Gli oggetti costituiscono anche un legame tra individui e istituzioni sociali volti al funzionamento e al mantenimento dell’ordine collettivo. La stessa penna è il punto di emersioni di fattori che incidono in maniera anonima i cui effetti sono alquanto profondi. L’esercizio della scrittura è, da questa prospettiva, un complesso periodo di apprendimento che passa attraverso la tortura della mano al fine di uniformare un corpo alla comunicazione, tramite la penna, della propria interiorità. Una semplice penna è così un dispositivo attraverso cui si esercita il controllo sociale, si istituisce uno spazio intimo che può, però, essere sempre riportato all’esterno e acquisire un’esistenza pubblica.
L’oggetto è un cristallo. Come tutti i cristalli è il risultato del deposito ordinato di un numero considerevole di relazioni molecolari costituite da una stessa sostanza fino a configurarsi come una concrezione – e la caratteristica dei cristalli consiste nell’essere formati da differenti facce unite tra loro da un certo numero di angoli. A determinare la forma di un cristallo è importante il tipo di sostanza ma, forse, soprattutto anche la dinamica a cui il composto si sottopone. Una stessa sostanza, come ad esempio il carbonio puro, può manifestarsi in due tipi di cristalli differenti: il diamante e la grafite. La differenza consiste nella differente struttura attorno alla quale si depositano le molecole. Così, se la struttura determina la forma dei cristalli e dunque il numero di facce e di angoli che lega ogni faccia, la qualità della sostanza determina invece il suo colore (il solfato di rame per il blu, lo zolfo per il giallo, il nichel per il verde, etc.). Sia esso verde con sei facce o rosso con un numero doppio di lati dipende dal processo attorno a cui il materiale di formazione si sottopone.
Come i cristalli, gli oggetti sono il deposito ordinato di molecole della stessa sostanza sociale che si configura in una serie interminabile di forme che ci circonda quotidianamente. Coltelli, tazze e mobili. Tablet, calcolatrici e automobili. Missili, biciclette e poltrone. Sono tutte configurazioni differenti di un processo di sedimentazione del materiale molecolare che, col tempo, si deposita fino ad assumere configurazioni del tutto differenti tra loro. A differenziare questi oggetti è sicuramente il senso e la direzione della dinamica a cui si sottopone la relazione tra uomini e le forze che via via ne determinano il senso e la direzione della componente sociale si delinea attorno alla cornice fatta di oggetti con cui definiamo la nostra vita contemporanea. L’ordine sociale, la comunicazione, la differenziazione e il potere, sono quelle forze che indirizzano le molecole collettive al raggiungimento della forma di una penna. L’azione sociale, lo status, l’associazione e i ruoli, ne determinano la forma di una scultura. Il bisogno, la distanza, la funzione e il conflitto, si manifestano in recinti di legno, dipinti di bianco, che circondano le villette a schiera.
Come accade nei cristalli, ogni oggetto è il risultato di un processo formativo di natura sociale che si sedimenta nella materia e che si inserisce all’interno delle dinamiche collettive. Ovviamente l’uomo non si limita a creare delle forme oggettuali. Sono infinite le creazioni generate dall’interazione reciproca. Lo stato neoliberista e il mercato capitalistico sono quelle forme collettive oggi al centro della vita di ognuno, e probabilmente quelle che più di altre riescono a condizionare la vita dei singoli individui. Al pari delle istituzioni piccoli o grandi, al pari delle influenze reciproche codificate in maniera più o meno evidente, insieme alle tante creazioni di natura sociale con cui ci sottoponiamo vicendevolmente per garantire la vita collettiva; rispetto a tutte queste possibilità sociologiche si inseriscono gli oggetti come creazioni della vita sociale capaci, come tutte le formazioni dell’uomo, di avere una parte attiva nelle relazioni tra individui.
