«Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani»
è la dedica di Pirandello
Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l'ingegnere e il sorvegliante... Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?
Luigi Pirandello, "I vecchi e i giovani"
Sorte miserabile quella dell'eroe che non muore,
dell'eroe che sopravvive a se stesso.
Luigi Pirandello, "I vecchi e i giovani"
Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani.
[...] Pirandello inizia a scrivere I vecchi e i giovani nel 1906, e sono passati poco più di dieci anni dalla “materia” del romanzo, che è l’esplosione del movimento dei Fasci siciliani tra il 1892 e il 1894, cioè tra l’inizio degli scioperi nelle campagne e nelle zolfare – una cosa nuova che mai si è veduta prima – e le stragi di contadini e popolani fino all’instaurazione dello stato d’assedio e la repressione di massa, con l’arresto di tutti i dirigenti dei Fasci e centinaia e centinaia di militanti; lo stesso lasso di tempo che intercorre tra lo scandalo della Banca romana e la crisi del giolittismo, con l’avvento al governo di Francesco Crispi.
[...] Non è solo emblematico il personaggio di Francesco D’Atri, che ricalca proprio Francesco Crispi, e decide da primo ministro di porre lo stato d’assedio e il tribunale militare, lui che gli stati d’assedio li aveva vissuti da patriota perseguitato, lui che aveva tuonato contro la legge Pica e i tribunali speciali; ma c’è Mauro Mortara, il personaggio del vecchio garibaldino tutto d’un pezzo, che fu costretto a rifugiarsi da esule a Malta e ormai vive una sorta di esilio in campagna, dove custodisce i ricordi del periodo eroico di speranze, a rappresentare il nodo delle contraddizioni di quel momento: ostile ai movimenti sociali, che considera un pericolo per l’unità della nazione – «Sbirro, vi giuro, andrei a farmi, vecchio come sono» –, fino a decidere di scendere in piazza con le sue pistolone per affrontarli, «armato come un brigante», finirà fucilato dall’esercito che lo scambiano per un rivoltoso: ormai i soldati sparano a tutto ciò che è rosso, come il gonfalone dei Fasci e come la camicia indossata da Mortara.
In questo stare dalla parte sbagliata, in questo morire dalla parte sbagliata, è tutta la problematicità del romanzo nei confronti del Risorgimento. Passando tra i cadaveri lasciati sulla strada, e rivoltando il corpo del vecchio sul cui petto scoprono le medaglie del suo valore, i soldati si chiedono: «Chi avevano ucciso?». Così si chiude il romanzo. Che forse è anche: «Cosa avevano ucciso?»: l’epopea garibaldina è ormai solo un lontano ricordo, un vecchio patetico e fuor di cotenna, disconosciuto, almeno per quei soldati.
[...] in Verga e nella novella Libertà – in cui si narrano i fatti di Bronte e la repressione di Bixio, con cui Verga si schiera decisamente – la sua maggiore evidenza.
La novella [1883, Verga aveva non solo la distanza storica dai fatti, ma all’arrivo di Garibaldi si era arruolato nella Guardia Nazionale dove restò per tre anni] termina così: «Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: Dove mi conducete? In galera? O perché? Se non ho avuto nemmeno un palmo di terra! Se avevano detto che c‘era la libertà!» In qualche modo questo finale riecheggia in Giuseppe Cesare Abba, uno scrittore “italiano e patriottico” che nella sua Vita di Bixio [1905], raccontando proprio i fatti di Bronte scrisse: «Si parlava persino di divisione dei beni…». Ecco, questa cosa, la libertà della divisione delle terre – sebbene fosse il primo punto del proclama del 2 giugno di dittatura a Palermo di Garibaldi: «Con decreto dittatoriale è disposta la quotizzazione delle terre dei demani comunali tra coloro che si sono battuti per la patria e l’ereditarietà di tale diritto per i discendenti» –, proprio no.
[...] Verga, peraltro, si è iscritto al Partito nazionalista e si schiera decisamente con l’impresa d’Affrica: avevamo fame di terra e piuttosto che dividere quelle che c’erano qui doveva sembrargli più realistico andare a prendere quelle d’altrove. [...]
Carlo Salinari, nel 1960, rivalutò il romanzo parlando di un triplice fallimento storico, del Risorgimento, dell’Unità, del socialismo:
«Nel romanzo si ha acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi:
quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese,
quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale,
quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e arretratezza delle masse».
