mercoledì 10 giugno 2020

Carlo Taglia. "Se non guarisci ciò che ti ha ferito, sanguinerai addosso a persone che non ti hanno tagliato."

"Se non guarisci ciò che ti ha ferito, sanguinerai addosso a persone che non ti hanno tagliato."
Carlo Taglia.

Nella mia esperienza di viaggio ho imparato una cosa: la paura è un veleno
Se permettiamo a questo veleno di diffondersi nella nostra mente, attiriamo i pericoli che temiamo. Quando iniziai la traversata dell'Africa senza aerei mi trovai dopo pochi giorni con una pistola puntata in faccia in una stazione dei pullman sudafricana. Ero arrivato in quel continente pieno di paure e di ansie assorbite dai familiari e dagli amici, che erano spaventati dal mio progetto. Così, ecco che il pericolo più grande si presentò immediatamente. Quel giorno dovevo fare duecento chilometri in autostop e quel pericolo accadde al primo mezzo condiviso di una serie di sei. Dopo mi trovai nel mezzo del nulla nella campagna sudafricana, con solo del cibo in scatola, poca acqua, la tenda e senza un telefono funzionante. Quel giorno decisi di continuare ad avere fede nel prossimo e non volevo permettere alla paura di vincere. Smettere di avere fede sarebbe stato come morire dentro e, con quella decisione, provai una stupenda sensazione di euforia e libertà, che mi portò a vivere una delle più intense e straordinarie esperienze della mia vita. Così, per permettere a me stesso di raggiungere la giusta profondità con cui scrivere questo testo, ho deciso di non avere paura e di immaginare che queste fossero le ultime parole che avrei scritto prima di morire. 

 "Se non guarisci ciò che ti ha ferito, sanguinerai addosso a persone che non ti hanno tagliato."




sabato 8 febbraio 2020

Herman Hesse, Siddartha. La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri pochi sono, come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino.

La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri pochi sono, come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino.
Herman Hesse, Siddartha.



"Rifletté profondamente, finché quella sensazione lo sopraffece completamente e raggiunse un punto in cui riconobbe le cause - perché riconoscere le cause, a lui sembrava, era pensare, e solo attraverso il pensiero le sensazioni diventano note e, invece di essere perdute, diventano reali e cominciano a maturare ". 
Herman Hesse, Siddartha, p.45.

La costante ricerca di qualcosa di indefinito, indefinibile, ci accompagna in questa storia. La pace interiore che Siddhartha prova in ogni fase della vita ci affascina. Anche nel suo peggiore e quasi all'ultimo momento, così simile a tanti di noi, ci aiuta a capire la forza che la vita ha quando pensiamo che tutto sia perduto. Una storia di speranza, lotta, fame di sapere chi siamo e cosa facciamo in questo mondo. "All'improvviso capì chiaramente che conduceva una vita strana, faceva molte cose che non erano altro che un gioco, si sentiva felice e talvolta provava piacere, ma quella vera vita passò attraverso di lui e non
 lo toccò". 
Herman Hesse, Siddartha, p.77


«Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo. È quel che ho sempre fatto: nel Lupo della steppa sono Mozart, gli immortali e il teatro magico; nel Demian e in Siddhartha gli stessi valori, solo con nomi diversi.»
Hermann Hesse, Crisi: pagine da un diario, 1928.

domenica 26 gennaio 2020

IL SISTEMA DEI THEMATA NELL’IMPERO ROMANO D’ORIENTE (SECC. VII-XI). «L'esercito misto di fanti e cavalieri è simile al corpo umano che al posto delle mani ha la fanteria leggera, e cioè arcieri, lanciatori di giavellotto e frombolieri. Al posto dei piedi i cavalieri. E al posto della testa, tu, che sei il primo fra tutti, posto delle restanti parti del corpo, la fanteria pesante e cioè gli skutatoi, che portano l'armatura tutta intera. E così tu, come la testa, devi avere una grande cura, sia di te stesso che di tutto il corpo: così quelli avranno cura di te, come di loro stessi» Leone VI, Taktikà (886-912)

IL SISTEMA DEI THEMATA NELL’IMPERO ROMANO D’ORIENTE (SECC. VII-XI)

SOMMARIO:
1. Dal IV al VII secolo.
2. Dal VII all'XI secolo.


«L'esercito misto di fanti e cavalieri è simile al corpo umano che al posto delle mani ha la fanteria leggera, e cioè arcieri, lanciatori di giavellotto e frombolieri. Al posto dei piedi i cavalieri. E al posto della testa, tu, che sei il primo fra tutti, posto delle restanti parti del corpo, la fanteria pesante e cioè gli skutatoi, che portano l'armatura tutta intera. E così tu, come la testa, devi avere una grande cura, sia di te stesso che di tutto il corpo: così quelli avranno cura di te, come di loro stessi»
Leone VI, Taktikà (886-912)





1. – Dal IV al VII secolo

Tra il IV e il VII secolo l'esercito romano-orientale comprendeva le truppe dei distretti militari di confine reclutate sul luogo (LIMITANEI) e le truppe da campagna, dislocate all'interno ma dotate di grande mobilità in caso di imprese militare (COMITATENSES).  Dal VI sec. i limitanei,  divenuti affittuari delle terre dei loro capi,   grandi proprietari, presentano analogie con i Buccellarii che erano i componenti di vere e proprie milizie private assoldate dai generali. Ricordiamo che Procopio riferisce che Belisario equipaggiava ben 7000 uomini con le proprie sostanze personali. Ai grandi proprietari veniva così delegata la gestione di una parte dell'esercito.  I comitatenses erano reclutati tra i sudditi bizantini traci, illirici, isauri, mentre andava consolidandosi il corpo dei FOEDERATI che superò presto nel numero i comitatenses. Esso reclutava barbari, in sostanza mercenari che dipendevano dai quadri militari bizantini e prestavano servizio nella cavalleria, mantenendo peraltro le proprie consuetudini e catene di comando.   Altre truppe straniere erano quelle degli alleati (SOCII) dei territori di frontiera che fornivano truppe che restavano sotto il comando dei loro capi.  La guardia palatina (PALATINI), che nel VI secolo era costituita da 20.000 uomini circa, era un corpo d'élite composto da barbari; a uno dei suoi squadroni, le SCHOLAE, fu affidata per molto tempo la guardia del palazzo, ma nel V secolo questo ruolo passò agli EXCUBITORES, un gruppo di 300 uomini guidati da un comes.  L'alto comando militare fu ripartito da Costantino fra tre Magistri: il Magister Peditum comandante della fanteria, il Magister Equitum comandante della cavalleria, nonché il Magister Militum Praesentalis, residente a Costantinopoli.  In seguito l'alto comando fu suddiviso fra otto Magistri, e poi ancora fra dieci, due dei quali avevano il compito di difendere la capitale. Ai loro ordini si trovavano i DUCES, governatori militari delle province nominati dall'Imperatore; seguivano poi i VICARI o ILARCHI.  Gli uomini alle armi erano generalmente inferiori alle esigenze belliche di  un  Impero in   stato  di guerra. Agli inizi del V sec. erano a disposizione circa 550.000 uomini, un secolo dopo essi erano solo 150.000 a causa dell’insediamento in Occidente delle tribù germaniche con relativa interruzione della fornitura di truppe. Alla fine del VI sec. gli effettivi erano ridotti addirittura a 15.000-30.000 unità.  Alla ridotta quantità si suppliva con la qualità e con un efficiente organizzazione. 

In battaglia il comando supremo è affidato allo stratego. La truppa è suddivisa in tre divisioni dette MERAI, comandate dai merarchi; la divisione in posizione centrale dello schieramento era comandata dall'ipostratego. Ogni divisione è composta da tre reggimenti detti MOIRAI, comandati da duchi e divisi a loro volta in battaglioni chiamati TAGMATA, composti da 300-500 uomini con a capo i tribuni; ogni tagma ha il suo servizio sanitario, le sue salmerie e tutto ciò di cui ha bisogno.  L'equipaggiamento difensivo è pesante, ma la fanteria è ora relegata a un ruolo secondario. Non è più il corpo decisivo e viene spesso lasciata nelle retrovie a difendere l'accampamento, mentre fondamentale è ora il ruolo della cavalleria armata di spada, arco e giavellotti. E' grazie a quest'ultima se nel VII secolo l'esercito romano-orientale riesce a prevalere su quello sassanide. Equipaggiamento, rifornimenti e spartizione del bottino rientravano nelle competenze dei capi militari, mentre la paga (roga) dipendeva dagli uffici di Costantinopoli; l'assistenza religiosa dipendeva presumibilmente dal patriarcato. La disciplina non è sempre facile da ottenere, poiché i soldati, di disparata provenienza, cercano di ottenere il maggior utile dal servizio.


2. – Dal VII all’XI secolo

Nei secoli in cui l'esercito riuscì prima a conquistare e quindi a salvaguardare i territori dell'Impero, il grado di organizzazione dello stesso era veramente notevole. Le fabbriche d'armi erano sotto il controllo dello stato e i cavalli, altro elemento indispensabile, venivano in prevalenza forniti dagli allevamenti imperiali. Quando l'esercito si muoveva lo spettacolo doveva essere affascinante. Armi splendenti, divise colorate e mantelli, scudi, stendardi decorati.  Con le truppe viaggiavano tutti i servizi ausiliari: il corpo di sanità, il servizio religioso, i genieri, l'artiglieria, i pontieri, fabbri ed operai. Sui carri delle salmerie erano caricati tende, attrezzi per scavatori e zappatori, asce, seghe, roncole, macine, oltre a viveri, armi e a volte macchine d'assedio smontate. Ai comandanti, come dice Leone nel brano citato all'inizio, era affidato l'onere-onore di gestire il tutto e di mantenere alto il prestigio dell'Impero.

Fra VI e VII secolo il mare e il suo dominio, la thalassokratia, rappresentano nella mentalità romano-orientale colta la fonte della ricchezza e del potere politico-militare come testimonia Cosma Indicopleusta. Procopio, il segretario di Belisario testimone in prima persona della guerra per la riconquista dell'Occidente mediterraneo ad opera di Giustiniano, membro del ceto senatorio e insignito del titolo aulico di patrizio, personaggio a tutti gli effetti "ufficiale" in grado di esprimere le valutazioni del ceto di governo nel suo livello più elevato a Costantinopoli, esalta la thalassokratia  e il suo peso sull'esito della guerra vandalica e della guerra gotica, cioè sulla riconquista di Africa e Italia. Questa stessa valutazione della importanza delle flotte troviamo nel regno gotico d'Italia. 

La sopravvivenza dell’impero romano-orientale, di fronte alla perdita di vastissimi territori in seguito alle invasioni germaniche in Occidente, alla invasioni slave nella penisola balcanica, alla invasione araba nel Crescente fertile e in Africa settentrionale, fu dovuto alla capillare militarizzazione della società romano-orientale, che consentì la resistenza dell’impero sui mari e sull’altipiano anatolico, a prezzo di un potenziamento dell’esercito e di una accentuazione del centralismo imperiale. 

I successori di Giustiniano dovettero affrontare la penuria delle risorse economiche di un impero che doveva fronteggiare incursioni e invasioni lungo tutto l’arco delle sue frontiere anche se Spagna, gran parte dell’Italia e della Penisola Balcanica andarono perdute nella seconda metà del VI secolo.

