lunedì 28 novembre 2016

Allport. La natura del pregiudizio. Se una persona è in grado di rivedere i suoi giudizi errati alla luce di nuove prove, egli è immune dai pregiudizi. Un pensiero diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Un pregiudizio, a differenza di un semplice concetto erroneo, resiste attivamente a qualsiasi prova della realtà.

Se una persona è in grado di rivedere i suoi giudizi errati alla luce di nuove prove, egli è  immune dai pregiudizi. Un pensiero diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Un pregiudizio, a differenza di un semplice concetto erroneo, resiste attivamente a qualsiasi prova della realtà.
La natura del pregiudizio, 1973
Gordon Willard Allport, 11 novembre 1897


Il giardino dei Finzi-Contini. Una delle forme più odiose di antisemitismo era precisamente questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza COME gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all'ambiente circostante, lamentare l'opposto: che fossero tali e quali agli altri, cioè, nemmeno un poco diversi dalla media comune.

Il manoscritto de Il Gattopardo mi venne segnalato nell'autunno del 1957. 
Lampedusa era già morto. 
La persona amica che me ne parlò per prima mi confidò d'avere l'impressione che il manoscritto fosse di mano d'una anziana signorina dell'aristocrazia palermitana. Incuriosito, andai a ritirare il testo. Ricordo che il pacchetto m'era stato lasciato nella guardiola del portinaio. Lo aprii immediatamente e cominciai lì stesso, a scorrerne le prime righe. Ebbi subito l'impressione che non si trattasse affatto d'un'anziana signorina, ma di un vero scrittore. Seppi, più tardi, che il manoscritto era del principe Tomasi di Lampedusa che avevo conosciuto, due anni prima, a San Pellegrino insieme a Lucio Piccolo, il poeta suo amico, in un incontro di giovani scrittori.
A quell'incontro era venuto, in treno dalla Sicilia, accompagnato da un servitore, anche Lampedusa. Quando fui più avanti nella lettura del manoscritto, il mio interesse si trasformò in entusiasmo. Chiamai la vedova a Palermo e ricordo che la principessa, con quel suo strano accento russo-tedesco, mi chiese al telefono: «Ma lei crede veramente che si tratta di bello libro?». 
«Stupendo», risposi e aggiunsi che avrei richiamato appena completato il manoscritto. 
Quando finii la lettura, mi accorsi per la verità che il testo era un po’ tronco nel finale e di ciò parlai con la vedova dell'autore in una seconda conversazione. 
La principessa a quel punto mi chiese:
« Lei crede che starebbe bene un ballo verso la fine?»
Giorgio Bassani ricorda, nel ventennale della morte, 
Giuseppe Tomasi di Lampedusa;  Repubblica, 22 luglio 1957




Ieri sera a letto mi ero messo dalla parte destra quella che occupa lei quando è qui e stamani svegliandomi mi son ritrovato a sinistra di dove nel buio ascolto insonne talora il battito possente del suo esserci. Cosa mi ha indotto dunque durante la notte ad abbandonare lo spazio del suo grande corpo assente se non l'ansia d’essere anche io niente?
Giorgio Bassani, A letto

I luoghi dove si ha pianto, dove si ha sofferto, e dove si trovarono molte risorse interne per sperare e resistere, sono proprio quelli a cui ci si affeziona di più.
Giorgio Bassani.


“Chissà come nasce e perché una vocazione alla solitudine.”
Giorgio Bassani


Cara Jenny,
per disegnare bene bisogna essere molto cattivi, ricordatelo, 
bisogna smontare il mondo per ricostruirlo pezzo per pezzo con infinita pazienza.
Giorgio Bassani


Chi corre dietro al pubblico, vuol dire che dentro di sé non ha niente
Giorgio Bassani


lascia ch'io torni al mio paese sepolto nell'erba come in un mare caldo e pesante. 
let me return to my home town entombed 
in grass as in a warm and high sea
Giorgio Bassani, “Saluto a Roma.” 
Epigraph from The Lowland by Jhumpa Lahiri.


Venezia soffre soprattutto delle conseguenze di una cultura che tende ad estrapolarla, a farne qualcosa che non appartiene più alla vita, ma soltanto ai sogni dei poeti (dei cattivi poeti, tuttavia, giacché i poeti veri hanno, e come!, il senso del rapporto tra l'arte e la vita).
Giorgio Bassani, Un Paese sacro



"Il professor Bianchi, d'italiano, aveva cominciato le lezioni declamando una canzone di Dante, e un verso, di questa, mi aveva straordinariamente colpito. Diceva: 
«L'essilio che m'è dato a onor mi tegno». 
Poteva essere la mia divisa – pensavo –, il mio motto. 
Giorgio Bassani, Dietro la porta. p. 16


[...] Tardo a capire, incapace d'un solo gesto e d'una sola parola, inchiodato alla mia viltà e al mio livore, io rimanevo il solito piccolo, impotente sicario di sempre. E la porta dietro la quale ancora una volta mi nascondevo (a lui, Luciano, e a mia madre insieme...), né adesso né mai avrei potuto trovare, in me, la forza e il coraggio necessarii a spalancarla.
Giorgio Bassani, Dietro la porta. Explicit



Non c'è nulla più dell'onesta pretesa di mantenere distinto nella propria vità ciò che è pubblico da ciò che è privato, che ecciti l'interesse indiscreto delle piccole società perbene. 
Giorgio Bassani, Gli occhiali d'oro, p.  231


