UN COLLARE ... PER SCHIAVI
I padroni degli schiavi, per prevenirne la fuga, soprattutto nelle campagne, dove le condizioni di vita e lavoro erano più dure, ricorrevano agli ergastula, luoghi sotterranei in cui la schiavitù veniva rinchiusa di notte. Capitava, però, che qualcuno eludesse la sorveglianza e riuscisse a scappare: in questo caso, il padrone poteva sperare di riprenderlo grazie a un collare, che gli aveva legato al collo. Sul metallo erano frequentemente incise brevi iscrizioni che chiedevano a chi trovava il ribelle di riportarlo al legittimo padrone. Il collare nell'immagine, conservato al Museo delle Terme di Diocleziane e fatto in ferro e bronzo, è un tipico esempio di questi oggetti.
L’iscrizione dice:
"Fugi, tene me, cum revocuveris me domino meo Zonino, accipis solidum",
cioè "Sono fuggito, quando mi riporterai dal mio padrone Zonino, riceverai un solido".
Piuttosto umiliante, ma perfettamente in linea con la mentalità romana per cui lo schiavo è un oggetto e un investimento, che non può andare in fumo.
Nell'immagine, il collare del Museo delle Terme di Caracalla (IV-VI d.C.).
La manumissio vindicta conosciuta già in epoca regia, era una negoziazione formale e solenne, dove non si tolleravano condizioni o termini. si svolgeva davanti al magistrato, con la presenza del padrone e lo schiavo. Il padrone, affrancatore dello schiavo, assertor libertatis, conduceva questi di fronte ad un pretore, il quale gli toccava leggermente il capo con una verga, detta vindicta, pronunciava la rituale formula della "vindictam imponere", pronunciando la frase:
«hunc hominem ex iure Quiritium meum esse aio secundum suam causam»,
Il padrone rispondeva rispondeva al magistrato:
hunc hominem liberum esse volo.
poi dopo un gesto di assenso del magistrato un littore toccava lo schiavo con una verga, infine la pronuncia dell'addictio secundum libertatem, permetteva allo schiavo di acquisire la libertà.
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