Persiani prima ed Arabi poi compromisero l’unità dell’impero nel corso del VII secolo: Siria, Palestina ed Egitto andarono perdute dal 634 al 641 mentre gli Arabi avvalendosi delle competenze nautiche dei popoli rivieraschi presero a tormentare isole dell’Egeo e coste dell’Anatolia fino al blocco navale della stessa Costantinopoli nel 674-678.  Il danno economico della perdita del gettito fiscale di regioni allora ad alto sviluppo fu enorme.

I romano-orientali si resero conto ben presto della necessità di una salda ossatura militare per poter resister alle pressioni esercitate ai confini dalle popolazioni barbariche.  Lo splendore e la potenza dell’impero nei secoli IX e X furono rese possibili solo attraverso una efficace organizzazione difensiva. L’impero romano-orientale doveva salvaguardare la sua integrità territoriale superstite dalle pressioni barbariche

La istituzione delle grandi ripartizioni amministrativo-militari dei magistri militum fu l’antefatto della successiva organizzazione militare e amministrativa. Quando Maurizio alla fine del VI secolo creò i due esarcati di Africa e di Italia conferì ai nuovi esarchi un potere più grande di quello dei magistri militum con subordinazione dell’amministrazione civile al potere militare. Il passo ulteriore fu compiuto probabilmente da Eraclio con la creazione del thema di Armenia.

A metà del VII secolo, quando il processo politico ed economico è saldamente orientato verso un restringimento degli orizzonti marittimi dell'impero, ormai privo di Siria, Palestina, Egitto ed Africa settentrionale, il monaco africano di cultura romano-orientale Giacomo vede il declino dell'impero nel fatto che esso ha perso il controllo "degli oceani, cioè della Scozia, dell'Inghilterra, della Spagna, dell'Egitto e dell'Africa e anche al di là dell'Africa dei luoghi in cui si vedono ancora in piedi le steli di bronzo e di marmo degli imperatori romani, segni indiscutibili della dominazione che i Romani esercitarono un tempo, secondo l'ordine di Dio, su tutto il mondo" 

Al di là della thalassocratia, legata anche alla superiorità tecnica che conferiva il monopolio del "fuoco greco", un liquido incendiario che le navi da guerra romano-orientali lanciavano con sifoni sulle navi nemiche; in attesa del predominio di altre marinerie, quella africana, quella spagnola, quelle italiane; l'attenzione degli studiosi si è tradizionalmente accentrata sul quadro delle rotte marittime e sul problema della discontinuità fra sistema commerciale e navale tardo-antico e sistema alto-medievale. La realtà delle rotte e del sistema navale tardoantico e alto-medievale è molto più profondamente articolata secondo quanto risulta dagli autori arabi.

E' nel VII sec. che viene attuata una profonda riforma dell'organizzazione militare, che la storiografia moderna attribuisce ad Eraclio. I principali corpi dell'esercito furono chiamati THEMA, THEMATA. Essi erano posti in territori delimitati e prima della fine del VII sec. o agli inizi dell'VIII, Tracia, Macedonia, Ellade nonchè Sicilia diventano themata. Il thema è anche una circoscrizione amministrativa e il capo militare del thema, lo stratego, assume il governo anche delle amministrazioni civili.

Fra VII e VIII secolo le razzie arabe e la resistenza locale costituiscono il tema di polarizzazione fra le due frontiere, quella islamica e quella della cristianità, che nel corso del IX secolo  cede posizioni chiave agli Arabi nel Mediterraneo, cioè Creta e la Sicilia meno funzionali alla conquista araba del Mediterraneo e della Europa meridionale a causa delle divisioni politiche e religiose dell'Islam e della resistenza e poi controffensiva romano-orientale a Costantinopoli, a Creta e in Sicilia stessa, sarà peraltro opera dei Normanni la completa liberazione della Sicilia dagli Arabi - espressione per noi piuttosto ambigua, perché in senso proprio si attaglia solo alla minoranza dei beduini di Arabia, mentre in senso improprio ed estensivo dobbiamo intendere come unificazione politico-religiosa delle società del Crescente Fertile, molto più antiche e civili degli Arabi come beduini di Arabia che forniscono solo il ceto dirigente politico e la comune confessione religiosa.

Il dominio del Tirreno rimane saldamente romano-orientale dal punto di vista navale dal 533 fino alle prime incursioni arabe attorno al 703, incursioni che nel corso dell'VIII e del IX secolo provengono dall'Africa e dalla Spagna, cioè dalle due basi della espansione musulmana verso la Europa meridionale la cui premessa era appunto costituito dal dominio della rotta del Tirreno. Le vicende del Tirreno e della navigazione commerciale e da guerra romano-orientale in quel mare si iscrivono nel problema generale del controllo del Mediterraneo ad opera della marineria romano-orientale, una realtà riaffermata con vigore all'atto della riconquista giustinianea, che venne sostanzialmente dal mare e grazie al controllo del mare, ma una realtà frantumatasi nel corso del VII secolo.

L'unificazione araba dei paesi del Crescente Fertile e dell'Africa settentrionale è un pericolo diretto per la supremazia navale romano-orientale perché mentre i beduini arabi non hanno alcuna esperienza del mare, al pari dei barbari occidentali, le società siriache, egiziana e africane sono invece da tempo esperte di commerci e di navigazione marittima e anzi sono nel tardo-antico all'avanguardia del sistema creditizio e della colonizzazione demografica dell'Occidente, spopolato sia per il crollo demico connesso con la pandemia della peste che torna ad infierire in Occidente dopo il III secolo, sia per le vicende connesse con la formazione dei regni germanici. Alcune delle marinerie di maggior prestigio, come quella siriana, passano sotto il controllo arabo e sono in grado di contendere il controllo dei mari a Costantinopoli, come mostrano i quattro anni di assedio navale a Costantinopoli fra il 674 e il 678.

La importanza delle rotte occidentali e dell'Italia attorno alla metà del VII secolo è testimoniata dal progetto di Costante II di trasferire la capitale a Siracusa: il Mediterraneo malgrado le scorrerie musulmane era ancora un elemento unificante dei domini bizantini e della Sicilia.

Costante II intendeva resistere alla espansione araba riorganizzando l'Esarcato di Africa: il suo fallimento significò l'invasione dell'Africa settentrionale e della Spagna.  Del resto di un exercitus de Sardinia e di un exercitus de Africa è fatta menzione nella iussio di Giustiniano II al  papa nel 687 a conferma degli atti del VI concilio ecumenico del 680.

Nel 669 all'atto del tentativo di usurpazione imperiale di Mizizio, come lo chiamano le fonti greche, cioè dell'armeno Mzez Gnouni un generale, conte del thema dell'Opsikion, che si trovava in Sicilia al seguito di Costante II assassinato il 15 settembre 668, l'imperatore Costantino IV raccoglie forze navali in Campania, Esarcato e Sardegna per contrastarlo. La rovina della dominazione romano-orientale in Africa segnò l'inizio delle scorrerie arabe in Sicilia e in Sardegna a partire dal 703 ad opera dell'emiro di Tunisi. Le incursioni si susseguirono nel 720, 727, 730, 733, 735, 740: su questo sfondo di molestie militari continue, che corrispondevano territorialmente alle incursioni in Anatolia di questi stessi anni contro il settore orientale dell'impero, si collocano gli sforzi di resistenza del Tirreno nel suo complesso a partire dalle forze locali, ostinatamente ancorate alle rispettive tradizioni politiche e religiose, come mostrano gli esempi delle società locali,  in Sardegna e nel Tirreno meridionale, del regno italico post-longobardo e carolingio nel Tirreno settentrionale e in Provenza.

L'Adriatico è noto agli Arabi fin dai primi tempi delle loro incursioni.
I cronisti occidentali segnalano la presenza di flotte militari arabe di provenienza africana o siciliana a Bari (dall'840 o 841) ad Ancona e Adria negli stessi anni. Nell'867 la flotta da guerra araba appare in Dalmazia e nell'875 a Grado.  Al Masudi parla di una spedizione musulmana da Tarso in Cilicia fino a Venezia nel 924. La flotta musulmana era comandata da ad-Dulai. Nel 971 navi veneziane sono presenti ad al-Mahdiya e a Tripoli di Barberia. La portata del dramma militare contro l'Islam è mediterranea e investe soprattutto le isole, utilizzate come basi preliminari alla espansione territoriale realizzata attraverso la Spagna e attraverso Costantinopoli: oggetto della conquista araba, preceduta da razzie annuali volte a destrutturare la società romano-orientale nella  sua capacità di reazione, sono in primo luogo le isole grandi e piccole dell'Egeo: Rodi (incursioni e occupazioni principali 654, 807, 823), Cipro (649, 756, 790, 806, 823) riconquistata dai romano-orientali nell'874-878 e soprattutto Creta (675, 688, 786-809), conquistata dagli Arabi nell'824-831 e riguadagnata all'impero soltanto nel 961.

Malgrado le difficoltà dell'impero di fronte ad una invasione dai molteplici punti di attrito e sfondamento: le isole dell'Egeo e del Tirreno, l'Anatolia, le coste della Italia; il mito della potenza navale romano-orientale si fa sentire ancora in una lettera di papa Paolo I al re Pipino nel 760 in cui preannuncia un fantomatico stolum siciliense di trecento navi dirette contro Roma e contro la Francia.

D'altra parte nel 778 si verifica uno scontro a Centocelle contro navi romano-orientali che operano il commercio degli schiavi mentre nel 779 napoletani e romano-orientali avevano occupato Terracina per terra e per mare.  La difesa contro gli Arabi di Africa viene assunta nell'VIII-IX secolo dai carolingi con l'appoggio di flotte italiane. Nell'806 il re d'Italia Pipino inviò in Corsica la classis de Italia mentre nell'812 papa Leone III si mette d'accordo con Pipino re d'Italia per difendere le coste italiane da un'armata araba - africana o spagnola - per cui vennero disposti punti di vigilanza lungo le coste: stationes et excubias le famose torri saracene elemento monumentale caratteristico del panorama delle nostre coste.   La sostanziale reazione delle popolazioni lungo la via delle isole ai tentativi di occupazione araba e il ruolo giocato dalla Sardegna ducato/arcontato romano-orientale nel mantenere sgombra la rotta di altomare che collega Liguria ed Africa, forniscono la premessa per il ruolo che Pisa e Genova avranno in seguito, dopo il declino dell'impero romano-orientale come potenza navale attorno al XII secolo, a favore però della marineria occidentale non di quella islamica.

Abbiamo una testimonianza ufficiale della organizzazione tematica nell’opera dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito risalente secondo il suo editore, Agostino Pertusi (1952) al 933/934 con un rimaneggiamento dopo il 998 avvenuto peraltro nell’ambito della cosiddetta enciclopedia costantiniana. Il de thematibus di Costantino VII Porfirogenito comprende 17 themata orientali e 12 themata occidentali. Cioè dal VII secolo al X secolo si assiste ad una progressiva frammentazione dei themata maggiori in modo da concentrare meno forze militari nelle mani di un solo stratego, cioè generale-governatore. Nel VII secolo i themata erano stati solo sei: Armeniaco (667), Anatolico (669), Opsicio (680), Caravisiani (680) Tracia (687/742) Ellade (695). Alcune regioni, come ad esempio la Bulgaria, erano organizzate anche in clisure, comandate da clisurarchi; in seguito, alcune clisure furono elevate a themata.  Le fortezze più esposte erano tenute da piccole formazioni indipendenti al comando degli Akritai, che dovevano tener d'occhio il nemico e riferire in caso di necessità.  Oltre ai corpi tematici, vi erano anche le truppe di stanza nella capitale, formate principalmente da mercenari e dette TAGMATA. Sotto gli ordini di drungari, domestici e conti, queste erano le scholae, gli excubitoi, l'arithmos, gli hikanatoi, e infine gli strateletai e gli athanatoi. Avevano poi funzione di guardia palatina alcune compagnie chiamate hetaireiai formate da macedoni, turchi dell'Asia centrale, cazari, arabi, franchi che si aggiungevano al contingente dei Varangi, formato da islandesi, danesi e norvegesi. 

