
I beni universalmente ricercati dagli uomini sono dunque ingannevoli e vani perché, in quanto esteriori e transitori, non appagano veramente l’animo (il loro soddisfacimento è seguito da tristezza, insoddisfazione, bramosia). Spinoza non li condanna in quanto tali (la sua non è una condanna moralistica), ma solo perché, scambiati per il massimo bene, incatenano l’animo impedendogli di ricercare un bene più stabile e appagante (la libidine impedisce di pensare a qualsiasi altra cosa; la ricerca del successo impone l’adesione alle opinioni altrui; quella della ricchezza espone a mali e pericoli ..). Il filosofo non condanna quindi i beni finiti dell’esistenza, ma solo la loro assolutizzazione e la loro quotidiana trasformazione da mezzi in fini (“l’acquisizione di ricchezze o il piacere e la gloria nuocciono nella misura in cui li si ricerchi per se stessi e non come mezzi per altri fini; ma se li si ricerca come mezzi allora resteranno contenuti entro certi limiti e non saranno affatto di ostacolo, anzi di grande aiuto”.)
L’unico bene in grado di arrecare piena soddisfazione è, invece, l’amore per la cosa eterna e infinita [che] riempie l’animo di pura letizia e lo rende immune da ogni tristezza, perché immerge la mente non in una gioia passeggera, ma in una felicità stabile e ferma come il suo oggetto. Tuttavia, mentre per i filosofi cristiani (primo tra i quali Agostino) la «cosa eterna e infinita» si identifica con Dio e la gioia con il suo raggiungimento celeste, per Spinoza l’infinito e l’eterno si identificano con il cosmo, e la gioia suprema comunità gli altri sono parte della nostra felicità con l’unione della mente con la natura.
Questo traguardo di beatitudine viene presentato da Spinoza in chiave non solo individuale, ma comunitaria:
"fa parte della mia felicità anche l’adoprarmi perché molti altri pensino come me ed il loro intelletto e i loro desideri s’accordino perfettamente con il mio intelletto e con i miei desideri".
Baruch Spinoza
Per fare questo, vale a dire per accordare armonicamente noi stessi con tutto ciò che esiste e con i nostri simili, occorre conoscere l’intima natura delle cose e distinguere la verità dall’errore. Spinoza si muove qui in modo diverso da Cartesio che aveva cercato la certezza nell’analisi e nella scomposizione dell’oggetto di scienza.
Analizzando le forme di conoscenza esistenti, le distingue in quattro generi:
la conoscenza per sentito dire, che ci porta a seguire le opinioni altrui;
l’esperienza vaga, nella quale ci fondiamo sulla nostra esperienza non condotta secondo ordine, ma acquisita casualmente;
la ragione dimostrativa, per la quale risaliamo dagli effetti alla causa
e, infine, l’intuizione, con la quale conosciamo gli effetti attraverso le cause e l’ente incausato (cioè che ha in se stesso la propria causa o ragion d’essere) direttamente nella sua essenza.
Di queste quattro tipologie, solo l’ultima ci consente di comprendere adeguatamente l’essenza delle cose e conduce, quindi, nell’ambito del vero. Ma, come riconoscere un’intuizione vera? Spinoza rifiuta un metodo che prima acquisisca le idee e dopo giudichi della loro verità o falsità e si serve invece di un metodo che organizza deduttivamente le conoscenze intorno all’idea vera già data. In altre parole, è l’analisi dell’idea vera che indica come procedere perché la conoscenza non sia erronea e si riveli feconda.
L’idea fondante il sistema delle conoscenze dovrà essere, perciò, quella da cui tutte le altre idee dipendono, ossia l’idea di un essere che sia causa di tutte le cose; seguiranno poi le idee delle leggi di natura che valgono per tutti gli enti. Cosi l’ordine della conoscenza riprodurrà l’ordine dell’intera natura:
"l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose"
[Etica, I, P7]
[si riconoscerà qui il problema della corrispondenza del contenuto delle idee con la realtà che, da Cartesio in poi, condiziona tutta la filosofia moderna]. La questione dell’ordine delle conoscenze è dunque centrale: la deduzione delle proprietà dalla definizione data è, nel pensiero, quel che in natura è la produzione dell’effetto dalla causa. Se si troveranno le definizioni vere, quelle da cui tutte le proprietà del definito derivano, il pensiero avrà quindi la garanzia ai muoversi nell’ambito dell’oggettività. Ogni conoscenza che non rispetti questo ordine, e che parli degli effetti senza conoscere le cause, è quindi irrimediabilmente erronea: si tratta della conoscenza immaginativa (mutilata cognitio) che, ignorando le cause, finge spiegazioni fantastiche per ogni fenomeno naturale. Come vedremo, le tesi fondamentali di questa opera incompiuta saranno sviluppate nella teoria della conoscenza contenuta nell’Ethica more geometrico demonstrata, il capolavoro di Spinoza,
http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/TestiDiFilosofia/TestiHTML/Spinoza/Etica/Etica.htm
Composta in un secolo che erige le scienze matematiche a modello conoscenza vera, l’Etica è, come afferma il titolo, dimostrata secondo il metodo geometrico cioè, si apre con una serie di definizioni e di assiomi a partire dai quali si dimostrano le proposizioni (i teoremi) e gli scholii relativi (o chiarimenti). La ricerca della verità si muove dunque all’interno della verità stessa: non la certezza soggettiva, dunque, ma la concatenazione deduttiva delle idee secondo premesse e conseguenze deve essere il filo conduttore del sistema. In questo modo, mentre Cartesio aveva ritenuto più adatto alla ricerca della verità il metodo analitico (si affrontano dimostrazioni particolari ad una ad una, senza esporre gli assiomi da cui dipendono), lasciando quello sintetico (da assiomi o definizioni si deducono le dimostrazioni cioè i teoremi) per l’esposizione dei risultati, per Spinoza non c’è differenza tra il metodo della ricerca e l’esposizione della verità: dovendo entrambi rispettare la concatenazione logica del vero, l’unico metodo da seguire è quello sintetico, o geometrico. [...]
Le conseguenze rilevanti sono che se il mondo non è stato creato per uno scopo, a maggior ragione questo scopo non può essere rappresentato dall’uomo, né ha alcun senso pensare che la natura esista solo per servirlo. Inoltre, se non vi sono altri mondi possibili con cui confrontarlo per dichiararlo migliore o peggiore, di questo mondo non si possono predicare qualità morali: esso è al di là del bene e del male. Solo il pregiudizio e l’ingenuo antropocentrismo degli uomini possono far credere il contrario:
"Tutti i pregiudizi che passo a indicare dipendono da questo soltanto, che cioè gli uomini comunemente suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano per un fine, e anzi asseriscono come cosa certa che lo stesso Dio dirige a un certo fine tutte le cose – dicono infatti che Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e l’uomo perché adorasse lui" [Etica, Parte I, Appendice].
Ecco dunque come nascono le fedi religiose e la credenza negli dèi,
«pregiudizio mutato in superstizione che ha profonde radici nelle loro menti»:
"[Gli individui] trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevare pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per il loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per il loro uso. Ma anche l’indole di questi, per non averne mai sentito dir nulla, doverono giudicare alla stregua della loro, e quindi stabilirono che gli dèi indirizzano tutto a uso degli uomini, per legarli a sé ed essere da loro tenuti in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, secondo la loro indole, affinché Dio li preferisse agli altri, e dirigesse tutta la natura ad uso della loro cieca cupidità e insaziabile avidità. E cosi questo pregiudizio si mutò in superstizione e mise profonde radici nelle loro menti"[Etica, Parte II].
Poiché Dio agisce secondo necessità e non spinto da una qualche volontà, non compie nemmeno miracoli, credenza dovuta unicamente all’ignoranza delle vere cause dei fenomeni. Con parole che dovettero essere ben presenti (come vedremo) al Kant delle antinomie della ragion pura, Spinoza mostra che la ricerca della causa ultima, di causa in causa, impieghi una logica apparente:
"Se, per esempio, da un tetto cade una pietra in testa a qualcuno e lo uccide, dimostreranno che la pietra è caduta per uccidere l’uomo in questo modo: se non è caduta a tal fine, per volontà di Dio, come mai hanno potuto convergere per quel caso tante circostanze (giacché spesso ne concorrono appunto molte insieme)? Forse risponderai che soffiava il vento e l’uomo passava di là, e che perciò è avvenuto. Ma domanderanno: perché il vento soffiò in quel momento? Perché in quel medesimo tempo l’uomo passava di là? Se rispondi ancora che il vento era sorto in quel momento per il fatto che il giorno precedente il mare, con il tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi; e per il fatto che l’uomo era stato invitato da un amico; chiederanno di nuovo – giacché non c’è fine al domandare – perché il mare era agitato e perché l’uomo era stato invitato quel giorno. E così via, non cesseranno di chiedere le cause delle cause, finché non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza" [Etica, parte II]
La scomunica dalla Torah Talmud alla sinagoga di Houtgracht
Alla luce di queste tesi, una filosofia come quella spinoziana incentrata sullo studio della sostanza divina viene giudicata dai contemporanei come il sistema ateo per eccellenza. A ventiquattro anni, Spinoza subisce così la scomunica (cherem) e, allontanato dalla comunità ebraica, inizia una vita appartata, dedita allo studio e al suo lavoro di intagliatore di lenti con il quale provvede ai propri frugali bisogni fino alla morte prematura, avvenuta per tisi.
La maledizione pronunciata contro di lui il 27 luglio 1656, recita:
"Con l’aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza. Pronunciamo questo herem nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Lo malediciamo nel modo in cui Eliseo ha maledetto i ragazzi e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l’Eterno non lo perdoni mai. Che l’Eterno accenda contro quest’uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nella Legge. E quanto a voi che restate devoti all’Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti".
Jean-Maximilien Lucas (1647-1697), primo biografo di Spinoza, sostenne che queste parole vennero da lui accolte «senza battere ciglio».
"Noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne e […] come onde del mare agitate da venti contrari fluttuiamo, ignari della nostra riuscita e del nostro fato".
Etica, Parte III, P59
"Considererò le azioni umane e gli umani appetiti come se si trattasse di linee, di piani e di corpi"
[Etica, III]
In questa prospettiva, l’unico atteggiamento filosofico conveniente di fronte alle passioni, non è quello di deriderle, compiangerle o condannarle, ma comprenderle:
"Non ridere, neque lugere, neque detestari, sed intelligere",
trattandole
"non come vizi della natura umana, ma quali proprietà che le appartengono necessariamente, così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, il tuono, il temporale e simili"
[Trattato politico, I, par. IV].
Conformemente a queste premesse, Spinoza elabora una morale descrittiva, non prescrittiva, scagliandosi contro quella razza di moralisti che
"concepiscono gli affetti [le passioni], fonte dei nostri tormenti, come vizi nei quali l’uomo cade per sua colpa: sono soliti perciò deriderli o compiangerli, biasimarli… [così finiscono per concepire] gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero"
(Trattato politico I, IV).
http://gabriellagiudici.it/teorie-dellaggressivita/
SI PUO´ ESSERE FELICI IN QUESTA VITA?
Baruch Spinoza dice di si!
Baruch Spinoza (1632-1677)
Prima di parlare della felicità, vorrei raccontare brevemente come ho incontrato Spinoza.
Avevo letto da qualche parte, su un giornale credo, che la teoria della relatività di Einstein parla di un universo quadridimensionale che esiste in blocco, con tutto il tempo e tutto lo spazio, e dove lo scorrere del tempo è solo una illusione umana. Com'è possibile che tutto il tempo, il passato, il presente ed il futuro, possa esistere in blocco contemporaneamente?
Incuriosito ho cominciato a fare ricerche sulla teoria della relatività ma anche sulla vita ed il pensiero di Einstein. Ho scoperto così uno scambio di telegrammi fra il rabbino di New York, H. Goldstein ed Einstein. Nel 1929, il rabbino inviò un telegramma ad Einstein: “Credi in Dio? STOP risposta pagata di 50 parole”. Einstein rispose con 25 parole (in tedesco): “Credo nel Dio di Spinoza che si manifesta nell’armonia dell’universo, non credo nel Dio che si preoccupa del destino e delle azioni del genere umano”.
La scoperta che lo scienziato più grande di tutti tempi credesse in Dio, in un primo momento, mi ha un po’ disorientato. Poi mi sono chiesto, chi è questo “Dio di Spinoza”?.
E’ così che ho comprato l’Etica di Spinoza.
Bella idea!!! Il primo tentativo di capirci qualcosa è fallito miseramente.
Come poteva essere diversamente? La prima frase dell’Etica dice:
“Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente”. E avanti di questo passo …
Cosa potevo capirci io completamente a digiuno di filosofia?
L’Etica di Spinoza è un trattato che indica il percorso verso la felicità o, quantomeno, verso l’intima serenità. Si tratta però di un percorso lungo, arduo e irto di ostacoli. Niente viene offerto gratuitamente su di un piatto d’argento. Spinoza termina l’Etica scrivendo “Anche se la via che ho mostrato per giungere a questa meta sembra oltremodo ardua, si può tuttavia trovarla. E deve essere davvero arduo quello che si trova raramente. Infatti, come potrebbe accadere che la salvezza fosse trascurata quasi da tutti se fosse a portata di mano e la si potesse trovare senza fatica? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.”
Lungo l’arduo cammino verso la cosa più eccellente, la felicità, occorre procedere per passi successivi. Innanzitutto bisogna analizzare accuratamente i sentimenti umani per comprendere, razionalmente, quale è il loro effetto sulla nostra sfera emotiva e sul nostro benessere psicologico.
Il passo successivo è quello di capire e accettare che tutto in questo mondo avviene necessariamente e perfettamente secondo le leggi eterne ed immutabili di Dio.
Infine, dalla considerazione che ogni singola entità, sia essa persona, animale o cosa, è unita in una cosmica armonia con il Tutto, si potrà giungere alla beatitudine, all’amore intellettuale di Dio, cioè alla vera felicità.
Ma prima di intraprendere l’arduo cammino dobbiamo definire la felicità.
Cos’è la felicità?
Forse qualcuno dirà che questa è una domanda molto personale alla quale ogni uomo può solo rispondere per sé. Ma cerchiamo di dare ugualmente una definizione di felicità in termini generali.
La prima cosa che viene in mente quando si parla di felicità è quella di una condizione di gioia eccitata che si esprime nella sensazione di euforia, di energia in eccedenza, nel ridere, nel voler danzare, cantare, etc. Questa è una forma di euforia più che di felicità e ha lo svantaggio di essere precaria, instabile e, necessariamente, di breve durata. Non è questo il tipo di felicità che ci interessa in questa discussione.
