Emile Zolà
La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l’ultima pietra dell’ultima chiesa non sarà caduta sull’ultimo prete.
Emile Zola
Fino a tanto che avrete qualche cosa di vostro, e che il vostro livore contro il borghese non proverrà da altro che dal vostro rabbioso bisogno d'essere borghesi a vostra volta, non sarete degni mai della felicità.
Émile Zola - "Germinal"
« In certi momenti lui era perfettamente conscio di quella incrinatura ereditaria […]In tal modo gli si era formato il convincimento che pagava per gli altri, i padri, gli avi che avevano bevuto, le generazioni di ubriaconi dalle quali aveva ereditato il sangue malato[…]La testa gli rintronava per lo sforzo, non riusciva a darsi una risposta, pensava di essere troppo ignorante, con quel cervello troppo ottenebrato in quell’angoscia d’uomo spinto a compiere atti al di fuori della propria volontà, la cui radice s’era dissolta in lui. »
(Emile Zola, La bestia umana, Fabbri, Milano 1976, traduz. Francesco Francavilla, pp. 63-65)
L'angelo del male (La Bête humaine) è un film diretto nel 1938 dal regista Jean Renoir.
“J'accuse”
...Accuso il generale Marcire di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di essersi reso colpevole del crimine
di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso.
Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine.
Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia..
Accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio.
Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto.
Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che
punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo.
Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità,
spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome
dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto.
Aspetto
Vogliate gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.»
Emile Zola
...Accuso il generale Marcire di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di essersi reso colpevole del crimine
di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso.
Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine.
Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia..
Accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio.
Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto.
Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che
punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo.
Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità,
spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome
dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto.
Aspetto
Vogliate gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.»
Emile Zola
"La terre (1887) è il quindicesimo volume della saga dei Rougon-Macquart, storia di una famiglia francese nei suoi diversi rami attraverso quattro generazioni, narrata da Emile Zola (1840-1902). A mio parere è il più duro di tutti i suoi libri, più duro di La bestia umana, più duro di Teresa Raquin. L'intreccio, o meglio l'amalgama, tra legami di sangue, sesso, soldi, possesso della terra, ignoranza di sé e delle proprie passioni dà luogo a un quadro cupo, ottuso, pesante, illuminato però e reso affascinante dall'intelligenza e dalla pietà dell'autore".
L'assommoir (1876-77) è il settimo volume della saga dei Rougon-Macquart, storia di una famiglia francese nei suoi diversi rami attraverso quattro generazioni, e fu definito da Zola (1840-1902) il più casto fra tutti i suoi libri. Anche a me sembra così, infatti narra il fiorire di un amore puro, riservato e gentile nell'animo di una donna pur depravata per l'alcool e la miseria. Eppure fu accolto come pornografia.
Il romanzo che lo rivelò al grosso pubblico. Un enorme sforzo di ben 20 romanzi sulla famiglia Rougon-Macquart, una gigantesca epopea che non poteva che scuotere le coscienze,visto il periodo storico. Zola, con l 'affare Dreyfus, non solo prese viva parte al processo in difesa dell'accusato, ma in questo modo aggiunse alle polemiche letterarie anche quelle politiche e sociali.
La conclusione delle sue riflessioni era sempre la stessa:L'assommoir (1876-77) è il settimo volume della saga dei Rougon-Macquart, storia di una famiglia francese nei suoi diversi rami attraverso quattro generazioni, e fu definito da Zola (1840-1902) il più casto fra tutti i suoi libri. Anche a me sembra così, infatti narra il fiorire di un amore puro, riservato e gentile nell'animo di una donna pur depravata per l'alcool e la miseria. Eppure fu accolto come pornografia.
Il romanzo che lo rivelò al grosso pubblico. Un enorme sforzo di ben 20 romanzi sulla famiglia Rougon-Macquart, una gigantesca epopea che non poteva che scuotere le coscienze,visto il periodo storico. Zola, con l 'affare Dreyfus, non solo prese viva parte al processo in difesa dell'accusato, ma in questo modo aggiunse alle polemiche letterarie anche quelle politiche e sociali.
la felicità suprema consiste nel non far niente.
Emile Zola
Zola non era certo ozioso....Ha comprato una cabane à lapins e ne ha fatto una dimora principesca visitatissima (Médan), passava la mattina con la moglie Alexandrine e il pomeriggio con l'amante Jeanne e i due figli avuti da lei, ha scritto senza risparmiarsi, fu fermato soltanto dal suo assassino. [...] La fonte è "Maisons d'écrivains et d'artistes - Paris et ses alentours" (Parigramme); anche qui, l'omicidio è solo sospettato e mai chiarito, per quanto riguarda la vita privata, la "bigamia" di Zola è data per certa (ci sono anche bellissime fotografie a corredo).