Dal significato originale di corpo di armata il termine thema passò a designare l’intero territorio della provincia, a capo del quale era, militarmente e civilmente, lo stratego cui erano sottoposti uno e più duchi o drungari; dal duca o drungario dipendeva un numero arithmòs, cioè una unità militare composta da 1500 a 4000 soldati. Dai tribuni o conti dipendevano i tagmata; ogni tagma era composto da un numero di uomini variabile fra 300 e 500.

Sembra che l'esercito bizantino nel sec. IX fosse costituito complessivamente da 120.000 uomini; ma che fra il X e l'XI sec. l'organico fosse sceso a 30.000 uomini al massimo. L'esercito tematico veniva reclutato dallo stratego nell'ambito del thema. L’Anatolia venne amministrativamente organizzata in themata: letteralmente corpi di armata stanziali, sono in realtà circoscrizioni territoriali in cui le funzioni di governo civile vengono affidate alla gerarchia militare, riducendo il peso della burocrazia sull’economia regionale (con la eliminazione dei funzionari civili) e rendendo più incisivi i tempi di decisione e operatività dei militari. Il soldato (stratiotes) riceveva un possesso condizionale in cambio di servizio militare per alcuni mesi dell’anno, appezzamenti di terreno tratti dal patrimonio imperiale e dalle terre del fisco per un valore minimo di 4 libbre d’oro cioè 282 soldi, terreni inalienabili, immuni da tasse militari, trasmissibili ereditariamente a condizione della prestazione del servizio dovuto. Poiché gli effettivi militari variano da 6.000 a 12.000 per thema, la dotazione di terre militari ai soldati comporta una capillare ridistribuzione della proprietà medio-piccola: infatti la soglia di povertà a Bisanzio è legalmente fissata al possesso di un capitale inferiore i 50 solidi (Basilikà, I. X.34.6-10).

In questo periodo, armamento ed equipaggiamento variano relativamente.
Mutano però le tattiche; ora sono più frequenti scontri coinvolgenti un numero limitato di truppe, più veloci, che poggiano sulla rete di fortezze costruite a guardia dei confini dell'Impero. L'esercito romano-orientale del periodo, non potendo contare sul numero, costruisce le sue vittorie sulla grande mobilità, ed è assistito da servizi ausiliari organizzati in modo eccellente.

L'esercito entrò in un periodo di deterioramento dopo la morte di Basilio II nel 1025 e la situazione peggiorò nella seconda metà del secolo.  Si smembrano i themata e si sopprime il titolo di stratego per evitare minacce alla dinastia; le fonti parlano in termini generici di declino del morale, delle truppe, della qualità del loro addestramento ed equipaggiamento, nonché del ritorno al consistente impiego di mercenari stranieri. 

I tipi di armature e di armi non cambiarono sostanzialmente fino al XII secolo, e il cambiamento non sarà dovuto a un rinnovamento interno all'Impero, ma all'impiego di mercenari occidentali che portarono il loro equipaggiamento sino in Romània. 

Nel IX e X secolo invece i themata diventano più piccoli e aumentano di numero.

L’amministrazione civile e l’amministrazione militare, tradizionalmente distinte nell’impero tardo-antico, progressivamente si fusero in una amministrazione unica a carattere militare a partire dal V secolo.

Maurizio stesso istituì questo tipo di amministrazione e difesa provinciale costituendo i due esarcati, di Africa e d’Italia.  Tutte le funzioni civili vennero assorbite dalla gerarchia dei militari stanziali. Duchi e tribuni divennero oltre che cariche militari inquadranti i coscritti, le istanze dell’amministrazione fiscale e giudiziaria dei territori da cui si estraevano i coscritti medesimi.

Tra la fine del VI secolo e la metà del VII secolo, come si è detto, probabilmente nel corso del regno dell’imperatore Eraclio (610-641) si generalizzò la struttura dell’amministrazione militare delle provincie, denominate thema al singolare e themata al plurale.

A metà del IX secolo il complesso dei themata era stato costituito da venti unità, orientali (1,2,3,4,5,6,7,10,12, 18,19,20)  e occidentali (8, 9, 11, 13, 14, 15, 16, 17): 1) Anatolico, 2) Armeniaco, 3) Tracesi, 4) degli Opsici, 5) dei Bucellarii, 6) Cappadocia, 7) Paflagonia, 8) Tracia, 9) Macedonia, 10) Caldia, 11) Peloponneso, 12) dei Cibirreoti, 13) Ellade, 14) Sicilia, 15) Cefalonia, 16) Tessalonica, 17) Durazzo, 18) Climata, 19) Charsianon (clisura), 20) Seleucia (clisura), per un totale di 96.000 uomini.

Il salario dei soldati e degli ufficiali variava a seconda della importanza strategica della regione, cioè del thema. Gli strateghi maggiori (1-3) percepivano una roga quadriennale di 40 libbre di soldi d’oro cioè 2880 nomìsmata. Gli strateghi intermedi (4,5,9) percepivano 36 libbre d’oro pari a 2592 soldi; gli strateghi di terz’ordine (6,7,8,11) percepivano 1728 soldi cioè 24 libbre; gli strateghi di quart’ordine (11-18) percepivano 12 libbre d’oro cioè 864 soldi, gli strateghi di quint’ordine (19, 20) che tecnicamente sono a capo di clisure, cioè porzioni di themata, indipendenti per motivi militari, percepivano 6 libbre d’oro cioè 432 soldi.

Tali somme provengono dal tesoro imperiale o, in alcuni casi, parzialmente o totalmente dalla riscossione diretta in loco (10, 11, 13, 18).  Il soldato comune percepisce intorno ai 9 soldi annui, oltre alla concessione fondiaria condizionale, cioè terre militari che rimangono in godimento alla famiglia finché viene prestato il servizio militare dovuto. Un duca percepisce mediamente in roga, senza i diritti derivanti dall’amministrazione, 2 libbre d’oro l’anno (144 soldi) e un tribuno una libbra (72 soldi) (W.T: Treadgold, The Byzantine State Finances in the Eight and Ninth Century, New York 1982). Gli ufficiali superiori godono inoltre di esenzioni fiscali per determinati “capi” di coloni sulle loro terre. Va inoltre aggiunta alla roga, cioè allo stipendio della funzione, anche la rendita annua connessa con il titolo aulico cui la carica dà diritto.

I nuovi rapporti nelle campagne ci sono noti attraverso una raccolta di diritto consuetudinario risalente al VII-VIII secolo, la cosiddetta “Legge agraria”. La piccola e media proprietà fondiaria è organizzata in circoscrizioni fiscali denominate chorìa, cioè paesi, quale che sia il tipo, accentrato o sparso, dell’insediamento contadino. Gli abitanti dei chorìa sono fiscalmente solidali cioè sono responsabili di fronte al fisco del gettito globale dell’imposta e sono tenuti allo sfruttamento delle terre abbandonate dai proprietari che, dopo trent’anni, perdono il diritto di proprietà a favore dei membri della comunità che hanno lavorato la terra e corrisposto l’imposta fondiaria (telos).

La grande proprietà laica ed ecclesiastica perde di importanza relativa a causa del controllo   imperiale delle riserve demografiche, della larga disponibilità di terra del patrimonio imperiale e del fisco da assegnare ai contadini liberi e della riforma dell’esercito stanziale, il cui radicamento nel possesso del suolo si tradusse nella costituzione un ceto medio contadino: esso sviluppò un peculiare patriottismo bizantino in chiave di difesa eroica e militaresca della Romania, cioè il cristianesimo identificato con l’impero, che trovò la sua espressione immaginaria nella epopea popolare del Digenis Akritas; su tale ceto poggiava il consenso alla istituzione imperiale e il funzionamento dello statalismo bizantino fra VII e  e IX secolo. Esempio della funzionalità di tale struttura sociale è la carriera di Leone III (717-741) figlio di contadini della Siria profughi di fronte agli Arabi, insediatisi  in Tracia come coloni, si era arruolato nell’esercito arrivando al grado di stratego del thema degli Anatolici, posizione di potere che gli aveva consentito di assumere l’impero.

Venne riformata anche l’amministrazione centrale, in funzione di un maggior centralismo statale con l’abolizione delle prefetture al pretorio sostituite da quattro grandi ministeri (sekreta, con a capo dei logoteti) direttamente dipendenti dall’imperatore mentre l’unificazione del sakellion, cioè della cassa del patrimonio privato e della cassa delle spese pubbliche, finalizzò le risorse finanziarie alle necessità  pubbliche, anche se l’ideologia politica non consentiva di ridurre lo sperpero e il parassitismo del Sacro Palazzo, cioè il fastoso e magico palcoscenico della liturgia imperiale in cui si estrinsecava il culto imperiale, secondo una etichetta di penetrante simbolismo, che oltre a sbalordire i diplomatici occidentali e orientali del tempo, ha radicato nella cultura mondiale l’immagine storica della raffinatezza romano-orientale.

La buona organizzazione del fisco e il gettito dell’imposta fondiaria consentiva all’imperatore di intrattenere mercenari alle sue dirette dipendenze (tàgmata) come truppe per la guerra campale.

L’esercito romano-orientale risultava pertanto dalla combinazione di tre diversi corpi: una ottima flotta concentrata nei thèmata marittimi atti a contrastare le incursioni arabe, grazie anche all’arma del “fuoco greco” una miscela incendiaria lanciata con sifoni per secoli monopolio dei romano-orientali; le truppe stanziali dei thèmata e i contingenti di movimento dei tagmata.

Con il prevalere dell’aristocrazia fondiaria nell’XI-XII secolo il sistema cambiò radicalmente, fondandosi sugli eserciti privati degli aristocratici sempre tentati dalla autonomia o indipendenza regionale, che gli imperatori del X secolo, malgrado le loro leggi antisignorili, non riuscirono a contenere.


Antonio Carile
Università di Bologna



http://www.dirittoestoria.it/15/memorie/Carile-Sistema-themata-Impero-Romano-Oriente-secc-VII-XI.htm



giovedì 2 gennaio 2020

Karen Horney fu un’accesa contestatrice della teoria sessuale e della psicologia genetica di Freud, in particolare della cosiddetta “invidia del pene”. Inoltre fu la fondatrice della “psicologia femminile”: scrisse un libro su come la società mondiale incoraggiasse le donne ad essere dipendenti degli uomini, su come il rapporto moglie-marito fosse simile ad una rapporto genitoriale in chiave donna genitore- uomo bambino, oltre a tantissime altre opere che misero al centro la psiche della donna.