C'è poi una felicità biologica che deriva dall'appagamento delle necessità primarie quali ad esempio la fame, il sonno, l'appagamento sessuale. I bisogni biologici creano una condizione di attesa e di infelicità che tende a risolversi nel momento in cui il bisogno primario è appagato. L'appagamento genera una condizione di felicità biologica, identificabile con il piacere, che influenza anche la psiche e lo spirito. L'appagamento biologico è anch'esso provvisorio. E' sottoposto infatti ad una temporaneità irrevocabile, frutto del continuo ripresentarsi di pulsioni e istinti dopo il breve periodo di appagamento degli stessi. Certo la felicità biologica è importante ma neanche questo è il tipo di felicità che ci interessa analizzare.
“E’ felice chi ha tutto quello che vuole” può essere indicata come la formula concisa di quello che la maggior parte delle persone intende oggi per felicità.
Secondo questa definizione, felice è quel tale la cui esistenza materiale è assicurata, che gode di buona salute, che ha trovato il lavoro dei sui sogni, che guadagna bene e può permettersi una bella macchina, che ha una casa di proprietà, dei figli sani ed intelligenti. Certo questa persona è sulla buona strada per essere felice se è capace di rallegrarsi, di apprezzare quello che ha e di goderne intimamente. Dovrà però stare attento a non cadere nel tranello dell’insaziabile bisogno di avere: avere più soldi, più case, più gioielli, macchine più costose. E' naturale voler migliorare la propria condizione materiale ma è sbagliato concentrarsi su quello che non si ha e, allo stesso tempo, svalutare, dare per scontato, quello che già si ha.
Occorre non cadere nell'errore di amare troppo le cose che sono completamente fuori del nostro controllo. A questo proposito, Spinoza scrive: "Bisogna [...] notare che gli affanni e le disavventure dell’animo traggono origine soprattutto dal troppo amore per una cosa soggetta a molte variazioni e di cui non possiamo mai essere pienamente padroni. Infatti nessuno è preoccupato e ansioso se non per una cosa che ama, e le ingiurie, i sospetti, le inimicizie, ecc. nascono solo dall’Amore per le cose di cui nessuno, in realtà, può essere veramente padrone." (ET V, Prop. XX)
Il desiderio senza fine, il dover aver assolutamente questo o quello per pensare di essere felici assomiglia ad una corsa per raggiungere un traguardo che si sposta sempre più avanti. Ogni desiderio appagato genera altri desideri da appagare in una catena senza fine. Alla fine si cade esausti senza aver raggiunto il traguardo. In questa corsa senza senso a voler avere sempre di più l’unico traguardo certo è un crescente senso di vuoto, di delusione e di infelicità.
Certo l’acquisto ed il possesso di beni materiali possono appartenere ad una vita felice ma non ne sono il presupposto.
La felicità, dal mio punto di vista, è una condizione di gioiosa serenità, di contentezza tranquilla ma pervasiva, che nasce da una condizione mentale di armoniosa unione del mio 'io' con me stesso, con gli altri, con la natura, con il Tutto. La gioia soffusa e diffusa scaturisce dal sentirsi parte viva di un ordine meraviglioso, perfetto; dal sentire Dio immanente, presente in tutte le cose della Natura; dall'avvertire l'Amore Cosmico che pervade la Natura.
Una tale condizione di gioia e serenità ci porta a pensare:
“Si, io ho il privilegio di essere. Io sono parte della Vita infinita del Tutto".
Il privilegio di ESSERE è sovente sottovalutato perché non siamo consapevoli del presente.
Il nostro animo è completamento assorbito dalle aspettative, dalle speranze, a volte, dalle paure di quello che accadrà nel futuro. Anche il passato con i suoi ricordi, i suoi rimorsi, la nostalgia dei tempi andati occupa una parte considerevole della nostra coscienza.
Quanto spazio rimane per il presente? Molto poco.
Ma il futuro e il passato non sono reali: l’unica realtà è il presente.
E’ nel presente che sento fluire il sangue nelle mie vene, è nel presente che alcune cellule del mio corpo crescono, si riproducono, altre muoiono. E’ nel presente che le nuvole scorrono nel cielo, che il sole scalda la terra, che Luna, il mio gattino, sporgendosi da dietro lo schermo del computer, mi guarda con un punto interrogativo negli occhi. Starà pensando “ma questo è proprio scemo?!”.
Noi SIAMO nel presente.
A volte, per brevi momenti del presente, si può sentire il proprio essere come annegato nel mare placido, armonioso, amorevole dell’Essere cosmico, il proprio cuore battere in unisono con il ritmo dell'Universo. Si può sentir il fluire della propria vita come il fluire di una molecola d'acqua nel fiume quieto, immenso ed eterno della Vita. Quale gioia più profonda! Cosa ci importa, in questi momenti di grazia, di cosa ci riserva il futuro? Di quello che è stato nel passato? Siamo VIVI adesso! Gloria a Dio!
Quando si riesce a raggiungere questa condizione mentale di armoniosa comunione cosmica in Dio, di adesione al mondo nella sua totalità, l’animo si colma di serenità, di gioia e si può vivere in pace con se stessi e con gli altri. Questo è il tipo di felicità che ho intenzione di analizzare in questa discussione seguendo il metodo spinoziano.
In attesa del risveglio intellettuale all’armonia del Tutto e all'Amore intelletuale di Dio, non dobbiamo sottovalutare le piccole felicità, cioè i momenti di felicità quotidiani.
Possiamo provare una piccola felicità di fronte allo spettacolo di un’alba o di un tramonto, di fronte al profilo maestoso di montagne in lontananza dopo essere giunti in cima ad una vetta, durante una passeggiata solitaria lungo il mare o nel silenzio dei boschi, per il sorriso innocente di un bimbo, per uno sguardo pieno d’amore, per un bicchiere di buon vino in compagnia di persone care. Purtroppo questi momenti durano un istante e subito passano via. Sarebbe necessario rendersi consapevoli dei momenti di piccola felicità, di goderli fino in fondo, di espanderli, dar loro spazio e importanza, fissarli nella memoria come sottofondo gioioso della vita di ogni giorno.
Per oggi mi fermo qui. Nella prossima puntata cercherò di capire se c’è una scorciatoia al raggiungimento della felicità. Cercherò di rispondere alla domanda: “la religione popolare, cioè la fede cristiana come viene vissuta dalla gente comune, può aiutarci a essere felici in questa vita?”
comments are welcomed ... ldibianco@alice.it
Il contenuto di questo articolo e i relativi diritti sono di proprietà dell'autore.
http://www.webalice.it/ldibianco/cap01.htm
Benedetto Spinoza e la felicità
Il grande filosofo olandese Benedetto Spinoza rappresenta ancora oggi uno scandalo per il pensiero filosofico e religioso.
E' stato maledetto dalla comunità ebraica del 1600 con la scomunica più grave che si potesse dare:
"I capi del Concilio Ecclesiastico rendono così noto che, già ben certi delle errate opinioni e malvagie azioni di Baruch de Espinoza, si sono sforzati in parecchie guise e con varie offerte di farlo desistere dalla sua colpevole condotta. Ma non essendo riusciti a ricondurre i suoi pensieri su una via migliore, ed avendo, anzi, ogni giorno acquistata maggior certezza delle orribili eresie da lui ammesse e confessate, e dell'insolenza con cui queste eresie sono da lui proclamate e divulgate, e poiché molte persone degne di fiducia sono state di ciò testimoni in presenza di detto Espinoza, egli è stato ritenuto completamente reo di tali eresie. Essendosi perciò fatto un esame di tutta la materia davanti ai Capi del Concilio Ecclesiastico, è stato deciso, con l'assenso dei consiglieri, di pronunciare un anatema contro il suddetto Spinoza e di espellerlo dal popolo ebraico e di scomunicarlo da questo momento, con la seguente maledizione:
"Col giudizio degli angeli e la sentenza de' santi, noi dichiariamo Baruch de Espinoza scomunicato, esacrato, maledetto ed espulso, con l'assenso di tutta la sacra comunità, al cospetto dei sacri libri, nei quali sono scritti i seicento e trenta precetti, pronunciando contro di lui la maledizione con cui Eliseo colpì i fanciulli e tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto egli quando si corica, e maledetto quando si alza; maledetto nell'uscire e maledetto nell'entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano l'ira e la collera del Signore ardere, d'ora innanzi, quest'uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità , da tutte le tribù d'Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge; e possiate tutti voi, che siete obbedienti al Signore iddio nostro, esser salvi fin d'ora. Siete tutti ammoniti, che d'ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dimorare sotto lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti, e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno"[1].
[1] In Will Durant, Gli eroi del pensiero, Milano, SugarCo, 1964, pp.189-190.
La comunità ebraica, prima di questa scomunica, arrivò anche a offrire mille fiorini annui affinché il giovane Spinoza, verso il quale i rabbini avevano riposto tantissime speranze, accettasse l'ortodossia ebraica e rinunciasse alla sua libertà di pensiero, ma lui oppose un netto rifiuto.
E dopo la scomunica, nella sua forma più grave e irrevocabile, fece seguito anche un tentativo di ucciderlo da parte di un fanatico ebreo isolato.
I rabbini rivolsero all'autorità olandese anche un’esplicita richiesta, e da questa accolta, che gli si proibisse di continuare a vivere ad Amsterdam, quindi, isolamento e povertà.
Per capire quanto Spinoza amasse la sua indipendenza di pensiero, c'è un episodio molto significativo.
Gli si offrì, strano a dirsi, dall'Elettore Palatino Carlo Lodovico, la possibilità di insegnare filosofia nell'Università di Heidelberg a patto che non turbasse col suo insegnamento la religione ufficialmente istituita.
Spinoza rifiutò perché non capiva come avesse potuto svolgere la sua attività di filosofo con tali limiti.
Preferì la sua vita ritirata e solitaria ma dedita alla verità.
Spinoza dai filosofi contemporanei è stato travisato, insultato o trattato freddamente.
Un esempio per tutti, il filosofo tedesco Leibniz, che ebbe con lui alcune conversazioni private molto proficue, tanto da influenzargli in modo evidente e sospetto, come brillantemente e acutamente ha dimostrato recentemente Matthew Stewart, gli ultimi sviluppi della sua filosofia più feconda e che da Leibniz non è stato nemmeno nominato, se non con pochissimi accenni sprezzanti.
Tutti i rappresentanti delle religioni rivelate considerano Spinoza scandaloso per l'intrinseca pericolosità che le sue proposizioni rappresentano per le loro chiese e la loro concezione di Dio.
Spinoza ha subito i più gravi travisamenti e per fortuna alcuni sono stati spazzati via dalla critica filosofica, altri purtroppo ancora perdurano, vediamoli uno a uno.
Spinoza è stato accusato di essere un ateo.
L'accusa è ridicola poiché tutta la sua filosofia poggia sul concetto di Dio, però siccome non è un Dio trascendente, staccato dall'universo, dalla natura, ma immanente, interno all'universo e alla natura, questo è stato visto come un degradamento del divino, in ultima analisi come un naturalismo e quindi un annullamento di Dio, un ateismo appunto.
Il punto è che mai nessuno aveva attaccato fino all'origine del suo costituirsi il pensiero religioso creazionista, positivo e rivelato.
Tutte le tradizioni religiose monoteiste si rifanno a un'idea di Dio antropica, come un Dio che raccoglie i pregi più grandi dell'uomo.
Quest'idea personalistica di Dio è criticata radicalmente da Spinoza, negandogli le tipiche facoltà umane dell'intelletto e della volontà.
Quando Spinoza afferma che Dio non ci riama, non vuole sostenere una glaciale concezione del sentimento o un radicale sentimentalismo disinteressato, come lo interpretò Goethe, ma un puro concetto logico di Dio scevro appunto dai tipici connotati delle immagini antropomorfiche.
Dio è interno alle stesse leggi che governano l'universo e non può trasgredirle perché altrimenti contraddirebbe se stesso. La sua conoscenza è comprensione del suo ordinamento necessario, dove alla fine viene a essere l'unico oggetto della conoscenza adeguata.
Perciò è spazzato via l'altro travisamento del pensiero di Spinoza, vale a dire che sia un panteismo.
Panteista è la partecipazione sentimentale al tutto alla Scleiermacher, dove l'io è presente e patisce, ma si esalta e si redime trasfigurandosi in un entusiasmo misticheggiante.
Al contrario Spinoza non vuole redimere l'io, ma metterlo da parte e assorbirlo nell'inviolabile ordinamento del tutto.
Altro punto angolare del pensiero di Spinoza è l'affermazione che l'essenza dell'uomo è il conatus, il desiderio.
Ma è un desiderio che non si esprime nelle purtroppo tragiche divisioni della nostra Civiltà, vale a dire il corpo da una parte, lo spirito dall'altra, ma sa fonderle insieme in una fondamentale unità.
Dio stesso è corpo e spirito e non già solo spirito altamente sublimato come nelle religioni rivelate.
Tanto è indissolubile, in Spinoza, tale unità di corpo e spirito, che coerentemente non riusciva a concepire l'immortalità dell'anima, perché essa è interna al corpo e perendo quest'ultimo anch'essa periva.
Semmai Spinoza sosteneva che la mente non può essere distrutta col corpo perché essa non può essere definita dal tempo ma concepita con una certa necessità eterna attraverso la stessa essenza di Dio.
Un ultimo travisamento importante del pensiero di Spinoza, che ha origine dalla critica di Hegel, è il dichiarare il suo pensiero un acosmismo, vale a dire un annullamento del cosmo.
Se omnis determinatio est negatio, ogni determinazione è una negazione,
per questi critici di Spinoza, tutto viene a confondersi, l'individualità stessa si perde, il pensiero che in
essenza è discriminare, perde consistenza.
Eppure anche in questa critica apparentemente fondata c'è un equivoco.
Per Spinoza nulla è diviso, ogni cosa se separata, staccata dal tutto, perde il suo intrinseco valore di necessità.
Però Dio si conosce portando lo sguardo fino in fondo alle cose singole, anzi più si conosce queste come necessarie e più si conosce Dio.
"Quanto più intendiamo le cose singole, tanto più intendiamo Dio”.
Altro punto fondamentale di Spinoza è la negazione del libero arbitrio su cui di solito si abbattono ferocemente i detrattori del filosofo olandese.
A mio parere vi sono alla base alcuni fraintendimenti linguistici e un muro eretto dall'io cosciente che mal sopporta qualsiasi tentativo di sminuire la sua illusoria potenza.
A tal proposito giustamente è fondamentale l'affermazione metodologica che Spinoza vuol seguire e cioè che l'uomo non sia uno stato nello stato, come egli dice con efficace definizione, ma che si debba indagare su di lui come si fa con il mondo circostante.
Quindi non già applicare, come diremmo con parole moderne, all'uomo un modello di tipo fisico- matematico, ma un approccio scientifico senza tabù e senza mitizzazioni che ne ostacolino la conoscenza.