Emile Zola, Teresa Raquin (Thérèse Raquin)
Romanzo che narra la storia della giovane Teresa, che spende la vita nella merceria della zia e si sposa in un matrimonio infelice con Camillo, il cugino malaticcio. Gli equilibri vengono sconvolti con l'arrivo di Lorenzo, pittore perdigiorno ed amico di Camillo. Teresa e Lorenzo si innamoreranno
CAPITOLO XVIII
“[…]Laurent, dotato di un temperamento più solido, pur cedendo ai suoi terrori e ai suoi desideri sentiva le ragioni della sua risoluzione. Per provarsi che il suo matrimonio era necessario e che avrebbe finalmente potuto vivere in una perfetta felicità, per dissipare i vaghi timori che lo afferravano, rifaceva tutti i suoi calcoli di un tempo. Dato che suo padre, il contadino di Jeufosse, non voleva saperne di morire, si diceva che l'eredità avrebbe potuto farsi attendere a lungo; temeva perfino che quell'eredità gli sfuggisse di mano e andasse a finire nelle tasche di un suo cugino, un ragazzone robusto che zappava la terra con grande soddisfazione del vecchio Laurent. E lui sarebbe rimasto per sempre povero, avrebbe vissuto senza una moglie, in una soffitta, dormendo male e mangiando anche peggio. D'ALTRA PARTE CONTAVA DI NON LAVORARE PER TUTTA LA VITA; COMINCIAVA AD ANNOIARSI SINGOLARMENTE NEL SUO UFFICIO; L'AGEVOLE MANSIONE CHE GLI ERA AFFIDATA DIVENIVA OPPRIMENTE PER LA SUA PIGRIZIA. IL RISULTATO DELLO SUE RIFLESSIONI ERA SEMPRE CHE LA SUPREMA FELICITÀ CONSISTE NEL NON FAR NIENTE. Allora rammentava che aveva annegato Carolile per sposare Thérèse e non fare più niente in seguito. Certo, il desiderio di avere soltanto per sé la sua amante aveva avuto una grande importanza nel progetto del delitto, ma lui era stato spinto all'omicidio forse ancor più dalla speranza di prendere il posto di Camille, di farsi curare come lui, di assaporare una perenne beatitudine; se l'avesse spinto soltanto la passione, non avrebbe mostrato tanta viltà, tanta prudenza; la verità era che, con un omicidio, aveva cercato di assicurarsi la calma e l'ozio della sua vita a venire, l'appagamento durevole dei suoi appetiti. Tutti questi pensieri, confessati o inconsapevoli, gli tornavano nella mente. Si ripeteva, per incoraggiarsi, che era tempo di trarre l'atteso profitto dalla morte di Camille. E si prospettava i vantaggi, le gioie della sua esistenza futura: avrebbe lasciato il suo impiego, avrebbe vissuto in una deliziosa pigrizia; avrebbe mangiato, bevuto, dormito a sazietà; avrebbe avuto costantemente a disposizione una donna ardente che avrebbe ristabilito l'equilibrio del suo sangue e dei suoi nervi; presto avrebbe ereditato gli oltre quarantamila franchi della signora Raquin, giacché la povera vecchia si consumava ogni giorno di più; insomma, si sarebbe creato una vita beata di bruto, avrebbe dimenticato tutto. Da quando era staio segretamente deciso il matrimonio tra lui e Thérèse. Laurent si ripeteva queste cose ogni minuto; cercava di scoprire ulteriori vantaggi, ed era raggiante quando credeva di aver trovato un nuovo argomento, attinto nel suo egoismo, che lo induceva a sposare la vedova dell'annegato. Ma per quanto si costringesse alla speranza, per quanto sognasse un futuro grasso di pigrizia e di voluttà, sentiva sempre bruschi brividi raggelargli la pelle, provava sempre, a tratti, un'ansia che soffocava la gioia nel suo petto”.
Zola è il "maestro" della scuola naturalista che nasce in Francia verso il 1880.
L'intento principale di questa scuola era quello di rendere il romanzo una specie di laboratorio scientifico in cui analizzare i comportamenti dei personaggi, a seconda dell'influenza che su di loro avevano l'ambiente e l'ereditarietà. Per realizzare questo romanzo sperimentale, il narratore doveva essere distaccato ed esterno alla narrazione come può esserlo un analista nei confronti degli elementi chimici che manipola in un laboratorio. [...]