«La guardi», diceva intanto Fadigati, indicandomela [la cagna]. 
«Forse bisognerebbe essere così, sapere accettare la propria natura. 
Ma d'altra parte come si fa? È possibile pagare un prezzo simile? 
Nell'uomo c'è molto della bestia, eppure può, l'uomo, arrendersi? 
Ammettere di essere una bestia, e soltanto una bestia?» 
Scoppiai in una gran risata. 
«Oh, no», dissi. «Sarebbe come dire: 
può un italiano, un cittadino italiano, 
ammettere di essere un ebreo, e soltanto un ebreo?» [...]
«Che cosa dovrei fare?», lo interruppi con impeto. 
«Accettare di essere quello che sono? 
O meglio adattarmi ad essere quello che gli altri vogliono che io sia?» 
Giorgio Bassani, Gli occhiali d'oro, p. 304




La gioia di mio padre – pensavo – era quella dello scolaretto ingiustamente espulso, il quale, richiamato indietro per ordine del maestro dal corridoio deserto dove rimase per un poco di tempo in esilio, si trovi, a un tratto, contro ogni sua aspettativa, riammesso in aula fra i cari compagni: non soltanto assolto, ma riconosciuto innocente e riabilitato in pieno. Ebbene non era giusto, in fondo, che mio padre gioisse come quel bambino? Io però no. Il senso di solitudine che mi aveva sempre accompagnato in quei due ultimi mesi diventava se mai, proprio adesso, ancora più atroce: totale e definitivo. Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Mai più. 
Giorgio Bassani, Gli occhiali d'oro, pp. 317-318


Explicit
Respirai profondamente. E adesso capivo, sì, già prima che cominciassi a leggere il mezzo colonnino sotto il titolo, il quale non parlava affatto di suicidio, s'intende, ma, secondo lo stile dei tempi, soltanto di disgrazia. (A nessuno era lecito sopprimersi, in quegli anni: nemmeno ai vecchi disonorati e senza più alcuna ragione di restare al mondo...)
Non finii di leggerlo, comunque. Abbassai le palpebre. Il battito del cuore ridiventava a poco a poco regolare. Aspettai che l'Elisa chiudesse dietro di sé la porta di cucina, e poi, quietamente, ma subito:
«È morto il dottor Fadigati», dissi.



"È il dolore di uno spazio (il giardino, la tomba, la Hutte) senza attesa, senza incontro; dove i morti sfiorano i vivi passando loro oltre, limitandosi a un cenno confidente e discreto come quello di Micol sotto il talèd paterno. Il pudore di Bassani nasce dalla consapevolezza di essere l'unico corpo dolorosamente ancora vivo in una processione di ombre. Nulla è reale ne Il giardino dei fimi-Contini perché nulla è ancora compiuto. Per questo in tutto il romanzo ce un solo vero abbraccio, quello tenerissimo fra il protagonista e suo padre. Per questo Micol reagisce ai baci di Giorgio guardando «davanti a se», distante anche nel sesso, e se ama qualcosa sono gli alberi pensierosi e antichi e il sandolino, creatura di pietra e sabbia e «almeno lì, nulla sarebbe mai cambiato», come in una pazienza ricoperta di erbe selvagge." 
A.A. da Cento romanzi italiani (1901-1995)
Manoscritto,donato dalla moglie alla fondazione Bassani di Ferrara


Il cimitero era un vastissimo campo recintato, ai piedi dei bastioni della città. 
Le lapidi parevano poche per quello spazio; si notavano più fitte soltanto nel tratto di verde dove cadeva l'ombra del muro di cinta.
Giorgio Bassani, Il muro di cinta. Incipit.


Soltanto l'insistenza del padre aveva potuto indurre Girolamo Camaioli a seguire i funerali dello zio Celio. «Il cancro non perdona», aveva detto. 
Giorgio Bassani, Il muro di cinta, p. 8

Dopo il funerale – prevedeva Girolamo – suo padre avrebbe parlato della malattia e della morte, che adesso come non mai avrebbe intuito imminente. «Quante sofferenze prima di chiudere gli occhi, povero Celio!», avrebbe detto. «Ma dopo la morte non c'è più nulla». Solo i morti stanno bene. Giorgio Bassani, Il muro di cinta, p. 9

Giorgio Bassani, Il muro di cinta. Explicit
La mamma, sorridendo come solo sanno sorridere i morti nella memoria, pieni di compatimento e di indulgenza [...], gli aveva posato dolcemente una mano sulla bocca. Quindi gli aveva legato un fazzoletto intorno al ginocchio.