[...]
Al conflitto tra i vecchi e i giovani [«Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani» è la dedica di Pirandello] [...].
«Un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, un crocefisso in capo alla processione, gridando – Viva il re! Abbasso le tasse! – s’era messo a percorrere le vie del paese, finché, uscendo dalla piazza e imboccando una strada angusta che la fronteggiava, vi aveva trovato otto soldati e quattro carabinieri appostati. L’ufficiale che li comandava aveva preso questo partito con strategia sopraffina, perché la folla inerme, lì calcata e pigiata, alle intimazioni di sbandarsi non si potesse più muovere; e lì non una ma più volte, aveva ordinato contro di essa il fuoco. Undici morti, innumerevoli feriti, tra cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero».
[Pirandello, I vecchi e i giovani, p. 237]
La narrazione di Pirandello, cruda come un reportage, ripercorre la strage di Santa Caterina Villermosa del 5 gennaio 1894. Il 3 gennaio, a Palermo, il generale Morra di Lavriano in virtù dei poteri conferitigli da Crispi aveva decretato lo stato d’assedio, sciolto per legge i Fasci dei lavoratori e disposto l’arresto dei membri del Comitato centrale.
[...] E ci furono anche [...] manifestazioni al grido di “abbasso Giolitti, viva Crispi”. Questo, certo, prima che Crispi desse pieni poteri al generale Morra. A quel punto restò ai contadini solo l’intercessione delle immagini del re e della regina, come santi da portare in corteo, insieme alla Vergine e al Cristo [...] a Santa Caterina Villermosa, 14 morti, di cui racconta Pirandello. Poi, appunto, la calma di un cimitero. [...]
Il primo Fascio venne inaugurato a Messina nel 1888 da Nicolò Petrina, un giovane che si era molto distinto fondando la Croce rossa e portando soccorso alla popolazione durante il colera del 1884, e godeva di estrema popolarità. Petrina riunificò in un’unica sigla e un’unica organizzazione una radicata presenza di società e leghe di mutuo soccorso e resistenza operaia e artigianale. La denominazione “Fascio” non era nuova: era stata già usata, nel decennio precedente, da associazioni operaie romagnole, per rinvigorire simbolicamente il carattere di “società di resistenza” delle loro associazioni.
L’esperienza di Petrina a Messina venne bruscamente interrotta dall’arresto e dal carcere e il fascio locale non resse a quest’assenza. Fu con De Felice Giuffrida a Catania, nel 1891, che i Fasci ebbero un impulso straordinario, diffondendosi dalla città alla campagna delle province. E la loro peculiarità. E la consacrazione nell’isola avvenne con l’occasione dell’Esposizione universale a Palermo del 1892. Gli guastarono la festa: in mille arrivarono da Catania, sfilando in corteo – “passeggiate”, le chiamavano i Fasci – per la città. Nacque il Fascio di Palermo, sotto la direzione di Bernardino Verro, un impiegato comunale espulso per le sue idee, e poi fu uno sviluppo rapido e impetuoso. Al processo del 1894 si favoleggiò di trecento Fasci capaci di mobilitare 350mila uomini, ma De Felice fu più modesto e precisò che si trattava “solo” di 175 Fasci in tutta la regione. Per Pirandello: «centosessantatré fermamente costituiti, trentacinque in via di formazione» [I vecchi e i giovani, p. 173].
[...] Una cosa nuova che la chiamavano sciopero [Sipala]. Una materia fantastica. Un’epopea.
Nei primi giorni di ottobre del 1893 giunge in Sicilia Adolfo Rossi, brillante e affermato giornalista autore di reportage di successo apparsi su diversi giornali e riviste. Vi è stato inviato da uno dei più diffusi quotidiani dell’Italia centro-meridionale, «la Tribuna», con l’incarico di compiere un’ampia inchiesta giornalistica sul fenomeno dei Fasci, le cui risultanze appariranno in undici puntate, tra l’8 ottobre e il 3 novembre 1893 [Fedele]. L’inviato della «Tribuna» volle conoscere di persona la realtà dei Fasci e animato da tale proposito compierà un giro, in ferrovia, a diligenza, a cavallo, visitando ampie zone dell’interno, nelle province di Palermo, Caltanissetta e Agrigento. Scenderà nelle miniere di zolfo e vedrà i carusi, veri schiavi del lavoro, ricavandone una pena infinita, parlerà direttamente con centinaia di contadini, artigiani, minatori. Rossi, che rimarrà colpito dalle «processioni», dai fuochi di paglia e dalle torce a vento nella notte per avvisarsi un paese con l’altro dell’arrivo di un “capo”, dalle fanfare e dai festoni, dalle carmagnole nere – una pellegrina, con un cappuccio che si chiudeva lasciando scoperti solo gli occhi, sorta di indumento da black bloc – e dai distintivi rossi, e dall’«alone di santità» che circonda alcuni dirigenti dei Fasci, riporta con stupore la significativa presenza femminile. È tutta una carrellata di donne contadine, combattive e determinate, ma alcune rimangono davvero impresse.