Karen Horney fu un’accesa contestatrice della teoria sessuale e della psicologia genetica di Freud, in particolare della cosiddetta “invidia del pene.  Inoltre fu la fondatrice della “psicologia femminile”: scrisse un libro su come la società mondiale incoraggiasse le donne ad essere dipendenti degli uomini, su come il rapporto moglie-marito fosse simile ad una rapporto genitoriale in chiave donna genitore- uomo bambino, oltre a tantissime altre opere che misero al centro la psiche della donna.
https://pasionaria.it/karen-horney-la-psichiatra-contestataria/


Karen Horney. I nostri conflitti interni.
[...] questo libro permette di penetrare nella struttura dei conflitti che in misura normale o in misura nevrotica sottendono il comportamento di ogni essere umano. La Horney esprime la convinzione che se pure i conflitti, nella loro forma più grave, sono di competenza degli esperti, noi stessi possiamo fare molta strada per liberarcene.
https://www.librerie.coop/libri/9788809773929-i-nostri-conflitti-interni-giunti-editore/

Nevrosi e sviluppo della personalità. La lotta per l'autorealizzazione
di Karen Horney
In questo libro, il suo ultimo e il più originale, Karen Horney esamina il processo nevrotico considerandolo come una forma speciale di sviluppo dell'essere umano, l'antitesi dello sviluppo normale, della crescita sana. Il processo nevrotico si sviluppa, nella concezione horneyana, allorché il disagio delle condizioni ambientali spinge l'individuo a rinunciare alle proprie potenzialità di crescita per rafforzare le proprie capacità di difendersi dal mondo esterno. Il sintomo nevrotico è dunque espressione di un atteggiamento generale nei confronti della vita, del proprio ambiente sociale e culturale. Nell'analizzare la tendenza generale di questo processo, l'autrice delinea i differenti stadi dello sviluppo nevrotico, descrivendo le pretese nevrotiche, la tirannia dei dettami interiori e le soluzioni cui il nevrotico ricorre per alleviare le tensioni del conflitto in atteggiamenti emotivi quali il dominio, la remissività, la dipendenza e la rassegnazione. Tutto il volume mette in luce con penetrante intuizione le forze che agiscono per favorire o contrastare la realizzazione delle proprie potenzialità da parte dell'individuo.
https://www.librerie.coop/libri/9788834007020-nevrosi-e-sviluppo-della-personalita-la-lotta-per-lautorealizzazione-astrolabio-ubaldini/



Il nevrotico si aspetta un mondo di bene dai mutamenti esteriori, 
ma inevitabilmente porta sé stesso e la sua nevrosi in ogni situazione.
Karen Horney

Il vivere con conflitti irrisolti implica, in primo luogo, un rovinoso spreco di energie umane, causato non soltanto dai conflitti stessi, ma da tutti i tortuosi tentativi di rimuoverli.
Karen Horney 

La psicoanalisi non è il solo modo di risolvere i conflitti interiori. 
La vita stessa rimane ancora uno psicoterapeuta molto efficace.
Karen Horney 


I conflitti nevrotici non si risolvono per decisione razionale. I tentativi di soluzione del nevrotico non sono soltanto inutili, ma dannosi. Però questi conflitti possono essere risolti cambiando la condizione interna della personalità che li ha fatti sorgere. Ogni pezzo di lavoro analitico bene eseguito cambia queste condizioni per il fatto che rende una persona meno debole, meno timorosa, meno ostile e meno alienata da se stessa e dagli altri.
Karen Horney 


Tutti coloro che prendono seriamente se stessi e la vita vogliono stare soli ogni tanto. 
La nostra civiltà ci ha così coinvolti negli aspetti esteriori della vita che poco ci rendiamo conto di questo bisogno e della possibilità che offre per una completa realizzazione individuale. Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori.
Karen Horney 


Non è soltanto il bambino piccolo ad essere plasmabile. Tutti abbiamo la capacità di cambiare, di cambiare anche in modo sostanziale, finché viviamo. Questa convinzione è sostenuta dall'esperienza. L'analisi è uno dei mezzi più potenti per provocare cambiamenti radicali, e meglio comprendiamo le forze operanti nella nevrosi, maggiore la nostra possibilità di produrre il cambiamento desiderato.
Karen Horney 


Prendendo di nuovo come esempio la necessità di apparire perfetto, sarei interessato principalmente a capire cosa questa tendenza realizza per l'individuo (eliminando i conflitti con gli altri e facendolo sentire superiore agli altri), e anche quali conseguenze ha la tendenza sul suo personaggio e la sua vita. Quest'ultima indagine consentirebbe di comprendere, ad esempio, come una persona del genere si conformi con ansia alle aspettative e agli standard nella misura in cui diventa un semplice automa, e tuttavia li sfida sovversivamente; come questo doppio gioco si traduca in svogliatezza e inerzia; come è orgoglioso della sua apparente indipendenza, ma in realtà dipende interamente dalle aspettative e opinioni degli altri; come è terrorizzato affinché nessuno possa scoprire la debolezza dei suoi sforzi morali e la doppiezza che ha pervaso la sua vita; come questo a sua volta lo abbia reso isolato e ipersensibile alle critiche.
Karen Horney 


La formulazione più comprensiva degli scopi terapeutici è lo sforzo per essere genuini: essere senza pretesti, essere emotivamente sincero, essere capace di mettere tutto se stesso nei propri sentimenti, nel proprio lavoro, nelle proprie convinzioni. Ci si può avvicinare a questo, solo a patto che i conflitti siano risolti.
Karen Horney I nostri conflitti interni





Definirei la prospettiva psicologica della Horney come quella di una psicoanalisi del sé, intrinsecamente relazionale. Mi spiego meglio. La Horney è profondamente convinta che la psiche si formi nel contesto di una matrice relazionale (questa espressione è stata coniata molto più recentemente da Stephen Mitchell, ma è ciò che meglio si adatta al senso di ciò che voglio esprimere). L’ambiente primario condiziona pesantemente le possibilità evolutive iniziali e la psiche, per necessità di adattamento e sopravvivenza, rinuncia allo sviluppo sano e intraprende la via dello sviluppo nevrotico, la creazione di un complesso e articolato falso sé

Il processo nevrotico è un particolare aspetto dello sviluppo della personalità umana… 
Non solo differisce qualitativamente dallo sviluppo sano, ma molto più di quanto non ci si sia mai resi conto, gli è antitetico in vari modi… In seguito a conflitti interiori, l’essere umano può estraniarsi dal suo vero sé; in tal caso egli devierà la maggior parte delle sue energie nel tentativo di modellarsi, mediante un rigido sistema di dettami interiori, in un essere assolutamente perfetto (p. 11)”. 
Più avanti, la Horney afferma espressamente che il nevrotico è il pigmalione di se stesso.

L’impianto concettuale del libro è quello di una logica ferrea. 
Tre sono le possibilità nevrotiche fondamentali (cioè quelle fallimentari, dal punto di vista della realizzazione autentica di sé) di porsi in rapporto all’esperienza del conflitto interpersonale: 
  • cedere terreno, fino al punto di sottomettersi ai bisogni e ai desideri altrui; 
  • dilatare se stessi e imporsi arrogantemente; 
  • rifuggire quanto più è possibile dalle relazioni. 

L’adozione di una soluzione nevrotica conduce ad un circolo vizioso e all’autorafforzamento della soluzione adottata, attraverso la creazione di innumerevoli dettami interiori che condizionano l’esistenza. 

La nevrosi si costruisce poi attraverso la idealizzazione della propria soluzione nevrotica, per cui il remissivo si convince di essere non già “coatto” nelle sue scelte, ma incredibilmente capace di amare, l’aggressivo idealizza la propria forza, coraggio ecc. e il fuggitivo ritiene di essere un uomo libero e saggio

Questo orgoglio nevrotico fa sì che si guardi sempre più spesso ai propri limiti e ai propri bisogni umani normali senza alcuna capacità di accettazione, anzi con disprezzo, e produce odio verso se stessi e, infine, auto-alienazione.

Insomma, in questo libro si parla di dettami interiori, pretese nevrotiche, orgoglio nevrotico, disprezzo di se stessi, remissività, rabbia vendicativa, assertività patologica, distacco emotivo e auto alienazione. 

Usando una terminologia kohutiana, questo si chiama livello di teoria vicino all’esperienza, a differenza della terminologia psicoanalitica classica che ha creato ogni sorta di spiegazioni basate sulla metapsicologia e la teoria delle pulsioni, un livello distante dall’esperienza che Horney non fu in grado di accettare, motivo per cui dette le dimissioni e portò avanti una propria scuola. 

La vendetta dell’establishment psicoanalitico fu quella di mettere in circolazione la voce che Horney introducesse spiegazioni sociologiche nella psicoanalisi, cioè spiegazioni superficiali, a scapito della “profondità” delle spiegazioni psicoanalitiche “vere”. Una voce che ha ottenuto molto ascolto, tanto che il pensiero della Horney è stato completamente accantonato e dimenticato negli anni. 

A pensarci bene, questa della superficialità della Horney è la più grande panzana di tutta la storia del movimento psicoanalitico e la ragione del credito che ha ottenuto risiede probabilmente nel fatto che Horney era tremendamente avanti rispetto ai tempi e creava enorme imbarazzo nel lettore psicoanalitico (lo crea ancora oggi). 

Le analisi della Horney sono dettagliate, sottili, stringenti e vanno davvero molto in profondità, ma l’utilità principale che in esse ravviso è quella di orientarci subito, di darci una chiave di lettura preziosa del disturbo nevrotico. La tipologia psicopatologica che mette a nostra disposizione con questo libro testamento, scritto al termine ormai di una vita lunga e operosa, funziona magnificamente come riscontro oggettivo, per sapere chi abbiamo di fronte quanto lavoriamo con un paziente ed evitare di “giocare a mosca cieca” con lui, mantenendo l’indagine psicoanalitica centrata sull’essenziale, come ho detto nel mio scritto Oggettività del disturbo e soggettività della persona, pubblicato su questo stesso numero di script.

Per finire, un sentito ringraziamento al dottor Luigi Ruggiero, il maggiore esperto italiano della psicologia psicoanalitica del sé, senza il cui indirizzamento anch’io sarei rimasto vittima del luogo comune svalutativo che vergognosamente si mantiene a carico di questa grandissima studiosa della psicologia del profondo.

Alberto Lorenzini
Medico, psicoterapeuta, bolognese di nascita. Formatosi inizialmente alla psicologia analitica junghiana, si è successivamente interessato alle relazioni oggettuali e alla psicologia del Sé di Kohut. Attualmente si riconosce nel movimento della Psicoanalisi Relazionale. Ha pubblicato diversi articoli su riviste specializzate e due libri: La psicologia del cielo e Lo Zen e l’arte dell’interpretazione dei sogni, entrambi presso le Edizioni Mediterranee. E’ membro della SIPRe (Società Italiana Psicoanalisi Relazionale). Esercita a Pisa continuativamente, da trent’anni, la professione privata di psicoterapeuta.
E-mail: alberto.lorenzini@gmail.com
https://www.script-pisa.it/karen-horney-nevrosi-sviluppo-della-personalita-casa-editrice-astrolabio-roma/


Karen Horney operò prevalentemente negli Stati Uniti, ed assieme ad Harry Stack Sullivan è considerata una delle fondatrici dell'approccio interpersonale in psichiatria. Le sue teorie contrastarono alcune visioni tradizionali della psicoanalisi freudiana, come la teoria della sessualità e la psicologia genetica, inserendo un'ottica di genere all'interno della riflessione psicoanalitica. Importanti anche i suoi studi sull'autoanalisi.