Spinoza afferma che l'uomo sa bene quali siano i fini della sua azione, anche se vede il meglio, segue il peggio, e ciò accade perché è all'oscuro delle cause che determinano la sua volontà e i suoi desideri.
"...gli uomini si ritengono liberi, dato che sono consci delle proprie volizioni e del proprio appetito; mentre le cause, da cui sono disposti ad appetire e a volere, poichè ne sono ignari, non se le sognano nemmeno"
Spinoza considera opportunamente questo pregiudizio del finalismo come un ostacolo alla consapevolezza delle cause delle volizioni e dei desideri.
Egli a tal proposito in una lettera a Giovanni Ermanno Schuller fa questo celebre esempio:
“ …una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente ad essere mossa. Dunque, questo persistere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualunque cosa particolare (…)
Poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muovere, pensi, e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento. Davvero questa pietra, in quanto è consapevole unicamente del suo sforzo, al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo vuole. Proprio questa è quell’umana libertà, che tutti si vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e ignari delle cause da cui sono determinati. Così, il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe di aver taciuto.. Così il delirante, il chiacchierone e molti altri
di simil risma credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso, E poiché questo pregiudizio è innato in ogni uomo, è difficile liberarnelo.
Infatti, benché l’esperienza insegni a sazietà che gli uomini in nulla riescono meno che nella moderazione dei propri istinti, e che spesso, quando si trovano alle prese con due affetti contrari, vedono il meglio, ma si attengono al peggio, credono tuttavia di essere liberi; e ciò perché l’appetito di certe cose è meno forte e può venir smorzato dal ricordo di qualche altra che abbiamo più di frequente in mente”.
Di solito a queste analisi lucidissime si obiettano argomentazioni tratte da una logica della colpa, cioè si muovono contro argomenti del tipo, allora non c’è differenza tra un santo e un assassino, tra un innocente e un colpevole, eccetera.
Ma a tali argomenti tratti dal dizionario de “i castighi e delle pene” di ogni io inquisitore, lo stesso Spinoza, nella stessa lettera presa già in esame risponde ironicamente:
“Gli uomini cattivi non diventano meno temibili e pericolosi per il fatto di essere necessariamente cattivi”.
Ma ancor di più non è assolutamente vero che egli concepisca un uomo schiavo delle sue passioni, anzi è vero proprio il contrario, altrimenti non avrebbe scritto il suo capolavoro "etica", con l'intento di affidare all'uomo un compito: quanta più consapevolezza egli riuscirà ad avere tanto più potere saprà acquistare.
E' proprio dalla forza oscura che dà patimento che la passione trae alimento per rendere l'uomo passivo, infatti, più se ne fa un'idea chiara e distinta e riesce a trovare una relazione causale, cioè le intende come necessarie, più si renderà libero dai suoi affetti negativi.
Quando l'uomo riesce a fare ciò, che Spinoza chiama terzo genere di conoscenza, cioè da quello immaginativo, poi razionale, infine filosofico, che sa procedere dall'idea adeguata di certi attributi di Dio alla conoscenza dell'essenza delle cose in un supremo sforzo della mente, tanto l'uomo raggiunge la suprema virtù che è la massima sua perfezione.
E in tale eternità l'uomo si compiace al massimo grado della sua libertà che non è assolutamente un andare contro le stesse leggi che lo governano ma di conoscerle e di amarle di un infinito amore intellettuale.
L'ultima considerazione che vorrei fare sul pensiero di Spinoza è sul suo concetto di beatitudine.
Così egli afferma:
"La beatitudine non è premio alla virtù, ma è la virtù stessa; e noi non godiamo di essa perché reprimiamo le libidini, ma, al contrario, proprio perché godiamo di essa, possiamo frenare le libidini".
Vi è in questa proposizione un criterio di morale che sovverte tutto il cupo e sacrificale moralismo tradizionale.
Non c'è paura della punizione, né terrena, né divina, e il fine della nostra azione non è esterna a essa, ma interna, nell'azione virtuosa stessa.
Anche nella morale Spinoza ha rovesciato schemi che durano da millenni e ha saputo tracciare una strada di altissima dignità e fierezza dove l'uomo possa percorrerla senza stupidi infantilismi e stupide paure irrazionali ma con mente lucida e beata.
L’importanza di Benedetto Spinoza è talmente grande che si può sicuramente affermare che ha saputo esprimere filosoficamente la stessa forza salvifica e spirituale che Gesù di Nazareth ha espresso, disorientando tutti, in ambito religioso e non è certo un caso che, come quest’ultimo, sia stato così odiato, allontanato, messo all’angolo, equivocato, distorto, ma anche così studiato, cercato, amato.
Se Gesù ha saputo mostrare, per dirla con le belle parole di Ernest Renan, al di là dei dogmi, la purezza del cuore, la fede che si fa universale perché penetra con gioia nella stessa coscienza dell’uomo, parallelamente Spinoza ha mostrato che la letizia non si nasconde nell’intelletto ma è da esso rivelato e posto sull’altare di un’eterna possibilità.
Questo perché scopo dell’umana avventura non è il sacrificio ma la felicità.
Sergio Rizzitiello (sergio_rizzitiello@alice.it)
--------------------------------------------------------------------------------
Spinoza. Democrazia: associazione di tutti con il diritto a tutto ciò che può.
“Senza alcun contrasto col diritto naturale, la società può essere formata e ogni patto può essere sempre mantenuto con suprema fedeltà; soprattutto se ciascuno trasferisce tutta la sua potenza alla società, la quale soltanto, perciò, terrà il supremo diritto di natura su tutto, cioè il supremo potere, a cui ciascuno sarà tenuto a ubbidire o liberamente o per timore del supremo castigo.
Questo diritto della società si chiama democrazia, la quale, perciò, si definisce come l’associazione che ha collegialmente il diritto a tutto ciò che può.
Ne segue che la suprema potestà non è obbligata da nessuna legge, mentre invece tutti devono ubbidire a essa: questo, infatti, tacitamente o espressamente dovettero pattuirlo tutti allorché trasferirono a essa ogni propria potenza di difendersi, cioè ogni proprio diritto. Se infatti volevano conservarne per sé qualcuno, dovevano insieme provvedere al modo di poterlo di difendere; ma, siccome non lo fecero – né avrebbero potuto farlo senza divisione del potere e, di conseguenza, senza la sua distruzione –, perciò stesso si sottomisero completamente all’arbitrio della suprema potestà. Avendo fatto questo senza riserve, sia perché (come abbiamo detto) costretti dalla necessità sia perché persuasi dalla stessa ragione, ne segue che se non vogliamo essere nemici del potere e agire contro la ragione (la quale suggerisce di difendere il potere con tutte le forze), siamo obbligati a seguire perfettamente tutti i comandi della suprema potestà, per quanto comandi cose del tutto assurde: la ragione impone infatti di eseguire anche queste, per scegliere tra due mali il minore.
[…]
A ciò si aggiunge il fatto che nell’ambito del governo democratico c’è meno da temere cose assurde. Infatti, è quasi impossibile che la maggior parte di un’associazione, se è grande, convenga su qualcosa di assurdo. Inoltre, nell’ambito del governo democratico, c’è meno da temere cose assurde per il suo fondamento e il suo fine, il quale, come abbiamo già mostrato, è solo quello di evitare le cose assurde dell’appetito e di contenere gli uomini, per quanto è possibile, entro i limiti della ragione, perché vivano in pace e in concordia: e se si toglie questo fondamento, facilmente crollerà tutto l’edificio.
Dunque, il compito di provvedere a queste cose pesa soltanto sulla suprema potestà, mentre sui sudditi, come abbiamo detto, pesa il compito di eseguire i suoi comandi e di non riconoscere altro diritto all’infuori di quello che la suprema potestà dichiara esser tale.”
SPINOZA (1632 – 1677), “Trattato teologico politico” (1670. Anonimo, con nomi falsi dell’editore, della città e, probabilmente, anche con la data falsa), introduzione, trad. e note di Alessandro Dini, RCS, Milano 2009 (I ed. RCS-Bompiani 2004), Capitolo XVI ‘Dei fondamenti dello stato; del diritto naturale e civile di ciascuno e del diritto delle supreme potestà’, pp. 655 – 657.
Spinoza. Definizioni: Dio.
1. Per Causa di sé non intendo una realtà che produca attivamente se stessa, cosa che per la ragione sarebbe inconcepibile; intendo una realtà la cui essenza implica l’esistenza: ossia una realtà di tale natura che non possa essere pensata se non come esistente.
2. Si dice finita nel suo genere una cosa che può essere limitata da un’altra cosa della stessa natura. P. es., non diciamo che un corpo qualsiasi è finito perché possiamo sempre pensarne uno più grande che lo limita o lo delimita. Così, anche, un pensiero può essere limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non viene delimitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo.
3. Per Sostanza intendo una realtà che sussiste per sé ("causa di sé": vedi sopra) e che può essere pensata assolutamente, cioè senza bisogno di derivarne il concetto da quello di un’altra realtà.
4. Per Attributo intendo un’entità che l’intelletto percepisce tanto come manifestazione o aspetto della Sostanza quanto come costituente o struttura dell’essenza della Sostanza stessa.
5. Per Modo intendo una manifestazione circoscritta e individuabile (anche se infinita; vedi oltre) della Sostanza, ovvero una realtà che esiste grazie a (o sulla base di) un’altra realtà, senza la quale la realtà considerata è inconcepibile.
6. Per Dio intendo un Ente assolutamente infinito: cioè una Sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita.
Spiegazione: Dico infinita assolutamente, e non nel suo genere: infatti a un ente qualsiasi, infinito soltanto nel suo genere, non possiamo sostenere che manchino infiniti attributi; ma all’ente che è infinito assolutamente compete un’essenza alla quale, invece, è proprio tutto ciò che esprime un essere e che non implica alcuna negazione.
7. Si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che solo da se stessa è determinata ad agire; si dice invece necessaria, o piuttosto coatta, la cosa che è determinata da un’altra cosa, e con criteri certi e definiti, ad esistere e ad agire. (Quando sia impiegato in contrapposizione e "contingente" [= che può esserci o no] il termine "necessario" vale invece che non può non esserci: come si vedrà più avanti).
8. Per Eternità intendo l’esistenza stessa, in quanto essa è pensata discendere necessariamente dalla sola definizione di cosa eterna.
Spiegazione: Una tale esistenza si concepisce infatti - allo stesso modo dell’essenza della cosa eterna predetta - come una verità eterna (= affermazione il cui contrario non è logicamente concepibile): per la qual cosa essa non può spiegarsi per mezzo della durata o dei tempo; anche se la durata sia pensata senza principio e senza fine.
«Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente.
Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un certo modo, e non si da nulla di contingente. »
B.Spinoza, Etica, cit., p.110
Bento de Spinoza. I moti celesti non compongono armonia.
“Essi [gli uomini] credono che tutte le cose siano state fatte per loro, e dicono buona o cattiva, sana o putrida e corrotta la natura di una cosa, secondo come sono da essi affetti. Se, per esempio, il movimento, che i nervi accolgono dagli oggetti rappresentati mediante gli occhi, giova alla salute, si dicono ‹belli› gli oggetti da cui è causato, e ‹deformi› quelli che eccitano un moto contrario. […] E quelli infine, che stimolano le orecchie, si dice che fanno strepito, suono o armonia, e di quest’ultima gli uomini si sono talmente infatuati, da credere che anche Dio si diletti dell’armonia. Né mancano filosofi che hanno ritenuto fermamente che i moti celesti compongano un’armonia. Le quali cose tutte mostrano a sufficienza che ognuno ha giudicato secondo la disposizione del proprio cervello le cose, o piuttosto, che ha preso per cose le affezioni dell’immaginazione. Nessuna meraviglia quindi (per notare incidentalmente anche ciò), che siano sorte tra gli uomini le tante controversie, che possiamo osservare, e da esse infine lo scetticismo.”
BENTO de SPINOZA (1632 – 1677), “Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico” (1677, postumo), introduzione di Giorgio Colli, trad. di Sossio Giametta, Boringhieri, Torino 1973 (VII impressione, I ed. 1959), Parte prima ‘Dio’, ‘Appendice’, pp. 64 – 65.
“ Res omnes propter ipsos factas esse credunt; et rei alicujus naturam bonam vel malam, sanam vel putridam et corruptam dicunt prout ab eadem afficiuntur. Ex. gr. si motus, quem nervi ab objectis per oculos repraesentatis accipiunt, valetudini conducat, objecta a quibus causatur pulchra dicuntur, quae autem contrarium motum cient, deformia. […] Et quae denique aures movent, strepitum, sonum vel harmoniam edere dicuntur quorum postremum homines adeo dementavit ut Deum etiam harmonia delectari crederent. Nec desunt philosophi qui sibi persuaserint motus caelestes harmoniam componere. Quae omnia satis ostendunt unumquemque pro dispositione cerebri de rebus judicasse vel potius imaginationis affectiones pro rebus accepisse. Quare non mirum est (ut hoc etiam obiter notemus) quod inter homines tot quot experimur, controversiae ortae sint ex quibus tandem Scepticismus.”
BARUCH SPINOZA, “Ethica ordine geometrico demonstrata”, in ID., “Opera”, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972 (I ed. 1925), vol. II, Pars Prima ‘De Deo’, ‘Appendix’, p. 82.
Essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare.
Georg Wilhelm Hegel
«Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta».
Baruch Spinoza
La gioia è il passaggio dell’uomo da una perfezione minore a una maggiore. la tristezza è il passaggio dell’uomo da una perfezione maggiore ad una minore.
Baruch Spinoza
Georg Wilhelm Hegel
«Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta».
Baruch Spinoza
La gioia è il passaggio dell’uomo da una perfezione minore a una maggiore. la tristezza è il passaggio dell’uomo da una perfezione maggiore ad una minore.
Baruch Spinoza
Spinoza: potenza di gioia e amore.
Leggiamo, a questo proposito, un passo esemplare dell'”Etica”:
“Chi vuol vendicare le offese ricambiando l’odio, vive proprio miseramente. Chi invece cerca di vincere l’odio con l’amore, lotta davvero lieto e sicuro, resiste con pari facilità a uno o a più uomini, e quasi non richiede l’aiuto della fortuna. E quelli che egli vince gli cedono con gioia, non già per mancanza ma per aumento di forze; e tutte queste cose derivano così chiaramente dalle sole definizioni dell’amore e dell’intelletto che non c’è bisogno di dimostrarle una per una”.
Baruch Spinoza, EticaChi ricerca le vere cause dei miracoli e chi si studia di capire da saggio le cose naturali e non di meravigliarsene come uno stolto, è ritenuto e proclamato ora eretico ora empio da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli dèi.