Siamo al Domatë ë gghindevet cë scerbejn, che poi è il Fascio dei lavoratori di Piana degli Albanesi: «Vedete questa nostra compagna? Mi dissero poi mostrandomi una bella giovane diciottenne, formosa, dai grandi occhi neri, che col viso incorniciato dalla mantellina albanese di lana bianca aveva tutto l’aspetto di una vestale. – Durante l’ultimo tumulto ella si avanzò verso i soldati che avevano spianato le armi contro il popolo e disse loro: “Avreste il coraggio di tirare contro di noi?” Un soldato le rispose piano, per non farsi sentire dagli ufficiali: “Io per me ti do anche il fucile, se lo vuoi”. Il capitano poi le disse: “Invitate le vostre compagne e i vostri uomini a gridare: Viva il Re! Viva l’esercito! e tutto sarà allora finito”. Così infatti avvenne. Da quel momento noi abbiamo scelto questa compagna per portabandiera della sezione femminile del Fascio».
Tra non molto non sarebbe bastato gridare Viva il re! e tutto il coraggio di una portabandiera.
[...] «Non voleva credere che le banche avessero largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti; e che, favore per favore, il Governo avesse proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato. Ma non poteva negare che fosse stato aperto il credito a certi uomini politici carezzati, che in Parlamento e per mezzo della stampa avevano combattuto a profitto delle banche falsarie, tradendo la buona fede del paese; e che questi gaudenti avessero voluto occultare ciò che da tempo si sapeva o si poteva sapere; e che, ora che le colpe avventavano, si volesse percuotere, ma con la speranza che la percossa ai più deboli salvasse i più forti».
[I vecchi e i giovani, p. 146]
Lo scandalo della Banca Romana, e in generale la crisi del sistema bancario, fu causato dalla grave depressione iniziata nel 1887-88 e dagli eccessivi investimenti nel settore edilizio, dopo il trasferimento della capitale. Per coprire le perdite, l’istituto di credito della capitale non solo iniziò a emettere nuova moneta senza autorizzazione, ma arrivò addirittura a stampare due serie di biglietti con lo stesso numero di serie, in modo da raddoppiare l’emissione di moneta in circolazione: la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, per cui possedeva sufficienti riserve auree, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia.
Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti promosse un’inchiesta e il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo venne arrestato. Dal carcere, Tanlongo affermò di aver dato cospicue somme anche a diversi presidenti del consiglio, tra cui Giovanni Giolitti e Francesco Crispi.
Lo scandalo ebbe non soltanto enorme risonanza nell’opinione pubblica, ma anche pesanti ripercussioni sia a livello politico, sia sul sistema economico e bancario italiano. A seguito del caos finanziario, Giolitti pose mano rapidamente al riordino del sistema creditizio. Ancora tre decenni dopo l’Unità, in Italia vi erano ben sei banche centrali con la facoltà di emettere biglietti di banca intitolati al Regno d’Italia:
la Banca Romana, la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Fu fondata la Banca d’Italia attraverso la fusione della Banca Nazionale con le due banche toscane e alla nuova banca fu affidata la liquidazione della Banca Romana.
Il procedere del processo penale e dello scandalo derivato dalla vicenda, con il sospetto di coinvolgimento degli uomini politici e di occultamento delle prove, portò nel novembre 1893 a una crisi politica e alle dimissioni di Giovanni Giolitti da capo del Governo, sostituito in dicembre da Francesco Crispi. [Wikipedia]
Certo, rispetto le raffinatezze dell’economia finanziaria di oggi appare un po’ primitivo e rozzo il sistema di stimulus inventato da Tanlongo – che si appoggiò a una tipografia londinese per raddoppiare le serie dei biglietti.