In Hitler il popolo tedesco ha trovato riassunti, al di sopra di ogni schema tradizionale di divisioni classistiche, alcuni dei motivi essenziali da sempre ritornanti a definire il proprio carattere, la fisionomia del proprio ethos: il gusto della violenza, il misticismo «romantico», la fanatica dedizione a un ordine meccanico, disumano. Hitler sapeva trascinare il grande industriale con l'esca dell'interesse e col ricorso al mito prediletto della supremazia tedesca nel mondo; affascinava il piccolo borghese col suo estetismo pompier, con la sua oratoria accesa e volgare, pronta sempre ad offrire, di ogni problema, la soluzione più semplicistica; piaceva all'intellettuale decadente, permeato di femmineo postnicianesimo (l'intelligencija tedesca già nel 1914 era in stato fallimentare come nessun'altra in Europa), per la sua ostentata energia virile, per il suo dichiarato disprezzo di ogni indugio morale o sentimentale, per quel suo rozzo materialismo demagogico che, nonostante tutto, pretendeva considerazione «spirituale». Conquistava infine anche l'operaio, facendo leva non soltanto sul suo sciovinismo non perfettamente esorcizzato, ma porgendogli, anche, delle sue rivendicazioni sociali, un'attuazione più concretamente immediata, meno utopica e intellettualistica di quanto non gliela prospettasse il programma della rivoluzione proletaria: e fosse pure nei limiti di una umiliante, paternalistica nota di concessioni padronali. [...] il nazismo non è certo la realizzazione di un genio. Hitler è effettivamente uno dei tanti [...]. 
Parlare di tirannide perciò non persuade. Esiste una tecnica della tirannide, esposta in classiche trattazioni. Ma il nazionalsocialismo al potere non ne tiene conto per nulla, e in questo sì che è rivoluzionario. Assolutista, il nazismo raggiunge la popolarità proprio in ragione del suo prepotere. [...] Il nazionalsocialismo, al contrario, non concede nessuna rivincita, sia pure formale, alle avanguardie dello Spirito. Il suo cinismo, la sua crudeltà, la sua perfidia, trovano dall'inizio tutta una orgogliosa cultura preparata a giustificarli, a farseli propri. La tirannide non presenta più il viso odioso e meschino del regime di polizia, non adopera più di soppiatto, tra impaurita e feroce, i vecchi mezzucci della sobillazione e della calunnia, ma si accampa, fanatica e violenta, con la sicurezza, l'intransigenza esclusiva di una religione messianica. [...]
Sentirsi puri, non contaminati. Il popolo tedesco ha sempre reagito alle proprie crisi con un disperato, irrazionale desiderio di purezza: e la rivolta luterana – a un livello umano e ideale ben diverso, d'accordo – rappresenta forse il primo, imponente documento storico di questo impulso innato. Sorto dopo Versaglia, il nazionalsocialismo non si è tanto imposto con la violenza alle masse, quanto piuttosto le ha trovate già pronte ad accoglierlo e ad acclamarlo. 
Giorgio Bassani, Di là dal cuore
da La rivoluzione come gioco; p. 44


La disinvoltura linguistica del dialogo manzoniano cos'altro è se non il segno, la spia, di una religione indifferente alla realtà, alla realtà così com'è intesa dai romanzieri realisti? (da Per un nuovo film sui Promessi Sposi; p. 199)
In un mondo come il nostro, volto con sempre più consapevole determinazione, ad est e ad ovest, a nord e a sud, alla ricerca e all'impiego delle competenze e dei talenti, non mi pare che sia il caso da parte degli scrittori di invocare una inserzione nell'ingranaggio della gran macchina produttiva ancora più diffusa e completa di quella attuale. [...] E così bisogna servire, rendersi utili, collaborare [...]. L'unica cosa da pretendere sarà se mai un'altra: e cioè che il nostro servizio, la nostra collaborazione, non abbiano a risolversi in una alienazione della nostra natura e del nostro destino. [...] vendere l'anima: ecco uno sbaglio che l'utente vero, il destinatario autentico e indispensabile, così poco adatto a far parte delle inerti assemblee consumistiche vagheggiate dalle fantasie dei tecnici e dei datori di lavoro, non perdona mai. (da Lo scrittore e i mezzi di diffusione della cultura; pp. 209-210)
La vita è musicale, si sa. Sui suoi temi fondamentali, sulle sue frasi più intense, non ama indugiare. (da Prefazione al Gattopardo; p. 218)


"L'italiano chi è? È quello rappresentato da Alberto Sordi:
oltre alla sua macchina e alla sua famiglia, non va."
Giorgio Bassani


Perché i popolani italiani uscissero dal loro ghetto, non c'è mai stato che un mezzo, imparare il latino per poi passare all'italiano nazional-popolare del Manzoni. Era impensabile non passare attraverso il latino. Oggi, qui in America, [per gli immigrati italiani bilingui] invece del latino c'è l'inglese.“Una mostra in Canada, 1980
Giorgio Bassani


E pur respingendo le aberrazioni deliranti di certa medicina «industriale», o meglio fantascientifica, badiamo piuttosto, specialmente noi letterati, a debellare quella che fra le malattie contemporanee è la più diffusa nell'ambito della categoria: l'estetismo, il culto narcisistico del proprio io spirituale, insaziato di privilegi ottenuti a scapito di chi, come patrimonio personale, non può disporre che del proprio corpo, a scapito dei più...
Giorgio Bassani, In risposta, IV, 7, p. 357



"[In Italia] Dopo la dittatura non si è verificato il trapasso alla democrazia, ma solo la spartizione fra i partiti del potere e dello spazio politico. Siccome lo Stato non c'è, gli intellettuali, a seconda delle loro inclinazioni ideologiche, si lasciano assorbire dai vari potentati."
Giorgio Bassani, La missione della cultura, 1973




"Un parco naturale, signor presidente, è, prima che una forma di gestione del territorio a scopi conservatori, una grande occasione di turismo, di quello vero, di quello cioè che visita un parco rispettandone i valori e rinunciando a pretenderne il sacrificio con ragnatele di impianti e strade con costruzioni cementizie."
Giorgio Bassani, Tutela del paesaggio in Trentino, 1973


"E dunque: perché ci si gingilla, tuttora, con l'invio sul posto di comitati o comitatoni ministeriali? Non sartà soltanto perché passi dell'altro tempo, giusto il tempo necessario perché anche i bambini si rassegnino all'idea di una Venezia chiusa da ogni parte dentro un anello di superbe dighe cementizie, più o meno olandesi o longanoriane: di una Venezia in bagnarola?"
Giorgio Bassani, L'amministrazione dei beni culturali, 1969