Un tema molto evidente nel romanzo, che emerge fin dall'inizio, è quello del problema sociale della lotta di classe, problema che ha sempre preoccupato Zola. Già il titolo si richiama esplicitamente ad una delle rivoluzioni politiche e sociali più importanti della storia, la rivoluzione francese del 1789, ma questo tema è ripreso anche da altri elementi nel testo. Del personaggio descritto nel secondo paragrafo ci viene detto molto poco, se non per sottolineare la sua condizione sociale (povera). E' interessante notare come la sua descrizione sia generalmente vaga (non sappiamo né come si chiami, né che aspetto fisico abbia), mentre subito ci viene detto che si tratta di un operaio disoccupato. Il paesaggio infine, con la sua povertà e ostilità, preannuncia il tipo di ambiente che troviamo poi in tutto il romanzo.
Emile Zola, Germinale.
"Nella rasa pianura, sotto la notte senza stelle, scura e spessa come l'inchiostro, un uomo solo seguiva lo stradone che andava da Marchienne a Montsou, dieci chilometri di selciato diritto che tagliava un campo di barbabietole. Davanti a sé, non vedeva neanche la terra nera, e soltanto i soffi del vento di marzo, dalle raffiche ampie come in pieno mare, gelide per aver spazzato intere leghe di paludi e terre nude, gli dava la sensazione dell'immenso orizzonte piatto. Nessuna ombra di albero si stagliava sul cielo, il selciato si stendeva con la precisione di una gettata, in mezzo all'oscurità accecante delle tenebre.
L'uomo era partito da Marchienne verso le due. Camminava a passi ampi, tremando sotto il cotone sottile della sua giacca e del suo pantalone di velluto. Un pacchettino, annodato in un fazzoletto a quadri, gli dava molto fastidio; e lo stringeva contro i suoi fianchi, talvolta con un gomito, talatra con l'altro, per far scivolare in fondo alle tasche entrambe le mani, delle mani rosse che le lamine del vento facevano sanguinare. Un'unica idea occupava la sua testa vuota di operaio senza lavoro e senza alloggio, la speranza che il freddo sarebbe stato meno intenso dopo il sorgere del giorno. Da un'ora camminava così, quando sulla sinistra, a due chilometri da Montsou, scorse dei fuochi rossi, tre bracieri brucianti all'aria aperta, e come sospesi. Inizialmente esitò, preso dalla paura; poi, non poté resistere al bisogno doloroso di scaldarsi un po' le mani".
https://www.letteratour.it/analisi/A02_zola_germinale.asp
Germinale è probabilmente il più celebre romanzo dello scrittore naturalista francese Émile
Zola (1840-1902). Per la trama del suo lavoro, l’autore si ispirò alle proteste operaie
verificatesi nel giugno e nell’ottobre 1869 nel dipartimento della Loira e in quello dell’Aveyron
(nella Francia meridionale). In entrambi i casi, lo sciopero dei minatori venne
schiacciato dall’esercito, che sparò sui lavoratori provocando, nel complesso, 27 morti.
La miniera che fa da sfondo a Germinale (chiamata «il Voreux») impiega centinaia di operai,
che vivono in miseri sobborghi situati vicino agli impianti di estrazione. Qui arriva,
in cerca di lavoro, Stefano Lantier, che viene assunto come manovale e si rende ben presto
conto delle difficoltà dei minatori, costretti a vivere in alloggi sovraffollati e a sopportare
micidiali turni di lavoro in miniera.
Stefano, rispetto agli altri minatori, è tuttavia decisamente
più colto e più politicizzato.
Pertanto, riesce a convincere un gran numero di
suoi compagni dapprima ad aderire alla neonata Internazionale, e poi a entrare in sciopero,
allorché la Compagnia mineraria diminuisce il loro salario. Lo sciopero diventa l’occasione
per sfogare tutta la rabbia accumulata dagli operai in tanti anni di sfruttamento
e di oppressione. Così, di fronte al prolungarsi del blocco delle estrazioni, interviene l’esercito,
che fa fuoco sui minatori e ne fa strage.
La tragedia dei minatori, però, non è affatto conclusa. Infatti, approfittando della situazione,
il giovane anarchico russo Souvarine mette in atto il suo piano di distruzione
degli impianti minerari, del tutto incurante della vita dei minatori che potrebbero rimanere
uccisi a causa della sua azione terroristica. Souvarine incarna l’anarchismo nella sua
versione a un tempo più utopistica e più radicale. Poiché il suo obiettivo è quello di ricominciare
la storia umana da capo, da zero, lo spargimento di sangue (di tanto sangue,
se necessario!) è il prezzo inevitabile per la rinascita e la rigenerazione dell’umanità.
Inutilmente, Stefano aveva contrapposto a questa visione lucida quanto terrificante il
gradualismo marxista, disposto sì (al momento culminante della storia) a portare il decisivo
scossone rivoluzionario alla borghesia, ma nel contempo preoccupato, nell’immediato, di
salvaguardare la vita dei lavoratori, guardati invece da Souvarine con sovrana indifferenza.