Eppure, la “creatività finanziaria” – nove milioni di lire riapparvero in una notte, tramite un prestito virtuale fra collegate – costeggia sempre tra la violazione delle regole e l’agibilità in territori dove le regole non sono ancora vigenti.
La bolla immobiliare della speculazione edilizia a Roma, soprattutto, ma anche a Napoli, Torino, Palermo, Firenze, in un ciclo di edificazione selvaggia che sembrava senza fine scoppiò ai primi segni di crisi, trascinandosi dietro il sistema finanziario.
Non è una novità.
La riorganizzazione del sistema creditizio finì con il produrre un aggravarsi della recessione economica.
Non è una novità.
[...] La novità, allora, furono i Fasci.
Emanuele Notarbartolo dal 1862 è prima reggente poi titolare del Banco di Sicilia. [...]
Dal 1876 si occupa a tempo pieno del Banco di Sicilia: il Banco è sull’orlo del fallimento, e l’opera di Notarbartolo evita di far collassare l’economia siciliana. Il suo lavoro inizia a inimicargli molta gente. Il consiglio della banca è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. Nel 1882 il marchese viene sequestrato per un breve periodo. L’1 febbraio 1893, nel tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, venne ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati alla mafia siciliana. È il primo delitto eccellente di mafia.
[Wikipedia].
Si disse anche che Notarbartolo si fosse opposto alla «fabbricazione di moneta» del Banco – che aveva facoltà di stampa di moneta nazionale – per il Tanlongo. Tutto si aggrovigliava in Sicilia.
Dal luglio 1887 al febbraio del 1891, e dal dicembre 1893 al marzo 1896, a capo del governo c’è Crispi, capo della Sinistra storica, un siciliano. Dal febbraio 1891 al maggio 1892 e dal marzo 1896 al giugno 1898, a capo del governo c’è di Rudinì, capo della Destra storica e del latifondo, un siciliano. Giolitti è dunque un intermezzo, dal maggio 1892 al dicembre 1893, in questo decennio in cui le stragi di Sicilia portano la firma di Crispi e quella delle cannonate di Bava Beccaris a Milano porta la firma di di Rudinì. Crispi e di Rudinì erano entrambi garibaldini, avevano “fatto” il Risorgimento, come peraltro mille altri, come lo stesso Notarbartolo. [...]
«E prese a raccontare, con atteggiamento, di grave costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia [...] provavano come in tutta l’isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, d’alberi morti per siccità, e da anni e anni abbattuti senza misericordia dall’accetta [...] . Ora i giovincelli s’erano divertiti ad accendere sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco. Erano per adesso piccoli scoppii striduli, crepitìi qua e là; scappava fuori ora da una parte ora dall’altra qualche lingua di fiamma minacciosa; ma già s’addensava nell’aria come una fumicaja soffocante. E il peggio era questo: che il Governo invece d’accorrere a gettar acqua, mandava soldati a suscitare altro fuoco col fuoco delle armi».
Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, p. 187
E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati.
«Quei contadini di Sicilia, trovando nella rabbia per l’ingiustizia altrui il coraggio d’affermare con violenza un loro diritto, s’erano recati a zappare le terre demaniali usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune: intimoriti dall’intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; assente il capo, s’era affacciato al balcone un subalterno che, per allontanare il tumulto, li aveva consigliati di ritornar pure a zappare; ma per via la folla aveva trovato il passo ingombro dalla milizia rinforzata; accennando di voler resistere, s’era veduta prima assaltare alla bajonetta; poi, a fucilate, per avere agitato in aria le zappe a intimorir gli assalitori. Dodici, i morti; più di cinquanta, i feriti: tra questi, alcuni bambini, uno dei quali crivellato da ben sette bajonettate».
[I vecchi e i giovani, p. 148]
[...] E il peggio era questo, che il Governo mandava solo soldati.
«E qual rovinio era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i Continentali a incivilirli… e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia… – Ridere, ridere! – incalzò donna Caterina con più foga. – Lo sa bene anche lei come quegli ideali si sono tradotti in realtà per il popolo siciliano! Che n’ha avuto? Com’è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e del Sessanta? Ma tutti i vecchi qua gridano: Meglio prima! Meglio prima! [...] Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane! Si stia zitto! Si stia zitto! Perché voi lo vedrete, – concluse. Faccio una facile profezia: non passerà un anno, assisteremo a scene di sangue».