"Il giardino dei Finzi-Contini non è mai esistito a Ferrara, me lo sono inventato.
L'ho collocato a Ferrara perché mi serviva da un punto di vista poetico, avevo bisogno di un fatto di questo genere, e non è mai esistito, né sono mai esistiti i Finzi-Contini come famiglia, né tanto meno Micòl Finzi-Contini. Me lo chiedono in molti: ma è esistita veramente Micòl? Non è mai esistita. Però, naturalmente, Micòl è esistita in quanto che sono esistito io, esisto io, è una forma del mio sentimento, è una parte di me."
Giorgio Bassani, Ecologia e letteratura, 1984



"Tenendosi a braccetto, alcune ragazze formavano a volte delle catene tutte femminili di cinque o sei. Strane, mi dicevo, guardandole. Nell'attimo che le incrociavamo, scrutavano attraverso i cristalli coi loro occhi ridenti, nei quali la curiosità si mescolava a una specie di bizzarro orgoglio, di disprezzo appena simulato. Davvero strane. Belle e Libere."
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini



Era il “nostro” vizio, questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini

Più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale, insufficiente.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini

Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini


"a chi gli da retta il cuore ha sempre qualcosa da dire su quello che sarà.
Ma in fondo cosa sa il cuore?
Appena un poco di quello che ha già vissuto."
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, prefazione 


Io… io le stavo «di fianco», capivo? 
Non già «di fronte», mentre l'amore - così, almeno, se lo immaginava lei - era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda: uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d'animo e onestà di propositi.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini


Tacque per qualche istante, gli occhi fissi al soffitto. 
Quindi, appoggiatasi col gomito al guanciale, riprese a parlarmi: ma seria, adesso, grave.
Disse che le dispiaceva darmi un dolore, che le dispiaceva moltissimo. 
D'altra parte bisognava pure che me ne convincessi: non era assolutamente il caso che sciupassimo, come stavamo rischiando, i bei ricordi d'infanzia che avevamo in comune. 
Metterci a far l'amore noi due! Mi pareva davvero possibile?
Domandai perché le sembrasse tanto impossibile.
Per infinite ragioni - rispose - ma soprattutto perché il pensiero di far l'amore con me la sconcertava, l'imbarazzava: tale e quale come se avesse immaginato di farlo con un fratello, toh, con Alberto. 
Era vero, da bambina lei aveva avuto per me un piccolo «striscio»: e chissà, forse era proprio questo che adesso la bloccava talmente nei miei riguardi. Io… io le stavo «di fianco», capivo?, non già «di fronte», mentre l'amore (così almeno se lo figurava lei) era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d'animo e onestà di propositi.

Maudit soit à jamais le réveur inutile qui voulut le premier, dans sa stupidité, s'éprenant d'un problème insoluble et stérile aux choses de l'amour méler l'honnéteté!

aveva ammonito Baudelaire, che se ne intendeva. 
E noi? Stupidamente onesti entrambi, uguali in tutto e per tutto come due gocce d'acqua 
(«e gli uguali non si combattono, credi a me!»), avremmo mai potuto sopraffarci l'un l'altro, noi, desiderare davvero di «sbranarci»? No, per carità. Visto come il buon Dio ci aveva fabbricati, la faccenda non sarebbe stata né augurabile né possibile.

Giorgio Bassani - Il giardino dei Finzi-Contini




Quanti anni sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? 
Più di trenta. 
Eppure, se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini 
sta ancora là, affacciata al muro di cinta del suo giardino, che mi guarda e mi parla.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini


Nelle pause del gioco, oltre ad addentare qualche panino che sempre, non senza ostentazione di anticonformismo religioso, sceglieva tra quelli al prosciutto di maiale, Micòl tracannava a piena gola un intero bicchiere del suo caro «beverone», incitandoci di continuo a prenderne anche noi «in omaggio» – diceva ridendo – «al defunto Impero austro-ungarico».
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini


Anche le cose muoiono, caro mio.
E dunque, se anche loro devono morire, tant'è, meglio lasciarle andare.
C'è molto più stile, oltre tutto, ti sembra?
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini

Contai via via più di trenta coppie.
E sebbene, a volte, passassi loro così vicino da sfiorarli con la ruota,
nessuno, mai, che desse segno di accorgersi della mia presenza silenziosa.
Mi sentivo, ed ero, una specie di fantasma trascorrente:
pieno di vita e di morte insieme; di passione e distaccata pietà.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini


Io ero rimasto qui, e per me che ero rimasto, e che ancora una volta avevo scelto per orgoglio e aridità una solitudine nutrita di vaghe, nebulose, impotenti speranze, per me in realtà non c'era più speranza, nessuna speranza.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini


"Una delle forme più odiose di antisemitismo era precisamente questa: 
lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza COME gli altri
e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all'ambiente circostante, 
lamentare l'opposto: che fossero tali e quali agli altri, cioè, 
nemmeno un poco diversi dalla media comune."
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini.




«Ti passerà» continuava, «ti passerà, e molto più presto di quanto tu non creda. Certo, mi dispiace: immagino quello che senti in questo momento. Però un pochino t’invidio, sai? Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, ‘deve’ morire almeno una volta.
E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare… Capire da vecchi è brutto, molto più brutto. Come si fa? Non c’è più tempo per ricominciare da zero, e la nostra generazione ne ha prese talmente tante, di cantonate! Ad ogni modo, se Dio benedetto vuole, tu sei così giovane! Tra qualche mese, vedrai, non ti sembrerà neanche vero di essere passato in mezzo a tutto questo. Sarai magari perfino contento.
Ti sentirai più ricco, non so… più maturo…»
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, Einaudi, 1962; pp.277-78.


