Erling Kagge è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a raggiungere i «tre poli»: il Polo Nord, il Polo Sud e una cima dell'Everest. Il silenzio (Einaudi, 2017) è stato venduto in 20 Paesi.
«
In un certo senso è il silenzio che deve parlare»
Il silenzio ha per l’appunto un compito, deve parlare.
Deve dirci delle cose, e noi dobbiamo parlare con lui e sfruttare il suo potenziale inespresso.
“Forse perché il silenzio contiene in sé lo stupore, ma anche una specie di violenza, un po’ come l’oceano o una distesa sconfinata di neve.
E chi non si è stupito davanti a questa violenza ne ha avuto paura.
È per questo che molti temono il silenzio e che la musica è dappertutto e sovrasta tutto.”
(Jon Fosse)
Ho ben presente la paura di cui scrive Fosse.
Una sottile inquietudine nei confronti di qualcosa che conosco a malapena e mi induce a non essere presente a me stesso, tenermi occupato in qualche modo, evitare il silenzio, tuffarmi a capofitto in qualche nuova attività.
Mando sms, ascolto musica, accendo la radio oppure lascio correre i pensieri, invece di resistere e magari chiudere fuori il mondo per un istante.
Io credo che la paura a cui Fosse non dà un nome sia il timore di conoscersi meglio.
Mi sento un codardo ogni volta che evito di guardarmi dentro.
Erling Kagge. Il silenzio. Uno spazio dell'anima.
Il silenzio ha per l'appunto un compito, deve parlare. Deve dirci delle cose, e noi dobbiamo parlare con lui e sfruttare il suo potenziale inespresso.
Erling Kagge
Poiché qualcosa di cosi immediato e semplice non può far parte del settore del lusso, il silenzio è anche un bene sottovalutato. Si punta sempre ad «aggiungere», ad aumentare. La dopamina nella testa dei clienti li spinge a volere sempre di piu. Il silenzio agisce invece in senso opposto, toglie. Inoltre, è un’esperienza gratuita. Non c’è nemmeno bisogno di sostituirlo con nuovi beni di lusso la stagione successiva.
Erling Kagge, Il silenzio
In genere preferisco fare qualcosa, qualunque cosa, invece di riempire il silenzio con me stesso. Dopo un bel po’ di tempo ho capito che è proprio questa la causa di molti dei miei problemi.
Erling Kagge, Il silenzio
Aveva capito fino a che punto le parole possono limitare le esperienze che stiamo facendo. Le parole possono distruggere l'incanto. Non sono sufficienti.
Erling Kagge, Il silenzio
Cercare il silenzio. Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo. Perché il silenzio non è un vuoto inquietante ma l'ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito.
«Il silenzio è una perla».
Erling Kagge, Il silenzio
«Camminare dà un senso di libertà. È contrario a tutto quel che spinge “più veloce, più in alto, più forte”. Quando cammino tutto si muove più lentamente, il mondo sembra ammorbidirsi, e per un breve momento non inseguo i miei impegni quotidiani: i lavori di casa, le riunioni, la lettura di manoscritti in ufficio. Camminare è una zona franca.»
Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo.
«Più cammino e meno sento la distinzione tra corpo, mente e ambiente intorno a me (…) La natura e il corpo acquisiscono una lingua comune e diventano un’unità.ci sono diversi modi per raggiungere un simile stato. Si può digiunare, meditare, prendere una pasticca o pregare, ma a me succede camminando.»
Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo.
«Finché non ho avuto una famiglia, non mi sono mai chiesto perché fosse così importante camminare. Invece le mie tre figlie volevano una spiegazione: perché bisogna muoverci su due gambe se si fa prima in macchina? Ho impiegato un anno e mezzo a scrivere questo libro e metà della mia vita a camminare per poter rispondere a questa domanda».
Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, pp. 144, euro 13, trad. di Sara Culeddu.
«Le gambe arrivano a pensare prima che lo faccia il nostro cervello perciò è possibile trovare risposte a domande che non sapevamo nemmeno di porci».
Erling Kagge, Camminare
«La mia camminata preferita è sempre quella che farò. Potrebbe essere una passeggiata nei boschi questo pomeriggio o tornare a casa a piedi dall’ufficio domani».
Erling Kagge, Camminare
Come del resto scriveva il grande drammaturgo austriaco Thomas Bernhard nel 1971 in Camminare, un racconto riproposto di recente da Adelphi (pp. 124, euro 13, trad. di Giovanna Agabio): «Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa, così come nulla è più istruttivo del veder pensare uno che cammina».