[I vecchi e i giovani, p. 59]
[...] Tra il 1888 e il 1895, in Sicilia esplode il dramma della crisi agraria, che non è solo del grano ma anche del vino, per via della guerra tariffaria con la Francia, e si intreccia a quella dello zolfo, per via del prodotto americano.
A partire dagli ultimi mesi del 1892 la situazione diventa intollerabile.
De Felice, al processo, dirà che il raccolto dei grani del 1892 e del 1893 fu inferiore del 44 percento, e tutti gli altri di un terzo e un quarto. E qui si colloca la diffusione straordinaria dei Fasci nel contesto rurale, con l’adesione a essi non soltanto dei braccianti, ma anche di una porzione considerevole dei mezzadri e dei piccoli proprietari e di settori non irrilevanti di piccoli proprietari pesantemente penalizzati dalla crisi. Ad organizzarli «centinaia di giovani professionisti e studenti universitari siciliani, espressione di un fenomeno che negli ultimi anni del secolo vede settori certamente minoritari ma non insignificanti della gioventù studiosa siciliana abbracciare la causa del riscatto della loro terra» [Fedele].
Eccolo, il «dramma della generazione» di Pirandello.
[...] I Fasci non sono un fenomeno dell’arretratezza [...]:
lo scontro non è solo tra classi, ma direttamente con lo Stato – con la richiesta di abolire o ridurre le tasse comunali, sciogliere le amministrazioni locali –, non c’è mediazione dei partiti ma immediato protagonismo di masse popolari, e, soprattutto, utilizzano la piazza come luogo naturale ove la lotta trova il modo di esplicarsi in tutto il vigore. È la lotta di strada. È il tumulto. È l’insurrezione.
Tra il 1891 e il 1893 le contraddizioni politiche tra classi dirigenti dello Stato, la crisi economica, la crisi finanziaria, la recessione, e l’affacciarsi di una “cosa” che mai si era vista prima, un movimento sociale composito e insorgente, si concentrano tutte in un territorio. Tutto si aggroviglia lì, in Sicilia.
«Sapeva, sì, che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nelle province di Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le prime armi il socialismo italiano; ma tutt’altra cosa era adesso in Sicilia! Rivelazione improvvisa, prodigiosa!»
[I vecchi e i giovani, p. 170]
Quando ormai le stragi di contadini sono diventate quotidiane, lo stato d’assedio è proclamato, i dirigenti e i militanti dei Fasci sono già in prigione, Eduardo Boutet – un giovane brillante critico teatrale napoletano molto letto e seguito – pubblicava nel «Don Chisciotte» di Roma del 7 gennaio 1894 un articolo dal titolo: Sicilia verista e Sicilia vera. È un attacco frontale, senza riguardi, contro i grandi vecchi del verismo, del romanzo realista, Capuana e Verga:
«E voi scrittori siciliani, di novelle, di bozzetti, di macchiette e via, perché ne’ vostri libri, non avete narrate quelle sciagure? Luigi Capuana e Giovanni Verga hanno sempre dichiarato che essi riproducevano, dall’ambiente al carattere, il vero. [...] Altro che compari Turiddu e compari Alfio, e morsetti all’orecchio e male pasque a te e a me! Basta la storia squadernata al sole della sola zolfara per sentirsi spezzare l’anima. Invece compare Alfio se ne veniva a cantare allegramente alla ribalta: Oh, che bel mestiere fare il carrettiere. Ecco, è chiaro. Vuol dire che la Sicilia degli scrittori che riproducevano dal vero, è diversa, assai diversa, dalla Sicilia vera: popolo che soffre tutti gli strazi e tutti i soprusi, e che cerca nella morte la fine de’ patimenti più infami e più ingiusti. Vuol dire che la Sicilia-Cavalleria Rusticana, nella quale si può riassumere la macchietta, il bozzetto e la novella, era una Sicilia esercitazione letteraria, quindi retorica nel metodo, e nel fine una Sicilia d’osservazione in prima pelle, o in quanto si presta alla grazietta accademica e nulla più: di maniera. Vuol dire che quegli scrittori hanno forse tutte le doti di artisti, non mi riguarda, ma quando gridano di riproduzione dal vero non sono esatti: si sono fermati a’ giubbetti ed ai fioretti, e nelle anime non hanno guardato: se le anime avessero vedute e sentite ben altro dovere avrebbero dato alla loro letteratura. Con i carusi non si fanno i volumini gingilli e le illustrazioncelle civettuole pe’ salottini rococò!» [...]
