In una lettera del 9 ottobre 1870 a Màjkov, Dostoevskij spiega il senso del titolo del nuovo romanzo e dell'epigrafe tratta dal Vangelo di Luca da lui posta all'inizio:
"L'evangelista Luca ci racconta che i demòni si erano insediati in un uomo, il suo nome era Legione, ed essi Lo [Cristo] pregarono: permettici di entrare nei maiali, ed Egli lo permise. I demòni allora entrarono nei maiali e tutto il branco si precipitò da un'altura in mare ed annegò. [...] Esattamente la stessa cosa si è verificata anche da noi. I demòni sono usciti dall'uomo russo e sono entrati nel branco dei porci, e cioè nei Necàev, nei Serno-Solov'ëvic e così via. Quelli sono affogati, o affogheranno senza dubbio, e l'uomo ormai guarito, da cui sono usciti i demòni, siede ai piedi di Gesù" .
"Si fece pensoso." Ma se ho detto una corbelleria, - esclamò d'un tratto involontariamente - se l'uomo, l'uomo in generale, cioè tutto il genere umano, non è vigliacco, ciò significa che tutto il resto son pregiudizi, soltanto terrori che ci hanno inculcato, e che non ci sono barriere di sorta, e che così deve essere ! ...."
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Allora non sapevo ancora di essere felice.
Non avete mai veduto una foglia, una foglia d’albero?
– Sì.
– Io ne ho veduta poco tempo fa una gialla, con un po’ di verde, marcita agli orli.
La portava il vento. Quando avevo dieci anni, d’inverno chiudevo apposta gli occhi e mi figuravo una foglia verde, lucente, con le sue venature, e il sole che splendeva. Aprivo gli occhi e non credevo a nulla, perché quello era molto bello, e li chiudevo di nuovo.
– Cos’è questa: un’allegoria?
– N-no… perché? Non è un’allegoria, ma una semplice foglia, solo una foglia.
La foglia è bella. Tutto è bello.
– Tutto?
– Tutto. L’uomo è infelice perché non sa di essere felice, solo per questo.
Tutto sta qui, tutto! Chi lo capisce è subito felice, nello stesso momento.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Di cattive abitudini, realmente, il nostro amico ne aveva contratte non poche, specie negli ultimi tempi. Egli si era lasciato andare visibilmente e rapidamente, ed era vero che s'era fatto trasandato. Beveva di più, era divenuto più lacrimoso e più debole di nervi; s'era fatto un pò troppo sensibile al bello. Il suo viso aveva ricevuto la strana facoltà di cambiar espressione con straordinaria rapidità, di passare per esempio, dall'espressione più solenne alla più ridicola e anche stupida. Non sopportava la solitudine e pretendeva continuamente che lo distraessero. Bisognava assolutamente raccontargli qualche pettegolezzo, un aneddoto della città e per di più ogni giorno qualcosa di nuovo. Se poi per qualche tempo non veniva nessuno, egli errava tristemente per le stanze, s'avvicinava alla finestra, masticava sopra pensiero con le labbra, sospirava profondamente, e alla fine quasi piagnucolava. Egli presentiva sempre qualche cosa, temeva sempre qualcosa di inatteso, d'inevitabile; era divenuto pauroso; aveva cominciato a tenere in gran conto i sogni"
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Questo è il ritratto di Stephen.. l'intellettuale maturo e sconfitto dalla vita ..amato dalla Varvara Petrovna..e ora da lei pietosamente mantenuto..
Trovo [questo romanzo] sconfinatamente addentro ad ogni miseria umana, sia fisica che morale.. Ogni personaggio è semplicemente perfetto.. dalla pazza Maria, alla dolce Lisa, al depravato Principe Nicolaj.. al lucido Kirillov che,si toglierà la vita..il mio personaggio preferito
La cosa migliore sarebbe di non recitare nessuna parte, ma di mostrare il proprio volto, non è vero? Non c’è maggiore astuzia che di mostrare il proprio volto, perché nessuno ci crede. Beh, e qual è il mio proprio volto? L’aurea via di mezzo: né stupido né intelligente, abbastanza povero d’ingegno, uno che vive nelle nuvole, come dicono qui le persone di giudizio».
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Perchè ci credano bisogna scrivere nel modo più oscuro possibile , proprio così , proprio coi soli accenni . Bisogna mostrar solo un lembo di verità , giusto quel tanto che basta , per incuriosirli . S'inganneranno da se stessi sempre assai più di quel che potremmo ingannarli noi ed a se stessi certo crederanno più che a noi , e questo è meglio di tutto , meglio di tutto ! ... "
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Fëdor Dostoevskij, I demoni
L'IDEA DEL TEMPO
Di Fëdor Dostoevskij
- ...Vi sono degli istanti, si arriva a vivere degli istanti in cui il tempo improvvisamente si ferma e subentra l'eternità. -
- E lei spera di arrivare a un tale istante? -
- Sì -
- E' ben difficile che ciò possa accadere ai nostri tempi - replicò Nikolài Vsèvolodovič, anche lui senza la minima ironia, parlando lentamente e in tono pensieroso. - Nell'Apocalisse un angelo giura che il tempo non esisterà più. -
- Lo so. Ed è detto molto giustamente, con chiarezza e precisione. Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità non ci sarà più il tempo, perché non ce ne sarà più bisogno. E' un pensiero molto giusto. -
- Dove lo nasconderanno? -
- Non lo nasconderanno da nessuna parte. Il tempo non è un oggetto, ma un'idea. Si spegnerà nella mente dell'uomo... -
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Ci sono dei secondi, non ne vengono che a cinque o sei per volta, in cui sentite tutt’a un tratto la presenza di un’armonia eterna compiutamente raggiunta. Non è una cosa terrestre; non dico che sia una cosa celeste, ma dico che l’uomo, nel suo aspetto terrestre, non la può sopportare. Bisogna trasformarsi fisicamente o morire. È un sentimento chiaro e incontestabile. Come se a un tratto aveste la sensazione di tutta la natura e a un tratto diceste: sì, è vero. Dio quando creava il mondo, alla fine di ogni giornata della creazione diceva: “Sì, è vero, è bello”. Questo… questo non è un intenerimento, ma soltanto così, una gioia. Non perdonate nulla, perché non c’è più nulla da perdonare. Non è che amiate, oh! qui si è più su dell’amore! Il più terribile è che tutto è così tremendamente chiaro e che la gioia è tale! Se durasse più di cinque secondi, l’anima non resisterebbe e dovrebbe sparire. In quei cinque secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché vale la spesa.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Fëdor Dostoevskij, I demoni
"Se Dio c'è tutta la volontà è sua, e io non posso sottrarmi alla sua volontà.
Se non c'è, tutta la volontà è mia, e son costretto a proclamar il mio libero arbitrio. [..]
Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile che non ci sia nessuno su tutto il pianeta, che dopo averla fatta finita con Dio ed aver posto fede nel proprio arbitrio, osi proclamar il libero arbitrio nel senso più assoluto?[…]Io sono obbligato a uccidermi, perché il culmine del mio libero arbitrio è uccidere me stesso"
Fëdor Dostoevskij, I demoni
La cosa migliore sarebbe di non recitare nessuna parte, ma di mostrare il proprio volto, non è vero? Non c’è maggiore astuzia che di mostrare il proprio volto, perché nessuno ci crede. (…) Beh, e qual è il mio proprio volto? L’aurea via di mezzo: né stupido né intelligente, abbastanza povero d’ingegno, uno che vive nelle nuvole, come dicono qui le persone di giudizio.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
«Ma io dichiaro – strillò Stepàn Trofimovic, al massimo grado del furore – ma IO DICHIARO CHE SHAKESPEARE E RAFFAELLO STANNO PIÙ IN ALTO DELLA LIBERAZIONE DEI CONTADINI, PIÙ IN ALTO DELLO SPIRITO POPOLARE, PIÙ IN ALTO DEL SOCIALISMO, PIÙ IN ALTO DELLA GIOVANE GENERAZIONE, PIÙ IN ALTO DELLA CHIMICA, QUASI PIÙ IN ALTO DELL’UMANITÀ INTERA, GIACCHÉ SONO GIÀ UN FRUTTO, IL VERO FRUTTO DELL’UMANITÀ INTERA E, FORSE, IL FRUTTO PIÙ ALTO CHE MAI POSSA ESSERE! […]. Ma sapete, sapete voi che senza l’inglese l’umanità può ancora vivere, può vivere senza la Germania, può vivere anche troppo facilmente senza i russi, può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma SOLTANTO SENZA LA BELLEZZA NON SI POTREBBE VIVERE, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo? Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non sussisterebbe».