L’importanza dello studio dei “cristalli della società” porta con sé un discredito storico che tocca le fondamenta della divisione del lavoro sociale del mondo della conoscenza. Una sociologia che si occupasse degli oggetti è stata per troppo tempo vittima della frattura epistemologica tra la scienza dello spirito e quella della natura inaugurata con il Rinascimento e, con essa, la rinuncia a voler vedere nella materia la possibilità di una presenza rilevante all’interno delle dinamiche sociali. Occorrerà aspettare la diffusione del pragmatismo di matrice anglosassone e, a partire dal xix Secolo in poi, un confronto sempre più serrato con la realtà empirica al fine di comprendere il mondo sociale per creare le condizioni per poter legittimare gli oggetti come punto di osservazione dei comportamenti collettivi. Sarà però l’antropologia a vedere per prima negli oggetti un’eccedenza rispetto all’uso pratico e a considerare i manufatti non solo per l’uso e la funzione svolta all’interno delle tribù ma anche una capacità di enucleare significati di carattere rituale o iniziatico. A partire dagli anni ’60, infatti, le conoscenze maturate nelle ricerche etnografiche che riguardano gli oggetti hanno assunto sempre più un corpus teorico autonomo riconoscibile attorno al concetto di “cultura materiale”. Avendo il pregio di considerare la cultura come un “insieme di costumi, valori, credenze, ideali, visioni del mondo e abitudini che caratterizzano e conformano un determinato gruppo sociale”; nella considerazione che la cultura sia pertanto un insieme di elementi per potersi dire parte di un gruppo e di agire in sintonia con esso; a contribuire e a formare tale insieme rientrano a pieno titolo gli oggetti. In questa prospettiva vanno letti, tra gli altri, i lavori pioneristici di Boas e Malinowski, i quali concordano nel reputare gli oggetti come componenti integrati nel più ampio concetto di cultura.
A questo primo tentativo di considerare la stretta connessione tra la materia e la cultura, il lavoro di Leroi-Gourhan, muovendosi sul versante paleoantropologico ed etnologico, mette in luce come il linguaggio e gli oggetti sono strettamente legati alle condizioni morfologiche del corpo dell’uomo. Data la stazione verticale e la liberazione della mano e della lingua abbiamo dato vita allo sviluppo di un mondo tanto segnico quanto materico che ci avvolge lungo tutto il processo di ominazione. L’“utensile per la mano o il linguaggio per la faccia sono due poli di uno stesso dispositivo”. Oggetti e simboli, così, si originano da un’unica radice e tanto la tecnica quanto la cultura s’intrecciano tra di loro. Materia composta di segni o segni dotati di materia “si comportano nel tempo allo stesso modo delle specie vive, in quanto fornite di una forza evolutiva che sembra essere loro propria e che tende a farle sfuggire al controllo dell’uomo”. Per il paleoantropologo francese non si tratta di considerare il “travaso dall’aspetto sociale a quello materiale” quanto piuttosto considerare la presenza di “una corrente a doppio senso in cui l’impulso profondo viene dall’aspetto materiale”.
Con maggiore precisione Sahlins rimarca come la dimensione culturale sia, attraverso i suoi sistemi simbolici, l’aspetto fondativo nella formazione degli oggetti. Il contributo di Sahlins, in contrapposizione con l’antropologia strutturalista e con alcune letture marxiane sul ruolo degli oggetti, consiste nel disarticolare l’idea che gli oggetti possano esistere in funzione di un’utilità pratica e che, invece, la trasformazione della materia (la determinazione della prassi) è “soggetta a una specifica determinazione della cultura”.
I lavori antropologici fin qui citati hanno posto in risalto la determinazione sociale degli oggetti, concentrandosi, tuttavia, sul processo produttivo e su come gli oggetti, all’interno delle cerchie sociali, assumono un ruolo rilevante nella formazione e nel mantenimento della cultura, essendone parte integrante. A partire dalla fine degli anni ’70, tuttavia, data l’inesorabile presenza massiccia di oggetti che ci circonda e la presa d’atto del loro ruolo sempre più preponderante, la prospettiva di studi sulla cultura materiale da una parte incomincia a concentrarsi sempre di più sul consumo degli oggetti e, d’altra, diviene un concetto in espansione capace di influenzare altre discipline, compresa la sociologia. In questo quadro Douglas e Isherwood intendono il consumo degli oggetti come “una funzione essenziale” attraverso cui conferire significato alle cose. Il fatto di scegliere questo o quello oggetto, i motivi che sottendono la formazione di quella barriera materiale con cui agiamo all’interno degli ambienti sociali, è un’azione sociale capace di diventare una “parte integrante dello stesso sistema sociale”. la scelta dei prodotti al supermercato o gli oggetti comprati on-line rispondono al “bisogno sociale di entrare in relazione con altre persone e di disporre di materiale di comunicazione che consentono di entrare in relazione con loro”. Gli oggetti sono dunque “dotati di significati sociali” e, nel loro insieme, vengono utilizzati per comunicare all’interno di una data cerchia sociale.