Quando Micòl ebbe deposto il ricevitore sollevai il capo.
«Hai detto che noi due siamo uguali» dissi. «In che senso?»
Ma sì, ma sì – esclamò – e nel senso che anch'io, come lei, non disponevo di quel gusto istintivo delle cose che caratterizza la gente normale. Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale, insufficiente… Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse «subito» passato perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio era anche sua, tale e quale. Era il «nostro» vizio, questo: d'andare avanti con le teste sempre voltate all'indietro. Non era così?
Era così – non potei fare a meno di riconoscere dentro me stesso – era proprio così.
Quand'è che l'avevo abbracciata? Al massimo un'ora prima.
E tutto era già tornato irreale e favoloso come sempre:
un evento da non crederci, o da averne paura.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini



Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del possesso delle cose contava la memoria di esse, la memoria di fronte alla quale ogni possesso, in sé, non può apparire che delusivo, banale, insufficiente. Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse subito passato, perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio, era anche sua, tale e quale. Era il nostro vizio, questo: d’andare avanti con la testa sempre voltata all’indietro
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini



«Si capisce», rispose. «I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti» – e di nuovo stava raccontando una favola –, «che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti».
[...] toccò a Giannina impartire la sua lezione.
«Però adesso che dici così», proferì dolcemente, «mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri».
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini
(prologo)


Lì, tuttavia, nel breve recinto sacro ai morti familiari...almeno lì [...] nulla sarebbe mai cambiato. Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini
(prologo)

In fase di espansione imperialistica il capitalismo non può che mostrarsi intollerante nei confronti di tutte le minoranze nazionali, e degli ebrei, in particolare, che sono la minoranza per antonomasia.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, II, I; 2012, p. 52


La verità è che a furia di far collezioni, di cose, di piante, di tutto,
si finisce a poco a poco col voler farle anche con le persone.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, II, I; 1991, p. 56


Una delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all'ambiente circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media comune.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, III, V; 1991, p. 137


Mi aggrappavo alla scrivanietta che il professore Ermanno dal gennaio scorso aveva fatto collocare per me sotto la finestra di mezzo del salone del biliardo, come se, così facendo, mi fosse dato di arrestare l'inarrestabile progresso del tempo.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, III, VI; 2012, p. 130

Qui sedevamo noi, i vivi [...] tristi e pensierosi come dei morti. [...]
Anche se li sapevo [...] disadatti a valutare la reale portata dell'oggi li vedevo, avvolti nella memoria. Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, III, VII; 2012, p. 137


Ancora qualche secondo, e avrei udito la sua voce, il suo «ciao».
«Ciao» disse Micòl, ferma sulla soglia. «Che bravo, a venire.»
Avevo previsto tutto con molta esattezza: tutto, tranne che l'avrei baciata.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, III, VII; 2012, p. 140


Ora lui, Bartleby, finché lo mettevano a scrivere, ci dava dentro a sgobbare coscienziosamente.
Ma se a Spencer Tracy veniva in testa di affidargli qualche lavoretto supplementare, come quello di collazionare una copia sul testo, originale, o di fare un salto dal tabaccaio all'angolo della strada per comperare un francobollo, lui niente: si limitava a sorridere evasivo, e rispondere con educata fermezza: «I prefer not to».[1Cfr. Herman Melville.]
«E per quale motivo, poi?» chiesi, tornando col libro in mano.
«Perché non gli andava di far altro che lo scrivano. Lo scrivano e basta.»
«Però scusa» obbiettai. «immagino che Spencer Tracy gli passasse un regolare stipendio.»
«Certo» rispose Micòl. «Ma cosa significa? Lo stipendio paga il lavoro, mica la persona che lo compie.» [...]
Discutemmo abbastanza a lungo sul povero Bartleby e su Spencer Tracy. Lei mi rimproverava di non capire, di essere «un» banale, il solito inveterato conformista.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, IV, II; 1991, pp. 173-174)


[...] ebbi il senso preciso che stavo perdendola, che l'avevo perduta.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
IV, II; 2012, p. 158

Eh, sì, tagliare la corda è facile: ma a cosa porta, quasi sempre, specie in materia di «situazioni morbide»? Novantanove volte su cento la brace continua a covare sotto la cenere: col magnifico risultato che dopo, quando due si rivedono, parlarsi tranquillamente, da buoni amici, è diventato difficilissimo, pressoché impossibile.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
IV, III; 1962, p. 221; 1990, p. 398


Domandai [a Micòl] perché le sembrasse tanto impossibile [che lui e lei potessero fare l'amore].
Per infinite ragioni – rispose –: la prima delle quali era che a pensar di far l'amore con me le riusciva altrettanto imbarazzante che se avesse pensato di farlo con il fratello, toh, con Alberto. Era vero: da bambina, aveva avuto per me un piccolo striscio: e chissà, forse era proprio questo che adesso la bloccava talmente nei miei riguardi. Io… io le stavo di fianco, capivo?, non già di fronte: mentre l'amore – così, almeno, se lo immaginava lei – era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda: uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d'animo e onestà di propositi.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
IV, III; 1962, p. 222; 1990, p. 399


[...] più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale, insufficiente.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
IV, III; 2012, p. 163

Era il 'nostro' vizio questo: d'andare avanti con le teste sempre voltate all'indietro.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
IV, III; 2012, p. 163

Non gli restava che comportarsi come Don Abbondio. Inchinarsi, e mormorare:'Disposto sempre all'obbedienza'.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
IV, IV; 2012, p. 170