Sylvain Tesson, lo scrittore e viaggiatore francese che dopo aver girato il mondo in bicicletta, aver passato sei mesi in una capanna siberiana, sulla sponda del lago Bajkal, in sola compagnia di libri, sigari e vodka, e aver ripercorso la Ritirata dalla Russia di Napoleone a bordo di un sidecar, ha deciso di attraversare la Francia a piedi da sud a nord prendendo solo strade sbagliate: i «sentieri neri, quelli più nascosti, bordati da siepi, tra i rovi del sottobosco, sulle piste tracciate dai solchi delle ruote tra due villaggi abbandonati»
(Sentieri neri, Sellerio, pp. 154, euro 15, trad. di Roberta Ferrara, dal 23 aprile).
Per Tesson camminare equivale a una cura, è la chiave del suo recupero:
«Mia madre era morta piantandoci in asso. Io, ubriaco fradicio, m’ero rotto la testa cadendo da un tetto». Significa ritemprare il fisico e chiudere i conti con il proprio destino, fuggendo da una società globalizzata e ultraconnessa che ha idolatrato la velocità.
Dal 24 agosto all’8 novembre 2015 si spinge nella Francia rurale lungo un itinerario tortuoso che lo porta da Mercantour, al confine italo-francese, attraverso la Provenza, il Massiccio Centrale, la Turenna, Mont Saint-Michel per arrivare infine sulle spiagge della Normandia. A fargli da guida le mappe dell’IGN, l’Institut Géographique National, che lo conducono alla scoperta di terre incolte e maggesi e costituiscono «il lasciapassare dei sogni».
E se per Erling Kagge, «ogni camminata è stata diversa dalle altre, ma guardandomi indietro posso individuare un tratto comune: il silenzio interiore. Il camminare e il silenzio sono collegati. Il silenzio è astratto, il camminare concreto», anche Tesson ambisce al silenzio: «i sentieri neri fornivano delle vie di fuga: erano luoghi dimenticati dove regnava il silenzio e non si incontrava mai nessuno».
http://www.minimaetmoralia.it/wp/erling-kagge-camminare-un-gesto-sovverisivo/
Camminare è secondo Erling Klagge un gesto sovversivo e libertario (e nel sostenere questo punto di vista egli si ispira ovviamente, molto, a Thoreau e al suo saggio sul camminare.
http://ultramaratonemaratonedintorni.com/2018/05/camminare.il-breviario-di-erling-kagge-sul-camminare-gesto-sovversivo-e-di-scoperta-del-se.html
Uno.
Un giorno mia nonna non potè più camminare.
Quel giorno mori. Fisicamente visse ancora un po’, ma le ginocchia nuove che le avevano impiantato per sostituire le sue erano deboli e non riuscivano a sostenere il peso del suo corpo. Stando sempre a letto, anche la forza dei suoi muscoli andò scomparendo. Il suo apparato digerente si indebolì. Il cuore cominciò a batterle sempre più piano e a ritmo irregolare. I polmoni tenevano sempre meno ossigeno. Verso la fine annaspava in cerca d’aria.
In quel periodo avevo soltanto due figlie. La più piccola, Solveig, aveva tredici mesi. Mentre la sua bisnonna si rannicchiava lentamente in posizione fetale, per Solveig era arrivato il momento di imparare a camminare. Con le braccia alzate e tenendosi alle mie dita, avanzava tentennando sul pavimento del salotto. Ogni volta che lasciava la presa e provava a fare qualche passo da sola, scopriva cosa fossero l’alto e il basso e capiva la differenza tra vicino e lontano. Quando inciampava e colpiva lo spigolo del tavolo con la fronte, scopriva che alcune cose sono dure e altre morbide. Imparare a camminare forse è la cosa più pericolosa che facciamo nel corso della nostra vita. Con le braccia spalancate per tenersi in equilibrio, ben presto riuscì ad attraversare da sola il salotto. L’insicurezza la faceva avanzare a passi corti, a un ritmo scandito. Le prime volte che la guardavo mi stupiva il modo in cui allargava le dita dei piedi. Era come se cercassero di fare presa sul pavimento. «Il piede del bimbo ancora non sa di esser piede», desidera essere una farfalla oppure una mela, come recita l’inizio della poesia Al piede dal suo bimbo del poeta argentino Pablo Neruda.