Miller, dal momento che la cultura è un processo continuo dove è impossibile dividere gli oggetti dai soggetti, considera “insensato analizzare gli oggetti materiali “in se stessi” sganciati dalla società e delle relazioni sociali”. Partendo da riferimenti lontani dall’antropologia, Hegel e Marx – e in particolare i rispettivi concetti di oggettivazione e alienazione – conia il termine “oggettificazione”, mettendo in luce come “la costruzione di un mondo materiale sia strettamente legato e funzionale alla costruzione del mondo sociale e relazionale, e come le relazioni con gli oggetti e i loro significati non siano in alcun modo separabili dalla trama di relazioni che costituiscono ogni società”.
Un ultimo riferimento significativo proveniente dall’area antropologica, e che ha contribuito a dare luce allo studio della cultura materiale, è la raccolta di saggi curata da Appadurai. L’idea che ha animato il libro divenuto ormai celebre – e mai tradotto in Italia – era di dare “una nuova prospettiva alla circolazione degli oggetti nella vita sociale” e di mettere in luce, seguendo lo scambio e le manovre diversive, come si delineano le strategie sia individuali che istituzionali che rendono la creazione del valore un processo mediato politicamente.
A questo insieme compatto di interventi che hanno avuto il pregio di delineare la cultura materiale come punto di emersione della vita sociale attraverso gli oggetti oggi si riuniscono un complesso di discipline diverse tra loro. Alla già citata antropologia, altri contributi provengono dall’archeologia, dall’architettura, dalla storia, dalla semiotica e, non da ultimo, dalla sociologia. Per quanto riguarda la sociologia il punto di contatto con questa area di ricerca riguarda soprattutto la pratica del consumo e i riferimenti classici allo sviluppo della sociologia del consumo sono sicuramente quelli di Veblen e Bourdieu. La prospettiva sociologica vede nella pratica del consumo quotidiano dei beni una complessa sequenza di azioni sociali. Gli oggetti diventano “un’area oggettivata di mediazione simbolica, ‘cultura materiale’, frutto della capacità delle società umane di costruire sistemi simbolici, che sono anche sistemi comunicativi, in grado di interporsi e mediare, attraverso la costruzione e la circolazione dei significati comuni, i rapporti che gli uomini instaurano con se stessi e con l’ambiente che li circonda”. Attraverso il consumo, inteso come tipo di azione più o meno condiviso in una cerchia sociale, gli oggetti sono un pretesto attraverso cui gli individui possono differenziarsi tra loro o riconoscere in un dato comportamento legato al consumo la possibilità di aderire a un gruppo sociale. Nel divenire materia attraverso cui scambiare tra loro continuamente significati e simboli, gli oggetti sono quel supporto attraverso cui agire in un ambiente collettivo e la cultura (materiale) diviene, pertanto, quel meccanismo capace di assicurare l’effettivo funzionamento relazione tra individui.
Studiare sociologicamente un oggetto significa senz’altro fare i conti con quella panoplia di cose che ci circonda. Basta alzare lo sguardo dal supporto su cui queste parole sono state trascritte per contare con un solo colpo d’occhio almeno una decina di oggetti e il numero cresce non appena la visione diventa panoramica. Se ad esempio questo lavoro viene letto al chiuso di una stanza, allora un primo sguardo può catturare un computer, una scrivania, una serie di penne, una libreria, un certo numero di libri e di taccuini, etc.; uno sguardo panoramico, invece, coglie una sedia, un televisore, un interruttore, un mobile, una poltrona, una tenda, una finestra e, fuori, la casa del vicino. Se a questa quantità di oggetti aggiungiamo la variabile del tempo, determinare allora la quantità di oggetti che nel corso della nostra vita si accumula, acquista una proporzione tale che la sua computazione diventa una sfida ardua. Siamo, dunque, circondati da un numero sterminato di oggetti. Questa relazione tra noi e gli oggetti è, d’altra parte, contenuta nella stessa radice etimologica. La parola “oggetto”, infatti, deriva dal latino medievale obiĕctu(m), il participio passato del verbo obĭcere che significa “lanciare (iăcere) contro (ŏb-)”. Nella parola è contenuta l’idea di una presenza che si pone dinnanzi a noi e, come tale, impone una sfida in quanto si contrappone alla volontà dell’essere. Questo confronto, scrive Bodei, si “conclude con una definitiva sopraffazione dell’oggetto, il quale, dopo questo agone, viene reso disponibile al possesso e alla manipolazione da parte del soggetto”. Tale sfida indica, pertanto, la presenza di due poli contrapposti. Da una parte ci siamo noi contraddistinti da un insieme di regole sociali capaci di dar senso e forma alle interazioni tra individui. Dall’altra ci sono gli oggetti che si sottopongono al processo formativo umano – in quanto sono nostre creature – e alle nostre esigenze che scaturiscono dall’influenza reciproca – in quanto materia con cui creare una cultura condivisa. Questa relazione tra gli uomini e gli oggetti è stata sempre sottomessa alla pretesa, da parte dei soggetti, di esercitare un dominio sugli oggetti e, in un modo o nell’altro, la sfida imposta dalla loro presenza postaci di fronte al nostro apparato percettivo si è sempre risolta con la vittoria del soggetto sull’oggetto. La nostra coesistenza pacifica è stata condizionata dalla possibilità – o dall’illusione – che, in quanto nostre creature, su di essi si potesse sempre rivendicare la possibilità di sottometterli alle nostre condizioni.