Essi sanno infatti che, tolta l’ignoranza, viene meno lo stupore, l’unico mezzo che abbiano per sostener e difendere la loro autorità.
Etica, Parte II
Nato ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia ebrea sefardita originaria del Portogallo, Baruch Spinoza è uno dei massimi razionalisti del XVII secolo.
Come Descartes, Spinoza eredita dalla scolastica concetti e problematiche, in particolare la nozione di sostanza che concepisce come unica, in opposizione alla molteplicità delle sostanze aristoteliche.
Il distacco dalla scolastica è tuttavia evidente in entrambi:
la fisica aristotelica era infatti modellata sulla biologia e il vivente serviva da paradigma per la comprensione dell’insieme della natura, concepito finalisticamente [tutto tende verso un fine e non c’è dunque nulla di contingente o casuale nel mondo].
Interpreti della rivoluzione scientifica, Cartesio e Spinoza sostituiscono al finalismo aristotelico un modello meccanicistico: di ogni fenomeno si può dar conto attraverso gli urti della materia regolati da leggi. La natura stessa è l’insieme di queste leggi, universali e oggettive, che regolano ogni fenomeno, così che il caos e la contingenza non hanno alcun ruolo nella loro spiegazione.
"La natura infatti è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è una e medesima dappertutto; cioè le regole e le leggi della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e certe forme si tramutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve anche essere il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura"
[Etica, Parte III, P6].
Di qui un cambiamento radicale nel rapporto tra natura e scienza.
Le leggi della natura sono infatti interamente trasparenti alla mente umana perché traducibili in formule matematiche.
Deus sive natura
Dio, cioè la natura
Alle pretese della scienza moderna Spinoza fornisce una solida base metafisica, superando anche i risultati di Cartesio che aveva puntato ad assicurare alla mente umana una conoscenza salda e dotata di certezza. Per il filosofo francese, infatti, ciò che l’uomo conosce è il mondo come realmente è, cioè com’è fatto da Dio, ma non per questo l’uomo ha accesso alla mente e alla natura divine che, secondo Cartesio, avrebbe potuto (e potrebbe) creare logiche e mondi diversi, rendendo inaccessibile all’uomo la verità ultima di cui è fondamento. La scienza è così certa e oggettiva, ma metafisicamente relativa, poiché altri mondi sarebbero possibili.
Il Dio di Spinoza, invece non è libero: il mondo attuale è l’unico possibile [il suo ordine è necessario]. Ne consegue che la conoscenza umana non è solo vera, ma è anche assoluta, poiché non attesta solo come il mondo è fatto, ma rivela anche l’unico modo in cui poteva essere fatto. Quando è vera, la conoscenza umana coincide, dunque, con quella divina, così così che nessuna garanzia è richiesta per attestarne la certezza. Il fine della conoscenza non è così più la fondazione della certezza scientifica, ma, come per gli stoici, la felicità dell’uomo. [...]
Nel 1622 Spinoza inizia a stendere il Trattato sull’emendazione dell’intelletto (Tractatus de Intellectus Emendatione, rimasto incompiuto e pubblicato postumo come quasi tutte le opere del filosofo) nel quale, analogamente al cartesiano Discorso sul metodo, riflette sulla conoscenza e sulla ricerca della verità. In continuità con la tradizione ellenistica [cfr. il Protrettico aristotelico], il filosofo lega la ricerca del sapere alla felicità, come si legge nella bella introduzione: il filosofo lega la ricerca del sapere alla felicità, come si legge nella bella introduzione:
[1] Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutto ciò che spesso ci si presenta nella vita comune è vano e futile – e vedendo come tutto ciò che temevo direttamente o indirettamente non aveva in sé niente di buono né di cattivo, se non in quanto l’animo ne veniva commosso, decisi infine di ricercare se ci fosse qualcosa di veramente buono e capace di comunicarsi e da cui solo, respinti tutti gli altri falsi beni, l’animo potesse venire affetto; meglio ancora, se ci fosse qualcosa tale che, trovatolo e acquisitolo, potessi godere in eterno di continua e grandissima felicità.
[2] Dico «infine decisi»: infatti a prima vista sembrava pazzesco voler lasciare il certo per qualcosa d’ancora incerto. Consideravo appunto gli agi che s’acquistano con le ricchezze e con gli onori e vedevo che sarei stato costretto ad astenermi dal ricercarli se volevo dedicarmi seriamente ad altra, nuova indagine; e se poi la somma felicità si fosse trovata in essi, mi accorgevo che avrei dovuto rimanerne privo. Ma se non si fosse trovata lì e io avessi ricercato solo gli agi, anche in tal caso sarei rimasto privo della somma felicità.
Adriaen Van Utrecht, Natura morta (1644)
Adriaen Van Utrecht, (1644). In questa natura morta il pittore ritrae la mensa dei ricchi mercanti olandesi, colma di cibi rari e di origine lontana come il limone, l’uva, le ostriche
[3] Pensavo dunque se mai fosse possibile raggiungere una nuova impostazione della mia vita, o almeno la certezza su di essa, pur non mutando l’ordine ed il sistema normale della mia vita; ma lo tentai spesso invano. Infatti, ciò con cui per lo più si ha a che fare nella vita e che gli uomini, per quel che si può dedurre dalle loro opere, stimano sommo bene, si riduce a queste tre cose: le ricchezze, i successi, il piacere dei sensi. La mente viene da queste tre cose così distratta che non può affatto pensare ad un qualche altro bene.
[4] Infatti per ciò che riguarda il piacere dei sensi, l’animo ne viene tanto assorto come se riposasse in un qualche bene. Ciò gl’impedisce in maniera gravissima di dedicarsi ad altri pensieri. Ma dopo il godimento di quel piacere segue una grande tristezza che, se non annienta la mente, tuttavia la turba e la stordisce. Anche perseguendo ricchezze ed onori la mente si distrae non poco dal vero bene. E ciò particolarmente quando tali ricchezze ed onori si ricercano solo per se stessi, perché allora si suppone che essi siano il sommo bene.
[5] Dalla ricerca degli onori poi la mente viene assorbita molto di più, perché si ritiene sempre che essi siano dei beni di per sé e si considerano come fine ultimo al quale tutto si indirizza. Inoltre al conseguimento di queste due specie di beni non consegue, come invece a quello del piacere sensuale, il pentimento, ma quanto più si possiede di entrambi, tanto più aumenta la gioia e di conseguenza tanto più siamo eccitati ad aumentarli entrambi; ma se in qualche caso siamo delusi nella nostra speranza, allora nasce una grande tristezza. Infine la ricerca degli onori è di grande impedimento in quanto, per conseguirli, necessariamente bisogna regolare la vita secondo i criteri comuni, evitando ciò che tutti gli altri evitano e cercando ciò che tutti cercano.
[6] Vedendo dunque che tutte queste cose mi ostacolavano nella mia impresa di dare una nuova impostazione alla mia vita, anzi che vi erano tanto contrarie da essere necessario rinunciare alle une o all’altra, fui costretto a ricercare che cosa mi fosse più utile; infatti, come ho detto, mi sembrava voler lasciare un bene certo per uno incerto. Ma dopo un po’ di riflessione mi accorsi che se, tralasciate quelle norme di vita, mi fossi accinto a seguirne una nuova, avrei lasciato un bene per sua natura incerto (come si può chiaramente desumere da quanto è stato detto), per un bene incerto non per sua natura (ricercavo, infatti, un bene stabile), ma solo quanto al suo conseguimento.
[7] Meditando costantemente, arrivai alla conclusione che, purché potessi riflettere a fondo, avrei abbandonato dei mali certi per un bene certo. Vedevo, infatti, che versavo in estremo pericolo e che ero costretto a cercare con tutte le forze un rimedio, fosse esso anche incerto; come uno colpito da una malattia mortale che, prevedendo certa la morte se non si apporti un rimedio, è costretto a cercarlo, anche se esso è incerto, con tutte le forze, poiché in esso è riposta tutta la sua speranza; ma quei tali « beni » a cui tutti aspirano non solo non apportano nessun rimedio utile a conservare il nostro essere, ma anzi impediscono ciò; di frequente poi sono causa della perdita di coloro che li posseggono – se è lecito dirlo – e sempre causa della perdita di coloro che ne sono posseduti.
[8] Infatti ci sono moltissimi esempi di persone che hanno subito persecuzioni, fino a morirne, a causa delle proprie ricchezze; ed anche esempi di persone che per acquistare ricchezze si sono esposte a tanti pericoli da pagare infine con la vita la loro pazzia. Né sono meno numerosi gli esempi di persone che per conquistare onori o per difenderli hanno sofferto i mali più penosi. Infine sono innumerevoli gli esempi di persone che con i loro stravizi si sono affrettata la morte.
[9] In verità mi sembrava che tutti questi mali erano sorti dal fatto che ogni felicità o infelicità risiede solo nella qualità dell’oggetto col quale l’amore ci unisce. Infatti per ciò che non si ama non sorgeranno mai liti, non ci sarà tristezza se verrà meno, non invidia se sarà posseduto da un altro, non timore, non odio; in una parola, l’animo non si commuoverà affatto. Passioni, tutte queste, che invece hanno luogo nell’amore dei beni che possono perire, come sono tutti quelli dei quali abbiamo parlato.
[10] Ma l’amore per una cosa eterna ed infinita nutre l’animo di sola letizia, priva di ogni tristezza; cosa che è da desiderare grandemente e da ricercare con tutte le forze. Ora non senza ragione ho usato l’espressione seguente: « purché potessi riflettere seriamente ». Infatti, sebbene capissi certamente bene queste cose, non potevo tuttavia per questo spogliarmi di ogni desiderio di ricchezze, di piaceri e di successi sociali.
[11] Ma intanto constatavo che, per tutto il tempo che la mente faceva di questi pensieri, si distoglieva da quei falsi beni e pensava seriamente a una nuova condotta di vita. E ciò mi fu di grande consolazione. Infatti vedevo così che quei mali non erano tali da non voler cedere ai rimedi. E benché all’inizio queste pause fossero rare e durassero pochissimo, tuttavia, dopo che il vero bene mi divenne sempre più noto, esse furono più frequenti e più lunghe, particolarmente dopo essermi reso conto che l’acquisizione di ricchezze o il piacere e la gloria nuocciono nella misura in cui li si ricerchi per se stessi e non come mezzi per altri fini; ma se li si ricerca come mezzi allora resteranno contenuti entro certi limiti e non saranno affatto di ostacolo, anzi di grande aiuto (come mostreremo a suo luogo) per arrivare al fine per il quale si ricercano.
[Tractatus de intellectus emendazione]
I beni universalmente ricercati dagli uomini sono dunque ingannevoli e vani perché, in quanto esteriori e transitori, non appagano veramente l’animo (il loro soddisfacimento è seguito da tristezza, insoddisfazione, bramosia). Spinoza non li condanna in quanto tali (la sua non è una condanna moralistica), ma solo perché, scambiati per il massimo bene, incatenano l’animo impedendogli di ricercare un bene più stabile e appagante (la libidine impedisce di pensare a qualsiasi altra cosa; la ricerca del successo impone l’adesione alle opinioni altrui; quella della ricchezza espone a mali e pericoli ..). Il filosofo non condanna quindi i beni finiti dell’esistenza, ma solo la loro assolutizzazione e la loro quotidiana trasformazione da mezzi in fini (“l’acquisizione di ricchezze o il piacere e la gloria nuocciono nella misura in cui li si ricerchi per se stessi e non come mezzi per altri fini; ma se li si ricerca come mezzi allora resteranno contenuti entro certi limiti e non saranno affatto di ostacolo, anzi di grande aiuto”.)
L’unico bene in grado di arrecare piena soddisfazione è, invece, l’amore per la cosa eterna e infinita [che] riempie l’animo di pura letizia e lo rende immune da ogni tristezza, perché immerge la mente non in una gioia passeggera, ma in una felicità stabile e ferma come il suo oggetto. Tuttavia, mentre per i filosofi cristiani (primo tra i quali Agostino) la «cosa eterna e infinita» si identifica con Dio e la gioia con il suo raggiungimento celeste, per Spinoza l’infinito e l’eterno si identificano con il cosmo, e la gioia suprema comunità gli altri sono parte della nostra felicità con l’unione della mente con la natura.
Questo traguardo di beatitudine viene presentato da Spinoza in chiave non solo individuale, ma comunitaria:
"fa parte della mia felicità anche l’adoprarmi perché molti altri pensino come me ed il loro intelletto e i loro desideri s’accordino perfettamente con il mio intelletto e con i miei desideri".
Baruch Spinoza
Per fare questo, vale a dire per accordare armonicamente noi stessi con tutto ciò che esiste e con i nostri simili, occorre conoscere l’intima natura delle cose e distinguere la verità dall’errore. Spinoza si muove qui in modo diverso da Cartesio che aveva cercato la certezza nell’analisi e nella scomposizione dell’oggetto di scienza.
Analizzando le forme di conoscenza esistenti, le distingue in quattro generi:
la conoscenza per sentito dire, che ci porta a seguire le opinioni altrui;
l’esperienza vaga, nella quale ci fondiamo sulla nostra esperienza non condotta secondo ordine, ma acquisita casualmente;
la ragione dimostrativa, per la quale risaliamo dagli effetti alla causa
e, infine, l’intuizione, con la quale conosciamo gli effetti attraverso le cause e l’ente incausato (cioè che ha in se stesso la propria causa o ragion d’essere) direttamente nella sua essenza.
Di queste quattro tipologie, solo l’ultima ci consente di comprendere adeguatamente l’essenza delle cose e conduce, quindi, nell’ambito del vero. Ma, come riconoscere un’intuizione vera? Spinoza rifiuta un metodo che prima acquisisca le idee e dopo giudichi della loro verità o falsità e si serve invece di un metodo che organizza deduttivamente le conoscenze intorno all’idea vera già data. In altre parole, è l’analisi dell’idea vera che indica come procedere perché la conoscenza non sia erronea e si riveli feconda.