Mario Rapisardi, il “lirico” poeta catanese di risonanza nazionale – Pirandello, in gioventù ne era affascinato, ma presto la sua scrittura se ne allontanò – aveva declamato nel Canto dei mietitori:
«O benigni signori, o pingui eroi, /
Vengano un po’ dove falciamo noi: /
Balleremo il trescon, la ridda, e poi… /
Poi falcerem le teste a lor signori».
Mario Rapisardi, Canto dei mietitori
[...] «L’uomo incappucciato esitò ancora un po’, prima di rispondere; volse intorno gli occhi sospettosi, poi mormorò, sempre dentro il cappuccio: – M’hanno parlato a quattr’occhi… Persona fidata… Dice che… E s’interruppe di nuovo. – Parla, parla, figlio mio, – lo esortò il Pigna. – Siamo qua soli… Che t’hanno detto? Gli occhi sospettosi sotto il cappuccio espressero lo sforzo penoso che colui faceva su se stesso per vincere il ritegno di parlare. Alla fine, stringendosi più al muro e stendendo appena fuor del cappotto una mano sul braccio del Pigna, domandò a bassissima voce: – È qua che si spartiscono le terre? Nocio Pigna, mezzo imbalordito per tutto quel mistero, restò a guardarlo un pezzo di traverso, a bocca aperta. – Le terre? – disse. – Le terre, no, figlio mio. Quegli allora alzò il mento e chiuse gli occhi, per un cenno d’intesa. Sospirò: – Ho capito. Mi pareva assai! Mi hanno burlato. E si mosse per andar via. Nocio Pigna lo trattenne. – Perché burlato? No, figlio mio… Senti… – Mi scusi Voscenza, – disse quegli, fermandosi per farsi dar passo. – È inutile. Ho capito. Mi lasci andare… – E aspetta, caro mio, se non mi dài il tempo di spiegarmi… – s’affrettò a soggiungere il Pigna. – Le terre, sissignore, verranno anche quelle… Basta volere! Se noi vogliamo… Sta tutto qui! Unione, corpo di Dio, e siamo tutto, possiamo tutto! La legge la detteremo noi: debbono per forza venire a patti con noi. Chi lavora? chi zappa? chi semina? chi miete? O date tanto, o niente! Questo per il momento. Il nostro programma… Vieni, ti spiego tutto… – Voscenza mi lasci andare… Non è per me…»
[I vecchi e i giovani, p. 101]
Al processo contro i dirigenti dei Fasci che si tenne a Palermo tra l’aprile e il maggio del 1894 davanti al Tribunale militare di guerra, il 28 aprile viene a testimoniare, a favore di Garibaldi Bosco, il deputato Antonio Marinuzzi, avvocato, un moderato riformista.
Tra le altre cose, dice:
«Anch’io sono per la proprietà collettiva in Sicilia perché è un concetto altamente storico.
I contadini nostri si trovano in condizioni peggiori di quando vi era il feudo. La proprietà in Sicilia è male organizzata; una migliore organizzazione non suppone che si debba dare la proprietà ai contadini, ma l’uso di pascere, di seminare, di legnare, usi inalienabili. Questo è un concetto santissimo, ma messo questo concetto in piazza a gente che non sa leggere e scrivere e che è vittima di ingiustizie, questo concetto scientifico, seminato in quel terreno, non produce gli effetti che dovrebbe produrre, perché capiscono invece quelle genti che devono dividere le terre col proprietario».
[«l’Ora», 28 ottobre 1974].
Quello capivano i contadini, che dovevano dividere le terre. [...]
«Che volevano infatti tutti quei suoi compagni? Ben poco, per il momento, in Sicilia.