La comparsa di nuovi oggetti però spesso ha la capacità di ridisegnare il modo di fare esperienza dell’ambiente circostante e ne decide il senso e la direzione da dare alla relazione con gli altri individui che stanno attorno a noi. In molti casi gli oggetti hanno la capacità di innestarsi con l’organico e di trasformare il modo di percepire quanto di circonda e, di conseguenza, di agire adeguatamente. In altri, invece, è prescritto il rito collettivo per essere consumati e, come tali, hanno in sé la capacità di ridurre le particolarità presenti in ognuno di noi e di uniformare le singolarità attorno a un unico aggregato, seppur temporaneo. Come giustamente sostiene Semprini, “esistono casi in cui l’apparizione di un oggetto, o addirittura di una nuova tecnologia, stimola il cambiamento, provoca una rottura degli equilibri sociali e dell’ordine simbolico”. Gli oggetti, al pari di tutte le altre formazioni sociali, assumono un proprio valore specifico e una capacità di piegare la rete di relazioni, di influenzarne le dinamiche, di essere fattore determinante del mutamento sociale e storico. Data la loro capacità di condizionare sia aspetti materiali che hanno a che fare con la nostra corporeità oppure le dinamiche invisibili che ci legano l’un con l’altro, la domanda da porsi oggi è: cosa succede se gli oggetti acquisiscono una loro autonomia di azione? Come può il soggetto esercitare la sua pretesa di dominio non appena tra gli oggetti si determinano canali di comunicazioni che non interrogano neanche più direttamente l’umano?
Questi interrogativi diventano sempre più stringenti dal momento che ci troviamo in contatto con oggetti che agiscono, in maniera spesso raffinata, all’interno della rete di relazioni della vita quotidiana. La comparsa – non solo come possibilità tecnologica ma come bene di consumo acquistabile in qualsiasi sito e-commerce o centro commerciale – di smart objects rappresenta in maniera sempre più stringente lo scenario verso cui volgere lo sguardo e indirizzare la propria attenzione e nuovi interrogativi. Questi oggetti, infatti, grazie allo sviluppo della tecnologia delle telecomunicazioni (ICT), sono in grado di scambiarsi informazioni tra loro grazie a una rete di trasmissione (Internet of Things) senza coinvolgere direttamente l’utente e provocando degli effetti nell’ambiente circostante con cui noi dobbiamo comunque relazionarci. Telecamere, occhiali, orologi, lavatrici, scarpe, materassi, ombrelli, tapparelle e, non da ultimo, smartphone e tablet, sono solo alcuni di questi oggetti “intelligenti” presenti attorno a noi, posti accanto a noi e, spesso, nascosti al nostro sguardo, in grado di attivare, in maniera del tutto silente, una serie di sequenze con cui alterare l’ambiente in cui ci troviamo. Dotati di sensori, sono in grado di captare informazioni prodotte dalle interazioni sociali e di trasmetterle, grazie a una elaborazione – e quindi a una codifica con cui digitalizzare i dati e renderli universali per gli altri oggetti –, nella rete degli oggetti. Queste informazioni digitalizzate costituiscono il foraggiamento per questi nuovi oggetti. Captando il segnale innescano una serie di sequenze in grado di condizionare la nostra (re)azione.
Ci troviamo così dinnanzi a una nuova generazione di oggetti che supera la possibilità di poterli pensare come materia capace di contenere delle regole prescritte dall’uomo. L’uso degli algoritmi li rende delle presenze capaci di agire e dunque difficili da domare. Grazie al machine learning, infatti, oggi sono in grado di sviluppare nuove azioni non previste dal suo creatore. Avendo sviluppato una capacità adattiva rispetto all’ambiente circostante, gli oggetti immagazzinano informazioni dalle più diverse situazioni contingenti e si inseriscono in maniera del tutto discreta e senza grossi traumi nella multiformità dei contesti sociali e nella ricchezza delle pratiche culturali (ubiquitous computing), inaugurando una nuova fase del pervasive computing. Si tratta di un salto di paradigma che costringe il pensiero ad armarsi dinnanzi a questi nuovi attori sociali.