Germinale si conclude dunque tragicamente:
lo sciopero è fallito, molti operai sono stati
uccisi, Stefano deve fuggire, il tempo della rivoluzione proletaria, del socialismo e della
completa uguaglianza appare indefinito, remoto e irraggiungibile.
Malgrado ciò, Zola
non è né rassegnato né disperato:
la sua amara constatazione del fallimento della liberazione
degli oppressi riguarda solo un episodio specifico, e non l’intera vicenda umana.
Sotto questo profilo, la differenza con lo scrittore italiano Giovanni Verga (1840-1922)
non potrebbe essere maggiore. In Verga, infatti, la sconfitta dei contadini siciliani (descritti,
ad esempio nella novella Libertà) non è altro che l’ennesima conferma del fatto che gli
uomini (tutti gli uomini, di qualsiasi classe sociale) sono destinati a fallire i loro obiettivi,
allorché si lasciano prendere dalla «brama di meglio», cioè dal desiderio di migliorare
la loro difficile e insopportabile condizione di vita.
Nel caso di Zola, il progresso umano (cui Verga non crede assolutamente più) non è solo un fantasma, una realtà priva di consistenza effettiva, maestoso solo se guardato da lontano, nel suo complesso. Per Zola, se alcuni uomini sono vinti oggi, i loro figli o i loro nipoti potranno un domani vivere meglio; e il merito di tale miglioramento, forse, potrà essere attribuito anche agli intellettuali e agli scrittori che hanno denunciato la violenza e lo sfruttamento di cui essi sono stati per troppo tempo le vittime.
Le idee dell’anarchico Souvarine
DOCUMENTI
Il brano presentato, tratto dal romanzo Germinale di Émile Zola, illustra il dialogo tra il minatore Stefano Lantier e l’anarchico russo Souvarine e sottolinea in modo particolare la concezione moderata di Stefano contro l’estremismo distruttivo di Souvarine, che prevede il sacrificio di uomini per permettere la rinascita di un nuovo genere umano.
"A tutto suo agio Souvarine emise un filo di fumo; poi: – […]
La loro Internazionale sta per diventare davvero efficiente. Se ne occupa Lui.
– Lui chi?
– Lui!
– Pronunciò il monosillabo, smorzando la voce, con tono di religioso rispetto. Del maestro, parlava: di Bakunin, lo sterminatore.
– Lui solo può dare il colpo di grazia, – proseguì, – mentre con la loro teoria dell’evoluzione, i tuoi scienziati non sono che dei codardi… Sotto la sua direzione, l’Internazionale, prima di tre anni annienterà il vecchio mondo. Smanioso di istruirsi, di comprendere quel culto della distruzione sul quale il russo non lasciava cadere che qualche vaga frase quasi volesse tener per sé il segreto, Stefano pendeva ora dalle sue labbra.
– Ma insomma spiegami… Quale scopo vi proponete?
– La distruzione di tutto… Non più nazioni, non più governi, non più proprietà, non più Dio, non più culto.
– Sì, capisco… Soltanto a che vi porterà questo?
– Alla comunità primitiva, informe; a un mondo nuovo, al ricominciamento di tutto.
– E i mezzi? Come contate di arrivare a questa distruzione integrale?
– Col fuoco, col veleno, col pugnale. Il brigante è il vero eroe, il vendicatore del popolo, il rivoluzionario in atto, che non sa di frasi attinte nei libri. Occorre che una serie di spaventosi attentati atterrisca i potenti e svegli il popolo. Parlando, il viso di Souvarine diventava spaventoso; gli occhi chiari s’accendevano d’un ardore mistico, le mani femminee si contraevano sull’orlo del tavolo quasi volessero spezzarlo; una specie di estasi pareva sollevarlo dalla sedia. Sconcertato, l’altro lo guardava; e il pensiero gli andava alle rade confidenze che il russo gli aveva fatto: di mine caricate sotto il palazzo dello zar, di capi di polizia scannati come cinghiali; d’una compagna di fede, la sola donna che Souvarine avesse amato, impiccata a Mosca un mattino di pioggia, mentre, perduto nella folla, lui le inviava l’ultimo saluto.
Scartando da sé tutte quelle visioni atroci:
– No, no! – Stefano protestò.
– Non s’era ancora arrivati a questo, da noi!
L’assassinio, l’incendio, no, no! È iniquo, è mostruoso.
Da noi tutti insorgerebbero e farebbero giustizia sommaria del colpevole! E poi lui seguitava a non capire; contro l’abominevole proposito di sterminare l’umanità alla radice, come si falcia raso terra un campo di segale, tutto in lui si ribellava.