Fëdor Dostoevskij, I demoni
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....perché tutti questi socialisti e comunisti arrabbiati sono nello stesso tempo anche dei taccagni, degli accumulatori, dei proprietari cosí tremendi, e anzi al punto che, piú uno è socialista, piú è avanzato, e piú fortemente è attaccato alla proprietà...
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Ho accennato al fatto che era comparsa fra noi certa gentaglia. Sempre e dappertutto, nei tempi torbidi di incertezza e di transizione, compare della gentaglia. Non parlo dei cosiddetti "uomini di idee progredite", i quali sempre corrono più degli altri (è questa la loro preoccupazione principale) e hanno uno scopo, sia pure spesso stupidissimo, ma più o meno determinato. No, parlo della canaglia. In ogni epoca di transizione affiora questa canaglia, che esiste in ogni società e che non solo non ha alcuno scopo, ma non ha neanche l'ombra di un'idea, ed esprime solamente, con tutte le forze, irrequietezza ed impazienza. Ed intanto questa canaglia, senza neanche saperlo, finisce quasi sempre sotto il comando di quel tal pugno d'uomini "progrediti", i quali agiscono con uno scopo definito, e questo pugno d'uomini indirizza tutta questa spazzatura dove più le piace, purché non sia composto esso stesso di perfetti idioti, il che, del resto, è una cosa che succede.Fëdor Dostoevskij, I demoni
Nel recarmi qua - voglio dire qua in genere, in questa città, dieci giorni orsono - io naturalmente decisi di recitare una parte. La cosa migliore sarebbe di non recitare nessuna parte, ma di mostrare il proprio volto, non è vero? Non c'è maggiore astuzia che di mostrare il proprio volto, perché nessuno ci crede. Io, se ve lo devo dire, volevo far la parte dello scemo, perché è più facile far lo scemo che mostrare il proprio volto; ma dato che lo scemo rappresenta pur sempre un estremo, e gli estremi eccitano la curiosità, mi son fermato definitivamente sul mio proprio volto. Beh, e qual è il mio proprio volto? L'aurea via di mezzo: né stupido né intelligente, abbastanza povero d'ingegno, uno che vive nelle nuvole, come dicono qui le persone di giudizio.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Sì, perché cos'è che sostenete? Non è forse la solita divinizzazione della felicità familiare, l'accrescimento della prole e dei capitali, e così vissero sempre felici e ripieni d'ogni ben di Dio? Abbiate pazienza! Il lettore rimarrà incantato, perché neanch'io sono stato capace di staccarmi dalla lettura, e proprio qui sta il brutto! Il lettore è stupido come sempre, alle persone intelligenti toccherebbe fargli capire le cose, e voi invece...
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Io non so, non so come succeda agli altri, ed anch'io sento così che non posso fare come tutti.
Ognuno pensa, e subito dopo pensa a un’altra cosa.
Io non posso pensare ad altro, io penso tutta la vita alla stessa cosa.
Dio mi ha tormentato tutta la vita.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Se Dio c'è tutta la volontà è sua, e io non posso sottrarmi alla sua volontà.
Se non c'è, tutta la volontà è mia, e son costretto a proclamar il mio libero arbitrio. [..]
Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile che non ci sia nessuno su tutto il pianeta, che dopo averla fatta finita con Dio ed aver posto fede nel proprio arbitrio, osi proclamar il libero arbitrio nel senso più assoluto? […] Io sono obbligato a uccidermi, perché il culmine del mio libero arbitrio è uccidere me stesso.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
L’ateismo perfetto è più apprezzabile dell’indifferenza mondana…
Il perfetto ateismo si ferma all’estremità della scala, sul penultimo gradino che porta alla fede perfetta (tutto sta a sapere se salirà quest’ultimo gradino oppure no), mentre l’indifferenza non ha nessuna fede
Il vescovo Tykon ne I demoni di Dostoevskij
Nell'Apocalisse l'angelo giura che il tempo non esisterà più. È molto giusto, preciso, esatto. Quando tutto l'uomo raggiungerà la felicità, il tempo non esisterà più, perché non ce ne sarà più bisogno. È un'idea giustissima. Dove lo nasconderanno? Non lo nasconderanno in nessun posto. Il tempo non è un oggetto, è un'idea. Si spegnerà nella mente.
Fëdor Dostoevskij, I demoni. Discorso di Kirillov!!!
Ogni membro della società vigila l’altro ed è obbligato alla delazione.
Ognuno appartiene a tutti e tutti appartengono a ognuno.
Tutti sono schiavi e nella schiavitù sono uguali.
Nei casi estremi, c’è la calunnia e l’omicidio, ma l’essenziale è l’uguaglianza.
Come prima cosa si abbassa il livello delle scienze e degli ingegni.
Si può raggiungere un alto livello delle scienze e degli ingegni solo con doti superiori, e non ci devono essere doti superiori! Gli uomini di doti superiori si sono sempre impadroniti del potere e sono stati dei despoti. Gli uomini di doti superiori non possono non essere despoti e hanno sempre fatto più male che bene, perciò vengono scacciati e giustiziati. A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si cavano gli occhi, Shakespeare viene lapidato, ecco lo šigalëvismo!
Gli schiavi devono essere uguali: senza dispotismo non c’è ancora stata né libertà né uguaglianza, ma nel gregge deve esserci uguaglianza, questo è lo šigalëvismo!
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Approva lo spionaggio. Ogni membro della società vigila l'altro ed è obbligato alla delazione.
Ognuno appartiene a tutti e tutti appartengono a ognuno. Tutti sono schiavi e nella schiavitù sono uguali. Nei casi estremi, c'è la calunnia e l'omicidio, ma l'essenziale è l'uguaglianza. Come prima cosa si abbassa il livello delle scienze e degli ingegni. Si può raggiungere un alto livello delle scienze e degli ingegni solo con doti superiori, e non ci devono essere doti superiori! Gli uomini di doti superiori si sono sempre impadroniti del potere e sono stati dei despoti. Gli uomini di doti superiori non possono non essere despoti e hanno sempre fatto più male che bene, perciò vengono scacciati e giustiziati. A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si cavano gli occhi, Shakespeare viene lapidato, ecco lo šigalëvismo! Gli schiavi devono essere uguali: senza dispotismo non c'è ancora stata né libertà né uguaglianza, ma nel gregge deve esserci uguaglianza, questo è lo šigalëvismo! Ah, ah, ah, vi sembra strano? Io sono per lo šigalëvismo!
[...] Sentite, Stavroghin: livellare le montagne è un'idea buona, non ridicola. Io sono per Sigaliov!
La cultura non serve, basta con la scienza! Anche senza scienza c'è materiale per mille anni, ma bisogna che la disciplina si organizzi. Nel mondo manca una cosa sola: la disciplina.