Horney evidenziò ampiamente come il comportamento e lo psichismo individuale fossero influenzati molto più dalle condizioni socioculturali che da fattori innati o genetici. Si occupò anche di definire in maniera più attenta il problema del confine tra normalità e patologia.
https://it.wikipedia.org/wiki/Karen_Horney


[...] la Horney aveva cominciato a pubblicare una serie di saggi in cui metteva in discussione alcuni principi fondamentali dell'ortodossia freudiana. Nel 1930 scrisse intorno all'importanza dei fattori socio-culturali nello sviluppo umano, in opposizione alle teorie puramente intrapsichiche, tesi incorporate nella psicologia contemporanea ma che al tempo furono considerate eretiche. A New York la Horney stabilì dei profondi legami intellettuali e d'amicizia con la Thompson, Sullivan, Silverberg ed in seguito Fromm. Insieme a loro diede vita ad un movimento di pensiero sulla psichiatria intesa come studio delle dinamiche interpersonali. Nel 1941 insieme alla Thompson, a Fromm, Kelman, Robbins ed altri psicoanalisti fonderà l'American Association for the Advancement of Psychoanlysis (A.A.P.). Dopo varie e tormentate vicende all'interno dell'A.A.P. e di altri istituti di psicoanalisi, la Horney decise di dedicarsi principalmente al suo lavoro terapeutico, alle lezioni e allo sviluppo della teoria con particolare attenzione alla nozione del Sé reale, centrale nel suo ultimo libro. Nel 1952 muore a New York all'età di 67 anni.
http://www.spigahorney.it/IT/1-Spiga-Horney/1-Associazione/37-Karen-Horney.html


Per la Horney, ma già per Freud, la psicologia dell'individuo nevrotico non differisce che quantitativamente da quella dell'individuo "normale". In pratica, in modo più o meno grave, siamo tutti nevrotici, sottoposti a conflitti interiori.
La Horney riconosce tre tipi di personalità nevrotica, ovviamente non puri: 
la personalità conciliante, l'aggressiva e la distaccata. Ce ne fornisce un'esauriente descrizione.
Si diffonde poi nella trattazione di alcuni concetti cardine della propria teoria: 
l'immagine idealizzata, l'esternalizzazione, l'impoverimento della personalità, la disperazione nevrotica.

La Horney ritiene che alla base delle difficoltà psicologiche non stiano particolari esperienze infantili negative, quanto un disturbo attuale nella relazione del soggetto "malato" con gli altri. Correggendo le disfunzioni relazionali, la persona nevrotica "guarisce".

Concernendo l'intervento terapeutico il qui e ora, ne discende che i libri stessi della Horney vengono ad acquistare un interesse pratico, così che qualsiasi persona motivata al cambiamento può apprendervi qualcosa di valido per modificare se stessa. [...]

Scrive infatti l'autrice, a proposito di questo libro:
"Sono convinta possa giovare a tutti coloro che desiderano conoscere meglio se stessi, e che non hanno rinunciato a lottare per la propria maturazione. La maggior parte di noi, che viviamo in questa difficile civiltà, è intrigata nei conflitti qui descritti (...), credo tuttavia che con assidui sforzi, si possa fare da soli molta strada per liberarci dal laccio dei nostri conflitti".

E opportunamente nel capitolo finale, dedicato alla risoluzione di conflitti nevrotici, ammette:
"L'analisi non è l'unico mezzo per risolvere i conflitti interiori. La vita stessa rimane ancora l'autentica efficace terapista".
Karen Horney

http://www.interruzioni.com/conflinterni.htm

domenica 22 dicembre 2019

Nel XVIII secolo la Pennysilvania e il Maryland erano due colonie in mano a soggetti “privati”: la prima infatti faceva capo alla famiglia dei Penn, la seconda a quella dei Baltimore.

Nel XVIII secolo la Pennysilvania e il Maryland erano due colonie in mano a soggetti “privati”: la prima infatti faceva capo alla famiglia dei Penn, la seconda a quella dei Baltimore.

Accadde che postasi la necessità di individuare un’esatta linea di confine allo scopo di limitare le controversie fra i due proprietari vennero incaricati due agronomi, Charles Mason e Jeremiah Dixon, di tracciare un confine, una linea (che da loro prese il nome) e che rimase poi da allora il limite tra i due Stati.

La linea Mason e Dixon, della quale qualche cippo e traccia sparuta è ancora tutt’oggi visibile, sarebbe stata assunta come la Linea di separazione tra le Colonie del Nord e quelle del Sud. Se infatti non esiste un vero e proprio confine naturale che separi il Nord dal Sud degli Stati Uniti è indubbio registrare che forti differenze esistano, oggi come allora, tra le due “facce” dell’Unione a cui i Padri Pellegrini avevano dato vita a suo tempo: un primo elemento di differenziazione per un viaggiatore che decida di spostarsi longitudinalmente, poniamo da Boston diretto a Miami, è sicuramente di carattere climatico.

Se è corretto dire che i primi coloni sbarcati sulle coste del Massachusetts erano avventurieri di bassa estrazione sociale è indubbio però che al Nord, nelle colonie della Nuova Inghilterra, l'educazione puritana imposta da "Padri Pellegrini" creò un'atmosfera sociale e culturale differente rispetto a quella che si poteva respirare in Virginia o nella Carolina Meridionale. 

Inoltre mentre quello puritano era un nucleo sufficientemente omogeneo il cui ceto dirigente, contraddistinto da una zelante religiosità, era animato da una operosità laboriosa "che fecero definire a Max Weber l'etica calvinista come ideologia del nascente capitalismo", al Sud il quadro era completamente diverso: non vi era mai stato un gruppo egemonico che fosse ideologicamente così compatto come quello presente nella Nuova Inghilterra e il controllo culturale del sistema clericale sulla popolazione era praticamente inesistente. Non deve stupire quindi che fu la Virginia lo stato dell'Unione che per primo percorse la strada della secolarizzazione, attuando una netta separazione fra le aree di pertinenza della Chiesa e dello Stato

Proprio la mancanza quindi di un gruppo ideologicamente predominante favorì la naturale tendenza nel Sud al perseguimento delle libertà individuali rispetto al "comunitarismo" nordista: "Il comune amore per la democrazia - prosegue Luraghi - tendeva in sostanza a svilupparsi nel Nord più attraverso il senso della collettività e del centralismo; nel Sud attraverso quello dell'individualismo e del decentramento".

Ma fu soprattutto, come dicevamo, la distanza economica dettata dalla profonda diversità geografico-ambientale e marcare i due diversi volti degli Stati Uniti: il Nord, dal terreno molto più aspro e montagnoso, ricoperto da boschi di conifere e sommerso dalla neve per lunghi periodi dell'anno, era poco adatto alla coltivazione e i coloni si ritrovarono a dover rispondere al richiamo del mare trasformando la Nuova Inghilterra in una terra di mercanti, marinai e di piccoli artigiani; a Sud invece le montagne sono sufficientemente distanti dalla costa e questa, di solito sabbiosa ed esposta alla furia dell'Oceano, era sovente punteggiata da paludi malsane che rendevano la vita un inferno: ciò spinse le genti giunte da quelle parti a preferire le ben più agevoli distese dell'entroterra che si prestavano meglio, anche per via di quel clima molto più favorevole, ad una più redditizia pratica agricola. 

Con il tempo quindi nel Sud si andò formando un'élite di grandi proprietari terrieri le cui vaste distese agricole garantivano loro delle condizioni di particolare agiatezza: abituati a vivere nelle dimore di campagna, si mostravano infatti colti e amanti della buona vita nonché: "avezzi a mandare i figli a studiare in Europa, dediti insomma a quelli che i romani chiamavano gli otia. I grandi piantatori formavano un'élite [...] non fondata sui privilegi di sangue o di casta ma aperta, amante della democrazia, unita da un senso di comune solidarietà con gli altri coltivatori medi e piccoli del Sud"

Nella Nuova Inghilterra invece non vi era traccia di questa aristocrazia terriera e sebbene anche nel Nord ricchi mercanti e pioneristici "capitani" delle prime industrie manifatturiere iniziarono ad accumulare ingenti ricchezze scavando un solco con la piccola gente degli operai e dei pescatori, la tensione al business e la propensione naturale all'affare, li poneva su un piano completamente alieno dal ceto altolocato del Sud. 

Differenze queste che trovarono il loro più elettivo banco di prova nella contesa politica: sin dalle prime uscite della neonata Repubblica statunitense il Nord divenne la fortezza del partito "federalista" il quale avendo in in Hamilton e Adams in suoi primi fieri portabandiera era votato alla centralizzazione delle decisioni ed era sostenitore della necessità di creare una forte Banca dell'Unione; a Sud invece Thomas Jefferson cavalcava la strisciante tensione centrifuga dei contadini che destinata alla difesa delle autonomie degli Stati, si coaugulava intorno alla convinzione che un governo centralizzatore finisse alla lunga per schiacciare l'intera Unione sotto il peso del potere bancario e finanziario: "Al colto e profondo pensatore virginiano (Jefferson n.d.r.) [...] gli sembrava di vedersi profilare al buio dell'orizzonte un paese di gente concentrata in enormi agglomerati urbani, ove una folla pauperizzata si sarebbe ammassata in case senza sole, sottoposta all'impersonale tirannia del capitale, immiserita e abbrutita [. ll suo ideale era altrove; egli vagheggiava una società di liberi produttori agricoli e artigiani di [ispirazione] rousseauiana, con scarso accentramento urbano, con buona terra a disposizione di tutti e larga diffusione dell'istruzione". 

IL CONFRONTO SUL PIANO POLITICO: 
IL PARTITO DEMOCRATICO E QUELLO DEI FEDERALISTI. 
Le idee quindi del decentramento degli Stati, della difesa della libertà dell'individuo, dell'esaltazione della piccola impresa contro la grande, dell'agricoltura contro il potere della finanza erano tenute assieme da una strisciante ostilità nei confronti di una società piegata agli interessi del capitale e costituirono il fondamento ideologico del Partito democratico che portò Jefferson alla Presidenza degli Stati Uniti nel 1800. 

Un partito che aveva la sua base sociale sia nella grande massa agricola del Sud, sia nelle fasce più popolari a Nord e a Sud della Linea Mason-Dixon, sia in un terzo schieramento rappresentato dai cosiddetti "frontiersmenn, gli uomini della frontiera, coloro cioè che stavano dettando il passo all'inarrestabile marcia americana verso il lontano West. 

A contendere ai democratici la direzione dell'Unione vi era il Partito dei federalisti, coloro che invece, guidati da un élite ben più ristretta rispetto alle dimensioni sudiste, avevano in quegli anni in Alexander Hamilton il loro punto di riferimento ideologico, esponente di tutti coloro che ritenevano che invece fosse necessario dotare l'Unione di un potere centrale sufficientemente forte e di una Banca nazionale egemone, allo scopo di ridurre l'autonomia dei singoli stati. Alla fine dei conti, la contesa fu risolta a vantaggio delle élite del Sud che mantennero ininterrottamente, salvo casi sporadici, la guida dell'Unione fino al 1860. 