E dopo? Che si farebbe, dopo? Da un simile salasso come risorgerebbe l’umanità?
– Spiegami meglio! Qual è il vostro programma? Per metterci in cammino noi francesi abbiamo bisogno di conoscere la meta. L’altro, senza uscire dalla sua trasognata impassibilità:
– Tutti i ragionamenti sono criminali, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano la marcia della rivoluzione.
É. ZOLA, Germinale, Einaudi, Torino 1994, pp. 219-220, trad. it. C. SBARBARO
Le condizioni di vita dei minatori
DOCUMENTI
Nella scena seguente, senza giri di parole o mezze misure, Zola mette in chiaro che alcol e sesso erano gli unici piaceri alla portata dei minatori. All’epoca, una pagina come questa era indubbiamente scandalosa. Tuttavia, lo scrittore non abbraccia il punto di vista dei borghesi e dei benpensanti, che accusavano gli operai di immoralità, bensì osserva i loro comportamenti in un contesto di vita più ampio e più duro.
"– Eh già, – ammetteva Maheu,
– certo che se si avesse più denaro si abiterebbe più al largo! Comunque, è ben vero che vivere pigiati come salacche [sardine sotto sale, n.d.r.] non giova a nessuno. Si sa come va a finire: uomini bevuti [sempre ubriachi, n.d.r.] e ragazze gravide. Prendendo lo spunto di qui, ciascuno diceva la sua; e nel tanfo di petrolio che appestava la stanza, già ammorbata da quello di soffritto, la conversazione si protraeva. No, ben certo, non era allegro vivere. Si faticava come bruti in un lavoro al quale un tempo condannavano i galeotti; vi si lasciava spesso la ghirba [la pelle, n.d.r.] prima della nostra ora; e tutto questo per non rimediare neanche un po’ di lesso a cena. Certo, come i polli il becchime, lo stretto necessario per far tacere la fame si aveva; si mangiava, ma appena quel tanto che permetteva di stare in vita e di seguitare a patire; o carichi di debiti, perseguitati dai creditori quasiché il pane si rubasse. Quando arrivava la domenica, si era così stracchi che si passava il tempo a dormire. I soli piaceri che restavano, quello di sborniarsi e d’ingravidare la moglie. Per di più la birra ti fa metter pancia e la pancia ti fa mancar di rispetto dai figli. Ah no; in quelle condizioni vivere non era punto [per nulla, n.d.r.] allegro.
É. ZOLA, Germinale, Einaudi, Torino 1994, Parte terza, cap. III, pp. 152-153, trad. it. C. SBARBARO
Germinale: un libro terribile.
Riportiamo un passo di Erich Auerbach, che nel suo saggio Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946) analizza in modo esemplare un passo di Germinale.
Abbiamo scelto un passo che costituisce la chiusa del capitolo 2 della parte III di Germinal (1888), il romanzo che descrive la vita di un distretto carbonifero del Nord della Francia.
È giorno di sagra, un sabato di luglio, i minatori sono andati attorno tutto il pomeriggio da una bettola all’altra, hanno bevuto, giuocato a bocce, visitato tutti i baracconi; la giornata si chiude con un ballo […] nella taverna di Désir, una vedova grassa, cinquantenne, ma ancora allegra e gaudente. Il ballo, a cui vengono da ultimo anche le donne non più giovani coi bambini, dura già da parecchie ore.
«Tutti rimasero fino alle dieci. Continuavano ad arrivare altre donne per raggiungere e riportare a casa i loro uomini; torme di bambini le seguivano in fila: e le madri non avevano più ritegno, estraevano mammelle lunghe e bionde come sacchi d’avena, imbrattavano di latte i loro marmocchi paffuti; mentre i piccoli che già camminavano, ripieni di birra, a quattro zampe sotto la tavola, s’alleggerivano senza vergogna. Era quella una montante marea di birra, le botti della vedova Désir sventrate, la birra che gonfiava le pance, e colava da ogni parte, dal naso, dagli occhi e da altri luoghi. Tutti si pigiavano nel mucchio, così gonfi che ognuno aveva una spalla o un ginocchio ficcato nel vicino, tutti allegri ed esilarati di sentirsi allo stretto. Un riso continuo spalancava le bocche fino agli orecchi. Faceva caldo come in un forno, si cuoceva: la gente si spogliava, la carne restava nuda, dorata nel fumo denso delle pipe; una ragazza di tanto in tanto s’alzava, andava in fondo, fino alla pompa, s’alzava le gonne, e poi tornava. […] Qualcuno, passando, avvertì Pierron che sua figlia Lidia dormiva fuor della porta stesa di traverso sul marciapiede. Aveva bevuto la sua parte della bottiglia rubata, si era ubriacata, ed egli dovette prenderla in braccio, mentre Jeanlin e Bèbert, più in gamba, lo seguivano da lontano e trovavano la cosa molto buffa. […]»
Il brano è di quelli che al primo apparire delle opere di Zola, nell’ultimo trentennio del secolo scorso [l’Ottocento, n.d.r], suscitarono orrore e spavento, ma anche ammirazione in una notevole minoranza. […] L’intenzione del testo diventa più chiara nel secondo capoverso, che descrive il momento del congedo e del ritorno a casa. La figlia del minatore Pierron, Lidia, viene trovata addormentata ubriaca fradicia sulla strada davanti all’osteria. Lidia è una ragazzetta di dodici anni che se n’è andata intorno con due coetanei del vicinato, Jeanlin e Bébert. Tutt’e tre lavorano già come carusi nella miniera, sono ragazzi corrotti precocemente, specie l’astuto e malvagio Jeanlin.