La sete di cultura è già una sete aristocratica. Non appena compaia la famiglia o l'amore, ecco il desiderio della proprietà. Questo desiderio noi lo stermineremo: lanceremo l'ubriachezza, il pettegolezzo, la delazione; lanceremo una dissolutezza inaudita; soffocheremo i geni in culla. Ridurremo tutto a un denominatore comune: l'assoluta eguaglianza. "Abbiamo imparato un mestiere, siamo gente onesta: non ci occorre altro": ecco una risposta data di recente dagli operai inglesi. E' indispensabile soltanto l'indispensabile: ecco da ora in poi, il motto del globo terrestre. Ma occorre anche una conclusione; e a questo penseremo noialtri dirigenti. Gli schiavi devono aver dei dirigenti. Assoluta disciplina, assoluta impersonalità, ma una volta ogni trent'anni Sigaliov scatena anche una convulsione, e a un tratto tutti cominciano a mangiarsi a vicenda, fino a un certo punto, unicamente per evitare la noia. La noia è una sensazione aristocratica. Nello sigaliovismo non ci saranno desideri. I desideri e le sofferenze sono per noi: per gli schiavi c'è lo sigaliovismo.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Egli propone, come soluzione finale del problema, la divisione dell'umanità in due parti disuguali. Una decima parte riceverebbe la libertà della personalità ed un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi dovrebbero perdere la personalità, trasformarsi come in una specie di gregge e per mezzo d'un illuminata obbedienza raggiungere, attraverso una serie di generazioni, l'innocenza primordiale, qualcosa come il paradiso primordiale, dove, tuttavia, dovrebbero lavorare. Le misure proposte dall'autore per togliere ai nove decimi dell'umanità la libertà e per trasformarla in gregge per mezzo della rieducazione d'intere generazioni, sono assai notevoli, si basano su dati delle scienze naturali ed appaiono assai logiche.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Formulai per la prima volta in vita mia questo greve pensiero: che non conosco e non sento né il bene né il male, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so anche che il bene e il male, in realtà, non esistono nemmeno (riflessione che mi arrecava piacere), e non sono altro che pregiudizi. Stava in me l'esser libero da qualsiasi pregiudizio, ma, raggiunta quella libertà, mi sarei perduto. (Stavrogin)
Fëdor Dostoevskij, I demoni
- "Sapete, secondo me, voi credete, magari, anche più di un pope."
- "In chi? In Lui? Ascolta." Kirillov si fermò, guardando innanzi a sé con uno sguardo immobile, esaltato. "Ascolta una grande idea: c’era sulla terra un giorno, e in mezzo alla terra stavano tre croci. Uno sulla croce credeva al punto che disse all'altro: “tu sarai oggi con me in paradiso”. Il giorno finì, tutti e due morirono, andarono e non trovarono né il paradiso, né la risurrezione. Non si avverava ciò ch'era stato detto. Ascolta: quest’uomo era il più alto su tutta la terra, costituiva ciò per cui essa doveva vivere. Tutto il pianeta, con tutto ciò ch'è sopra di esso, senza quest’uomo, non è che una pazzia. Non c’era stato né prima, né dopo di Lui uno simile a Lui, e non ci sarà mai, fino al miracolo. In ciò appunto sta il miracolo, che non c’è stato e non ci sarà mai uno simile. E se così è, se le leggi della natura non hanno risparmiato nemmeno questo, non hanno avuto pietà nemmeno del proprio miracolo, ma hanno costretto anche Lui a vivere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna, vuol dire che tutto il pianeta è menzogna e sta sulla menzogna e su una stolta irrisione. Vuol dire che le stesse leggi del pianeta son menzogna e un vaudeville del diavolo. A che, dunque, vivere, rispondi, se sei un uomo?"
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I demoni
In questa lettura viene esposta la teoria di Kirillov sulla negazione di Dio e sulla necessità che l’uomo prenda il suo posto: da Dio all’Uomo-Dio.
F. M. Dostoevskij, I demoni
Il signor Kirillov, un ingegnere costruttore dei piú insigni.
[...]
Era un uomo ancora giovane sui ventisette anni, vestito decentemente.
[...]
mentre io cerco solo le cause, per cui gli uomini non osano uccidersi; ed ecco tutto. Ed anche questo è indifferente.”
“Come non osano? Vi sono, forse, pochi suicidi?”
“Pochissimi.”
“Possibile che lo troviate?”
Non rispose, si alzò e si mise a camminare su e giú pensoso.
“Che cosa, dunque, trattiene gli uomini, secondo voi, dal suicidio?” domandai.
Mi guardò distrattamente, come se cercasse di ricordare di che cosa si parlasse.
“Io... io lo so ancora poco... due pregiudizi li trattengono, due cose; due soltanto; una molto piccola, l’altra molto grande. Ma anche la piccola è molto grande.”
“Qual è, dunque, quella piccola?”
“Il dolore.”
“Il dolore? Possibile che sia cosí importante... in questo caso?”
“È la primissima cosa. Vi sono due categorie: quelli che si uccidono o per una gran tristezza, o per la rabbia, o sono pazzi, o che so io... quelli si uccidono di colpo. Quelli pensano poco al dolore, ma si uccidono di colpo. Mentre quelli che lo fanno a mente lucida, quelli pensano molto.”
“Vi sono, forse, di quelli che lo fanno a mente lucida?”
“Moltissimi. Se non ci fosse il pregiudizio, sarebbero di piú; moltissimi; tutti.”
“Ora anche tutti?”
Non rispose.
“Ma non vi sono, forse, dei mezzi di morire senza dolore?”
“Immaginate,” si fermò davanti a me, “immaginate un masso d’una grandezza, come una gran casa; vi prende sul capo; se vi cade addosso, sulla testa, vi farà male?”
“Un masso come una casa? Certo, fa paura.”
“Non parlo della paura; vi farà male?”
“Un masso come una montagna, un milione di pud? Si intende, nessun male.”
“Ma mettetevi davvero sotto, e mentre pende, avrete molta paura che vi faccia male. Ogni primo scienziato, ogni primo dottore, tutti, tutti avrebbero molta paura. Ognuno saprebbe che non fa male, ed ognuno avrebbe paura che faccia male.”
“Bene, e l’altra causa, quella grande?”
“L’altro mondo!”
“Cioè, il castigo?”
“Questo è indifferente. L’altro mondo; solo l’altro mondo.”
“Non vi sono forse degli atei che non credono affatto nell’altro mondo?”
Di nuovo non rispose.
“Giudicate forse secondo voi stesso?”
“Ognuno non può giudicare che secondo se stesso,” disse arrossendo. “La piena libertà ci sarà allora, quando sarà indifferente vivere o non vivere. Ecco lo scopo di tutto.”
“Lo scopo? Ma allora nessuno, forse, vorrà piú vivere?”
“Nessuno,” disse risolutamente.
“L’uomo ha paura della morte, perché ama la vita, ecco come la intendo io,” osservai “e cosí ha ordinato la natura.”
“È vile, e sta qui tutto l’inganno!” scintillarono i suoi occhi. “La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura. Ora l’uomo ama la vita, perché ama il dolore e la paura. E cosí hanno fatto. La vita si concede a prezzo di dolore e di paura, e sta qui tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell’uomo. Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. A chi sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. Mentre l’altro Dio non vi sarà.”
“Dunque, l’altro Dio c’è pure, secondo voi?”
“Non c’è, ma c’è. Nel masso non c’è il dolore, ma nella paura del masso c’è il dolore. Dio è il dolore della paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, quello diverrà Dio. Allora vi sarà la vita nuova, l’uomo nuovo, tutto sarà nuovo... Allora la storia sarà divisa in due parti: dal gorilla alla distruzione di Dio, e dalla distruzione di Dio al...”
“Al gorilla?”
“... alla trasformazione fisica dell’uomo e della terra. L’uomo sarà Dio e si trasformerà fisicamente. Ed anche il mondo si trasformerà, e le azioni si trasformeranno, e i pensieri, e tutti i sentimenti. Che cosa ne pensate voi, si trasformerà allora l’uomo fisicamente?”
“Se sarà indifferente vivere o non vivere, tutti si uccideranno, ed ecco in che cosa forse consisterà la trasformazione.”