Su un punto poi i due schieramenti erano particolarmente distanti: gli "yankee" della Nuova Inghilterra infatti erano essenzialmente pacifisti e ben più votati ai commerci e alla finanza e non vedevano di buon grado la tendenza imperialistica nata in seno ai democratici ed alimentata dagli appetiti delle masse agricole che reclamavano una nuova terra da coltivare: non a caso proprio a quegli anni risale l'iniziativa jeffersoniana passata alla storia con il nome di "Acquisto della Louisiana" che dal 1803 mise a disposizione dell'Unione e delle élite agricole del Sud tutta la grande vallata del Missouri-Mississippi.

Fu quella la prima vera occasione di una presa di posizione fra federalisti e democratici le due anime degli Stati Uniti. 

La prima vera arena di scontro però venne offerta solo qualche anno dopo quando in seguito alle tensioni commerciali con l'Inghilterra e sotto la pressione dei democratici, l'ipotesi di un conflitto con la vecchia madrepatria sembrava altamente probabile: la Nuova Inghilterra non si limitò a proteste velleitarie ma sotto la guida di Daniel Webster i federalisti diedero vita ad una resistenza serrata tra i banchi del Parlamento, minacciando per la prima volta la "secessione. Alla fine non se ne fece nulla e "l'imperialismo agrario" ebbe la meglio sull'iniziativa portata avanti da Webster ma sebbene la guerra in sé (che durò tre anni, dal 1812 al 1815 e della quale, tra le altre cose, va ricordato l'episodio dell'occupazione britannica di Washington D.C. e l'incendio della Casa Bianca che da allora, per una successiva ritinteggiatura, prese tale nome) lasciò le cose immutate tra le due sponde dell'Atlantico, fu lo scossone dato dai federalisti agli equilibri politici del Paese e la rapida trasformazione economica e sociale che attraversò il Nord in quegli anni a dettare un chiaro cambiamento nell'assetto degli Stati Uniti: nella Nuova Inghilterra infatti al capitale mercantile e finanziario si affiancò l'impennata degli investimenti nel settore manifatturiero. 

Anche al Sud però le cose stavano cambiando: nel 1797 uno studente di nome Elia Whitney mise a punto una nuova macchina per sgranare il cotone che accelerò la produttività del singolo contadino, costretto fino ad allora a sgranare a mano il cotone a fibra corta. Il Sud cambiò rapidamente volto: le vecchie coltivazioni vennero abbandonate e il cotone iniziò ad essere seminato praticamente dovunque. 

I grandi coltivatori del Sud a quel punto sperarono che una politica protezionistica a vantaggio delle manifatture del Nord avrebbe loro permesso di avere un mercato preferenziale per le proprie fibre tessili. Presto però le loro aspettative vennero tradite. 

La crisi del settore spazzò via il Partito federalista il quale nella doppia tornata elettorale del 1816 e del 1820 venne praticamente annullato perdendo in sedici Stati su diciannove e consegnando la vittoria al democratico virginiano James Monroe. 

Si apriva così la cosiddetta "era delle buone intenzioni" che, un po' paradossalmente, rimasero tali di fronte alle nuove grandi questioni che si affacciavano all'orizzonte: tra le vicende di quegli anni che ebbero la forza di polarizzare il dibattito politico vi fu infatti il tema legato all'ammissione del Missouri nell'Unione, istanza questa che venne subordinata alla richiesta di abolizione della schiavitù tra i neri delle piantagioni. La cosa suscitò un vespaio di polemiche: gli Stati Uniti, procedevano spediti verso il baratro della guerra civile. 

https://cronistoria.altervista.org/la-linea-mason-dixon-e-la-frattura-tra-il-nord-e-il-sud-degli-stati-uniti/?fbclid=IwAR28wrrHWOcZZiPSU-t3Tf-GlCaQ-zCRGIlIF4KDvTbW55zZ-EmcXzJknQY


RAIMONDO LURAGHI. 
LA GUERRA CIVILE AMERICANA. 
Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale.

[...] Per anni dopo la Rivoluzione americana l'aristocrazia del Sud formata da grandi proprietari di schiavi aveva fornito la classe dirigente ai neonati Stati Uniti d'America; non solo essa aveva dato loro la guida militare e politica della lotta e il primo Presidente nella persona di George Washington e colui che ne aveva formulato gli ideali politici in Thomas Jefferson; ma tutta un'autentica pleiade di leaders, da Patrick Henry a Presidenti quali James Madison, James Monroe e altri. Essa si era ispirata a ideali di moderazione, di temperata democrazia, di tolleranza e di larga autonomia degli Stati e delle comunità

Come ebbe a dire uno storico tedesco: «Per più d'un mezzo secolo gli uomini del Sud erano stati la parte signoreggiante nell'Unione: possessori di vaste terre... che facevano coltivare dagli schiavi, vivevano in grande agiatezza e potevano appropriarsi di una più raffinata cultura; la maggior parte degli uomini di Stato che distinguevansi in patria per ingegno e all'estero per compitezza di modi e nobile orgoglio della potenza e libertà nazionale appartenevano a loro. 

La Virginia, che aveva dato alla causa nazionale il grande Washington era designata come patria del Presidente e i suoi abitatori stimati per ricchezza, commerci e gentilezza di costumi... 

Non si può affermare che... gli uomini del Sud abusassero della preponderanza nel governo... per egoismo; nelle loro opinioni e tendenze erano guidati da idee più nobili che non le aristocrazie d'Europa».'9 

Ma qual era la base effettiva di tale classe? 
Eugene D. Genovese per primo l'aveva posta in luce con estrema chiarezza: «La schiavitù nel Sud non fu mera schiavitù... ma la base su cui sorse una potente e notevole classe sociale, una classe che costituiva solo una piccola parte della popolazione bianca: e tuttavia così potente e notevole da tentare, con più successo di quanto i nostri neo-abolizionisti si curino di vedere, di erigere una nuova — o piuttosto di ricostruire una antica — civiltà».2° 

Quindi la schiavitù costituiva la base sociale su cui sorgeva la grande sovrastruttura della civiltà sudista, rimarchevole per la produzione di una sua propria «cultura», di una Weltanschauung o visione del mondo, di specifici principi di vita e di etica, di educazione, di comportamenti di raffinatezza, di noblesse oblige. 

Una costruzione notevole, peculiare e anche brillante, come tutte le forme di civiltà finora esistite; ma come ognuna di esse, con le basi fondate in terra, nel fango dello sfruttamento di una classe produttrice, in questo caso gli schiavi africani; e tale fondazione non poteva fare a meno di influenzare profondamente e in maniera inestricabile la stessa civiltà sudista, che dagli afroamericani ricevette anche vitali contributi nei campi della cucina, della musica, della danza e della stessa peculiare parlata propria del Sud" e quindi l'intera sovrastruttura che su questa si ergeva, inserendo in essa (come d'altronde accade in qualsiasi società divisa in classi: e per ora non ne sono mai esistite di altro tipo che fossero valide) un profondo elemento di crisi e un mal represso, incessante senso di colpa.22 

Per anni gli Stati Uniti vissero sotto la guida saggia e prudente di tale aristocrazia; non mancarono crisi, ma furono passeggere. La più grave fu quella del Missouri, nel 1820, dovuta al tentativo prematuro di un esponente politico del Nord di scindere l'alleanza tra piantatori del Sud e ceti agrari del Medio Ovest, che però fu risolta mediante un compromesso grazie sopratutto alla moderazione dei meridionali (sebbene all'orecchio preveggente del vecchio Thomas Jefferson tale crisi suonasse come «un allarme di incendio nella notte» che presagiva la rovina dell'Unione). 

Ma poiché come giustamente insegnato da Vico e da Hegel nulla nel mondo è stabile, ma ogni cosa è in continua, inarrestabile trasformazione, quello che preparò le radici della rivoluzione che avrebbe spazzato via il potere della vecchia aristocrazia sudista fu una duplice, radicale (anche se in inizialmente lenta) mutazione. 

Anzitutto la rivoluzione industriale
L'embargo del 1807 il quale colpiva il commercio da e per l'Europa e la guerra del 1812-15 contro la Gran Bretagna ebbero per effetto di stimolare, sotto la spinta della necessità, lo sviluppo manifatturiero del Nord. Già nel 1817, anno della morte dell'industriale bostoniano Francis Cabot Lowell, i suoi soci dettero vita alla prima città basata sull'industria tessile cui dettero il suo nome. Da quel momento lo sviluppo di tale branca dell'industria prevalentemente nel Massachusetts, nello stato di New York e nella Pennsylvania fu inanestabile. 23 

Inizialmente gli aristocratici del Sud non guardarono con occhio sfavorevole a tale evento: nel Mezzogiorno malgrado lo stimolo degli eventi su citati uno sviluppo locale dell'industria era praticamente quasi impossibile, essendo tutto il loro capitale investito in terre e schiavi; nel Nord invece embargo e guerra favorirono una vertiginosa ascesa dei prezzi dei prodotti industriali promettendo favolosi profitti. 

Al principio i sudisti trovarono razionale una simile divisione del lavoro: addirittura il loro grande ideologo, John C. Calhoun della Carolina Meridionale sostenne una moderata tariffa protettiva per stimolare un graduale sviluppo delle industrie nel Nord che, in cambio, avrebbero assorbito la produzione cotoniera del Sud rafforzando quindi una armoniosa coesistenza tra le due sezioni dell'Unione. 24 Si sbagliava gravemente. Poiché in effetti la rivoluzione industriale che nel Nord stava esplodendo fuori da ogni limite, contribuì radicalmente allo sviluppo della seconda mutazione: il rapido inarrestabile sviluppo di nuove, moderne, intraprendenti classi sociali, gli imprenditori da un lato e dall'altro gli operai salariati

Sebbene già forte e combattiva, la borghesia imprenditoriale aveva appena iniziato il cammino di un fantastico sviluppo; in essa la distinzione con il nascente proletariato era ancora in un certo senso vaga; non c'era quasi alcun «padrone» in questa nuova ondata che non venisse dalle file del «popolo»; mentre non c'era praticamente alcun operaio che non aspirasse ad assurgere egli stesso al ceto imprenditoriale, almeno come tendenza. 25 

Una spinta formidabile allo sviluppo dell'industria venne dalla crescita addirittura incredibile dei trasporti ferroviari che, sebbene iniziati in Inghilterra «ebbero la loro più drammatica ascesa negli Stati Uniti». 26 

Come altrove si è detto 27 nel 1860 le linee ferroviarie americane si estendevano per oltre 50.000 chilometri, in schiacciante superiorità nel Nord; nel 1836 Samuel Morse aveva inventato il telegrafo elettrico la cui estensione giunse presto a oltre 80.000 chilometri; e non è il caso di ripetere qui la raffica di invenzioni che rivoluzionarono totalmente la vita economica dell'Unione americana, specialmente però nel Nord: perché il Sud rimaneva pressoché immobile, vincolato alla sua arretrata forma di agricoltura e di lavoro coatto

Parallelamente l'esplosione dell'industrializzazione generava un grandioso aumento degli agglomerati urbani settentrionali: basti qui citare l'esempio di Chicago, che da 17.000 abitanti nel 1847 allorché vi fu installata la fabbrica delle nuove mietitrici meccaniche e quindi delle mietitrebbie, balzò a 110.000 nel 1860, collegata al resto dell'Unione da 11 linee ferroviarie con 74 treni al giorno, il che, tra l'altro, ebbe l'effetto di porre in crisi l'antica via di smercio dei prodotti agricoli del Medio Ovest (sopratutto grano) lungo il corso del Mississippi e di orientarla, tramite le ferrovie, verso i porti di New York e di Boston. 