L’idea fondante il sistema delle conoscenze dovrà essere, perciò, quella da cui tutte le altre idee dipendono, ossia l’idea di un essere che sia causa di tutte le cose; seguiranno poi le idee delle leggi di natura che valgono per tutti gli enti. Cosi l’ordine della conoscenza riprodurrà l’ordine dell’intera natura:
"l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose"
[Etica, I, P7]
[si riconoscerà qui il problema della corrispondenza del contenuto delle idee con la realtà che, da Cartesio in poi, condiziona tutta la filosofia moderna]. La questione dell’ordine delle conoscenze è dunque centrale: la deduzione delle proprietà dalla definizione data è, nel pensiero, quel che in natura è la produzione dell’effetto dalla causa. Se si troveranno le definizioni vere, quelle da cui tutte le proprietà del definito derivano, il pensiero avrà quindi la garanzia ai muoversi nell’ambito dell’oggettività. Ogni conoscenza che non rispetti questo ordine, e che parli degli effetti senza conoscere le cause, è quindi irrimediabilmente erronea: si tratta della conoscenza immaginativa (mutilata cognitio) che, ignorando le cause, finge spiegazioni fantastiche per ogni fenomeno naturale. Come vedremo, le tesi fondamentali di questa opera incompiuta saranno sviluppate nella teoria della conoscenza contenuta nell’Ethica more geometrico demonstrata, il capolavoro di Spinoza,
http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/TestiDiFilosofia/TestiHTML/Spinoza/Etica/Etica.htm
Composta in un secolo che erige le scienze matematiche a modello conoscenza vera, l’Etica è, come afferma il titolo, dimostrata secondo il metodo geometrico cioè, si apre con una serie di definizioni e di assiomi a partire dai quali si dimostrano le proposizioni (i teoremi) e gli scholii relativi (o chiarimenti). La ricerca della verità si muove dunque all’interno della verità stessa: non la certezza soggettiva, dunque, ma la concatenazione deduttiva delle idee secondo premesse e conseguenze deve essere il filo conduttore del sistema. In questo modo, mentre Cartesio aveva ritenuto più adatto alla ricerca della verità il metodo analitico (si affrontano dimostrazioni particolari ad una ad una, senza esporre gli assiomi da cui dipendono), lasciando quello sintetico (da assiomi o definizioni si deducono le dimostrazioni cioè i teoremi) per l’esposizione dei risultati, per Spinoza non c’è differenza tra il metodo della ricerca e l’esposizione della verità: dovendo entrambi rispettare la concatenazione logica del vero, l’unico metodo da seguire è quello sintetico, o geometrico. [...]
Le conseguenze rilevanti sono che se il mondo non è stato creato per uno scopo, a maggior ragione questo scopo non può essere rappresentato dall’uomo, né ha alcun senso pensare che la natura esista solo per servirlo. Inoltre, se non vi sono altri mondi possibili con cui confrontarlo per dichiararlo migliore o peggiore, di questo mondo non si possono predicare qualità morali: esso è al di là del bene e del male. Solo il pregiudizio e l’ingenuo antropocentrismo degli uomini possono far credere il contrario:
"Tutti i pregiudizi che passo a indicare dipendono da questo soltanto, che cioè gli uomini comunemente suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano per un fine, e anzi asseriscono come cosa certa che lo stesso Dio dirige a un certo fine tutte le cose – dicono infatti che Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e l’uomo perché adorasse lui" [Etica, Parte I, Appendice].
Ecco dunque come nascono le fedi religiose e la credenza negli dèi,
«pregiudizio mutato in superstizione che ha profonde radici nelle loro menti»:
"[Gli individui] trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevare pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per il loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per il loro uso. Ma anche l’indole di questi, per non averne mai sentito dir nulla, doverono giudicare alla stregua della loro, e quindi stabilirono che gli dèi indirizzano tutto a uso degli uomini, per legarli a sé ed essere da loro tenuti in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, secondo la loro indole, affinché Dio li preferisse agli altri, e dirigesse tutta la natura ad uso della loro cieca cupidità e insaziabile avidità. E cosi questo pregiudizio si mutò in superstizione e mise profonde radici nelle loro menti"[Etica, Parte II].
Poiché Dio agisce secondo necessità e non spinto da una qualche volontà, non compie nemmeno miracoli, credenza dovuta unicamente all’ignoranza delle vere cause dei fenomeni. Con parole che dovettero essere ben presenti (come vedremo) al Kant delle antinomie della ragion pura, Spinoza mostra che la ricerca della causa ultima, di causa in causa, impieghi una logica apparente:
"Se, per esempio, da un tetto cade una pietra in testa a qualcuno e lo uccide, dimostreranno che la pietra è caduta per uccidere l’uomo in questo modo: se non è caduta a tal fine, per volontà di Dio, come mai hanno potuto convergere per quel caso tante circostanze (giacché spesso ne concorrono appunto molte insieme)? Forse risponderai che soffiava il vento e l’uomo passava di là, e che perciò è avvenuto. Ma domanderanno: perché il vento soffiò in quel momento? Perché in quel medesimo tempo l’uomo passava di là? Se rispondi ancora che il vento era sorto in quel momento per il fatto che il giorno precedente il mare, con il tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi; e per il fatto che l’uomo era stato invitato da un amico; chiederanno di nuovo – giacché non c’è fine al domandare – perché il mare era agitato e perché l’uomo era stato invitato quel giorno. E così via, non cesseranno di chiedere le cause delle cause, finché non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza" [Etica, parte II]
La scomunica dalla Torah Talmud alla sinagoga di Houtgracht
Alla luce di queste tesi, una filosofia come quella spinoziana incentrata sullo studio della sostanza divina viene giudicata dai contemporanei come il sistema ateo per eccellenza. A ventiquattro anni, Spinoza subisce così la scomunica (cherem) e, allontanato dalla comunità ebraica, inizia una vita appartata, dedita allo studio e al suo lavoro di intagliatore di lenti con il quale provvede ai propri frugali bisogni fino alla morte prematura, avvenuta per tisi.
La maledizione pronunciata contro di lui il 27 luglio 1656, recita:
"Con l’aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza. Pronunciamo questo herem nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Lo malediciamo nel modo in cui Eliseo ha maledetto i ragazzi e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l’Eterno non lo perdoni mai. Che l’Eterno accenda contro quest’uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nella Legge. E quanto a voi che restate devoti all’Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti".
Jean-Maximilien Lucas (1647-1697), primo biografo di Spinoza, sostenne che queste parole vennero da lui accolte «senza battere ciglio».
"Noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne e […] come onde del mare agitate da venti contrari fluttuiamo, ignari della nostra riuscita e del nostro fato".
Etica, Parte III, P59
"Considererò le azioni umane e gli umani appetiti come se si trattasse di linee, di piani e di corpi"
[Etica, III]
In questa prospettiva, l’unico atteggiamento filosofico conveniente di fronte alle passioni, non è quello di deriderle, compiangerle o condannarle, ma comprenderle:
"Non ridere, neque lugere, neque detestari, sed intelligere",
trattandole
"non come vizi della natura umana, ma quali proprietà che le appartengono necessariamente, così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, il tuono, il temporale e simili"
[Trattato politico, I, par. IV].
Conformemente a queste premesse, Spinoza elabora una morale descrittiva, non prescrittiva, scagliandosi contro quella razza di moralisti che
"concepiscono gli affetti [le passioni], fonte dei nostri tormenti, come vizi nei quali l’uomo cade per sua colpa: sono soliti perciò deriderli o compiangerli, biasimarli… [così finiscono per concepire] gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero"
(Trattato politico I, IV).
[...] L’Etica non è una morale perché Spinoza non chiede mai cosa «si deve» fare, ma cosa si è in grado di fare, tratta della potenza non del dovere. In altri termini, L’Etica è un’etologia (una scienza del comportamento) che non rinvia ad alcuna istanza superiore. [...]
«la beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e non godiamo di essa perché reprimiamo le nostre voglie, ma possiamo reprimere le nostre voglie perché godiamo di essa».
[Etica, V, 42].
In conclusione, come è possibile essere «liberi dagli affetti» se sono necessari? La risposta è contenuta nel titolo delle ultime due sezioni dell’Etica:
La schiavitù umana, ossia la forza delle passioni (IV);
La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana (V).
Non sfugge a Spinoza la consapevolezza che questo cammino è arduo, difficile, raro ma, come conclude l’Etica,
«tutte le cose preziose sono tanto difficili quanto rare».
[...] Il trattato «forgiato all’inferno»
« Forgiato all’inferno dall’ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan».
Annotazione anonima su un catalogo di libri appartenuti a Jan, cioè a Johan de Witt, il principale artefice della politica liberale degli Stati d’Olanda, ucciso barbaramente a due anni dall’uscita del Trattato.
Agosto 1672, linciaggio di Cornelis e Jan de Witt.
Durante la sua breve vita Spinoza pubblicò, anonima, una sola opera in cui la propria dottrina veniva esplicitamente argomentata, il Tractatus theologico politicus (1670)(da p. 211); l’altra, i Principi della filosofia di Cartesio, era dedicata, come sappiamo, all’esposizione della filosofia cartesiana.
Dedicati entrambi alla ricerca della libertà, l’Etica e il Trattato sono tra loro complementari.
Nella prima, il problema della «liberazione da ogni schiavitù, psicologica, politica o religiosa» è affrontato dal punto di vista metafisico e morale, nel secondo da una prospettiva teologica, politica e storica. Mentre l’Etica è scritta soprattutto per i filosofi, il Trattato, benché in latino, si rivolge a un pubblico più vasto. Ai teologi di ogni razza e ai filosofi di ogni scuola, certo, ma anche alle élites patrizie e liberali che governavano le città delle varie province d’Olanda, ai figli di facoltose famiglie di mercanti e imprenditori che spesso avevano manifestato insofferenza per l’ingerenza della Chiesa negli affari pubblici, alle piccole ma combattive comunità di chrétiens sans Église che Spinoza aveva conosciuto ad Amsterdam e che, da persone profondamente devote quali erano, in più occasioni avevano contestato le gerarchie della Chiesa riformata olandese.
È un’opera appassionata, a tratti rabbiosa in cui fin dalle prime pagine sulla religione come superstizione istituzionalizzata – un’interpretazione secolarizzata del fenomeno religioso già avanzata da Giulio Cesare Vanini – si percepisce quanto in Spinoza bruciasse ancora l’espulsione dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam che lo aveva allontanato per aver pensato che «Dio esiste solo in un senso filosofico», che «l’anima non è immortale» che «la legge di Mosè non è vera», tesi quest’ultima argomentata appunto nel Trattato.
L’accezione prevalente in cui Spinoza usa nell’opera la parola teologia è quella di «religione rivelata»: il Trattato è infatti dedicato alle Sacre scritture e alla loro corretta interpretazione che Spinoza propone di affrontare applicando le regole usate dai filologi per qualunque altra opera dell’antichità (conoscenza della lingua, del contesto ecc.). Il filosofo si opponeva esplicitamente ai due indirizzi alternativi di interpretazione scritturale: quello “ortodosso” che si appella all’illuminazione dello Spirito santo e alla tradizione dei concili, e quello “eterodosso”, il quale, in opposizione al primo, sostiene il diritto della ragione di interpretare la Scrittura.
[...] Mi sono spesso meravigliato che uomini, i quali si vantano di professare la religione cristiana, e cioè l’amore, la gioia, la pace, la moderazione e la lealtà con tutti, contendessero tra di loro con tanto astiosa irruenza e si odiassero a vicenda con sì feroce e costante accanimento, da far capire da ciò, piuttosto che dall’esercizio di quelle virtù, la specie di fede da ciascuno professata; le cose sono ormai arrivate al punto, che quasi non si può più distinguere di chi si tratti, se di un Cristiano, cioè, o di un Turco o di un Ebreo o di un Pagano, se non dalla veste esteriore di ognuno e dal culto o dalla Chiesa che frequenta o dall’opinione che segue o dal maestro sulla cui parola suole giurare. Per il resto conducono tutti la stessa vita. Cercando io dunque la causa di questo male, la ravvisai senza dubbio nel fatto che per il volgo ebbero valore di religione il considerare il ministero ecclesiastico come una dignità e i doveri ad esso connessi come un beneficio il rendere i massimi onori ai pastori. Infatti, non appena incominciò nella Chiesa questo abuso, tosto si accese nei peggiori una gran voglia di accedere all’amministrazione dei sacri uffici, e lo zelo della propaganda religiosa degenerò in vergognosa avidità e ambizione, trasformando il tempio stesso in un teatro dove presero la parola, non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era di istruire il popolo, bensì di imporsi alla sua ammirazione, di criticare pubblicamente gli avversari e di insegnare soltanto novità sensazionali, che suscitassero soprattutto la meraviglia del volgo; di qui un cumulo di contrasti, di invidie, di odi, che il passar del tempo non riuscì a sedare. Non c’è da stupirsi, dunque, se dell’antica religione non sia rimasto altro che il culto esterno (col quale il volgo sembra adulare Dio più che adorarlo), e che la fede non sia ormai altro che un complesso di credulità e di pregiudizi: pregiudizi, che trasformano gli uomini da esseri razionali in bestie, in quanto li inducono nell’assoluta impossibilità di usare la propria facoltà di giudizio e di distinguere il vero dal falso, escogitati come sembrano allo scopo di estinguere del tutto il lume dell’intelletto. In verità, se una scintilla almeno di quella luce divina li illuminasse non sarebbero vittime della loro superba insania, ma imparerebbero a onorare Dio con maggiore saggezza e, invece che la caratteristica dell’odio, quella dell’amore li distinguerebbe dagli altri; e non perseguiterebbero con tanta ostilità quelli che da loro dissentono, ma piuttosto avrebbero pietà di essi, se davvero si preoccupassero più della loro salvezza che del proprio successo. Inoltre, se avessero qualche lume divino, questo risulterebbe almeno dalla dottrina; bisogna riconoscere invece che con tutta la loro ammirazione per i profondissimi misteri della Scrittura, nulla hanno saputo insegnare all’infuori di quanto era contenuto nelle speculazioni degli Aristotelici e dei Platonici; e a queste, per non aver l’aria di seguire i pagani, adattarono la Scrittura. Non bastò loro di perdersi dietro ai Greci, ma pretesero che vi si fossero smarriti anche i profeti: il che dimostra chiaramente che essi non hanno la più pallida idea della divinità della Scrittura e che quanto più si ostinano a contemplarne i misteri, tanto più chiaramente mostrano come essa sia per loro oggetto di infatuazione, più che di fede; e ciò si vede anche dal fatto che, per lo più, ad intendere la Scrittura nel suo vero significato, essi partono dal presupposto che essa sia veritiera e ispirata da Dio in tutte le sue parti: cosa, che dovrebbe risultare soltanto dalla intelligenza e da un severo esame di essa, sicché essi stabiliscono come regola preliminare della sua interpretazione ciò che essa stessa è in grado di insegnarci assai meglio, senza bisogno di umani artifici.
Riflettendo dunque su queste cose, e cioè che il lume naturale è da molti non soltanto disprezzato, ma condannato come fonte di empietà; che l’interpretazione umana è tenuta in conto di rivelazione divina; che la credulità ha preso il posto della fede e che le controverse opinioni dei filosofi sono discusse con estrema passione nelle chiese e nelle curie, donde odi e contrasti fierissimi, che si convertono facilmente in lotte, e molte altre conseguenze, che sarebbe troppo lungo enumerare, venni nella deliberazione di istituire un nuovo, completo e libero esame della Scrittura, con il proposito di non affermare nulla intorno ad essa e di non ammettere come sua dottrina nulla che in essa non risultasse chiarissimamente contenuto. Seguendo questo criterio ho elaborato un metodo di interpretazione dei Sacri Volumi, sulla scorta del quale ho incominciato anzitutto a chiedermi che cosa dovesse intendersi per profezia, in qual modo Dio si fosse rivelato ai profeti e perché questi gli fossero accetti: se, cioè, perché possedessero sublimi concetti intorno a Dio e alla natura o soltanto per la loro pietà. Conosciuto questo, ho potuto facilmente stabilire che l’autorità dei profeti vale soltanto in ciò che concerne la pratica della vita e della vera virtù, mentre nel resto le loro opinioni ci interessano poco. [...]