Volevano che, per l’unione e la resistenza dei lavoratori, venissero a patti più umani i proprietarii di terre e di zolfare, e cessasse il salario della fame, cessassero l’usura, lo sfruttamento, le vessazioni delle inique tasse comunali, per modo che a quelli fosse assicurato, non già il benessere, ma almeno tanto da provvedere ai bisogni primi della vita. Volevano, adattandosi modestamente alle condizioni locali, l’impianto di cooperative di consumo e di lavoro e la conquista dei pubblici poteri; fra qualche anno trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell’isola; riuscir vittoriosi in qualche collegio politico, per aver controlli e banditori delle più urgenti necessità dei miseri nei Consigli comunali e provinciali e nella Camera dei deputati. Questo volevano. Ed era giusto. Non c’era altro da volere, altro da fare, per ora. E tanta esaltazione, dunque, e tanto fermento per ottenere ciò che forse nessuno, fuori dell’isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse: che in ogni casolare sparso nella campagna la lucernetta a olio non mostrasse più ai padri che ritornavano disfatti dal lavoro lo squallido sonno dei figliuoli digiuni e il focolare spento; che fossero posti in grado di divenire e di sentirsi uomini, tanti cui la miseria rendeva peggio che bruti. Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri, senza tanto fragor di minacce, senza bisogno d’assumere quelle arie d’apostoli, di profeti di paladini. Oneste, modeste aspirazioni, quasi evangelicamente disciplinate, da raggiungere grado grado, col tempo e con la chiara coscienza del diritto negato! Perché ancora, ancora dentro, esasperatamente, gli scattava la protesta: – No, non è questo? – Mancava il coro innumerevole, che era in Sicilia».
[I vecchi e i giovani, p. 174]
[...] Il giudizio di Croce sul gruppo dirigente dei Fasci è durissimo:
«Il torto di quegli uomini, di quei giovani, era di eccitare e tirarsi dietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di potersene valere per attuare idee che quelle non comprendevano e dalle quali erano lontanissime: cioè di tentare sia pure a fin di bene, un imbroglio; che non è cosa che possa mai partorir bene e, tessuta con l’inganno, merita di essere distrutta con la forza».
Una valutazione, che lo accomuna ai socialisti del tempo, sulla “impreparazione delle masse”, si accompagna a un’altra, che lo accomuna alla reazione del tempo, sull’uso della repressione.
Per alcuni versi, Croce non fa che riecheggiare Pirandello, la cui descrizione dei personaggi dirigenti dei Fasci locali è crudele:
«E dalla svoltata apparvero sotto un ombrellaccio verde sforacchiato, stanchi e inzaccherati, i due inseparabili Luca Lizio e Nocio Pigna, o, come tutti da un pezzo li chiamavano, Propaganda e Compagnia: quegli, uno spilungone ispido e scialbo, con un pajo di lenti che gli scivolavano di traverso sul naso, stretto nelle spalle per il freddo e col bavero della giacchettina d’estate tirato su; questi, tozzo, deforme, dal groppone sbilenco, con un braccio penzolante quasi fino a terra e l’altro pontato a leva sul ginocchio, per reggersi alla meglio. Erano i due rivoluzionarii del paese. Nocio Pigna aveva posto davanti e dietro e tutt’intorno a sé ragioni e sentimenti, tutte le sue disgrazie, com’armi di difesa contro a quelli che lavoravano accanitamente per levargli ogni credito. Più parlava e più le sue stesse parole accrescevano la sua persuasione e la sua passione. Ma a furia di ripetere sempre le medesime cose, col medesimo giro, queste alla fine gli s’erano fissate in una forma che aveva perduto ogni efficacia; gli s’erano, per dir così, impostate su le labbra, come bocche di fuoco che non mandavano più fuori se non botto, fumo e stoppaccio. Dentro, non aveva più nulla. Era un uomo che parlava, e nient’altro».
[I vecchi e i giovani, p. 25]
Un uomo che parlava, e nient’altro.
Un linguaggio di parole, ciò che Pirandello massimamente detestava.
Un imbrogliare, lo definisce Croce. In un certo senso, l’appello che i dirigenti dei Fasci – Barbato, Bosco, De Felice, De Luca, Leone, Montalto, Petrina, Verro – lanciarono dalla “clandestinità” il 3 gennaio sembra dargli ragione:
[...] Avevano acceso «sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco». Ora, nessuno sapeva più cosa fare. E il governo mandava solo soldati.
[...]
Pubblichiamo un articolo di Lanfranco Caminiti su «I vecchi e i giovani» di Pirandello.
di minima&moralia pubblicato martedì, 14 agosto 2012
http://www.minimaetmoralia.it/wp/a-centanni-da-i-vecchi-e-i-giovani-di-pirandello-insurrezione-e-narrazione/