Alle relazioni tra uomini e alla relazione tra uomini e oggetti, s’impone oggi la relazione tra oggetti da cui scaturiscono nuove forme di condizionamento del comportamento sociale del tutto innovative che incidono tanto sulla superficie della nostra esistenza quanto sulla nostra profondità antropologica. Questa nuova generazione di oggetti con cui fare i conti, dunque, basta a riscattare la necessità sociologica di studiare le nuove formazioni sociali dotate di materia, i nuovi cristalli che s’impongono sotto i nostri occhi.
Per far fronte alla complessità e alle tensioni contenute negli oggetti si è scelto di volgere l’attenzione verso il passato e recuperare alcune lenti con cui affinare lo sguardo sociologico. Gli interrogativi posti dagli oggetti sono il legame che lega qui gli autori trattati e il contributo proposto è senz’altro plurale. Pur non essendo da loro mai tematizzata esplicitamente, la questione posta dal variegato mondo degli oggetti che ci circonda è un rivolo che attraversa l’opera di Simmel, di Benjamin, di Gehlen e di Baudrillard. […]
Con Simmel è stato possibile definire come e in che misura gli oggetti possono dirsi parte della società. Tale definizione consente nel chiarire meglio il ruolo che gli oggetti svolgono nella dinamica sociale. Pertanto essi possono essere visti come nodi della complessa rete in cui noi stessi agiamo e in quanto tale diventano dei fenomeni sociologicamente degni d’interesse.
Definiti gli aspetti gnoseologici e ontologici della dimensione sociale degli oggetti, il “pensiero visivo” di Simmel ha anche il pregio di considerare la superficie della forma come il pretesto per connettere l’apparenza con la profondità. Ogni oggetto è un punto da cui si diramano infinite relazioni possibili con il mondo esterno della vita associata e, pertanto, il suo è uno studio che prende in considerazione “l’ampiezza dei rapporti simbolici”. La sua prospettiva estetica altro non è che un tentativo di disvelare la complessità di relazioni che si determinano tra noi e gli oggetti. Solo a partire da tale ricchezza si può dunque risalire al ruolo specifico che essi svolgono e alla dinamica in cui essi sono inseriti. Tale ricchezza si differenzia sulla base della specificità della forma che caratterizza ognuno degli oggetti che di volta in volta sono presi in esame ed è proprio lo studio attento delle loro caratteristiche morfologiche a mettere in luce la modalità con cui essi partecipano alla dinamica dell’associarsi.
Tuttavia la vicenda della forma si fa tutt’uno con le problematiche della modernità e gli oggetti diventano possibili tracce rilasciate da un’ambiente che “eccita l’individuo alle massime prestazioni nervose”. Davanti a un’epoca caratterizzata dalla convivenza di stili e di forme riunite in un’unica condizione dell’esperienza, gli oggetti sono costretti a sperimentare una nuova dimensione per poter sopravvivere all’affollamento di cose sempre a disposizione dell’individuo moderno. Non si tratta più, infatti, di ritrovarsi circondati da oggetti utili. A forme che devono rispondere alle esigenze pratiche occorre considerare quelle in grado di accordare un certo aspetto esteriore attraverso cui potersi differenziare dalla massa di oggetti prodotti. Gli oggetti moderni si ritrovano dunque rigettati in una grande massa che li riunisce in un unico aggregato sempre disponibile e verso cui si sviluppa l’esigenza di dover emergere ed essere considerati unici.
Rispetto a un’epoca considerata come pura energia e da cui si innesca quel movimento al cui avanzare dissolve ogni consistenza, davanti a una modernità così intesa vi è un oggetto che emerge sugli altri: il denaro. Grazie a questo meta-oggetto (poiché gli elementi che lo compongono gli conferiscono poteri che oltrepassano la fisicità della materia) è possibile accedere, almeno potenzialmente, a tutti gli oggetti esistenti ed è per via di questo oggetto-tra-gli-oggetti che ci si orienta in un universo frammentato fatto di oggetti diversi tra loro – e, spesso, senza che ci sia una coerenza tra la pluralità di forme che ci circonda. Il denaro è quella forma tra le forme, è il cristallo dei cristalli. Come tale “funge da cerniera di questo organismo; rende i suoi elementi reciprocamente sostituibili, stabilisce un rapporto di dipendenza reciproca e di continuità tra tutti gli impulsi”.