Ma Micòl non discese, per questo, dal piedistallo di purezza e di superiorità morale su cui, da quando ero partito per l'esilio, l'avevo collocata. Essa continuò a rimanerci, lassù. Io, per me, mi consideravo fortunato di essere stato riammesso ad ammirarne ogni tanto l'immagine lontana, bella di dentro non meno che di fuori.
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
1962, p. 242









domenica 27 novembre 2016

La calunnia del femminicidio. Violenza è violenza, a prescindere dal genere. Quella femminile viene raccontata molto di più perchè é una forma di violenza messa in atto da un "forte" su un "debole" (idealmente), quella maschile non viene raccontata, e credo forse potrebbe essere riconducibile a un senso di vergogna e umiliazione? (la vittoria di un "debole" su un "forte"? idealmente e ipoteticamente). Ma anche gli uomini subiscono violenza sia fisica che psicologica, e le donne possono essere altrettanto malvagie e malate. La violenza é tale a prescindere dal genere, razza e specie.





Violenza è violenza, a prescindere dal genere. 
Quella femminile viene raccontata molto di più perchè é una forma di violenza messa in atto da un "forte" su un "debole" (idealmente), quella maschile non viene raccontata, e credo forse potrebbe essere riconducibile a un senso di vergogna e umiliazione? (la vittoria di un "debole" su un "forte"? idealmente e ipoteticamente). Ma anche gli uomini subiscono violenza sia fisica che psicologica, e le donne possono essere altrettanto malvagie e malate
La violenza é tale a prescindere dal genere, razza e specie.



LO STATO DELLA RICERCA IN MATERIA DI VIOLENZA DOMESTICA
Quando la bugia sembra vera nasce la calunnia

2. LA CALUNNIA DEL FEMMINICIDIO
Posted on 19 agosto 2013 by pct38

Il termine “femminicidio” è stato coniato da Maria Marcela Lagarde 
– una femminista comunista messicana – ed è divenuto popolare per via del  film “Bordertown”, 
che narrava delle migliaia di donne uccise nella città messicana di Ciudad Juarez. 
Secondo la teoria femminista venivano uccise in quanto donne da maschi violenti nell’indifferenza della polizia. Secondo la realtà, Ciudad Juarez (la vecchia El Paso dei film western, oggi situata sul confine con gli Stati Uniti) è diventata il crocevia mondiale del narcotraffico e la città con più omicidi al mondo, con la polizia impotente a fermare le guerre fra i cartelli della droga. I becchini fanno gli straordinari tutte le sere, e l’80% dei circa 10 mila omicidi sono stati a danno di uomini.  Molti di questi omicidi vengono compiuti da donne killer, attive soprattutto nel cartello Los Zetas, preferite ai killer uomini perché meno sospettabili. In una retata  nel campo di addestramento per killer di San Cristobal de la Barranca la polizia catturò molte assassine.
Le più note sono Maria del Pilar Narro Lopez, alias “la comandante Bombon” e Maria Jimenez, che catturata dopo decine di omicidi ha confessato:

«noi donne lo facciamo per il denaro. Mi misi ad uccidere diventando sicario a tempo pieno insieme a ragazze così belle e con unghie grandi e affilate come coltelli che ispiravano pensieri inverecondi». [Corriere della Sera, 16/8/2011, “Le donne di Ciudad Juarez: vittime, madri e sicarie”].

Ma l’eroina delle femministe è Diana La Cazadora, l’assassina seriale che ammazza uomini.

Femministe occidentali notarono che “femminicidio” era un termine che colpiva la fantasia e consentiva di calunniare gli uomini.

E così il femminicidio è un fenomeno esploso in Italia dal 2010, ma solo sui media, che hanno diffuso questa parola inventata apposta per odiare gli uomini, per far credere che esista una strage di donne, per chiedere leggi secondo cui la vita di una donna ha più valore della vita di un uomo.

Secondo la propaganda femminista ripresa dalla stampa, l’ONU avrebbe detto che “femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni”.   Questa stupidaggine non la ha detta l’ONU, ma una femminista (Rashida Manjoo) che presiede un comitato femminista (CEDAW)  tollerato dentro l’ONU.

La realtà dei veri dati del vero ONU [2011 Global Study on Homicide, UNODC Homicide Statistics] è che:

L’Italia è uno dei paesi al mondo con il più basso tasso di omicidi femminili:  
5 per milione all’anno, circa la metà che nei nostri paesi confinanti 
(9 per milione per anno in Francia, 7 in Svizzera, 13 in Austria…). 
Fra i grandi paesi, solo Giappone, Irlanda e Grecia hanno tassi minori. 
Una donna italiana ha, in tutta la sua vita, una probabilità dello 0.05% di subire un omicidio. 
Se non ci fossero altre cause di morte, una donna vivrebbe in media 200mila anni prima di subire un omicidio. Per fare un confronto, è la stessa probabilità di morire in un incidente con un trattore: 
in entrambi i casi circa 150 decessi all’anno [Dati ASPAS 2010].  
Nessuno parla di ‘trattoricidio’. Il numero di donne che si suicidano (22 per milione per anno) è più del quadruplo di donne vittime di omicidio. Nessuno parla di “auto-femminicidio”.  
Unico vero numero da strage è quello dei bambini abortiti 
(7800 per milione di donne per anno, per un totale di 5 milioni dal 1982 ad oggi nella sola Italia).

In Italia il tasso di omicidi maschili è di 16 per milione all’anno, 
cioè vengono uccisi più di 3 uomini per ogni donna uccisa. 