Un altro decisivo contributo (e la nascente industria del Nord non avrebbe potuto farne a meno) fu il crescente afflusso di immigrazione dall'Europa che forniva un vero e proprio «esercito industriale di riserva», una fonte quasi inestinguibile di mano d'opera; cosa la quale significa che negli Stati Uniti il proletariato non si era quasi per nulla formato dalla rovina di ceti artigiani e di piccoli proprietari agricoli locali: l'industria americana aveva cioè assorbito la enorme massa di tali diseredati prodotta dalle gravi crisi dell'Europa: essa aveva per così dire «importato» le vittime delle crisi svoltesi altrove. 28 

Ma la quantità stessa degli immigrati trascinava con sé un altro problema: quello delle immense terre non ancora «sfruttate» dell'Ovest. Esse infatti costituivano, per così dire, la «valvola di scarico» delle tensioni sociali che l'enorme aumento della mano d'opera disponibile sul mercato americano del lavoro avrebbe inevitabilmente potuto generare. 

Naturalmente le masse popolari del Nord e segnatamente quelle legate alla nuova agricoltura meccanizzata del Medio Ovest erano ben decise a tenere sotto il proprio controllo il popolamento di tali territori escludendone, tanto per cominciare, gli eventuali emigranti dal Sud, con i loro schiavi neri. 

Fu questo il movimento dei freesoilers che in breve divenne una grande forza politica dell'intero Settentrione. La volontà dei freesoilers di escludere tassativamente dai Territori dell'Ovest la schiavitù africana fu espressa senza ambagi da un politico che sarebbe divenuto nel tempo il loro maggiore leader: Abraham Lincoln. Nel suo discorso del 16 ottobre 1854 a Peoria, Illinois, i Territori dell'Ovest egli disse: «li vogliamo per la gente bianca libera».29 

Naturalmente il Sud si era reso conto che il sorgere nel Nord di nuove, formidabili classi sociali gli stava, per così dire, tagliando l'erba sotto i piedi. Quello che i sudisti tardarono parecchio a capire (ci volle infine il genio di John C. Calhoun per comprenderlo) era che l'economia meridionale era stata, fin dalle sue origini nell'era coloniale, del tutto dipendente dalle esigenze del mercato capitalista mondiale che ne aveva condizionato la scelta stessa dei prodotti: dapprima, al tempo del capitalismo mercantilista, il riso, l'indaco, il tabacco; poi, dopo l'avvento in Inghilterra della rivoluzione industriale, il cotone e, meno, la canna da zucchero. I sudisti, dato l'enorme smercio del loro cotone sui mercati mondiali si erano illusi, con tale derrata, di condizionare l'economia globale: mentre era vero il contrario. Fu Calhoun a rendersi conto lucidamente che il Sud viveva in uno stato semicoloniale, e che (peggio) le redini di tale economia semicoloniale stavano ormai passando dalle mani delle grandi potenze colonialiste europee a quelle del capitalismo del Nord. 30

La protezione dei raccolti di cotone dalle intemperie era infatti nella mani di compagnie assicuratrici nordiste; la crescita e la collocazione del prodotto sui mercati erano finanziate mediante mutui da banche del Nord; tutto il processo di vendita, dal trasporto oltremare ai noli marittimi alle assicurazioni, era nelle mani di compagnie finanziare settentrionali

Il Sud nei confronti del Nord era gravato di debiti che andavano crescendo di anno in anno oltre a dipendere totalmente dal Settentrione per l'acquisto di qualsiasi prodotto industriale, «dalle culle alle bare», come ebbe a dire un sudista. 31 Per non parlare delle locomotive, dei vagoni e di tutto il materiale ferroviario e, praticamente, di ogni altro prodotto industriale. 

Il Sud era ormai ridotto nell'Unione a una minoranza.32 
Credere di poter continuare a esistere con la propria «peculiare istituzione», con le proprie tradizioni, con la propria cultura (e anche con il proprio peso politico) era pura illusione

Il Sud sottovalutava completamente la formidabile potenza eversiva delle forze sociali ormai in rapida ascesa verso il potere nel Nord, e si illudeva di poter raggiungere con esse altri compromessi

Sarebbe stato veramente opportuno che l'aristocrazia sudista avesse meditato su quanto Karl Marx, ben ventitré anni prima aveva chiaramente posto in rilievo circa l'inarrestabile marcia della classe capitalista verso il potere: «la borghesia... si è conquistata il dominio politico dello stato rappresentativo moderno... Dove ha raggiunto il dominio... ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli che legavano l'uomo al suo superiore naturale... Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco... La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine...33 Ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi,34 ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana...».35 

Lo scontro iniziale avvenne — e non poteva che avvenire —sulla destinazione degli immensi Territori dell'Ovest

In quella che fu giustamente chiamata «l'età d'oro» della storiografia sulla Guerra civile americana, un valente storico come Charles W. Ramsdell cercò di dimostrare con abili argomentazioni che una eventuale espansione della schiavitù nei Territori dell'Ovest era materialmente impossibile; e che, quindi, non esisteva alcun pericolo che tali terre fossero sottratte all'agricoltura moderna del Nord, 36 arrivando alla (assurda) conclusione che se un accordo fosse stato trovato sui Territori, non ci sarebbe stata la Guerra civile! Ramsdell argomentava che la cultura del cotone non poteva in alcun modo espandersi nelle aride terre dell'Ovest. Questo poteva anche esser vero per quello specifico tipo di coltivazione: ma le forze che muovevano le tendenze espansioniste della società a schiavi erano ben più complesse. Economiche, certo: ma anche (e forse sopratutto) di indole politica, sociale, culturale, ideologica e psicologica. 

In sostanza, quello che era in gioco per l'aristocrazia del Sud era la sopravvivenza proprio della sua cultura, dell'atmosfera peculiare del suo modo di vita, della società stessa che l'aveva generata. 37 
In altre parole si trattava per la classe dei proprietari di schiavi di impedire il fatale declino del loro mondo che, sfortunatamente, era basato inestricabilmente sul lavoro degli schiavi

Cerchiamo di vedere perché, e anzitutto come ciò generasse la spinta espansionista. Alla base stava la scarsa produttività del lavoro servile, già ben chiaramente sottolineata da un osservatore accurato come Frederick Law Olmsted che aveva traversato in lungo e in largo l'intero Sud. 38 Gli africani erano stati, nelle loro terre di origine, dei bravi coltivatori: come mai in America non lo erano più? «La loro bassa produttività nacque dalle condizioni umane e tecnologiche in cui erano costretti a lavorare: e queste nascevano dal sistema schiavista.» 39 

Quindi l'agricoltura servile a causa della sua scarsa produttività necessitava di molta più terra dell'economia agricola avanzata del Nord

La separazione tra le due società agricole divenne poi abissale quando l'agricoltura settentrionale cominciò a usare su larga scala macchine e fertilizzanti; delicati strumenti che (anche se il Sud avesse avuto i capitali da investire in ciò, il che non era: perché essi erano stati totalmente investiti in mano d'opera schiava e terre) non si sarebbero certamente potuti affidare agli schiavi, visto come questi, come una delle forme di muta protesta per le loro condizioni di vita e di lavoro, trattavano (o, meglio, maltrattavano) gli animali da lavoro e gli attrezzi agricoli. 

Questi erano ancora fattori di ordine economico e sociale: del resto la questione della schiavitù non poteva non avere un peso quanto mai importante, essendo la base su cui sorgeva tutto l'enorme, complesso edificio della società sudista. 

Un altro fattore, in parte legato al primo, che rendeva imperiosa la necessità di nuove terre era che l'agricoltura a schiavi tendeva a esaurire la produttività dei terreni coltivi

I proprietari di terre del Sud non disponevano dei capitali liquidi necessari per acquistare fertilizzanti sulla scala necessaria; se ciò era vero per i grandi proprietari, lo era ancora di più per i piccoli coltivatori sudisti. Inoltre l'imposizione stessa del mercato capitalista mondiale, riducendo il Sud di fatto a monocultura, impediva quella rotazione che da tempo immemorabile era stata lo strumento per combattere l'esaurimento della fertilità delle terre. Quindi anche qui l'arretrata agricoltura fondata sul lavoro servile trovava un'altra spinta alla ricerca di nuove terre. 40 

Nei primi decenni dell'Ottocento poi, il contatto che gli Stati più settentrionali del Sud, specialmente il Kentucky, avevano con l'agricoltura progredita del Medio Ovest aveva cominciato a stimolare colà un processo per cui parecchi coltivatori avevano venduto i loro schiavi al «profondo Sud» modernizzando i propri metodi di coltivazione. Questo aveva provocato negli altri Stati meridionali un surplus di mano d'opera schiava che non avrebbe potuto venire assorbito che tramite l'espansione in nuove terre, a scanso di tensioni sociali che avrebbero potuto condurre perfino alla temuta «guerra servile». 

Ma la tendenza espansionista derivava anche da un importante fattore politico. La vasta e impetuosa immigrazione dall'Europa stava aumentando oltre misura la popolazione bianca del Nord in rapporto a quella del Sud. Pressoché nessuno degli immigrati si dirigeva a Mezzogiorno, ove la via del lavoro era loro sbarrata dalla presenza della schiavitù. Così da lungo tempo i meridionali avevano perso il proprio controllo sulla Camera (ove i deputati erano eletti in proporzione alla popolazione), ma conservavano un precario equilibrio al Senato ove gli eletti erano due per ogni Stato. Chiaramente se i Territori dell'Ovest fossero stati riservati ai soli coloni del Nord, ciò avrebbe significato colà un rapido pullulare di Stati ostili alla schiavitù e quindi la perdita per il Sud anche dell'equilibrio al Senato

Da ciò la pressione sudista perché le terre occidentali fossero aperte anche all'agricoltura schiavista. 41 Era l'unica via per riprendere almeno in piccola parte quell'influenza politica che in passato aveva assicurato all'aristocrazia del Sud la direzione politica dell'Unione, a quei tempi bene accetta anche dalla borghesia mercantile del Settentrione cui era stata riservata la prevalenza nel campo economico. Naturalmente se il Sud non avesse avuto un proprio peculiare sistema sociale con alla testa una caratteristica e potente classe aristocratica, l'eventuale scomparsa della schiavitù non avrebbe creato alcun reale turbamento, come non lo creò un paio di secoli prima nel Massachusetts. 42 

Del resto la pressione espansionista era stata praticamente sempre presente nel Sud, a cominciare dalla guerra per il Texas, che un rilevante numero di settentrionali aveva «digerito» obtorto collo (si veda più oltre la radicale condanna di Ulysses Grant nei confronti di quel conflitto) e che invece parecchi sudisti (non tutti, in verità) avevano sostenuto in quanto avrebbe portato all'ingresso del Texas, vale a dire di un nuovo Stato a schiavi, entro l'Unione. 43 

Ma il più importante movimento di opinione espansionista nel Sud fu quello che sosteneva la necessità di strappare Cuba alla Spagna, non solo per aggiungere all'Unione un nuovo, vasto paese a schiavi: ma per fare della zona caraibica una specie di «lago» sudista che eventualmente agevolasse il contatto con l'altro grande Stato schiavista, il Brasile: talché i due si sarebbero rafforzati a vicenda. 44 