Questa volta egli ha indotto gli altri due a rubare da una delle bancarelle della sagra una bottiglia di ginepro; l’hanno scolata insieme, ma per la bambina la dose è stata eccessiva; adesso il padre se la riporta a casa, e i due ragazzi seguono a una certa distanza, «trouvant ça très farce» [e trovavano la cosa molto buffa, n.d.r.]. […] Gioie povere e rudi; precoce corruzione e rapido consumo del fisico: abbrutimento dell’istinto sessuale e, in rapporto alle condizioni di vita, un eccesso di figli, poiché la copula è l’unico piacere che non si paghi; e dietro a tutto questo, nei più energici e intelligenti, un odio rivoluzionario che preme per erompere e scoppiare: questi ultimi sono i motivi che dominano nel testo. Essi sono resi senza ritegno, e senza vergogna per le parole più crude e le scene più repellenti. L’arte stilistica ha completamente rinunziato a provocare effetti piacevoli nel senso tradizionale: essa serve alla verità sgradevole, opprimente, sconsolata. Ma questa verità serve nello stesso tempo come richiamo all’azione per una riforma sociale. […] Dopo più di mezzo secolo, i cui ultimi decenni ci hanno regalato una sorte che Zola mai avrebbe potuto immaginare [Auerbach allude alle due guerre mondiali e alle dittature totalitarie, n.d.r.], Germinal è ancora oggi un libro terribile; e non solo: ancor oggi non ha perduto nulla della sua importanza e della sua attualità. […] Oggi noi siamo saturi di simili impressioni (Zola ha trovato molti imitatori) e di scene come quella […] se ne possono trovare in qualsiasi reportage. Ma Zola fu il primo, e […] non esisteva nessuno che si potesse misurare con lui per forza di lavoro, per dominio della vita del tempo, per respiro e coraggio. E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, pp. 284-293, trad. it. A. ROMAGNOLI, H. HINTERHAEUSER
Nel caso di Zola, il progresso umano (cui Verga non crede assolutamente più) non è solo un fantasma, una realtà priva di consistenza effettiva, maestoso solo se guardato da lontano, nel suo complesso. Per Zola, se alcuni uomini sono vinti oggi, i loro figli o i loro nipoti potranno un domani vivere meglio; e il merito di tale miglioramento, forse, potrà essere attribuito anche agli intellettuali e agli scrittori che hanno denunciato la violenza e lo sfruttamento di cui essi sono stati per troppo tempo le vittime.
Le idee dell’anarchico Souvarine
DOCUMENTI
Il brano presentato, tratto dal romanzo Germinale di Émile Zola, illustra il dialogo tra il minatore Stefano Lantier e l’anarchico russo Souvarine e sottolinea in modo particolare la concezione moderata di Stefano contro l’estremismo distruttivo di Souvarine, che prevede il sacrificio di uomini per permettere la rinascita di un nuovo genere umano.
"A tutto suo agio Souvarine emise un filo di fumo; poi: – […]
La loro Internazionale sta per diventare davvero efficiente. Se ne occupa Lui.
– Lui chi?
– Lui!
– Pronunciò il monosillabo, smorzando la voce, con tono di religioso rispetto. Del maestro, parlava: di Bakunin, lo sterminatore.
– Lui solo può dare il colpo di grazia, – proseguì, – mentre con la loro teoria dell’evoluzione, i tuoi scienziati non sono che dei codardi… Sotto la sua direzione, l’Internazionale, prima di tre anni annienterà il vecchio mondo. Smanioso di istruirsi, di comprendere quel culto della distruzione sul quale il russo non lasciava cadere che qualche vaga frase quasi volesse tener per sé il segreto, Stefano pendeva ora dalle sue labbra.