Sia uomini che donne uccidono in prevalenza uomini: circa 400 ogni anno.  
Le donne assassine uccidono nel 39% dei casi donne, e nel 61% dei casi uomini.  
Gli uomini assassini uccidono nel 31% dei casi donne, e nel 69% dei casi uomini
[Ministero dell’Interno, Rapporto sulla Criminalità, “Gli omicidi volontari”, Tabella IV.18, “Genere della vittima secondo il genere dell’autore di omicidio commesso in Italia tra il 2004 e il 2006”]. 

Ricerche criminologiche indicano che il numero di donne assassine è sottostimato in quanto le donne hanno maggiore tendenza a commissionare omicidi e ad uccidere avvelenando. Nessuno parla del ‘maschicidio’.  

In Italia il tasso di suicidio di uomini separati è di 284 per milione all’anno [Dati EURES 2009]. 
Nessuno ne parla, sebbene si tratti di una vera strage di stato: 
il tasso di suicidi si quadruplica con la separazione, 
anche a causa delle sentenze  che privano i papà dei loro figli, della loro casa, del loro reddito.

Il femminicidio non esiste in nessun paese al mondo: ovunque vengono uccisi più uomini che donne. Gli unici paesi nei quali il tasso di donne uccise è quasi pari al tasso di uomini uccisi sono quelli che hanno adottato politiche femministe (47% di omicidi femminili in Croazia, 41% in Norvegia…) o dove le donne partecipano alla vita pubblica (49% di omicidi femminili in Germania, 48% in Svizzera…).  Viceversa, il tasso di omicidio di donne è una piccola percentuale del totale di omicidi nei paesi dove molte donne preferiscono il ruolo femminile tradizionale (7% in Grecia, 18% in Irlanda, 23% in Italia…).
a3
La realtà è l’opposto dell’ideologia femminista, secondo cui esisterebbe un “patriarcato” che opprime ed uccide le donne.
Riassumendo:
a2
Come mai il fenomeno più piccolo di tutti, gli omicidi di donne, riceve l’attenzione maggiore? 

In parte è perché gli omicidi, pur essendo una causa di morte statisticamente marginale, ricevono molta attenzione sui media.  Questo causa una percezione distorta della realtà, similmente a come accade per gli incidenti aerei:  sono eventi così rari che finiscono in prima pagina, mentre gli incidenti stradali sono così frequenti che non fanno notizia. Gli aerei, il mezzo di trasporto più sicuro, vengono così percepiti come pericolosi.  Allo stesso modo gli omicidi più rari, quelli di donne, attirano più attenzione.

Ma soprattutto, grazie a campagne di disinformazione finalizzate a costruire l’allarmismo del femminicidio, gestiste da professioniste che farebbero invidia a Wanna Marchi. Lo scopo è ottenere leggi che discriminano contro gli uomini, che radicano nella legge la falsa ideologia femminista [Convenzione di Istanbul, per ora ratificata da Montenegro, Albania, Turchia, Portogallo e Italia ma non dai paesi seri] ma soprattutto far avere un ruolo istituzionale e finanziamenti pubblici per i centri anti-violenza e per le avvocate femministe:

«Norme per il contrasto al femminicidio.
il centro antiviolenza che presta assistenza alla persona offesa può intervenire in giudizio …
La gestione delle case e dei centri delle donne è assicurata attraverso convenzioni…
Agli oneri derivanti dalla presente legge, pari a 85 milioni di Euro…» 
[Decreto-Legge 14 agosto 2013, n. 93 — Gazzetta Ufficiale]

Il decreto legge italiano sul “femminicidio” prevede infatti che le donne non possano ritirare le denunce e che lo stato le rimborsi anche in deroga ai limiti di reddito: il chiaro intento è tutelare le parcelle, non le donne.

È la stessa fondatrice dei centri anti-violenza per sole donne a dire che le femministe li usano per calunniare gli uomini e privare i bambini dei loro papà.

https://violenzafamiliare.wordpress.com/2013/08/19/la-calunnia-del-femminicidio/



pct38
I dati contraddicono l’ideologia della “violenza di genere” assunta per vera dai media: 
i dati dicono che il tasso di donne uccise è basso in paesi come Italia, Grecia, Giappone, 
dove sono più diffusi i tradizionali ruoli di genere. La violenza domestica non ha niente ha che fare con la cultura tradizionale, secondo cui la donna è sì considerata come un bambinone, ma che deve essere protetta morendo in guerra e non deve essere toccata nemmeno con un fiore.

Paradossalmente, le femministe hanno successo nell’imporre le loro politiche (che hanno fallito nel contrastare la violenza domestiche, essendo basate su presupposti ideologici falsi) in quanto sfruttano l’istinto maschile secondo cui la donna è vittima da proteggere e difenderla è dovere del cavaliere medievale.

Dire che l’anti-violenza è diventata una industria, che stati finanziano fanatiche che si arricchiscono con false accuse di violenza, può sembrare una affermazione forte. Ma è la realtà letterale, sostenuta fra l’altro da attiviste come Erin Pizzey (fondatrice centri anti-violenza) e Loiuse Malenfant, giornaliste come Donna Laframboise (autrice dell’inchiesta “One-Stop Divorce Shops”) e Trudy Shuett, giudici come Francisco Serrano Castro, dai massimi esperti di violenza domestica, da sociologi come Gerhard Amendt autore di questo testo in materia:

http://www.welt.de/politik/deutschland/article4295642/Why-Womens-Shelters-Are-Hotbeds-of-Misandry.html

e fa storcere il naso anche a me.