A un certo punto cominciò a camminare a passi più sicuri, fino a varcare la portafinestra della terrazza e a uscire in giardino. Allora i suoi piedi non sperimentarono più solo il contatto col pavimento, ma anche con la terra. Erba, sassi, zolle e ben presto l’asfalto.
Parte della sua personalità - il temperamento, la curiosità e la volontà - affiorava meglio mentre camminava. Forse mi sbaglio, ma ogni volta che vedo un bambino che impara a camminare, si consolida in me la sicurezza che la gioia di scoprire e padroneggiare qualcosa sia la forza più grande al mondo. Mettere un piede davanti all’altro, esplorare e spingersi oltre sono cose insite nella nostra natura. I viaggi di scoperta non sono un inizio; sono punti d’arrivo.
Mia nonna nacque a Lillehammer novantatre anni prima di Solvcig e a quel tempo la sua famiglia usava ancora le gambe per spostarsi da un posto all’altro. Se avesse voluto fare un viaggio più lungo avrebbe potuto prendere il treno, ma non aveva poi tante ragioni per allontanarsi da Lillehammer. Al contrario, fu il mondo esterno ad andare da lei. Negli anni della sua giovinezza vide arrivare nell’Oppland automobili e biciclette frutto della produzione di massa, e aerei. Mi raccontava che il bisnonno una volta le chiese di andare con lui fino al lago Mjosa per vedere insieme un aereo. Lo raccontava con un trasporto tale che sembrava fosse successo il giorno prima. Il cielo non era più riservato esclusivamente agli uccelli e agli angeli.
Homo Sapiens ha sempre camminato. Fin da quando i nostri antenati hanno cominciato a girovagare, partendo dall’Africa orientale settantamila anni fa, la nostra è stata la storia di un cammino. Il bipedalismo, ovvero la capacità di camminare su due gambe, ha gettato le basi per tutto quel che siamo oggi. La nostra specie ha camminato attraverso l’Arabia e proseguito fino in cima all’Himalaya, si è diffusa per tutta l’Asia, ha superato lo stretto di Bering ghiacciato arrivando in America o ha preso verso sud, fino in Australia. Alcuni hanno scelto la ria dell’Occidente, verso l'Europa, e sono finiti in Norvegia. I primi uomini erano capaci di muoversi a piedi per molto tempo, di cacciare con metodi sempre nuovi su vaste superfici e di vivere un gran numero di esperienze. Questo stile di vita ha permesso al nostro cervello di svilupparsi più rapidamente rispetto a quello delle altre creature. Prima abbiamo camminato, poi abbiamo imparato ad accendere il fuoco e a preparare il cibo e infine abbiamo sviluppato il linguaggio.
Le lingue create dagli uomini rispecchiano l'idea che la vita sia una lunga camminata. In sanscrito, una delle lingue più antiche al mondo e originaria dell'India, il concetto di passato è espresso con il termine gata, «quel che abbiamo camminato», mentre il futuro si chiama anagàta «quel che non abbiamo ancora raggiunto». Il termine gata è imparentato con il norvegese gàtt («andato»). Come è naturale, in sanscrito il presente è associato al significato di «quel che si manifesta proprio di fronte a noi», pratyutpanna.
Mi è impossibile tenere il conto delle camminate che ho fatto.
Ne ho fatte di corte e di lunghe. Ho camminato per lasciare una città o per entrarvi. Ho camminato di notte e di giorno, lasciando fidanzate o andando incontro ad amici. Ho camminato per boschi e montagne, su superfici ghiacciate e in paesaggi trasformati dall’uomo. Ho camminato annoiandomi e ho camminato per fuggire l'inquietudine. Ho camminato nel dolore e nella gioia. Ma a prescindere dai dove e dai perché, ho camminato tanto. Ho camminato fino alla fine del mondo, letteralmente.
Ogni camminata è stata diversa dalle altre, ma guardandomi indietro posso individuare un tratto comune: il silenzio interiore. Il camminare e il silenzio sono collegati. Il silenzio è astratto, il camminare concreto.
Finché non ho avuto una famiglia, una casa e un lavoro, non mi sono mai chiesto perché fosse cosi importante camminare. Invece i bambini volevano una risposta: perché bisogna camminare se si fa prima in macchina? Molti adulti con cui mi sono trovato a parlare si chiedevano la stessa cosa: qual è il senso di muoversi lentamente da un posto a un altro?