Alcuni motivi simmeliani riecheggiano sicuramente nell’opera di Benjamin ma con una direzione inedita. L’attenzione è rivolta, come in Simmel, al frammento e alle dinamiche della vita quotidiana ma è del tutto orientata verso la lettura delle trame del tessuto della storia da cui si origina la modernità e la produzione industriale degli oggetti. Ogni oggetto, ma più in generale tutti i fenomeni analizzati da Benjamin, diventano una monade in cui si addensano elementi provenienti da punti differenti della storia e che si riuniscono attorno a un unico contesto di senso. Un semplice oggetto diventa l’addensarsi di elementi che provengono tanto dal futuro quanto da luoghi arcaici. Merci e decorazioni d’interni, il vetro e il ferro, i passages parigini e le esposizioni universali, sono campi di tensione entro cui la modernità esercita i propri effetti, manifesta tutte le contraddizioni e mostra il proprio volto contorto. Gli oggetti si presentano come il materiale con cui edificare una costellazione capace di riportare alla luce l’esperienza fatta dalla società del xix secolo con il capitalismo moderno. Quello di Benjamin è uno sguardo orientato a scovare “nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale”.
Se c’è però un aspetto che caratterizza gli oggetti della modernità è il fatto di essere delle merci e in questa veste appare sin da subito chiaro come nel cristallo della modernità vi è una forza che eccede la dimensione economica. La materia diventa un punto da cui si diramano poteri metafisici e, dalle prime vetrine, attraverso la disattenta contemplazione della folla che consuma le metropoli, l’esperienza con gli oggetti diventa di tipo ottico e, dunque, fantasmagorica. Questa è anche l’epoca della prima esperienza con una moda che si rivolge alla massa e che diventa un grande dispositivo sociale attraverso cui viene prescritto “il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce”. L’oggetto-merce diventa il nuovo feticcio da adorare collettivamente.
Per Benjamin si tratta dunque di scavare nella materia degli oggetti al punto da far emergere come questi trasformino il modo con cui facciamo esperienza del mondo. I fiammiferi, il telefono, la macchina fotografica e la cinepresa; tutti questi piccoli frammenti della vita quotidiana si rimandano l’un l’altro al punto da formare un ambiente tecnico capace di condizionare i movimenti più microscopici della vita quotidiana. Questo complesso tecnico contribuisce a definire quello che Benjamin chiama il “medium della percezione”, ossia “il modo e la maniera in cui si organizza la percezione sensoriale umana”. Gli oggetti, dunque, sembrerebbero influenzare “il milieu sensoriale” e in questo spazio circoscritto dai cristalli occorre interrogare il mondo che ci circonda, fatto sicuramente di insidie ma anche di sfide che, almeno in potenza, possono sempre essere vinte.
Attraverso Gehlen la ricerca sui cristalli della società si dilata al punto da prendere in considerazione la nostra specificità antropologica. Partendo dalla premessa che qualsiasi ricerca di questo autore, esponente influente dell’antropologia filosofica tedesca, è un continuo ruotare attorno a una domanda fondamentale: “cos’è l’uomo?”; riflettere sugli oggetti, attraverso la sua opera, significa qui specularmente porre la stessa domanda sulla specificità antropologica. Questo rende una selce scheggiata e l’oggetto digitale il risultato di un unico movimento che si manifesta tanto nell’oggetto arcaico quanto nell’ultimo ritrovato della tecnologia digitale. Un qualsiasi oggetto che ci circonda diventa quel cristallo capace di racchiude dentro di sé la dimensione biologica, sociale, psicologica, simbolica, etc., e il mondo di cose che ci circonda è il riflesso della ricchezza che ci caratterizza come specie vivente.
Certo l’immagine dell’uomo formulata da Gehlen non consola. Confrontato con altre specie viventi, l’essere umano è organicamente inadatto a vivere in un ambiente specifico. Per sopravvivere, tuttavia, l’uomo è quell’essere che agisce al fine di potersi conservare in vita. Il tipo di azione con cui l’uomo modifica il contesto in cui si trova è di tipo tecnico. L’azione tecnica è quella radice da cui l’uomo trae tutta la linfa vitale con cui creare gli oggetti utili per affrontare quell’onere che gli deriva dalla sua condizione biologica particolare. Seguendo Gehlen, parlare di azione tecnica significa specularmente parlare di oggetti. Tecnica e oggetti sono inscindibili. Si potrebbe affermare che quest’ultimi sono l’affioramento tangibile del tentativo esasperato di un essere che agisce tecnicamente.