“Questo è indifferente. Uccideranno l’inganno. Chiunque voglia la libertà essenziale, deve avere il coraggio d’uccidersi. Chi ha il coraggio d’uccidersi, ha conosciuto il segreto dell’inganno. Piú in là non c’è libertà; qui è tutto, e piú in là non c’è nulla. Chi ha il coraggio d’uccidersi, quello è Dio. Ora ognuno può fare che non ci sia piú Dio e che non ci sia piú nulla. Ma nessuno l’ha ancora mai fatto.”
“Vi sono stati milioni di suicidi.”
“Ma sempre non per questo, sempre con la paura e non per questo. Non per uccidere la paura. Chi si ucciderà soltanto per uccider la paura, quello diverrà subito Dio.”
“Non ne avrà forse il tempo,” osservai.
“Questo è indifferente,” rispose piano, con pacato orgoglio, quasi con disprezzo. “Mi dispiace che voi par che ridiate” aggiunge dopo un mezzo minuto.
“E a me riesce strano che dianzi voi foste irritabile, mentre ora siete cosí tranquillo, anche se parlate con calore.”
“Dianzi? Dianzi era da ridere,” rispose con un sorriso; “io non amo ingiuriare e non rido mai,” soggiunse tristemente.
“Sí, non le passate allegramente le vostre notti bevendo il tè.” M’alzai e presi il berretto.
“Lo credete?” sorrise con una certa meraviglia. “E perché? No io... io non so,” si confuse a un tratto, “non so come succeda agli altri, ed anch’io sento cosí che non posso fare come tutti. Ognuno pensa, e subito dopo pensa a un’altra cosa. Io non posso pensare ad altro, io penso tutta la vita alla stessa cosa. Dio mi ha tormentato tutta la vita,” concluse a un tratto con sorprendente espansione.
[...]
“Ricordo che dicevate qualcosa di Dio... perché una volta voi mi spiegavate; anzi un paio di volte. Se vi ucciderete, diverrete un dio, mi pare, non è cosí?”
“Sí, io diverrò un dio.”
Pjotr Stepanovic non sorrise nemmeno; aspettava; Kirillov lo fissò con uno sguardo sottile.
“Voi siete un intrigante e un ingannatore politico, voi mi volete portare alla filosofia e all’entusiasmo, e produrre la conciliazione per disperdere l’ira, e, quando mi sarò riconciliato, ottenere il biglietto che io ho ucciso Satov.”
Pjotr Stepanovic rispose con un’ingenuità quasi naturale.
“Be’, ammettiamo pure che io sia un simile vigliacco, ma negli ultimi momenti ciò non vi è forse indifferente, Kirillov? Be’, perché ci letichiamo, dite per favore: voi siete un uomo cosí, e io un uomo cosí, che cosa ne viene? E per giunta tutti e due...”
“Vigliacchi.”
“Sí, magari, anche vigliacchi. Perché voi sapete che son soltanto parole.”
“Per tutta la vita non ho voluto che fossero soltanto parole. Per questo appunto son vissuto, perché non volevo. Anche ora voglio, ogni giorno, che non siano parole.”
“È che ognuno cerca dove si sta meglio. Il pesce... cioè ognuno cerca delle comodità di suo genere; ed ecco tutto. Lo si sa da tempo immemorabile.”
“Delle comodità, hai detto?”
“Be’, non vale la pena di star lí a discutere sulle parole.”
“No, hai detto bene, sia pure delle comodità. Dio è indispensabile, e perciò deve esistere.”
“A meraviglia.”
“Ma io so che non c’è e non può esserci.”
“Questo è piú giusto.”
“Possibile che tu non capisca che un uomo con due simili idee non possa rimanere fra i vivi?”
“Deve forse spararsi?”
“Possibile che tu non capisca che solo per questo ci si possa uccidere? Tu non capisci che ci possa essere un uomo cosiffatto, un uomo dei vostri mille milioni, uno che non vorrà e non sopporterà.”
“Capisco solo che voi, a quanto pare, esitate. È molto male.”
“Anche Stavrogin è stato inghiottito dall’idea,” Kirillov non s’accorse dell’osservazione, camminando con aria tetra per la stanza.
“Come?” aguzzò gli orecchi Pjotr Stepanovic, “quale idea? Lui stesso vi ha detto qualche cosa?”
“No, l’ho indovinato da me: Stavrogin anche se crede, non crede di credere. Se invece non crede, non crede di non credere.”
“Be’, Stavrogin ha anche qualche cosa di piú intelligente...” borbottò arcigno Pjotr Stepanovic, seguendo con inquietudine la piega del discorso e il pallido Kirillov.
“Che il diavolo lo porti, non si sparerà,” pensava, “l’ho sempre presentito; un cavillo cerebrale e nient’altro; che robaccia il popolo!”
“Tu sei l’ultimo che sta con me: io non vorrei separarmi da te male,” disse a un tratto Kirillov.
Pjotr Stepanovic non rispose subito. “Che il diavolo lo porti, che cos’è questo ancora?” pensò di nuovo.
“Credete, Kirillov, che io non ho nulla contro di voi, personalmente, e sempre...”
“Sei un vigliacco ed una mente falsa. Ma io son come te, e mi ucciderò, e tu resterai vivo.”
“Cioè volete dire che sono cosí basso che vorrò restare in vita.”
Non aveva ancora potuto decidere, se fosse vantaggioso o no continuare in un simile momento un tal discorso, e decise “d’abbandonarsi alle circostanze”. Ma il tono di superiorità e di quell’aperto disprezzo che Kirillov aveva sempre dimostrato per lui lo aveva sempre irritato anche prima, ed ora chi sa perché ancor piú di prima. Forse, perché Kirillov, che fra un’ora doveva morire (Pjotr Stepanovic lo aveva sempre presente), gli pareva qualcosa come una specie ormai di mezzo uomo, qualcosa, a cui ormai non si poteva in nessuno modo permettere d’essere altezzoso.
“A quanto pare, vi vantate davanti a me che vi sparerete?”
“Son sempre stato meravigliato che tutti rimanessero in vita,” Kirillov non udí la sua osservazione.
“Hm! Poniamo, questa è un’idea, ma...”
“Scimmia, tu annuisci per domarmi. Taci, non capirai nulla. Se non c’è Dio, io sono un dio.”
“Ecco, io non ho mai potuto capire questo vostro punto: perché siete un dio?”
“Se Dio c’è, tutta la volontà è sua, e sottrarmi alla sua volontà io non posso. Se no, tutta la volontà è mia, e son costretto a proclamar l’arbitrio.”
“L’arbitrio? Ma perché siete costretto?”
“Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile che nessuno su tutto il pianeta, avendola finita con Dio e avendo posto fede nell’arbitrio, osi proclamar l’arbitrio, nel senso piú completo? È come un povero che abbia ricevuto l’eredità e si sia spaventato, e non osi avvicinarsi al sacco, stimandosi impotente a possederlo. Io voglio proclamar l’arbitrio. Sia pure da solo, ma lo farò.”
“E fatelo.”
“Io sono obbligato a uccidermi, perché il momento piú alto del mio arbitrio è uccidere me stesso.”
“Ma non siete mica il solo a uccidervi: ci son molti suicidi.”
“Con una ragione. Ma senza alcuna ragione, ma solo per l’arbitrio, sono l’unico.”
“Non s’ucciderà”, balenò di nuovo nella mente di Pjotr Stepanovic.
“Sapete,” osservò con irritazione, “io al vostro posto, per mostrar l’arbitrio, avrei ammazzato qualcun altro, e non me stesso. Potreste essere utile. Vi indicherò chi, se non vi spaventerete. Allora, magari, non sparatevi nemmeno, oggi. Possiamo metterci d’accordo.”
“Uccidere un altro sarà il momento piú basso del mio arbitrio, e in ciò sei tutto tu. Io non sono te: io voglio il momento piú alto e ucciderò me stesso.”