Seppure io e te camminassimo a fianco, avremmo due esperienze diverse. Finora mi sono sempre limitato a fornire la spiegazione semplificata, quella a cui si ricorre perché è immediata ma, in quanto tale, contraria all’essenza stessa del camminare: ho risposto che chi cammina vive più a lungo. E ha una memoria migliore. La pressione sanguigna più bassa. Si ammala più raramente. Ogni volta che mi sono trovato a raccontare queste cose, però, ero cosciente di dire solo metà della verità. Camminare, infatti, è molto di più che una lista di benefici per la salute degna di una pubblicità sulle vitamine. E allora, in cosa consiste l’altra metà della verità?
Perché camminiamo? Perché cammino?
Da dove mi sto allontanando a piedi e verso cosa mi sto dirigendo?
Siccome le risposte sono piuttosto misteriose, alla fine ho sentito il desiderio di districare un po’ la matassa. Mi sono messo le scarpe, ho lasciato vagare un po’ i pensieri e ora di una cosa sono sicuro: mettere un piede davanti all'altro è tra le azioni più importanti che compiamo.
E allora andiamo.
Due
Camminare dà un senso di libertà. È contrario a tutto quel che spinge «pili veloce, più in alto, più forte». Quando cammino tutto si muove più lentamente, il mondo sembra ammorbidirsi, e per un breve momento non inseguo i miei impegni quotidiani: i lavori di casa, le riunioni, la lettura di manoscritti in ufficio. Camminare è una zona franca. Per trenta minuti, o qualche ora, le opinioni, le aspettative e gli umori di famiglia, colleghi e conoscenti paiono irrilevanti. Riesco a sentirmi il centro della mia vita e, poco dopo, a dimenticare completamente me stesso.
C'è un consenso diffuso sul fatto che andare da un posto a un altro in due ore invece che in quattro o in otto sia un risparmio di tempo. Si, certo, da un punto di vista matematico sembra corretto, ma l’esperienza mi dice il contrario: quando aumento il ritmo, il tempo scorre più veloce. La mia velocità e il tempo accelerano parallelamente. È come se un’ora durasse meno di sessanta minuti. Quando mi sbrigo, non riesco a cogliere quasi niente.
Se vai verso una montagna in macchina e lasci che i laghetti, le colline, le pietre, il muschio e gli alberi ti sfreccino accanto, la vita si fa più corta. Non puoi sentire il vento, gli odori, il tempo atmosferico o i cambiamenti di luce. I piedi non ti fanno male. Tutto si amalgama.
Quando aumenti il ritmo, non è solo il tempo a ridursi, ma anche la percezione dello spazio. A un tratto sei alle pendici della montagna. Viene meno l’esperienza della distanza. Una volta arrivato, la sensazione può essere quella di aver colto molte cose. Ma io ne dubito.
Se quello stesso tratto lo percorri a piedi e ci metti un giorno invece di mezz’ora, allora respiri con più calma, ascolti, senti il terreno sotto i piedi e la giornata diventa tutt’altra cosa. La montagna cresce gradualmente e l’ambiente circostante sembra diventare più grande.
Fare conoscenza con le cose che ti circondano richiede tempo. È come costruire un’amicizia. La montagna giù in fondo, che si trasforma via via che ti avvicini, diventa una buona compagna ancor prima che tu l’abbia raggiunta. Gli occhi, le orecchie, il naso, le spalle, la pancia e le gambe le parlano e la montagna risponde. Il tempo si dilata, indipendentemente dai minuti e dalle ore.
Ecco un segreto che condividono tutti i camminatori: la vita dura di più quando cammini. Camminare dilata ogni attimo.
Tra due o più alternative scelgo sempre la più semplice: quella che prende il minor tempo possibile. La più comoda. La più calda. Anche quando so che l’altra via sarebbe la più saggia. Certi giorni scelgo il percorso con meno ostacoli da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Si, a volte mi capita di farlo anche per più giorni di fila. È una debolezza che mi infastidisce.