SI PUO´ ESSERE FELICI IN QUESTA VITA?
Baruch Spinoza dice di si!
Baruch Spinoza (1632-1677)
Prima di parlare della felicità, vorrei raccontare brevemente come ho incontrato Spinoza.
Avevo letto da qualche parte, su un giornale credo, che la teoria della relatività di Einstein parla di un universo quadridimensionale che esiste in blocco, con tutto il tempo e tutto lo spazio, e dove lo scorrere del tempo è solo una illusione umana. Com'è possibile che tutto il tempo, il passato, il presente ed il futuro, possa esistere in blocco contemporaneamente?
Incuriosito ho cominciato a fare ricerche sulla teoria della relatività ma anche sulla vita ed il pensiero di Einstein. Ho scoperto così uno scambio di telegrammi fra il rabbino di New York, H. Goldstein ed Einstein. Nel 1929, il rabbino inviò un telegramma ad Einstein: “Credi in Dio? STOP risposta pagata di 50 parole”. Einstein rispose con 25 parole (in tedesco): “Credo nel Dio di Spinoza che si manifesta nell’armonia dell’universo, non credo nel Dio che si preoccupa del destino e delle azioni del genere umano”.
La scoperta che lo scienziato più grande di tutti tempi credesse in Dio, in un primo momento, mi ha un po’ disorientato. Poi mi sono chiesto, chi è questo “Dio di Spinoza”?.
E’ così che ho comprato l’Etica di Spinoza.
Bella idea!!! Il primo tentativo di capirci qualcosa è fallito miseramente.
Come poteva essere diversamente? La prima frase dell’Etica dice:
“Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente”. E avanti di questo passo …
Cosa potevo capirci io completamente a digiuno di filosofia?
Ma non mi sono arreso … a farla breve, con sforzi immani, sono riuscito a scoprire la chiave di lettura di Spinoza ed ad aprire lo scrigno del tesoro dell’Etica.
Lungo l’arduo cammino verso la cosa più eccellente, la felicità, occorre procedere per passi successivi. Innanzitutto bisogna analizzare accuratamente i sentimenti umani per comprendere, razionalmente, quale è il loro effetto sulla nostra sfera emotiva e sul nostro benessere psicologico.
Il passo successivo è quello di capire e accettare che tutto in questo mondo avviene necessariamente e perfettamente secondo le leggi eterne ed immutabili di Dio.
Infine, dalla considerazione che ogni singola entità, sia essa persona, animale o cosa, è unita in una cosmica armonia con il Tutto, si potrà giungere alla beatitudine, all’amore intellettuale di Dio, cioè alla vera felicità.
Ma prima di intraprendere l’arduo cammino dobbiamo definire la felicità.
Cos’è la felicità?
Forse qualcuno dirà che questa è una domanda molto personale alla quale ogni uomo può solo rispondere per sé. Ma cerchiamo di dare ugualmente una definizione di felicità in termini generali.
La prima cosa che viene in mente quando si parla di felicità è quella di una condizione di gioia eccitata che si esprime nella sensazione di euforia, di energia in eccedenza, nel ridere, nel voler danzare, cantare, etc. Questa è una forma di euforia più che di felicità e ha lo svantaggio di essere precaria, instabile e, necessariamente, di breve durata. Non è questo il tipo di felicità che ci interessa in questa discussione.
C'è poi una felicità biologica che deriva dall'appagamento delle necessità primarie quali ad esempio la fame, il sonno, l'appagamento sessuale. I bisogni biologici creano una condizione di attesa e di infelicità che tende a risolversi nel momento in cui il bisogno primario è appagato. L'appagamento genera una condizione di felicità biologica, identificabile con il piacere, che influenza anche la psiche e lo spirito. L'appagamento biologico è anch'esso provvisorio. E' sottoposto infatti ad una temporaneità irrevocabile, frutto del continuo ripresentarsi di pulsioni e istinti dopo il breve periodo di appagamento degli stessi. Certo la felicità biologica è importante ma neanche questo è il tipo di felicità che ci interessa analizzare.
“E’ felice chi ha tutto quello che vuole” può essere indicata come la formula concisa di quello che la maggior parte delle persone intende oggi per felicità.
Secondo questa definizione, felice è quel tale la cui esistenza materiale è assicurata, che gode di buona salute, che ha trovato il lavoro dei sui sogni, che guadagna bene e può permettersi una bella macchina, che ha una casa di proprietà, dei figli sani ed intelligenti. Certo questa persona è sulla buona strada per essere felice se è capace di rallegrarsi, di apprezzare quello che ha e di goderne intimamente. Dovrà però stare attento a non cadere nel tranello dell’insaziabile bisogno di avere: avere più soldi, più case, più gioielli, macchine più costose. E' naturale voler migliorare la propria condizione materiale ma è sbagliato concentrarsi su quello che non si ha e, allo stesso tempo, svalutare, dare per scontato, quello che già si ha.
Occorre non cadere nell'errore di amare troppo le cose che sono completamente fuori del nostro controllo. A questo proposito, Spinoza scrive: "Bisogna [...] notare che gli affanni e le disavventure dell’animo traggono origine soprattutto dal troppo amore per una cosa soggetta a molte variazioni e di cui non possiamo mai essere pienamente padroni. Infatti nessuno è preoccupato e ansioso se non per una cosa che ama, e le ingiurie, i sospetti, le inimicizie, ecc. nascono solo dall’Amore per le cose di cui nessuno, in realtà, può essere veramente padrone." (ET V, Prop. XX)
Il desiderio senza fine, il dover aver assolutamente questo o quello per pensare di essere felici assomiglia ad una corsa per raggiungere un traguardo che si sposta sempre più avanti. Ogni desiderio appagato genera altri desideri da appagare in una catena senza fine. Alla fine si cade esausti senza aver raggiunto il traguardo. In questa corsa senza senso a voler avere sempre di più l’unico traguardo certo è un crescente senso di vuoto, di delusione e di infelicità.
Certo l’acquisto ed il possesso di beni materiali possono appartenere ad una vita felice ma non ne sono il presupposto.
La felicità, dal mio punto di vista, è una condizione di gioiosa serenità, di contentezza tranquilla ma pervasiva, che nasce da una condizione mentale di armoniosa unione del mio 'io' con me stesso, con gli altri, con la natura, con il Tutto. La gioia soffusa e diffusa scaturisce dal sentirsi parte viva di un ordine meraviglioso, perfetto; dal sentire Dio immanente, presente in tutte le cose della Natura; dall'avvertire l'Amore Cosmico che pervade la Natura.
Una tale condizione di gioia e serenità ci porta a pensare:
“Si, io ho il privilegio di essere. Io sono parte della Vita infinita del Tutto".
Il privilegio di ESSERE è sovente sottovalutato perché non siamo consapevoli del presente.
Il nostro animo è completamento assorbito dalle aspettative, dalle speranze, a volte, dalle paure di quello che accadrà nel futuro. Anche il passato con i suoi ricordi, i suoi rimorsi, la nostalgia dei tempi andati occupa una parte considerevole della nostra coscienza.
Quanto spazio rimane per il presente? Molto poco.
Ma il futuro e il passato non sono reali: l’unica realtà è il presente.
E’ nel presente che sento fluire il sangue nelle mie vene, è nel presente che alcune cellule del mio corpo crescono, si riproducono, altre muoiono. E’ nel presente che le nuvole scorrono nel cielo, che il sole scalda la terra, che Luna, il mio gattino, sporgendosi da dietro lo schermo del computer, mi guarda con un punto interrogativo negli occhi. Starà pensando “ma questo è proprio scemo?!”.
Noi SIAMO nel presente.
A volte, per brevi momenti del presente, si può sentire il proprio essere come annegato nel mare placido, armonioso, amorevole dell’Essere cosmico, il proprio cuore battere in unisono con il ritmo dell'Universo. Si può sentir il fluire della propria vita come il fluire di una molecola d'acqua nel fiume quieto, immenso ed eterno della Vita. Quale gioia più profonda! Cosa ci importa, in questi momenti di grazia, di cosa ci riserva il futuro? Di quello che è stato nel passato? Siamo VIVI adesso! Gloria a Dio!
Quando si riesce a raggiungere questa condizione mentale di armoniosa comunione cosmica in Dio, di adesione al mondo nella sua totalità, l’animo si colma di serenità, di gioia e si può vivere in pace con se stessi e con gli altri. Questo è il tipo di felicità che ho intenzione di analizzare in questa discussione seguendo il metodo spinoziano.
In attesa del risveglio intellettuale all’armonia del Tutto e all'Amore intelletuale di Dio, non dobbiamo sottovalutare le piccole felicità, cioè i momenti di felicità quotidiani.
Possiamo provare una piccola felicità di fronte allo spettacolo di un’alba o di un tramonto, di fronte al profilo maestoso di montagne in lontananza dopo essere giunti in cima ad una vetta, durante una passeggiata solitaria lungo il mare o nel silenzio dei boschi, per il sorriso innocente di un bimbo, per uno sguardo pieno d’amore, per un bicchiere di buon vino in compagnia di persone care. Purtroppo questi momenti durano un istante e subito passano via. Sarebbe necessario rendersi consapevoli dei momenti di piccola felicità, di goderli fino in fondo, di espanderli, dar loro spazio e importanza, fissarli nella memoria come sottofondo gioioso della vita di ogni giorno.
Per oggi mi fermo qui. Nella prossima puntata cercherò di capire se c’è una scorciatoia al raggiungimento della felicità. Cercherò di rispondere alla domanda: “la religione popolare, cioè la fede cristiana come viene vissuta dalla gente comune, può aiutarci a essere felici in questa vita?”
comments are welcomed ... ldibianco@alice.it
Il contenuto di questo articolo e i relativi diritti sono di proprietà dell'autore.
http://www.webalice.it/ldibianco/cap01.htm
Benedetto Spinoza e la felicità
Il grande filosofo olandese Benedetto Spinoza rappresenta ancora oggi uno scandalo per il pensiero filosofico e religioso.
E' stato maledetto dalla comunità ebraica del 1600 con la scomunica più grave che si potesse dare:
"I capi del Concilio Ecclesiastico rendono così noto che, già ben certi delle errate opinioni e malvagie azioni di Baruch de Espinoza, si sono sforzati in parecchie guise e con varie offerte di farlo desistere dalla sua colpevole condotta. Ma non essendo riusciti a ricondurre i suoi pensieri su una via migliore, ed avendo, anzi, ogni giorno acquistata maggior certezza delle orribili eresie da lui ammesse e confessate, e dell'insolenza con cui queste eresie sono da lui proclamate e divulgate, e poiché molte persone degne di fiducia sono state di ciò testimoni in presenza di detto Espinoza, egli è stato ritenuto completamente reo di tali eresie. Essendosi perciò fatto un esame di tutta la materia davanti ai Capi del Concilio Ecclesiastico, è stato deciso, con l'assenso dei consiglieri, di pronunciare un anatema contro il suddetto Spinoza e di espellerlo dal popolo ebraico e di scomunicarlo da questo momento, con la seguente maledizione:
"Col giudizio degli angeli e la sentenza de' santi, noi dichiariamo Baruch de Espinoza scomunicato, esacrato, maledetto ed espulso, con l'assenso di tutta la sacra comunità, al cospetto dei sacri libri, nei quali sono scritti i seicento e trenta precetti, pronunciando contro di lui la maledizione con cui Eliseo colpì i fanciulli e tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto egli quando si corica, e maledetto quando si alza; maledetto nell'uscire e maledetto nell'entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano l'ira e la collera del Signore ardere, d'ora innanzi, quest'uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità , da tutte le tribù d'Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge; e possiate tutti voi, che siete obbedienti al Signore iddio nostro, esser salvi fin d'ora. Siete tutti ammoniti, che d'ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dimorare sotto lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti, e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno"[1].
[1] In Will Durant, Gli eroi del pensiero, Milano, SugarCo, 1964, pp.189-190.
E dopo la scomunica, nella sua forma più grave e irrevocabile, fece seguito anche un tentativo di ucciderlo da parte di un fanatico ebreo isolato.
I rabbini rivolsero all'autorità olandese anche un’esplicita richiesta, e da questa accolta, che gli si proibisse di continuare a vivere ad Amsterdam, quindi, isolamento e povertà.
Per capire quanto Spinoza amasse la sua indipendenza di pensiero, c'è un episodio molto significativo.
Gli si offrì, strano a dirsi, dall'Elettore Palatino Carlo Lodovico, la possibilità di insegnare filosofia nell'Università di Heidelberg a patto che non turbasse col suo insegnamento la religione ufficialmente istituita.
Spinoza rifiutò perché non capiva come avesse potuto svolgere la sua attività di filosofo con tali limiti.
Preferì la sua vita ritirata e solitaria ma dedita alla verità.
Spinoza dai filosofi contemporanei è stato travisato, insultato o trattato freddamente.
Un esempio per tutti, il filosofo tedesco Leibniz, che ebbe con lui alcune conversazioni private molto proficue, tanto da influenzargli in modo evidente e sospetto, come brillantemente e acutamente ha dimostrato recentemente Matthew Stewart, gli ultimi sviluppi della sua filosofia più feconda e che da Leibniz non è stato nemmeno nominato, se non con pochissimi accenni sprezzanti.
Tutti i rappresentanti delle religioni rivelate considerano Spinoza scandaloso per l'intrinseca pericolosità che le sue proposizioni rappresentano per le loro chiese e la loro concezione di Dio.
Spinoza ha subito i più gravi travisamenti e per fortuna alcuni sono stati spazzati via dalla critica filosofica, altri purtroppo ancora perdurano, vediamoli uno a uno.
Spinoza è stato accusato di essere un ateo.
L'accusa è ridicola poiché tutta la sua filosofia poggia sul concetto di Dio, però siccome non è un Dio trascendente, staccato dall'universo, dalla natura, ma immanente, interno all'universo e alla natura, questo è stato visto come un degradamento del divino, in ultima analisi come un naturalismo e quindi un annullamento di Dio, un ateismo appunto.
Il punto è che mai nessuno aveva attaccato fino all'origine del suo costituirsi il pensiero religioso creazionista, positivo e rivelato.