– Ma insomma spiegami… Quale scopo vi proponete?
– La distruzione di tutto… Non più nazioni, non più governi, non più proprietà, non più Dio, non più culto.
– Sì, capisco… Soltanto a che vi porterà questo?
– Alla comunità primitiva, informe; a un mondo nuovo, al ricominciamento di tutto.
– E i mezzi? Come contate di arrivare a questa distruzione integrale?
– Col fuoco, col veleno, col pugnale. Il brigante è il vero eroe, il vendicatore del popolo, il rivoluzionario in atto, che non sa di frasi attinte nei libri. Occorre che una serie di spaventosi attentati atterrisca i potenti e svegli il popolo. Parlando, il viso di Souvarine diventava spaventoso; gli occhi chiari s’accendevano d’un ardore mistico, le mani femminee si contraevano sull’orlo del tavolo quasi volessero spezzarlo; una specie di estasi pareva sollevarlo dalla sedia. Sconcertato, l’altro lo guardava; e il pensiero gli andava alle rade confidenze che il russo gli aveva fatto: di mine caricate sotto il palazzo dello zar, di capi di polizia scannati come cinghiali; d’una compagna di fede, la sola donna che Souvarine avesse amato, impiccata a Mosca un mattino di pioggia, mentre, perduto nella folla, lui le inviava l’ultimo saluto.
Scartando da sé tutte quelle visioni atroci:
– No, no! – Stefano protestò.
– Non s’era ancora arrivati a questo, da noi!
L’assassinio, l’incendio, no, no! È iniquo, è mostruoso.
Da noi tutti insorgerebbero e farebbero giustizia sommaria del colpevole! E poi lui seguitava a non capire; contro l’abominevole proposito di sterminare l’umanità alla radice, come si falcia raso terra un campo di segale, tutto in lui si ribellava.
E dopo? Che si farebbe, dopo? Da un simile salasso come risorgerebbe l’umanità?
– Spiegami meglio! Qual è il vostro programma? Per metterci in cammino noi francesi abbiamo bisogno di conoscere la meta. L’altro, senza uscire dalla sua trasognata impassibilità:
– Tutti i ragionamenti sono criminali, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano la marcia della rivoluzione.
É. ZOLA, Germinale, Einaudi, Torino 1994, pp. 219-220, trad. it. C. SBARBARO
Le condizioni di vita dei minatori
DOCUMENTI
Nella scena seguente, senza giri di parole o mezze misure, Zola mette in chiaro che alcol e sesso erano gli unici piaceri alla portata dei minatori. All’epoca, una pagina come questa era indubbiamente scandalosa. Tuttavia, lo scrittore non abbraccia il punto di vista dei borghesi e dei benpensanti, che accusavano gli operai di immoralità, bensì osserva i loro comportamenti in un contesto di vita più ampio e più duro.
"– Eh già, – ammetteva Maheu,
– certo che se si avesse più denaro si abiterebbe più al largo! Comunque, è ben vero che vivere pigiati come salacche [sardine sotto sale, n.d.r.] non giova a nessuno. Si sa come va a finire: uomini bevuti [sempre ubriachi, n.d.r.] e ragazze gravide. Prendendo lo spunto di qui, ciascuno diceva la sua; e nel tanfo di petrolio che appestava la stanza, già ammorbata da quello di soffritto, la conversazione si protraeva. No, ben certo, non era allegro vivere. Si faticava come bruti in un lavoro al quale un tempo condannavano i galeotti; vi si lasciava spesso la ghirba [la pelle, n.d.r.] prima della nostra ora; e tutto questo per non rimediare neanche un po’ di lesso a cena. Certo, come i polli il becchime, lo stretto necessario per far tacere la fame si aveva; si mangiava, ma appena quel tanto che permetteva di stare in vita e di seguitare a patire; o carichi di debiti, perseguitati dai creditori quasiché il pane si rubasse. Quando arrivava la domenica, si era così stracchi che si passava il tempo a dormire. I soli piaceri che restavano, quello di sborniarsi e d’ingravidare la moglie. Per di più la birra ti fa metter pancia e la pancia ti fa mancar di rispetto dai figli. Ah no; in quelle condizioni vivere non era punto [per nulla, n.d.r.] allegro.
É. ZOLA, Germinale, Einaudi, Torino 1994, Parte terza, cap. III, pp. 152-153, trad. it. C. SBARBARO
Germinale: un libro terribile.
Riportiamo un passo di Erich Auerbach, che nel suo saggio Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946) analizza in modo esemplare un passo di Germinale.
Abbiamo scelto un passo che costituisce la chiusa del capitolo 2 della parte III di Germinal (1888), il romanzo che descrive la vita di un distretto carbonifero del Nord della Francia.