Scegliere liberamente di rendere la mia esistenza meno confortevole mi ha dato tanto in cambio. Da che ho memoria, dentro di me ho sempre avuto un diavoletto a suggerirmi di prendere la via più comoda ogni volta che mi trovavo di fronte a una scelta. Camminare meno di quanto avessi programmato, saltare la visita a un amico ammalato per andarmene al bar, non alzarmi dal letto quando invece avrei dovuto. Nei periodi in cui mi abituo a spostarmi in macchina, poi è difficile rinunciarci. Di fatto è troppo comodo.
Seguire sempre e regolarmente questa voce può portare a una specie di fuga dal mondo e a sprecare le opportunità che abbiamo nella vita. Il filosofo Martin Heidegger osservava che è molto facile diventare schiavi di questa voce interiore. Può indurci ad affondare e a rimanere del tutto intrappolati in una palude che ci risucchia. Heidegger distingue tra un’esistenza vissuta cosi e il guidare la propria vita. Essere non significa solo stare al mondo, come fanno le pietre, ma porsi la questione del come si sta al mondo. Secondo Heidegger gli uomini, per essere liberi, dovrebbero desiderare di caricarsi di fardelli. Scegliendo la via con meno ostacoli, si dà sempre la priorità all’opzione che comporta meno preoccupazioni. In questo modo le nostre decisioni sono stabilite a priori e viviamo non solo una vita non libera, ma anche noiosa.
Tante cose nel nostro quotidiano sono legate ai ritmi veloci. Camminare invece è un’azione lenta. E in questo senso una delle più radicali che si possano compiere.
Può sembrare esagerato suggerire a qualcuno di prendere la strada sbagliata, o di perdersi, ma può essere anche un buon consiglio. Quelle camminate me le ricordo bene. Nell’autunno del 1987 percorrevo con la mia ragazza il versante destro dello Jotunheimen e, lungo la strada, decidemmo di scalare lo Store Skagastolstind, la terza cima più alta della Norvegia. Lei era una scalatrice esperta e avrebbe guidato entrambi alla vetta. Arrivati quasi in cima, però, fummo sorpresi da nebbia e nevischio. C’erano dirupi scoscesi su ogni lato. Fare anche solo un altro passo nella nebbia era pericoloso e fummo costretti a pernottare li, senza tenda né sacchi a pelo. Saltellammo, tirammo pugni contro il vento, ci stringemmo le braccia intorno al torace per l'intera notte, e nonostante tutto ci congelammo completamente. Guardando indietro, oggi penso sia stata l’esperienza più bella che abbiamo vissuto insieme. Quella notte trascorsa in condizioni drammatiche si distinse da tutta la serie delle notti confortevoli. Al sorgere del sole, quando ci aiutammo a vicenda a ridiscendere in sicurezza, le ore di buio ci avevano avvicinati.
Ho sbagliato strada cosi tante volte da domandarmi se in fondo in fondo io non cerchi quella piccola insicurezza. Come disse mio fratello Gunnar -dovevamo avere otto e undici anni- una volta che ci perdemmo nell’Ostmarka: «Qui mi ci sono già perso una volta, perciò so dove siamo».
Ogni giorno passo accanto a una quercia che si trova a circa settantacinque passi dal portone di casa mia. Ricordo bene i cambiamenti che subisce nell’arco di un anno. D'inverno, nella luce fosca prima che sorga il sole, capita che l'albero spoglio assomigli a un mostro. Qualche ora più avanti, con la luce del giorno, ha un’aria pili amichevole. Nella chioma, nella corteccia e all’interno del legno ci sono innumerevoli piccole tane in cui centinaia di minuscoli insetti, funghi, muschi e licheni vivono le loro vite.
Con la primavera arrivano le foglie e i colori. La quercia - un albero che secondo la leggenda impiega cinquecento anni per vivere e cinquecento per morire - sembra raddrizzarsi un po’ e a ogni raffica di vento si cosparge di polline. Non posso vederlo, ma so che in quel momento la linfa sta salendo.
Di solito non faccio caso a molti dettagli quando vado in città in macchina. Superata Pilestredet il traffico rallenta, un automobilista non si accorge che è scattato il verde e un pedone mi attraversa davanti mentre scrive un sms. Non si colgono le espressioni dei visi. Nel traffico dell’ora di punta, poi, al massimo mi metto a guardare gli altri e penso male di loro perché - come me - buttano via il loro tempo seduti e in coda. Fino a oggi non mi è mai capitato di vedere un automobilista felice all'ora di punta.
Erling Kagge, Camminare, Un gesto sovversivo
Traduzione di Sara Culeddu
Giulio Einaudi editore