“C’è arrivato da sé,” brontolò rabbiosamente Pjotr Stepanovic.
“Io son tenuto a proclamar l’assenza della fede,” Kirillov camminava per la stanza. “Per me non c’è un’idea piú alta di quella che non c’è Dio. È con me la storia dell’umanità. L’uomo non ha fatto altro che inventare Dio per vivere senza uccidersi; in ciò consiste tutta la storia universale fino ad oggi. Io solo, nella storia universale, non ho voluto per la prima volta inventare Dio. Che lo sappiano una volta per sempre.”
“Non s’ucciderà,” s’inquietava Pjotr Stepanovic.
“Chi ha da saperlo?” lo aizzava. “Qui non ci siamo che io e voi; Liputin, forse?”
“Tutti han da saperlo; tutti lo sapranno. Non c’è nessun mistero che non si palesi. L’ha detto Lui.”
E con febbrile entusiasmo Kirillov additò l’immagine del Redentore, dinanzi alla quale ardeva una lampada. Pjotr Stepanovic s’arrabbiò definitivamente.
In Lui, dunque, voi credete ancora e avete acceso la lampada; non lo avete mica fatto “a buon conto”?”
Quello non rispose.
“Sapete, secondo me, voi credete, magari, anche piú di un pope.”
“In chi? In Lui? Ascolta.” Kirillov si fermò, guardando innanzi a sé con uno sguardo immobile, esaltato. “Ascolta una grande idea: c’era sulla terra un giorno, e in mezzo alla terra stavano tre croci. Uno sulla croce credeva al punto che disse all’altro: “tu sarai oggi con me in paradiso”. Il giorno finí, tutti e due morirono, andarono e non trovarono né il paradiso, né la risurrezione. Non si avverava ciò ch’era stato detto. Ascolta: quest’uomo era il piú alto su tutta la terra, costituiva ciò per cui essa doveva vivere. Tutto il pianeta, con tutto ciò ch’è sopra di esso, senza quest’uomo, non è che una pazzia. Non c’era stato né prima, né dopo di Lui uno simile a Lui, e non ci sarà mai, fino al miracolo. In ciò appunto sta il miracolo, che non c’è stato e non ci sarà mai uno simile. E se cosí è, se le leggi della natura non hanno risparmiato nemmeno questo, non hanno avuto pietà nemmeno del proprio miracolo, ma hanno costretto anche Lui a vivere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna, vuol dire che tutto il pianeta è menzogna e sta sulla menzogna e su una stolta irrisione. Vuol dire che le stesse leggi del pianeta son menzogna e un vaudeville del diavolo. A che, dunque, vivere, rispondi, se sei un uomo?”
“Questa è un’altra piega della questione. Mi pare che in voi si siano mescolate due cause diverse; e ciò è assai sospetto. Ma permettete, be’, e se voi foste un dio? Se fosse finta la menzogna, e voi aveste indovinato che tutta la menzogna deriva dal fatto che c’era il Dio di prima?”
“Finalmente hai capito!” esclamò Kirillov con entusiasmo. “Vuol dire che si può capirlo, se anche uno come te ha capito! Lo capisci tu ora che tutta la salvezza per tutti è dimostrare a tutti quest’idea? Chi la dimostrerà? Io! Io non capisco: come può aver saputo l’ateo finora che non ci fosse Dio e non essersi ucciso subito? Capire che non c’è Dio e non capire nello stesso momento d’esser diventato tu stesso un dio è un’assurdità, perché se no ti uccideresti assolutamente da te. Se lo capisci, sei zar e ormai non ti ucciderai da te, ma vivrai nella gloria piú eccelsa. Ma uno, quello che lo scopre per primo, deve uccidersi assolutamente, se no chi, dunque, comincerà e dimostrerà? Io mi ucciderò assolutamente, per cominciare e dimostrare. Io non sono ancora che un dio per forza e sono infelice, poiché son costretto a proclamar l’arbitrio. Tutti sono infelici, perché tutti hanno paura di proclamar l’arbitrio. Per questo appunto l’uomo è stato finora cosí infelice e povero, perché temeva di proclamare il punto principale dell’arbitrio, e commetteva gli arbitrî di straforo; come uno scolaro. Io son terribilmente infelice, perché temo terribilmente. La paura è la maledizione dell’uomo... Ma io proclamerò l’arbitrio, sono obbligato a credere di non credere. Io comincerò, e finirò, e aprirò la porta. E salverò. Solo questo salverà tutti gli uomini e già nella seguente generazione li rigenererà fisicamente; poiché con l’aspetto fisico presente, per quanto ho pensato, l’uomo non può fare a meno di Dio in nessun modo. Per tre anni ho cercato l’attributo della mia divinità e l’ho trovato: l’attributo della mia divinità è l’Arbitrio! È tutto ciò, con cui io posso mostrare nel punto principale la rivolta e la mia nuova paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa. Io mi uccido per mostrare la rivolta e la mia paurosa libertà.”
F. M. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano, 1977, vol. I, pagg. 93, 115-118, 239-241 e vol. II, pagg. 655-659
“Immaginate,” si fermò davanti a me, “immaginate un masso d’una grandezza, come una gran casa; vi prende sul capo; se vi cade addosso, sulla testa, vi farà male?”
“Un masso come una casa? Certo, fa paura.”
“Non parlo della paura; vi farà male?”
“Un masso come una montagna, un milione di pud? Si intende, nessun male.”
“Ma mettetevi davvero sotto, e mentre pende, avrete molta paura che vi faccia male. Ogni primo scienziato, ogni primo dottore, tutti, tutti avrebbero molta paura. Ognuno saprebbe che non fa male, ed ognuno avrebbe paura che faccia male.”
“Bene, e l’altra causa, quella grande?”
“L’altro mondo!”
“Cioè, il castigo?”
“Questo è indifferente. L’altro mondo; solo l’altro mondo.”
“Non vi sono forse degli atei che non credono affatto nell'altro mondo?”
Di nuovo non rispose.
“Giudicate forse secondo voi stesso?”
“Ognuno non può giudicare che secondo se stesso,” disse arrossendo. “La piena libertà ci sarà allora, quando sarà indifferente vivere o non vivere. Ecco lo scopo di tutto.”
“Lo scopo? Ma allora nessuno, forse, vorrà più vivere?”
“Nessuno,” disse risolutamente.
“L’uomo ha paura della morte, perché ama la vita, ecco come la intendo io,” osservai “e così ha ordinato la natura.”
“È vile, e sta qui tutto l’inganno!” scintillarono i suoi occhi. “La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura. Ora l’uomo ama la vita, perché ama il dolore e la paura. E così hanno fatto. La vita si concede a prezzo di dolore e di paura, e sta qui tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell'uomo. Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. A chi sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. Mentre l’altro Dio non vi sarà.”
“Dunque, l’altro Dio c’è pure, secondo voi?”
“Non c’è, ma c’è. Nel masso non c’è il dolore, ma nella paura del masso c’è il dolore. Dio è il dolore della paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, quello diverrà Dio. Allora vi sarà la vita nuova, l’uomo nuovo, tutto sarà nuovo... Allora la storia sarà divisa in due parti: dal gorilla alla distruzione di Dio, e dalla distruzione di Dio al...”
“Al gorilla?”
“... alla trasformazione fisica dell’uomo e della terra."
Fëdor Dostoevskij, I demoni
https://culturificio.org/dostoesvkij-e-il-male-il-diavolo-e-dentro-di-noi/
Dostoesvkij e il male: il diavolo è dentro di noi.
«Tutto è permesso». Bisogna partire da questa memorabile formula per comprendere cosa sia il male per Dostoevskij: sono le famose parole di Ivan Karamazov, secondogenito del turpe Fëdor Pavlovic – parole che racchiudono perfettamente l’intera parabola de I Fratelli Karamazov.