Tutte le tradizioni religiose monoteiste si rifanno a un'idea di Dio antropica, come un Dio che raccoglie i pregi più grandi dell'uomo.
Quest'idea personalistica di Dio è criticata radicalmente da Spinoza, negandogli le tipiche facoltà umane dell'intelletto e della volontà.
Quando Spinoza afferma che Dio non ci riama, non vuole sostenere una glaciale concezione del sentimento o un radicale sentimentalismo disinteressato, come lo interpretò Goethe, ma un puro concetto logico di Dio scevro appunto dai tipici connotati delle immagini antropomorfiche.
Dio è interno alle stesse leggi che governano l'universo e non può trasgredirle perché altrimenti contraddirebbe se stesso. La sua conoscenza è comprensione del suo ordinamento necessario, dove alla fine viene a essere l'unico oggetto della conoscenza adeguata.
Perciò è spazzato via l'altro travisamento del pensiero di Spinoza, vale a dire che sia un panteismo.
Panteista è la partecipazione sentimentale al tutto alla Scleiermacher, dove l'io è presente e patisce, ma si esalta e si redime trasfigurandosi in un entusiasmo misticheggiante.
Al contrario Spinoza non vuole redimere l'io, ma metterlo da parte e assorbirlo nell'inviolabile ordinamento del tutto.
Altro punto angolare del pensiero di Spinoza è l'affermazione che l'essenza dell'uomo è il conatus, il desiderio.
Ma è un desiderio che non si esprime nelle purtroppo tragiche divisioni della nostra Civiltà, vale a dire il corpo da una parte, lo spirito dall'altra, ma sa fonderle insieme in una fondamentale unità.
Dio stesso è corpo e spirito e non già solo spirito altamente sublimato come nelle religioni rivelate.
Tanto è indissolubile, in Spinoza, tale unità di corpo e spirito, che coerentemente non riusciva a concepire l'immortalità dell'anima, perché essa è interna al corpo e perendo quest'ultimo anch'essa periva.
Semmai Spinoza sosteneva che la mente non può essere distrutta col corpo perché essa non può essere definita dal tempo ma concepita con una certa necessità eterna attraverso la stessa essenza di Dio.
Un ultimo travisamento importante del pensiero di Spinoza, che ha origine dalla critica di Hegel, è il dichiarare il suo pensiero un acosmismo, vale a dire un annullamento del cosmo.
Se omnis determinatio est negatio, ogni determinazione è una negazione,
per questi critici di Spinoza, tutto viene a confondersi, l'individualità stessa si perde, il pensiero che in
essenza è discriminare, perde consistenza.
Eppure anche in questa critica apparentemente fondata c'è un equivoco.
Per Spinoza nulla è diviso, ogni cosa se separata, staccata dal tutto, perde il suo intrinseco valore di necessità.
Però Dio si conosce portando lo sguardo fino in fondo alle cose singole, anzi più si conosce queste come necessarie e più si conosce Dio.
"Quanto più intendiamo le cose singole, tanto più intendiamo Dio”.
Altro punto fondamentale di Spinoza è la negazione del libero arbitrio su cui di solito si abbattono ferocemente i detrattori del filosofo olandese.
A mio parere vi sono alla base alcuni fraintendimenti linguistici e un muro eretto dall'io cosciente che mal sopporta qualsiasi tentativo di sminuire la sua illusoria potenza.
A tal proposito giustamente è fondamentale l'affermazione metodologica che Spinoza vuol seguire e cioè che l'uomo non sia uno stato nello stato, come egli dice con efficace definizione, ma che si debba indagare su di lui come si fa con il mondo circostante.
Quindi non già applicare, come diremmo con parole moderne, all'uomo un modello di tipo fisico- matematico, ma un approccio scientifico senza tabù e senza mitizzazioni che ne ostacolino la conoscenza.
Spinoza afferma che l'uomo sa bene quali siano i fini della sua azione, anche se vede il meglio, segue il peggio, e ciò accade perché è all'oscuro delle cause che determinano la sua volontà e i suoi desideri.
"...gli uomini si ritengono liberi, dato che sono consci delle proprie volizioni e del proprio appetito; mentre le cause, da cui sono disposti ad appetire e a volere, poichè ne sono ignari, non se le sognano nemmeno"
Spinoza considera opportunamente questo pregiudizio del finalismo come un ostacolo alla consapevolezza delle cause delle volizioni e dei desideri.
Egli a tal proposito in una lettera a Giovanni Ermanno Schuller fa questo celebre esempio:
“ …una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente ad essere mossa. Dunque, questo persistere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualunque cosa particolare (…)
Poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muovere, pensi, e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento. Davvero questa pietra, in quanto è consapevole unicamente del suo sforzo, al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo vuole. Proprio questa è quell’umana libertà, che tutti si vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e ignari delle cause da cui sono determinati. Così, il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe di aver taciuto.. Così il delirante, il chiacchierone e molti altri
di simil risma credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso, E poiché questo pregiudizio è innato in ogni uomo, è difficile liberarnelo.
Infatti, benché l’esperienza insegni a sazietà che gli uomini in nulla riescono meno che nella moderazione dei propri istinti, e che spesso, quando si trovano alle prese con due affetti contrari, vedono il meglio, ma si attengono al peggio, credono tuttavia di essere liberi; e ciò perché l’appetito di certe cose è meno forte e può venir smorzato dal ricordo di qualche altra che abbiamo più di frequente in mente”.
Di solito a queste analisi lucidissime si obiettano argomentazioni tratte da una logica della colpa, cioè si muovono contro argomenti del tipo, allora non c’è differenza tra un santo e un assassino, tra un innocente e un colpevole, eccetera.
Ma a tali argomenti tratti dal dizionario de “i castighi e delle pene” di ogni io inquisitore, lo stesso Spinoza, nella stessa lettera presa già in esame risponde ironicamente:
“Gli uomini cattivi non diventano meno temibili e pericolosi per il fatto di essere necessariamente cattivi”.
Ma ancor di più non è assolutamente vero che egli concepisca un uomo schiavo delle sue passioni, anzi è vero proprio il contrario, altrimenti non avrebbe scritto il suo capolavoro "etica", con l'intento di affidare all'uomo un compito: quanta più consapevolezza egli riuscirà ad avere tanto più potere saprà acquistare.
E' proprio dalla forza oscura che dà patimento che la passione trae alimento per rendere l'uomo passivo, infatti, più se ne fa un'idea chiara e distinta e riesce a trovare una relazione causale, cioè le intende come necessarie, più si renderà libero dai suoi affetti negativi.
Quando l'uomo riesce a fare ciò, che Spinoza chiama terzo genere di conoscenza, cioè da quello immaginativo, poi razionale, infine filosofico, che sa procedere dall'idea adeguata di certi attributi di Dio alla conoscenza dell'essenza delle cose in un supremo sforzo della mente, tanto l'uomo raggiunge la suprema virtù che è la massima sua perfezione.
E in tale eternità l'uomo si compiace al massimo grado della sua libertà che non è assolutamente un andare contro le stesse leggi che lo governano ma di conoscerle e di amarle di un infinito amore intellettuale.
L'ultima considerazione che vorrei fare sul pensiero di Spinoza è sul suo concetto di beatitudine.
Così egli afferma:
"La beatitudine non è premio alla virtù, ma è la virtù stessa; e noi non godiamo di essa perché reprimiamo le libidini, ma, al contrario, proprio perché godiamo di essa, possiamo frenare le libidini".
Vi è in questa proposizione un criterio di morale che sovverte tutto il cupo e sacrificale moralismo tradizionale.
Non c'è paura della punizione, né terrena, né divina, e il fine della nostra azione non è esterna a essa, ma interna, nell'azione virtuosa stessa.
Anche nella morale Spinoza ha rovesciato schemi che durano da millenni e ha saputo tracciare una strada di altissima dignità e fierezza dove l'uomo possa percorrerla senza stupidi infantilismi e stupide paure irrazionali ma con mente lucida e beata.
L’importanza di Benedetto Spinoza è talmente grande che si può sicuramente affermare che ha saputo esprimere filosoficamente la stessa forza salvifica e spirituale che Gesù di Nazareth ha espresso, disorientando tutti, in ambito religioso e non è certo un caso che, come quest’ultimo, sia stato così odiato, allontanato, messo all’angolo, equivocato, distorto, ma anche così studiato, cercato, amato.
Se Gesù ha saputo mostrare, per dirla con le belle parole di Ernest Renan, al di là dei dogmi, la purezza del cuore, la fede che si fa universale perché penetra con gioia nella stessa coscienza dell’uomo, parallelamente Spinoza ha mostrato che la letizia non si nasconde nell’intelletto ma è da esso rivelato e posto sull’altare di un’eterna possibilità.
Questo perché scopo dell’umana avventura non è il sacrificio ma la felicità.
Sergio Rizzitiello (sergio_rizzitiello@alice.it)
--------------------------------------------------------------------------------
http://www.fogliospinoziano.it/articolispinoza/Spinoza_felicita.pdf
Spinoza ha anticipato Gazzaniga di 300 anni.
Spinoza [...] “Gli uomini si credono liberi soltanto perché sono consapevoli delle proprie azioni e inconsapevoli delle cause che le determinano” [...] . Tratto da “L’ethica”, monumentale opera scritta dall’ottico olandese, esempio di libero pensiero che ha addirittura lasciato dire a Hegel “Philosophieren ist Spinozieren”, rivela la subordinazione intrinseca della coscienza nella fisiologia del sistema nervoso. Lasceremo spiegare il tutto a Gazzaniga e al suo straordinario lavoro “Un cervello, due menti” (1972). Gli esperimenti che alimentano quest’articolo scientifico sono stati condotti su pazienti “scissi”, pazienti cioè la cui epilessia aveva acquisito una dimensione tanto grave da dover ricorrere a un intervento chirurgico consistente nel tagliare le connessioni nervose tra i due emisferi cerebrali, il corpo calloso. Gazzaniga dimostrò che i due emisferi in questi soggetti non comunicano più e siccome l’area del linguaggio risiede solitamente nell’emisfero di sinistra, il paziente saprà esprimere solo ciò di cui quest’emisfero è a conoscenza. Se si benda il paziente e gli si chiede di toccare un oggetto con la mano sinistra, egli non saprà descrivere tale informazione tattile poiché le fibre nervose sensitive afferenti al sistema nervoso centrale dalla metà sinistra del corpo decussano la linea mediana e giungono all’emisfero destro isolato dal sinistro e quindi dall’area del linguaggio. Quest’esperimento molto semplice è servito da guida per altri, uno dei quali di importanza fondamentale. Se si induce segretamente l’emisfero destro ad avere una reazione, l’emisfero sinistro sarà capace di percepirla, ma rimarrà all’oscuro della sua motivazione. In che modo dunque la coscienza tratta il materiale inconscio? Ebbene, se si chiede a questi pazienti il perché della loro reazione, essi verbalizzano ciò che l’emisfero sinistro riesce a dedurre dalla situazione, inventando delle spiegazioni come se sapessero realmente cosa sia accaduto. LeDoux, un neurobiologo che ha collaborato con Gazzaniga in questi esperimenti, riporta nel suo libro “Il cervello emotivo” il comportamento dei pazienti: “se ordinavamo all’emisfero destro di salutare con la mano, il paziente salutava. Quando gli chiedevamo il perché, diceva che aveva creduto di vedere un conoscente. Se ordinavamo all’emisfero destro di ridere, il paziente ci diceva che eravamo buffi”. Le spiegazioni dei pazienti scissi non sono prodotte dalla conoscenza del perché delle azioni, ma solo in base alla percezione delle azioni stesse. Da tali esperimenti fu quindi dedotto che “molte delle nostre azioni hanno motivi di cui non siamo consapevoli (perché il comportamento è prodotto da sistemi cerebrali che operano inconsciamente) e che uno dei principali compiti della coscienza è quello di ricucire la nostra vita in una storia coerente, in un concetto del sé. Lo fa generando delle spiegazioni del comportamento sulla base dell’immagine di sé, dei ricordi del passato, delle aspettative del futuro, della situazione sociale presente e dell’ambiente fisico in cui quel comportamento è prodotto” (LeDoux, Il cervello emotivo).
Anche se irrelata dagli esperimenti di Gazzaniga, quanto detto da Spinoza appare ora più chiaro. L’importanza del periodo Spinoziano rimane tuttavia sottostimata. Homo Sapiens continua a ignorare che la sua coscienza è in realtà un accessorio comparso nella filogenesi.
Tutto il comportamento umano è determinato per riflesso, dunque è scatenato da processi inconsci. La cosa è anche più intuitiva di quanto si possa credere. Il riflesso è, per quanto semplice, una conquista complessa nella filogenesi e oltre che complessa è estremamente efficace: dunque perché non sfruttarla? Nello sviluppo successivo del sistema nervoso, gli errori accumulatisi hanno portato a un intreccio sempre più intricato di questi circuiti fino ad arrivare a reti neurali capaci di elaborare quanto l’autore sta scrivendo in questo momento.
Il linguaggio, strumento di elezione della coscienza, è anch’esso prodotto di processi inconsci. Non si pianifica consciamente la grammatica su cui un discorso s’intesse, non vi è abbastanza tempo e la coscienza è tra tutti i processi neurali “l’ultimo a sapere delle cose”. Un esempio pratico di quanto si sta dicendo è la situazione di un individuo che provi a parlare una lingua straniera, quando insomma è un competente consapevole: l’elaborazione di un periodo di senso compiuto sarà il risultato di un pensiero cosciente che richiederà concentrazione per la ricerca di ciò che si è appreso in precedenza. Lo stesso ovviamente non avviene se si elabora un periodo nella propria lingua madre in cui si ha raggiunto un livello di competenza inconsapevole. Detto questo sembra che Skinner avesse ragione quando disse che la Stein esprimeva nella sua prosa le automatiche risposte verbali che abbiamo davanti a specifici stimoli, la sua arte dunque non era che un riflesso involontario. Gertrude Stein obbiettò la frase di Skinner affermando di arrivare a frasi come “una rosa tagliata rosa, un crollo ed un buco venduto, un po’ meno caldo” grazie a un eccesso di coscienza, l’extra-coscienza. Eppure se Dostoevskij afferma che “è proprio […] nella perfetta consapevolezza di ogni cosa che sta l’ebbrezza”, Gertrude Stein ha dovuto infine ritenersi sconfitta. Vittoriosa ne uscì la linguistica di Chomsky. Il concetto è semplice: la struttura del linguaggio fa parte della struttura del cervello. Le parole vengono disposte su binari che il nostro cervello traccia inconsciamente.