Nel 1853-55 il Governatore del Mississippi, John A. Quitman, ex generale nella guerra del Messico, cominciò addirittura a organizzare una spedizione di «volontari» (che furono più acconciamente definiti «filibustieri») per sbarcare a Cuba e impadronirsi con la forza dell'isola: tutto finì in nulla quando il Presidente filosudista Franklin Pierce si spaventò di fronte alle possibili reazioni internazionali e tolse il permesso che inizialmente aveva dato a Quitman. 45 

Così di fatto, viste precluse le altre vie, il Sud tornò alle idee di espansione verso i Territori dell'Ovest. Che l'uso del lavoro servile nell'Ovest fosse impossibile, i sudisti (a differenza di storici moderni come Charles W. Ramsdell) non lo sostennero mai. Certo, nei Territori non si sarebbe trattato di (impossibile) coltivazione del cotone: ma di altre attività, specialmente di quella mineraria poiché tali terre erano ricche di minerali a cominciare dall'oro recentemente scoperto in California. Già in Africa, prima dell'arrivo degli europei, i mercanti arabi e berberi avevano sfruttato la mano d'opera nera schiava nelle miniere di sale; ed essa era apparsa quanto mai adatta al lavoro minerario. 46 

Nelle Americhe poi vi era l'esempio del Brasile dove migliaia di schiavi 47 erano impegnati nelle miniere, specialmente in quelle aurifere di Minas Gerais. 48 E nel Sud si pensava seriamente a impegnare il lavoro coatto su larga scala in attività minerarie nelle terre dell'Ovest. 49 

Quindi non rimane che concludere che i sudisti aspiravano effettivamente ai Territori dell'Ovest in quanto, per le ragioni su citate, si rendevano perfettamente conto che senza l'espansione su nuove terre il loro mondo era condannato: «Non c'è un solo proprietario di schiavi in questa Camera o fuori da essa» dichiarò nel 1856 un parlamentare della Georgia, «il quale non sia perfettamente conscio che ovunque la schiavitù sia ristretta entro specifici limiti, essa non abbia futuro». 50 

Per converso, i freesoilers del Nord (per lo meno i più coscienti politicamente) avanzavano un programma che, per bocca del loro massimo esponente, Abraham Lincoln, doveva traversare due fasi. Anzitutto il divieto assoluto di ogni e qualsiasi espansione della schiavitù nei Territori dell'Ovest; poscia la lenta estinzione della «peculiare istituzione» confinata entro gli Stati originari. 

Naturalmente Lincoln escludeva in questa seconda fase ogni indebita pressione e auspicava un congruo indennizzo ai proprietari. 51 

Quanto poi alla tesi proclamata e propagandata ad alta voce dagli estremisti settentrionali, tra cui (ma non solo) il minuscolo (ma attivissimo) gruppetto degli abolizionisti, secondo cui l'Unione si sarebbe trovata di fronte a una minacciosa «cospirazione» del «potere schiavista» mirante a conquistare e ad assoggettare gli interi Stati Uniti, essa era del tutto priva di fondamento. 

In realtà l'azione del Sud era sostanzialmente difensiva; l'apparente sua aggressività era generata da timore e frustrazione. A dare ai sudisti un senso di imminente naufragio contribuiva la montante marea antischiavista che stava pervadendo l'intero mondo occidentale. Certamente nel Diciassettesimo e ancora nel Diciottesimo secolo l'opinione pubblica europea aveva accettato la schiavitù come cosa normale e i negrieri occidentali (specialmente inglesi, olandesi e americani della Nuova Inghilterra) avevano accumulato enormi profitti con la tratta; 52 ma l'Illuminismo e la Rivoluzione francese non erano passati invano; e ora la schiacciante maggioranza del mondo occidentale considerava la schiavitù una istituzione arretrata e barbarica, ripugnante alle coscienze liberali moderne e da eliminare il più presto possibile

In particolare l'opposizione inglese alla «peculiare istituzione» era «formidabile e implacabile». 53 Il Governo ed il Parlamento britannici tra il 1838 e il 1850 avevano radicalmente abolito la schiavitù nelle colonie inglesi, in particolare nelle isole americane dei Caraibi, ove la coltivazione della canna da zucchero a opera di falangi di schiavi aveva per secoli prosperato. 54 

D'altronde l'aristocrazia del Sud, almeno tra i suoi membri più illuminati, a cominciare da Thomas Jefferson, considerava la schiavitù un obbrobrio e una sciagura, ma si rendeva perfettamente conto che tale «peculiare istituzione» era la base su cui si reggeva tutto l'enorme edificio della società sudista. «Teniamo il lupo per le orecchie; e non possiamo né continuare a tenerlo né lasciarlo andare»: questo era un detto che circolava ampiamente nel Sud e ne esprimeva lo stato d'animo dominato da una crescente angoscia. 

Ma, si potrebbe chiedere, perché il Sud non accettò la prospettiva che gli si presentava: rinunciare all'espansione, mantenere la schiavitù entro gli Stati ove essa già esisteva e rassegnarsi a cedere al Nord l'egemonia nell'Unione? 

Lincoln, nella sua «piattaforma» elettorale aveva pure offerto al Sud un Emendamento costituzionale che salvaguardasse la «peculiare istituzione» da ogni e qualsiasi misura ostile del Governo e del Congresso: ma solo là dove essa già esisteva. Ma sia lui che i freesoilers e i repubblicani tutti che lo seguivano erano risoluti a rifiutare ogni e qualsiasi compromesso che consentisse in qualunque modo l'espansione della schiavitù nell'Ovest: il Presidente e il suo Partito sapevano benissimo che ciò avrebbe consentito l'attuazione del loro programma di una futura estinzione della società schiavista. 55 

A prescindere dal fatto che la storia non mostra alcun esempio di una qualunque classe dominante che abbia commesso suicidio, l'aristocrazia del Sud sapeva benissimo che la distruzione della schiavitù avrebbe portato con sé il crollo dell'intera colossale e secolare sovrastruttura che su tale base si ergeva, vale a dire il modo di vita, la visione del mondo, la cultura, i valori e le convinzioni di un'intera società: in altre parole, il crollo catastrofico di una potente classe dominante che avrebbe trascinato con sé tutto un mondo. 

Per l'aristocrazia del Sud la schiavitù era una fonte di orgoglio e di prestigio, un privilegio e, insieme, un dovere e una responsabilità. Per essi la difesa della schiavitù significava difendere il loro onore, la loro dignità che consideravano l'essenza stessa della vita. La loro stessa psicologia, l'abitudine al comando, l'orgoglio tipico di ogni aristocrazia, il mantenimento del potere dipendevano dalla difesa del loro mondo: si veda più oltre nel presente volume la reazione di Robert E. Lee alla prospettiva che la società del Sud potesse essere minacciata; essa spiega in sostanza l'arroccarsi dell'aristocrazia sudista entro la difesa senza compromessi della propria società. 

A questo punto sorge spontanea una domanda: perché mai il Sud prese la decisione gravissima della secessione? 
Naturalmente sia quelli che Eugene D. Genovese chiama «i neoabolizionisti» sia gli adepti del politically correct risponderebbero immediatamente: «per difendere la schiavitù», con, in tale risposta un non velato accento di disprezzo per gli «immorali schiavisti del Sud». Ma le cose stanno veramente così? 

Per cominciare, è facilissimo sbarazzarsi della tesi «moralistica»: se infatti i proprietari di schiavi erano soltanto degli «immorali» e la questione del mantenimento o meno della schiavitù avesse avuto solo una base economica e fosse dovuta unicamente alla loro avidità, sarebbe stato facilissimo pagarli perché diventassero «virtuosi» e «morali». 

A parte che al momento di fare il passo supremo la maggioranza più prudente (e meno avventuristica) della stessa aristocrazia sudista arretrava di fronte alla terribile prospettiva di una eventuale guerra civile (che essa riteneva pressoché inevitabile). 

In realtà i proprietari di schiavi in numero cospicuo volevano rimanere nell'Unione ed essere protetti, nel senso che il Governo e il Congresso dovevano, secondo il pensiero del senatore Jefferson Davis, membro autorevolissimo dell'aristocrazia sudista, considerare la «peculiare istituzione» alla stregua di tutte le altre dell'Unione, 56 che i sudisti potessero entrare liberamente nei Territori con tutte le loro «proprietà» inclusi ovviamente gli schiavi e che il Governo federale proteggesse attivamente tali loro diritti come proteggeva tutti quelli di ogni cittadino. 

Era in sostanza la ripresa della precisa proposta fatta da John C. Calhoun nel suo ultimo celebre discorso in Senato il 4 marzo 1850, in cui egli aveva chiesto un Emendamento costituzionale che garantisse in maniera totale tutti i «diritti» e le autonomie del Sud come era stato agli inizi dell'Unione prima che l'equilibrio tra le sezioni fosse distrutto «per l'azione del Governo». In sostanza, egli di fatto proponeva di trasformare l'Unione in due unioni associate mediante una specie di compromesso austro-ungarico avanti lettera. 57 

Ma era possibile questo con il nuovo Presidente eletto? 
Vi era tra i membri più notevoli della grande élite sudista chi ne era fermamente convinto. Il senatore Alexander Stephens della Georgia, futuro Vice Presidente della Confederazione secessionista e già compagno e amico di Lincoln ai tempi del Partito Whig e che quindi ne conosceva la moderazione, disse senza ambagi che questi sarebbe stato un buon Presidente quanto lo era stato Fillmore. 58 

Non ne aveva capito gli obiettivi politici; perché l'Emendamento che offriva Lincoln, come si è detto, riguardava solo la schiavitù dove essa già esisteva. Ciò nonostante in grande maggioranza i moderati tra gli aristocratici del Sud, estremamente preoccupati per la terribile prospettiva di giocare tutto, la loro stessa esistenza, su una sola carta, continuavano ad arretrare di fronte al salto nel buio della secessione. Capivano infatti benissimo che la «peculiare istituzione» si sarebbe difesa assai meglio rimanendo nell'Unione piuttosto che uscendone poiché solo in tal modo sarebbe stato possibile continuare la battaglia politica per tutelarla con ogni mezzo. 

Così lo statista Benjamin F. Perry, della Carolina Meridionale sosteneva che l'Unione «doveva essere salvata come baluardo contro l'abolizione»; e Herschel V. Johnson, della Georgia che era stato un secessionista nel 1850: «Mi sono persuaso che la schiavitù sia più sicura dentro l'Unione che fuori da essa». 59 Lo stesso senatore Jefferson Davis, già Segretario alla Guerra degli Stati Uniti e futuro Presidente della Confederazione sudista era un moderato, con molte esitazioni di fronte alla gravissima decisione della secessione. Il 4 luglio 1858, parlando al pubblico a Boston aveva assunto una posizione nettamente unionista; 60 poi, il l0 novembre 1860, rispondendo a una lettera dell'estremista Robert Barnwell Rhett, proprietario-direttore del giornale secessionista «Charleston Mercury», aveva raccomandato moderazione e prudenza; 61 Infine nel discorso di congedo dal Senato degli Stati Uniti, pronunciato il 21 gennaio 1861, si era premurato di porre in rilievo che, a suo giudizio, non c'erano sufficienti motivi per cui il suo Stato, il Mississippi, compisse un simile grave passo: ma che egli si sentiva vincolato a seguire tale decisione dei suoi costituenti. 62 [...]


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