Diversissimo dal fratello maggiore Dmitrij, tutto istinti e passione, Ivan si oppone recisamente al terzogenito, Aleksej (più spesso chiamato Alëša): intellettuale ateo il primo, giovane novizio in un monastero il secondo. Quando Ivan dice polemicamente al fratello che tutto è permesso, vuole affermare la libertà incondizionata – e quindi sfrenata – dell’uomo: spogliatosi delle catene della religione e della morale, l’essere umano sarà finalmente libero di compiere qualsiasi cosa, di valicare ogni limite, diventerà un super-uomo, o meglio, un ultra-uomo, un «uomo-Dio»; non dovrà più porsi alcuna questione etica: se il male e il bene non esistono e non sono altro che menzogne atte a imprigionare la volontà umana, e se neanche Dio esiste e non vi è né Inferno né Paradiso ma solo la vita terrena, finita, limitata, allora per l’uomo tutto è permesso, egli può qualunque cosa. L’indimenticabile dialogo tra Ivan e Alëša rappresenta il punto d’arrivo della teoria filosofica di Dostoevskij: senza fede l’uomo è destinato a perdere e a perdersi, trascinato in una demoniaca spirale mortifera, in un gorgo di distruzione e auto-distruzione.
Ma vediamo più dettagliatamente la concezione del male secondo Dostoevskij.
Come afferma il filosofo Luigi Pareyson (in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993), per Dostoevskij il male è quasi un’ossessione, non è qualcosa di lontano e indefinibile, di astratto, ma è anzi tremendamente umano e reale. “Contro il facile ottimismo idealistico e positivistico dell’Ottocento, per cui il male non è che un elemento dialettico destinato al superamento o un episodio passeggero del trionfale progresso dell’umanità, egli ricorda che la realtà del male e del dolore, del peccato e della sofferenza, della colpa e della pena, del delitto e del castigo, è purtroppo una realtà effettiva e ineludibile, che conferisce alla condizione dell’uomo un carattere eminentemente tragico. […] Contro l’ottimismo dell’uomo naturalmente buono, pieno di inclinazioni generose e benevole, […] Dostoevskij indaga l’«uomo del sottosuolo», cattivo, crudele, perverso, irragionevole.”
Per lo scrittore russo dunque il male è dentro di noi, pronto a dispiegarsi in tutta la propria forza attrattiva e costrittiva, e a trascinare l’uomo verso un abisso tremendo e insondabile, da cui riemergere è spesso impossibile. E il male non è alcunché di soprannaturale: non è una forza maligna e astratta, esterna all’uomo, che lo trae in tentazione e lo allontana dal bene, ma è anzi interno all’uomo, come dice lo stesso Ivan Karamazov: «Io credo che se il diavolo esiste, e quindi è stato creato dall’uomo, questi lo ha creato a sua immagine e somiglianza». L’uomo è il diavolo e il diavolo è l’uomo, il che vale a dire che il demoniaco è presente in ciascuno di noi, eternamente pronto a scatenarsi, se solo gli sarà permesso, e a trasformare l’uomo in un mostro. Il male non ha dunque la statura assoluta del bene: per Dostoevskij Dio esiste, mentre il diavolo no; di conseguenza, chi non crede nell’esistenza di Dio e professa l’ateismo, dimentico di ogni valore o confine morale posto dal divino all’umano, è inevitabilmente destinato a cedere al male, ad affondare in un «sottosuolo» pieno di abiezione e turpitudine.
Quando in Delitto e Castigo il giovane studente Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia, Alyona Ivanovna, lo fa per elevarsi al di sopra degli altri esseri umani, per diventare “Napoleone”: l’uomo che si porrà al di là del bene e del male diventerà un uomo-Dio, capace di comandare gli altri e di essere da essi venerato. E l’usuraia è un personaggio inconfutabilmente malvagio, avido e spietato: il giovane se lo ripete di continuo, quasi per giustificarne l’assassinio; ella merita di morire. Ma nel medesimo momento in cui Rodion Romanovič perpetra l’omicidio, casualmente rientra a casa la sorella più giovane della vecchia, Lizaveta Ivanovna; egli deve uccidere anche lei. Lizaveta, che è innocente, viene ammazzata. Ecco un altro tema caro a Dostoevskij: la malvagità che corrompe l’innocenza, la violenza che distrugge spietatamente la purezza; il sacrilegio; il personaggio buono schiacciato dal mondo e dagli altri; l’infezione del male che non risparmia niente e nessuno, ma ovunque miete vittime. L’uomo non ha il cuore di sostenere la grazia e quindi la distrugge: questo vuole dire il Grande Inquisitore a Gesù Cristo, nell’immaginario poema di Ivan Karamazov. Il sangue chiama altro sangue, e così anche il dolore: a tutto questo Raskol’nikov non riesce a resistere, finendo per sprofondare in uno stato di semi-follia e malattia. Il pentimento e la conseguente punizione potranno infine salvarlo dall’auto-distruzione. Ma egli non ci riuscirà da solo: sarà l’amore della giovane e sfortunata Sonja a ricondurlo finalmente fuori dalle tenebre.
Chi invece non riesce a salvarsi è Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin, personaggio attorno al quale è imperniata la vicenda de I Demoni, avvincente romanzo pubblicato nel 1873. Stravrogin è un giovane nobile di provincia, abituato fin da bambino a vivere nell’agio e nella ricchezza, che dopo i primi fervori giovanili si è dato interamente a un’esistenza noiosa e spenta, votata alla dissolutezza e al vizio, condizione che presto sfocerà nella più assoluta indifferenza verso gli altri, il mondo e finanche se stesso. Indifferenza che soprattutto finirà per coincidere col sadismo più cieco e assoluto, e Nicolaj ad un certo punto afferma: «Formulai per la prima volta in vita mia questo severo pensiero dentro di me: che non conosco e non sento né il male né il bene, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno (e ciò mi faceva piacere), e non sono altro che pregiudizi; stava in me l’esser libero da qualsiasi pregiudizio, ma, raggiunta quella libertà, mi sarei perduto». L’uomo completamente libero, dunque, ormai privo di categorie morali, è inevitabilmente portato alla distruzione – come dicevamo prima. Stavrogin infatti sembra quasi emanare un’invisibile aura di depravazione, capace di trascinare anche gli altri verso il male: i «demoni» sono coloro che sono caduti in balia del suo diabolico fascino, della sua sete di abiezione. L’influsso di Stavrogin è paragonabile a un miasma, a una qualche sorta di precipitosa e vorticosa corruzione generale. Entrare in contatto con Stavrogin è dannoso, e chi è stato da lui infettato, contagia poi anche gli altri; per questo la vicenda del romanzo – molto più politica rispetto ad altre trame di Dostoevskij – ruota attorno alla sua figura. Il gruppo di giovani nichilisti, di «demoni» che vuole gettare nel caos la società russa con atti sacrileghi e rivoluzionari, con attentati e omicidi, per distruggerla totalmente e poi rifondarla daccapo secondo i dettami della dottrina socialista, agisce su istigazione di Pëtr Stepanovič Verchovenskij, tra i primi a soccombere al fascino di Stavrogin. Pëtr Stepanovič nutre una vera e propria venerazione, a tratti morbosa, nei confronti di Stavrogin: è grazie a lui che egli è diventato un nichilista menzognero, dissoluto e incredibilmente spregiudicato, ed è in suo onore che vuole distruggere la società e affossare ogni valore esistente, anche a costo di sprofondare in una rete di intrighi, inganni, macchinazioni e omicidi – tutti atti sconvolgenti e violenti, per i quali non proverà mai alcuna vergogna o rimorso. La politica è solo un pretesto per compiere del male. Lo stesso accade, in misura diversa, anche per il nazionalista Šatov o per il nichilista aspirante suicida Kirillov: sono tutti incitati da Stavrogin. L’influsso demoniaco di Stavrogin agisce dunque sugli altri, in senso distruttivo, ma pure sulla sua stessa persona, portandolo all’auto-distruzione. Nikolaj compie atti gratuiti e più o meno terribili (ma sempre lesivi della morale) per il solo gusto di fare del male, e che però a lungo andare lo consumeranno: bacia in pubblico una donna sposata, morde l’orecchio al governatore della provincia, ruba il portafogli a un povero impiegato suo vicino di casa, sposa una donna zoppa per suscitare scandalo in famiglia; arriva persino a far picchiare e poi a stuprare una povera bambina, che dopo continuerà a torturare con i suoi sguardi lascivi e il suo crudele silenzio, fino a condurla ad un disperato suicidio – e qui vediamo ancora una volta l’innocenza travolta dal male. La violenza nei confronti dei bambini ritorna anche nel corso della discussione tra Ivan e Alëša. Per dimostrare ad Alëša l’inesistenza di Dio, o quantomeno l’impossibilità per l’uomo di comprendere e abbracciare Dio, Ivan gli racconta alcuni fatti di cronaca o episodi di guerra particolarmente brutali riguardanti dei bambini, esordendo così : «I bimbi non hanno mangiato nulla e non sono ancora colpevoli di nulla. Ami i bambini Alëša? Lo so che li ami, e capirai perché voglio parlare solo di loro. Se sulla Terra soffrono anch’essi terribilmente è certo per i loro padri, sono puniti per i loro padri che hanno mangiato il frutto proibito: ma questo è un ragionamento dell’altro mondo, incomprensibile per il cuore dell’uomo quaggiù sulla Terra. Non si può far soffrire un innocente a causa di un altro».