La nostra specie, però, non è solo inadatta e, dunque, costretta a utilizzare la tecnica per sopravvivere. Rispetto agli altri esseri viventi, siamo anche dotati di una capacità creativa ed è questa specificità antropologica ad animare tanto la creazione di oggetti quanto quella delle formazioni sociali. Nell’essere dotati di immaginazione – lì dove per immaginazione s’intende “la capacità di un organismo di incorporare gli stati che attraversa, di raffigurarli al suo interno, allo scopo di potersi comportare “in futuro” in base a esperienze o a stati pregressi” – creiamo protesi oggettuali e collettive e affrontiamo le intemperie che ci circondano. In Gehlen, pertanto, gli oggetti e la società si fanno un tutt’uno.
Con la modernità il rapporto tra gli oggetti e la società assume una inedita configurazione. Nel vivere in un’epoca in cui si assiste a una compenetrazione salda tra la tecnica, il pensiero analitico e la produzione capitalistica, il risultato è la creazione di un ambiente condizionato ai limiti imposti dal mondo degli oggetti. Il complesso dei cristalli che ci circonda diventa una megastruttura rispetto alla quale le singole vite sono costrette al semplice adattamento. Rispetto allo scenario apocalittico, la soluzione è riposta nel maggior responsabile di questo stato di cose. L’uomo, infatti, essendo quell’essere tecnico in grado, grazie all’immaginazione, di sospingere sé stesso e la propria collettività in territori nuovi, grazie alla sua plasticità potrà ritrovare quel rivolo scavato nel cuore del grande apparato tecnico e risalire la corrente della storia, cercando proprio nei riflessi del cristallo la soluzione per il dilemma della nostra epoca.
Baudrillard, infine, concentra le sue riflessioni sulla società dei consumi. Ogni oggetto appare qui come un segno e, attraverso una serie di rimandi, ognuno di essi acquista un preciso significato non in virtù di questo o quel bisogno, bensì sulla base di un sistema costituito dalla relazione tra questi segni del tutto arbitrari rispetto alle esigenze primarie. A una concezione passiva dei consumi – il consumo inteso come soddisfazione dei bisogni –, Baudrillard ne contrappone una attiva. Attraverso il consumo, infatti, si scambiano segni al fine di diventare parte della collettività. Il consumo degli oggetti diventa una pratica attraverso cui si realizza concretamente l’azione collettiva e tramite cui i singoli individui, differenziandosi e manifestando la propria identità, entrano a far parte di una determinata cerchia sociale.
Con la società dei consumi, d’altra parte, gli oggetti sono testimoni di una liberazione fondamentale rispetto all’ordine simbolico e alla serie di obbligazioni dettate dalla relazione tra i membri di uno stesso gruppo sociale. Agli oggetti non rimane altro che la loro funzione e agli individui, grazie all’imprescindibile componente irrazionale, rimane invece il compito di assicurare una continuità tra le differenti funzioni determinate dalla razionalità tecnologica. L’essenzialità della produzione industriale è così riunita dall’irrazionalismo del consumatore che, secondo i propri desideri e il proprio status sociale, crea costantemente insiemi coerenti di oggetti. Gli oggetti contemporanei, per quanto tecnologicamente avanzati, sono soggetti alla fascinazione antropologica e per quanto perfetta possa essere la progettazione industriale, questa sarà sempre soggetta alle dinamiche del consumo quotidiano animate da un mondo fatto di fantasia e desideri. Ai margini di questa condizione di esistenza, emergono una serie di oggetti caratterizzati dall’esistenza superflua e, spesso, inutile, ma che testimoniano l’esistenza sociale cristallizzata nella materia.
A partire da questa condizione di esistenza si assiste, tuttavia, alla determinazione di modelli che s’impongono rispetto alla pluralità di casi esistenti nella vita e che precedono dunque la pluralità di oggetti presenti. Ogni termine, così come ogni oggetto, in quanto modulazione di un unico modello, può potenzialmente essere commutato con un altro in maniera del tutto indifferente. Così la distinzione tra oggetti differenti si basa sulla semplice “modulazione di differenze” che si formulano nella progettazione dei modelli che ne definiscono il codice per poter esistere nella vita associata.