È giorno di sagra, un sabato di luglio, i minatori sono andati attorno tutto il pomeriggio da una bettola all’altra, hanno bevuto, giuocato a bocce, visitato tutti i baracconi; la giornata si chiude con un ballo […] nella taverna di Désir, una vedova grassa, cinquantenne, ma ancora allegra e gaudente. Il ballo, a cui vengono da ultimo anche le donne non più giovani coi bambini, dura già da parecchie ore.
«Tutti rimasero fino alle dieci. Continuavano ad arrivare altre donne per raggiungere e riportare a casa i loro uomini; torme di bambini le seguivano in fila: e le madri non avevano più ritegno, estraevano mammelle lunghe e bionde come sacchi d’avena, imbrattavano di latte i loro marmocchi paffuti; mentre i piccoli che già camminavano, ripieni di birra, a quattro zampe sotto la tavola, s’alleggerivano senza vergogna. Era quella una montante marea di birra, le botti della vedova Désir sventrate, la birra che gonfiava le pance, e colava da ogni parte, dal naso, dagli occhi e da altri luoghi. Tutti si pigiavano nel mucchio, così gonfi che ognuno aveva una spalla o un ginocchio ficcato nel vicino, tutti allegri ed esilarati di sentirsi allo stretto. Un riso continuo spalancava le bocche fino agli orecchi. Faceva caldo come in un forno, si cuoceva: la gente si spogliava, la carne restava nuda, dorata nel fumo denso delle pipe; una ragazza di tanto in tanto s’alzava, andava in fondo, fino alla pompa, s’alzava le gonne, e poi tornava. […] Qualcuno, passando, avvertì Pierron che sua figlia Lidia dormiva fuor della porta stesa di traverso sul marciapiede. Aveva bevuto la sua parte della bottiglia rubata, si era ubriacata, ed egli dovette prenderla in braccio, mentre Jeanlin e Bèbert, più in gamba, lo seguivano da lontano e trovavano la cosa molto buffa. […]»
Il brano è di quelli che al primo apparire delle opere di Zola, nell’ultimo trentennio del secolo scorso [l’Ottocento, n.d.r], suscitarono orrore e spavento, ma anche ammirazione in una notevole minoranza. […] L’intenzione del testo diventa più chiara nel secondo capoverso, che descrive il momento del congedo e del ritorno a casa. La figlia del minatore Pierron, Lidia, viene trovata addormentata ubriaca fradicia sulla strada davanti all’osteria. Lidia è una ragazzetta di dodici anni che se n’è andata intorno con due coetanei del vicinato, Jeanlin e Bébert. Tutt’e tre lavorano già come carusi nella miniera, sono ragazzi corrotti precocemente, specie l’astuto e malvagio Jeanlin.
Questa volta egli ha indotto gli altri due a rubare da una delle bancarelle della sagra una bottiglia di ginepro; l’hanno scolata insieme, ma per la bambina la dose è stata eccessiva; adesso il padre se la riporta a casa, e i due ragazzi seguono a una certa distanza, «trouvant ça très farce» [e trovavano la cosa molto buffa, n.d.r.]. […] Gioie povere e rudi; precoce corruzione e rapido consumo del fisico: abbrutimento dell’istinto sessuale e, in rapporto alle condizioni di vita, un eccesso di figli, poiché la copula è l’unico piacere che non si paghi; e dietro a tutto questo, nei più energici e intelligenti, un odio rivoluzionario che preme per erompere e scoppiare: questi ultimi sono i motivi che dominano nel testo. Essi sono resi senza ritegno, e senza vergogna per le parole più crude e le scene più repellenti. L’arte stilistica ha completamente rinunziato a provocare effetti piacevoli nel senso tradizionale: essa serve alla verità sgradevole, opprimente, sconsolata. Ma questa verità serve nello stesso tempo come richiamo all’azione per una riforma sociale. […] Dopo più di mezzo secolo, i cui ultimi decenni ci hanno regalato una sorte che Zola mai avrebbe potuto immaginare [Auerbach allude alle due guerre mondiali e alle dittature totalitarie, n.d.r.], Germinal è ancora oggi un libro terribile; e non solo: ancor oggi non ha perduto nulla della sua importanza e della sua attualità. […] Oggi noi siamo saturi di simili impressioni (Zola ha trovato molti imitatori) e di scene come quella […] se ne possono trovare in qualsiasi reportage. Ma Zola fu il primo, e […] non esisteva nessuno che si potesse misurare con lui per forza di lavoro, per dominio della vita del tempo, per respiro e coraggio. E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, pp. 284-293, trad. it. A. ROMAGNOLI, H. HINTERHAEUSER
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
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