È interessante notare, a questo punto, che sia Nikolaj Stavrogin sia Ivan Karamazov soffrono di allucinazioni: entrambi immaginano di vedere il diavolo, malata invenzione delle loro coscienze tormentate. Mentre Ivan cadrà preda della pazzia, Stavrogin deciderà invece di suicidarsi, arrestando in questo modo la catena di morte e dolore innescata dalla sua comparsa nella cittadina. Poco prima di impiccarsi, scrive in una lettera: «Tutto si può discutere senza fine, ma da me non è uscito altro che negazione, senza nessuna generosità e nessuna forza. Ma neppure la negazione è uscita. Tutto è sempre stato meschino e fiacco. […] So che dovrei uccidermi, spazzarmi via dalla terra come un insetto ignobile; ma ho paura del suicidio, perché ho paura di mostrare della generosità. So che sarebbe un altro inganno, l’ultimo inganno in un’infinita serie di inganni»
Nikolaj Stavrogin è forse uno dei personaggi più riusciti di Dostoevskij, sicuramente uno dei più tragici e profondi: è lui il vero protagonista de I Demoni, ed è infatti con il suo suicidio che si conclude il romanzo.
Se «tutto è permesso», l’uomo non è però in grado di sostenere questa mostruosa e sanguinaria libertà, questa smisurata sete di potere: l’assenza di qualsiasi limite lo porta a generare sempre più dolore, in una terrificante spirale di sofferenza che non risparmia niente e nessuno, ma anzi spietatamente travolge tutto e tutti, in primo luogo l’anima di chi cede al male. Se il diavolo è dentro di noi, se il diavolo siamo noi, Dostoevskij ci consiglia di tenere sempre nascosta questa spaventosa presenza, di impedire con ogni mezzo che essa possa emergere e prendere vita: quando il male si scatena, fermarlo può spesso essere impossibile. Una volta sprofondati nelle tenebre, rischieremmo di non poter più tornare alla luce, finendo anzi per smarrirci irrevocabilmente nei meandri torbidi e fangosi delle nostre anime, nel «sottosuolo» che giace dentro le nostre coscienze: un labirinto spinoso e infernale, un oscuro regno di morte e dolore.
«Tutto è permesso». Bisogna partire da questa memorabile formula per comprendere cosa sia il male per Dostoevskij: sono le famose parole di Ivan Karamazov, secondogenito del turpe Fëdor Pavlovic – parole che racchiudono perfettamente l’intera parabola de I Fratelli Karamazov.
Diversissimo dal fratello maggiore Dmitrij, tutto istinti e passione, Ivan si oppone recisamente al terzogenito, Aleksej (più spesso chiamato Alëša): intellettuale ateo il primo, giovane novizio in un monastero il secondo. Quando Ivan dice polemicamente al fratello che tutto è permesso, vuole affermare la libertà incondizionata – e quindi sfrenata – dell’uomo: spogliatosi delle catene della religione e della morale, l’essere umano sarà finalmente libero di compiere qualsiasi cosa, di valicare ogni limite, diventerà un super-uomo, o meglio, un ultra-uomo, un «uomo-Dio»; non dovrà più porsi alcuna questione etica: se il male e il bene non esistono e non sono altro che menzogne atte a imprigionare la volontà umana, e se neanche Dio esiste e non vi è né Inferno né Paradiso ma solo la vita terrena, finita, limitata, allora per l’uomo tutto è permesso, egli può qualunque cosa. L’indimenticabile dialogo tra Ivan e Alëša rappresenta il punto d’arrivo della teoria filosofica di Dostoevskij: senza fede l’uomo è destinato a perdere e a perdersi, trascinato in una demoniaca spirale mortifera, in un gorgo di distruzione e auto-distruzione.
Ma vediamo più dettagliatamente la concezione del male secondo Dostoevskij.
Come afferma il filosofo Luigi Pareyson (in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993), per Dostoevskij il male è quasi un’ossessione, non è qualcosa di lontano e indefinibile, di astratto, ma è anzi tremendamente umano e reale. “Contro il facile ottimismo idealistico e positivistico dell’Ottocento, per cui il male non è che un elemento dialettico destinato al superamento o un episodio passeggero del trionfale progresso dell’umanità, egli ricorda che la realtà del male e del dolore, del peccato e della sofferenza, della colpa e della pena, del delitto e del castigo, è purtroppo una realtà effettiva e ineludibile, che conferisce alla condizione dell’uomo un carattere eminentemente tragico. […] Contro l’ottimismo dell’uomo naturalmente buono, pieno di inclinazioni generose e benevole, […] Dostoevskij indaga l’«uomo del sottosuolo», cattivo, crudele, perverso, irragionevole.”
Per lo scrittore russo dunque il male è dentro di noi, pronto a dispiegarsi in tutta la propria forza attrattiva e costrittiva, e a trascinare l’uomo verso un abisso tremendo e insondabile, da cui riemergere è spesso impossibile. E il male non è alcunché di soprannaturale: non è una forza maligna e astratta, esterna all’uomo, che lo trae in tentazione e lo allontana dal bene, ma è anzi interno all’uomo, come dice lo stesso Ivan Karamazov: «Io credo che se il diavolo esiste, e quindi è stato creato dall’uomo, questi lo ha creato a sua immagine e somiglianza». L’uomo è il diavolo e il diavolo è l’uomo, il che vale a dire che il demoniaco è presente in ciascuno di noi, eternamente pronto a scatenarsi, se solo gli sarà permesso, e a trasformare l’uomo in un mostro. Il male non ha dunque la statura assoluta del bene: per Dostoevskij Dio esiste, mentre il diavolo no; di conseguenza, chi non crede nell’esistenza di Dio e professa l’ateismo, dimentico di ogni valore o confine morale posto dal divino all’umano, è inevitabilmente destinato a cedere al male, ad affondare in un «sottosuolo» pieno di abiezione e turpitudine.