Si tratta, per Baudrillard, di vivere nell’era della simulazione e in cui gli oggetti sono concepiti a partire della possibilità tecnica di essere riprodotti in serie. In questa indistinzione, dove ogni differenza è risultato di un codice generativo, si disperde qualsiasi ipotesi di origine tra due termini. Il risultato profondo di questa dispersione, frutto della “precessione dei simulacri”, è la fine del soggetto e, con essa, di una riconfigurazione della relazione tra noi e gli oggetti. Allo splendore del soggetto capace di plasmare la storia e di relegare gli oggetti in una condizione di miseria; al venir meno dell’origine degli oggetti si contrappone una relazione del tutto ribaltata dalla supremazia di un oggetto che s’impone come ente in grado di sedurre il soggetto e di valere per come è e per come si presenta. Tutta la pretesa di sovranità che si riflette sull’oggetto si infrange in questo gioco di riflessi, diventando un’esca per l’oggetto.
Si comprende come, dalla lettura di questi quattro autori, le affermazioni sugli oggetti rischiano di sovrapporsi e, magari, di confliggere tra loro. Tuttavia vi è qui la profonda convinzione che sia proprio la natura dei cristalli a essere molteplice, a racchiudere pluralità di vedute, a legittimare questa mancata visione unitaria. I cristalli hanno tante facce e, dunque, è radicata nella natura degli oggetti la possibilità di questa ricchezza.
Rimangano dunque queste presenze multiformi e un fascino. Il fascino dell’uomo per i cristalli deriva probabilmente dalla capacità di manifestarsi a un solo colpo d’occhio come il risultato limpido e immediato di un lungo processo di formazione invisibile. Anonimi movimenti che si mostrano nell’immediato, segrete forze che colpiscono la vista, improbabili combinazioni che si manifestano nell’unico istante dell’apparire. Il cristallo ha il pregio di manifestarsi in maniera limpida e spesso trasparente. Come risultato del processo di cristallizzazione, l’andamento magmatico si fissa in una forma rigida ed è così che i movimenti di sostanze liquide o gassose assumono una conformazione definitiva. Gli oggetti, come i cristalli, possono provocare agli occhi della sociologia la stessa fascinazione nella misura in cui hanno la capacità di mostrarsi come fenomeno concreto – in quanto dotato di materia – dei processi sociali in essi racchiusi. In ogni oggetto troviamo una tale ricchezza della dinamica molecolare di natura sociale che urla l’esigenza di essere letta e studiata. Questo fascino attira lo sguardo, cattura l’attenzione e proietta il pensiero nelle profondità della vita sociale. Gli oggetti sono la pelle della vita associata, la superficie di dinamiche invisibili. Si tratta pertanto di venire a patti con una profondità della superficie, con il senso profondo della manifestazione della società attraverso gli oggetti.
ANTONIO TRAMONTANA È SOCIOLOGO E PHD IN ANTROPOLOGIA E STUDI STORICO-LINGUISTICI. SI OCCUPA DELLE FORME ESPRESSIVE DEL MUTAMENTO SOCIALE SECONDO DUE DIRETTRICI: LA TEORIA SOCIALE E L’IMMAGINARIO COLLETTIVO. I TEMI DI RICERCA SU CUI HA PUBBLICATO E PARTECIPATO A CONVEGNI SCIENTIFICI E INTERNAZIONALI HANNO AVUTO COME OGGETTO: LA TECNOLOGIA DIGITALE, GLI OGGETTI, LA CHIRURGIA ESTETICA, LA PAURA, IL TERRORISMO, IL MISTERO, LA FATALITÀ, IL MALE E IL GIOCO. È FONDATORE E COORDINATORE DELLA RIVISTA “IM@GO. A JOURNAL OF THE SOCIAL IMAGINARY”, DELLA SEZIONE “IMMAGINARIO” PRESSO L’ASSOCIAZIONE ITALIANA DI SOCIOLOGIA (AIS), E DEL CENTRO DI RICERCA SULL’IMMAGINARIO MEDIALE (CRIM) PRESSO L’UNIVERSITÀ DI MESSINA. RECENTEMENTE HA CURATO CON MARIO TIRINO I RIFLESSI DI BLACK MIRROR. GLOSSARIO SU IMMAGINARI, CULTURE E MEDIA DELLA SOCIETÀ DIGITALE (2018).
Questo testo è tratto da “I cristalli della società” di Antonio Tramontana. Ringraziamo Meltemiper la gentile concessione,
di Antonio Tramontana
https://www.indiscreto.org/come-gli-oggetti-definiscono-le-nostre-vite/?fbclid=IwAR3qiR-uoP8sojJKyPPMdJ7wI1Gpg7mAhqHrU47v7fBzfAV-PD3m33cDzGY