A derubare la coscienza della sua importanza sono intervenuti anche Nisbett e Wilson che con esperimenti molto banali ne hanno mostrato la fragilità. Mostrando ad alcune donne delle paia di calze, hanno chiesto di scegliere un paio e di motivare la loro scelta. Le donne hanno eseguito motivando riguardo colore, elasticità, trasparenza senza sapere che le calze erano tutte uguali. Credevano insomma di aver deciso sulla base di giudizi interiori di qualità, sbagliando sulle cause interne delle loro azioni.
I meccanismi interni di importanti aspetti mentali, inclusa la comprensione del perché facciamo quel che facciamo non sono necessariamente conoscibili dall’io cosciente. In conclusione, ricordando Gertrude Stein in “How to write”: “Come può essere la coscienza? Ciò nonostante”.
Giammarco Cascino
http://neuronerding.blogspot.com/2012/02/spinoza-ha-anticipato-gazzaniga-di-300.html
“Certo non so meravigliarmi abbastanza che un filosofo [Cartesio], che fermamente aveva stabilito di non dedurre niente che non percepisse in modo chiaro e distinto, e che tante volte aveva biasimato gli scolastici, perché avevano voluto spiegare le cose oscure mediante occulte qualità, assuma un’ipotesi più occulta di ogni occulta qualità. Che cosa intende, di gr
azia, per unione della mente e del corpo? Quale concetto chiaro e distinto ha, dico, del pensiero unito strettissimamente a una certa porzioncina di quantità? Avrei in realtà voluto che la spiegasse, codesta unione, mediante la sua causa prossima. Ma
egli aveva concepito la mente distintissima dal corpo
, che non poté assegnare nessuna causa singola né a questa unione né alla stessa mente, ma gli è stato necessario ricorrere alla causa di tutto quanto l’universo, cioè a Dio. Poi vorrei sapere quanti gradi di moto può la mente comunicare a codesta glandola pineale, e con quanta forza può tenerla sospesa. Infatti non so se questa glandola sia fatta ruotare dalla mente più lentamente o più velocemente che non dagli spiriti animali, e se i moti delle passioni, che abbiamo congiunto strettamente con fermi giudizi, non possano venirne di nuovo disgiunti per cause corporee; da cui seguirebbe che, sebbene la mente avesse deciso fermamente di andare contro il pericolo, e avesse congiunto a questa decisione i moti dell’audacia, tuttavia alla vista del pericolo la glandola si disporrebbe in modo che la mente non potrebbe pensare ad altro che alla fuga. E certo, non essendoci alcun rapporto della volontà con il movimento, non v’è neanche alcuna possibilità di paragone fra la potenza o le forze della mente e quelle del corpo; di conseguenza, le forze di quest’ultimo non possono mai essere determinate dalle forze di quella. A ciò si aggiunga che né si è trovato che questa glandola sita in mezzo al cervello in modo possa essere fatta ruotare tanto facilmente in tanti modi, né tutti i nervi si protendono fino alle cavità del cervello. […] Dunque, poiché la potenza della mente è definita dalla sola intelligenza, allora i rimedi degli affetti, che io credo tutti conoscano per esperienza, ma non tutti osservino accuratamente né distintamente vedano, li determineremo con la sola conoscenza della mente.”
BENTO de SPINOZA (1632 - 1677), “Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico”, trad. it. di Sossio Giametta, Boringhieri, Torino 1973 (I ed. 1959), Parte quinta ‘La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana’, ‘Prefazione’, pp. 295 – 297.
Frasi Belle di Frasiaforismi.com
I sentieri della filosofia
“ Sine ulla naturalis juris repugnantia, societas formari potest, pactumque omne summa cum fide semper servari; si nimirum unusquisque omnem, quam habet, potentiam in societatem transferat, quae adeo summum naturae jus in omnia, hoc est, summum imperium sola retinebit, cui unusquisque vel ex libero animo, vel metu summi supplicii parere tenebitur. Talis vero societatis jus Democratia vocatur, quae proinde definitur coetus universus hominum, qui collegialiter summum jus ad omnia, quae potest, habet. Ex quo sequitur summam potestatem nulla lege teneri, sed omnes ad omnia ei parere debere : hoc enim tacite vel expresse pacisci debuerunt omnes, cum omnem suam potentiam se defendendi, hoc est, omne suum jus in eam transtulerunt. Quippe si aliquid sibi servatum volebant, debuerant simul sibi cavere, quo id tuto defendere possent; cum autem id non fecerint, nec absque imperii divisione, et consequenter destructione facere potuerint, eo ipso se arbitrio summae potestatis absolute submiserunt : quod cum absolute fecerint idque (ut jam ostendimus) et necessitate cogente, et ipsa ratione suadente, hinc sequitur, quod, nisi hostes imperii esse velimus, et contra rationem, imperium summis viribus defendere suadentem, agere, omnia absolute summae potestatis mandata exiqui [exequi] tenemur, tametsi absurdissima imperet; talia enim ratio exequi etiam jubet, ut de duobus malis minus eligamus.
[…]
Quibus accedit, quod in democratico imperio minus timenda sunt absurda. Nam fere impossibile est, ut major unius coetus pars, si magnus est, in uno absurdo conveniat : deinde propter ejus fundamentum et finem, qui, ut etiam ostendimus, nullus alius est quam absurda appetitus vitare, et homines sub rationis limites, quoad ejus fieri potest, continere, ut concorditer et pacifice vivant; quod fundamentum si tollatur, facile tota fabrica ruet. His ergo providere summae tantum potestati incumbit, subditis autem, uti diximus, ejus mandata exequi, nec aliud jus agnoscere, quam quod summa potestas jus esse declarat. At forsan aliquis putabit, nos hac ratione subditos servos facere, quia putant servum esse eum, qui ex mandato agit, et liberum, qui animo suo morem gerit, quod quidem non absolute verum est; nam revera is, qui a sua voluptate ita trahitur, et nihil, quod sibi utile est, videre neque agere potest, maxime servus est, et solus ille liber, qui integro animo ex solo ductu rationis vivit.”
BARUCH SPINOZA, “Tractatus theologico-politicus” (Hamburgi, apud Henricum Kunrath [Amsterdam, J. Rieuwertsz] 1670 [?]), in Id., “Opera”, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972, vol. III, Caput XVI ‘De reipublicae fundamentis; de jure uniuscujusque naturali et civili, deque summarum potestatum jure’, pp. 193 – 194.
“ Profecto mirari satis non possum, quod vir Philosophus, qui firmiter statuerat, nihil deducere, nisi ex principiis per se notis, & nihil affirmare, nisi quod clare, & distincte perciperet, & qui toties Scholasticos reprehenderat, quod per occultas qualitates res obscuras voluerint explicare, Hypothesin sumat omni occulta qualitate occuitiorem. Quid quæso, per Mentis, & Corporis unionem intelligit? quem, inquam, clarum, & distinctum conceptum habet cogitationis arctissime unitæ cuidam quantitatis portiunculæ? Vellem sane, ut hanc unionem per proximam suam causam explicuisset. Sed ille Mentem a Corpore adeo distinctam conceperat, ut nec hujus unionis, nec ipsius Mentis ullam singularem causam assignare potuerit; sed necesse ipsi fuerit, ad causam totius Universi, hoc est, ad Deum recurrere. Deinde pervelim scire, quot motus gradus potest glandulæ isti pineali Mens tribuere, & quanta cum vi eandem suspensam tenere potest. Nam nescio, an hæc glans tardius, vel celerius a Mente circumagatur, quam a spiritibus animalibus, & an motus Passionum, quos firmis judiciis arcte junximus, non possint ab iisdem iterum a causis corporeis disjungi, ex quo sequeretur, ut, quamvis Mens firmiter proposuerit contra pericula ire, atque huic decreto motus audaciæ junxerit, viso tamen periculo, glans ita suspendatur, ut Mens non, nisi de fuga, possit cogitare; & sane, cum nulla detur ratio voluntatis ad motum, nulla etiam datur comparatio inter Mentis, & Corporis potentiam, seu vires; & consequenter hujus vires nequaquam viribus illius determinari possunt. His adde, quod nec hæc glans ita in medio cerebro sita reperiatur, ut tam facile, totque modis circumagi possit, & quod non omnes nervi ad cavitates usque cerebri protendantur. […] Igitur quia Mentis potentia sola intelligentia definitur, affectuum remedia, quæ omnes experiri quidem, sed non accurate observare, nec distincte videre credo, sola Mentis cognitione determinabimus.”
BENEDICTUS de SPINOZA, “Ethica ordine geometrico demonstrata” (ca. 1662-1675), editio posthuma 1677, in “Spinoza Opera”, Carl Gebhardt, Heidelberg 1925, Vier Bände, Band 2, Seiten 45 - 308, Ethices pars quinta ‘De Potentia Intellectus, seu de Libertate humana’, ‘Præfatio’.
“Ut autem haec duo ‘verum’ scilicet, et ‘falsum’ recte percipiantur, a verborum significatione incipiemus, ex qua apparebit ea, non nisi rerum denominationes extrinsecas, esse, neque rebus tribui, nisi rhetorice. Sed quia vulgus vocabula primun invenit, quae postea a Philosophis usurpantur, ideo, e re esse videtur illius, qui primam significationem alicujus vocabuli quaerit, quid primum apud vulgum denotarit, inquirere; praecipue ubi aliae causae deficiunt, quae ex linguae natura depromi possent ad eam investigandam. Prima igitur ‘veri’, et ‘falsi’ significatio, ortum videtur duxisse a narrationibus: eaque narratio vera dicta fuisse, quae erat facti, quod revera contigerat: falsa vero, quae erat facti, quod nullibi contigerat. Atque hanc Philosophi postea usurparunt ad denotandam convenientiam ideae cum suo ideato, et contra: quare idea vera dicitur illa, quae nobis ostendit rem, ut in se est: falsa vero, quae nobis ostendit rem aliter, quam revera est: Ideae enim nihil aliud sunt, quam narrationes sive historiae naturae mentales. Atque hinc postea metaphorice translata est, ad res mutas, ut cum dicimus verum, aut falsum aurum, quasi aurum nobis repraesentatum aliquid de seipso narret, quod in se est, aut non est.”
BARUCH SPINOZA, “Cogitata metaphysica” (J. Riewerts, Amstelodami 1663), in ID., “Opera“, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von Carl Gebhardt, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung,
“ Si homines res omnes suas certo consilio regere possent, vel si fortuna ipsis prospera semper foret, nulla superstitione tenerentur. Sed quoniam eo saepe angustiarum rediguntur, ut consilium nullum adferre queant, et plerumque ob incerta fortunae bona, quae sine modo cupiunt, inter spem metumque misere fluctuant, ideo animum ut plurimum ad quidvis credendum pronissimum habent; qui dum in dubio facili momento huc, atque illuc pellitur, et multo facilius, dum spe, et metu agitatus haeret, praesidens alias, jactabundus, ac tumidus. Atque haec neminem ignorare existimo, quamvis plerosque se ipsos ignorare credam ; nemo enim inter homines ita vixit, qui non viderit, plerosque in rebus prosperis, etsi imperitissimi sint, sapientiâ ita abundare, ut sibi injuriam fieri credant, si quis iis consilium dare velit ; in adversis autem, quo se vertant, nescire, et consilium ab unoquoque supplices petere, nec ullum tam ineptum tamque ad absurdum, aut vanum audire, quod non sequantur: Deinde levissimis etiam de causis jam meliora sperare, rursus deteriora timere ; si quid enim, dum in metu versantur, contingere vident, quod eos praeteriti alicujus boni, vel mali memores reddit, id exitum aut faelicem, aut infaelicem obnunciare putant, quod propterea, quamvis centies fallat, faustum vel infaustum omen vocant. Si quid porro insolitum magna cum admiratione vident, id prodigium esse credunt, quod Deorum aut summi Numinis iram indicat, quodque adeo hostiis, et votis non piare, nefas habent homines superstitioni obnoxii, et religioni adversi; eumque ad modum infinita fingunt, et quasi tota natura cum ipsis insaniret, eandem miris modis interpretantur. Cum igitur haec ita sese habeant, tum praecipue vidimus, eos omni superstitionis generi addictissimos esse, qui incerta sine modo cupiunt, omnesque tum maxime, cum scilicet in periculis versantur, et sibi auxilio esse nequeunt, votis, et lachrimis muliebribus divina auxilia implorare, et rationem (quia ad vana, quae cupiunt, certam viam ostendere nequit) caecam appellare, humanamque sapientiam vanam; et contra imaginationis deliria, somnia, et pueriles ineptias divina responsa credere, imo Deum sapientes aversari, et sua decreta non menti, sed pecudum fibris inscripsisse, vel eadem stultos, vesanos, et aves divino afflatu, et instinctus praedicere. Tantum timor homines insanire facit. Causa itaque, a qua superstitio oritur, et fovetur, metus est. […]
Ex hac itaque superstitionis causa clare sequitur, omnes homines natura superstitioni esse obnoxios (quicquid dicant alii, qui putant, hoc inde oriri, quod omnes mortales confusam quandam numinis ideam habent). Sequitur deinde eandem variam admodum, et inconstantem debere esse, ut omnia mentis ludibria, et furoris impetus, et denique ipsam non nisi spe, odio, ira, et dolo defendi; nimirum, quia non ex ratione, sed ex solo affectu, eoque efficacissimo oritur. Quam itaque facile fit, ut homines quovis superstitionis genere capiantur, tam difficile contra est efficere, ut in uno, eodemque perstent; imo quia vulgus semper aeque miserum manet, ideo nusquam diu acquiescit, sed id tantum eidem maxime placet, quod novum est, quodque nondum fefellit, quae quidem inconstantia multorum tumultuum, et bellorum atrocium causa fuit; nam (ut ex modo dictis patet, et Curtius etiam lib. 4 cap. 10 optime notavit) ‘nihil effacius multitudinem regit, quam superstitio’; unde fit, ut facile specie religionis inducatur, nunc Reges suos tanquam Deos adorare, et rursus eosdem execrari, et tanquam communem generis humani pestem detestari. Hoc ergo malum ut vitaretur, ingens studium adhibitum est ad religionem veram, aut vanam cultu, et apparatu ita adornandum, ut omni momento gravior haberetur, summâque observantiâ ab omnibus semper coleretur, quod quidem Turcis faelicissime cessit, qui etiam disputare nefas habent, et judicium uniuscujusque tot praejudiciis occupant, ut nullum in mente locum sanae rationi, ne ad dubitandum quidem, relinquant.”
BENEDICTUS DE SPINOZA, “Tractatus theologico-politicus continens dissertationes aliquot, quibus ostendirur libertatem philosophandi non tantum salva pietate, et reipublicae pace posse concedi: sed eandem nisi cum pace reipublicae, ipsaque pietate tolli non posse”, apud Henricum Künrath, Hamburgi 1670 ”, in ‟Spinoza Opera”, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972, vol. III, ‘Praefatio’, S. 5-7.
Nessun commento:
Posta un commento