Quando in Delitto e Castigo il giovane studente Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia, Alyona Ivanovna, lo fa per elevarsi al di sopra degli altri esseri umani, per diventare “Napoleone”: l’uomo che si porrà al di là del bene e del male diventerà un uomo-Dio, capace di comandare gli altri e di essere da essi venerato. E l’usuraia è un personaggio inconfutabilmente malvagio, avido e spietato: il giovane se lo ripete di continuo, quasi per giustificarne l’assassinio; ella merita di morire. Ma nel medesimo momento in cui Rodion Romanovič perpetra l’omicidio, casualmente rientra a casa la sorella più giovane della vecchia, Lizaveta Ivanovna; egli deve uccidere anche lei. Lizaveta, che è innocente, viene ammazzata. Ecco un altro tema caro a Dostoevskij: la malvagità che corrompe l’innocenza, la violenza che distrugge spietatamente la purezza; il sacrilegio; il personaggio buono schiacciato dal mondo e dagli altri; l’infezione del male che non risparmia niente e nessuno, ma ovunque miete vittime. L’uomo non ha il cuore di sostenere la grazia e quindi la distrugge: questo vuole dire il Grande Inquisitore a Gesù Cristo, nell’immaginario poema di Ivan Karamazov. Il sangue chiama altro sangue, e così anche il dolore: a tutto questo Raskol’nikov non riesce a resistere, finendo per sprofondare in uno stato di semi-follia e malattia. Il pentimento e la conseguente punizione potranno infine salvarlo dall’auto-distruzione. Ma egli non ci riuscirà da solo: sarà l’amore della giovane e sfortunata Sonja a ricondurlo finalmente fuori dalle tenebre.
Chi invece non riesce a salvarsi è Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin, personaggio attorno al quale è imperniata la vicenda de I Demoni, avvincente romanzo pubblicato nel 1873. Stravrogin è un giovane nobile di provincia, abituato fin da bambino a vivere nell’agio e nella ricchezza, che dopo i primi fervori giovanili si è dato interamente a un’esistenza noiosa e spenta, votata alla dissolutezza e al vizio, condizione che presto sfocerà nella più assoluta indifferenza verso gli altri, il mondo e finanche se stesso. Indifferenza che soprattutto finirà per coincidere col sadismo più cieco e assoluto, e Nicolaj ad un certo punto afferma: «Formulai per la prima volta in vita mia questo severo pensiero dentro di me: che non conosco e non sento né il male né il bene, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno (e ciò mi faceva piacere), e non sono altro che pregiudizi; stava in me l’esser libero da qualsiasi pregiudizio, ma, raggiunta quella libertà, mi sarei perduto». L’uomo completamente libero, dunque, ormai privo di categorie morali, è inevitabilmente portato alla distruzione – come dicevamo prima. Stavrogin infatti sembra quasi emanare un’invisibile aura di depravazione, capace di trascinare anche gli altri verso il male: i «demoni» sono coloro che sono caduti in balia del suo diabolico fascino, della sua sete di abiezione. L’influsso di Stavrogin è paragonabile a un miasma, a una qualche sorta di precipitosa e vorticosa corruzione generale. Entrare in contatto con Stavrogin è dannoso, e chi è stato da lui infettato, contagia poi anche gli altri; per questo la vicenda del romanzo – molto più politica rispetto ad altre trame di Dostoevskij – ruota attorno alla sua figura. Il gruppo di giovani nichilisti, di «demoni» che vuole gettare nel caos la società russa con atti sacrileghi e rivoluzionari, con attentati e omicidi, per distruggerla totalmente e poi rifondarla daccapo secondo i dettami della dottrina socialista, agisce su istigazione di Pëtr Stepanovič Verchovenskij, tra i primi a soccombere al fascino di Stavrogin. Pëtr Stepanovič nutre una vera e propria venerazione, a tratti morbosa, nei confronti di Stavrogin: è grazie a lui che egli è diventato un nichilista menzognero, dissoluto e incredibilmente spregiudicato, ed è in suo onore che vuole distruggere la società e affossare ogni valore esistente, anche a costo di sprofondare in una rete di intrighi, inganni, macchinazioni e omicidi – tutti atti sconvolgenti e violenti, per i quali non proverà mai alcuna vergogna o rimorso. La politica è solo un pretesto per compiere del male. Lo stesso accade, in misura diversa, anche per il nazionalista Šatov o per il nichilista aspirante suicida Kirillov: sono tutti incitati da Stavrogin. L’influsso demoniaco di Stavrogin agisce dunque sugli altri, in senso distruttivo, ma pure sulla sua stessa persona, portandolo all’auto-distruzione. Nikolaj compie atti gratuiti e più o meno terribili (ma sempre lesivi della morale) per il solo gusto di fare del male, e che però a lungo andare lo consumeranno: bacia in pubblico una donna sposata, morde l’orecchio al governatore della provincia, ruba il portafogli a un povero impiegato suo vicino di casa, sposa una donna zoppa per suscitare scandalo in famiglia; arriva persino a far picchiare e poi a stuprare una povera bambina, che dopo continuerà a torturare con i suoi sguardi lascivi e il suo crudele silenzio, fino a condurla ad un disperato suicidio – e qui vediamo ancora una volta l’innocenza travolta dal male. La violenza nei confronti dei bambini ritorna anche nel corso della discussione tra Ivan e Alëša. Per dimostrare ad Alëša l’inesistenza di Dio, o quantomeno l’impossibilità per l’uomo di comprendere e abbracciare Dio, Ivan gli racconta alcuni fatti di cronaca o episodi di guerra particolarmente brutali riguardanti dei bambini, esordendo così : «I bimbi non hanno mangiato nulla e non sono ancora colpevoli di nulla. Ami i bambini Alëša? Lo so che li ami, e capirai perché voglio parlare solo di loro. Se sulla Terra soffrono anch’essi terribilmente è certo per i loro padri, sono puniti per i loro padri che hanno mangiato il frutto proibito: ma questo è un ragionamento dell’altro mondo, incomprensibile per il cuore dell’uomo quaggiù sulla Terra. Non si può far soffrire un innocente a causa di un altro».
È interessante notare, a questo punto, che sia Nikolaj Stavrogin sia Ivan Karamazov soffrono di allucinazioni: entrambi immaginano di vedere il diavolo, malata invenzione delle loro coscienze tormentate. Mentre Ivan cadrà preda della pazzia, Stavrogin deciderà invece di suicidarsi, arrestando in questo modo la catena di morte e dolore innescata dalla sua comparsa nella cittadina. Poco prima di impiccarsi, scrive in una lettera: «Tutto si può discutere senza fine, ma da me non è uscito altro che negazione, senza nessuna generosità e nessuna forza. Ma neppure la negazione è uscita. Tutto è sempre stato meschino e fiacco. […] So che dovrei uccidermi, spazzarmi via dalla terra come un insetto ignobile; ma ho paura del suicidio, perché ho paura di mostrare della generosità. So che sarebbe un altro inganno, l’ultimo inganno in un’infinita serie di inganni»
Nikolaj Stavrogin è forse uno dei personaggi più riusciti di Dostoevskij, sicuramente uno dei più tragici e profondi: è lui il vero protagonista de I Demoni, ed è infatti con il suo suicidio che si conclude il romanzo.
Se «tutto è permesso», l’uomo non è però in grado di sostenere questa mostruosa e sanguinaria libertà, questa smisurata sete di potere: l’assenza di qualsiasi limite lo porta a generare sempre più dolore, in una terrificante spirale di sofferenza che non risparmia niente e nessuno, ma anzi spietatamente travolge tutto e tutti, in primo luogo l’anima di chi cede al male. Se il diavolo è dentro di noi, se il diavolo siamo noi, Dostoevskij ci consiglia di tenere sempre nascosta questa spaventosa presenza, di impedire con ogni mezzo che essa possa emergere e prendere vita: quando il male si scatena, fermarlo può spesso essere impossibile. Una volta sprofondati nelle tenebre, rischieremmo di non poter più tornare alla luce, finendo anzi per smarrirci irrevocabilmente nei meandri torbidi e fangosi delle nostre anime, nel «sottosuolo» che giace dentro le nostre coscienze: un labirinto spinoso e infernale, un oscuro regno di morte e dolore.