Stefano
io parlo da uomo che si sta separando,
Sono stanco di sentire parlare solo della violenza sulle donne, 
che resta un atto riprovevole e non accettabile.
Ma bisognerebbe parlare un po’ della violenza che le donne applicano verso gli uomini, non voglio generalizzare, mai mi permetterei anche perché vorrebbe dire che rinuncio ad un eventuale futuro con una donna, ma la mia esperienza personale si basa continue persecuzioni, minacce, diffamazioni, false denunce, tra l’altro dati delle procure indicano come false la maggior parte delle denuncie realizzate in fase di separazione da donne verso gli uomini. Io stesso ne ho ricevute, tutte smontate da prove tangibili, episodi di violenza che sostiene di aver subito mentre ero da tutt’altra parte per lavoro, e altro. Ripeto non generalizzo perché sarebbe un gravissimo errore, conosco donne che hanno subito ogni tipo di violenza e con una dignità incredibile crescono figli si ricostruiscono un futuro.
Ma sopratutto anche per loro, per coloro che realmente hanno subito, che non posso più tollerare il sistema che cavalcando il “tormentone” del momento cercano di sfruttare per i loro comodi e necessita’ finendo poi per screditare coloro che realmente hanno subito.
Una cosa la devo dire sui suicidi dei padri separati, purtroppo è un fenomeno reale, finché non si vedrà realmente applicata la legge sulla bigenitorialita’ il fenomeno non potrà rientrare, io da padre separato, e mi definisco pure fortunato in quanto passo 2 settimane al mese con mio figlio, e che sto lottando per l’affidamento esclusivo, posso capire il dolore di coloro che si vedono portare via tutto dalla fine di una relazione, e con tutto intendo il tempo che possono passare con i propri figli.







sabato 26 novembre 2016

Italo Calvino, Il Barone Rampante. Cosimo riuscì a ricostruire la storia della colonia che soggiornava sui platani. Erano nobili spagnoli, ribellatisi a Re Carlos III per questioni di privilegi feudali contrastati, e perciò posti in esilio con le loro famiglie. Giunti a Olivabassa, era stato loro interdetto di continuare il viaggio: quei territori infatti, in base a un antico trattato con Sua Maestà Cattolica, non potevano dar ricetto e nemmeno venir attraversati da persone esiliate dalla Spagna. La situazione di quelle nobili famiglie era ben difficile da risolversi, ma i magistrati di Olivabassa, che non volevano avere seccature con le cancellerie straniere ma che neppure avevano ragioni d'avversione per quei ricchi viaggiatori, vennero a un accomodamento: la lettera del trattato prescriveva che gli esuli non dovessero «toccare il suolo» di quel territorio, quindi bastava che se ne stessero sugli alberi e si era in regola. Dunque gli esuli erano saliti sui platani e sugli olmi, con scale a pioli concesse dal Comune, che poi furono tolte. Stavano appollaiati lassù da alcuni mesi, confidando nel clima mite, in un prossimo decreto d'amnistia di Carlos III e nella provvidenza divina.

Calvino, "Il Barone rampante" di Italo Calvino, nato da un racconto di Salvatore Scarpetta una sera del 1950 all'osteria Menghi di via Flaminia, a Roma. Scarpetta raccontò a Calvino di quando bambino, nella California degli anni Trenta, dove viveva con la famiglia, un giorno per scappare a uno scappellotto del padre salì su un albero e vi rimase 34 giorni diventando una vera celebrità.


Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l'ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d'Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell'ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d'andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s'era vista disubbidienza più grave.
Italo Calvino, Il barone rampante


Convalescente, immobile sul noce, si ritemprava nei suoi studi più severi. Cominciò in quel tempo a scrivere un “Progetto di Costituzione d’uno Stato ideale fondato sopra gli alberi", in cui descriveva l’immaginaria, Repubblica d’Arbòrea, abitata da uomini giusti. Lo cominciò come un trattato sulle leggi e i governi ma scrivendo la sua inclinazione d’inventore di storie complicate ebbe il sopravvento e uscì uno zibaldone d’avventure, duelli e storie erotiche, inserite, quest’ultime, in un capitolo sul diritto matrimoniale. L’epilogo del libro avrebbe dovuto essere questo; l’autore, fondato lo Stato perfetto in cima agli alberi e convinta tutta l’umanità a stabilirvisi e a vivere felice, scendeva ad abitare sulla terra rimasta deserta. Avrebbe dovuto essere, ma l’opera restò incompiuta. Né mandò un riassunto al Diderot, firmano semplicemente: Cosimo Rondò, lettore dell’Enciclopedia. Il Diderot ringraziò con un biglietto.
Italo Calvino, Il barone rampante

Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: «Cosimo Piovasco di Rondò - Visse sugli alberi -Amò sempre la terra - Salì in cielo».
Italo Calvino, Il barone rampante


«- Lei è il brigante Gian dei Brughi?

- Come mi conosce?

- Eh, così, di fama.

- E lei è quello che non scende mai dagli alberi?

- Sì. Come lo sa?

- Be’, anch’io, la fama corre.

Si guardarono con cortesia, come due persone di riguardo che s’incontrano per caso e sono contente di non essere sconosciute l’una all’altra.»
Italo Calvino, Il barone rampante


Ma in tutta quella smania c'era un'insoddisfazione più profonda, una mancanza, in quel cercare gente che l'ascoltasse c'era una ricerca diversa. Cosimo non conosceva ancora l'amore, e ogni esperienza, senza quella, che è? Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?
Italo Calvino, Il barone rampante


Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.
Italo Calvino, Il barone rampante


L’amore riprendeva con una furia pari a quella del litigio.
Era difatti la stessa cosa, ma Cosimo non ne capiva niente.
Italo Calvino, Il barone rampante


Ma in tutta quella smania c'era un'insoddisfazione più profonda, una mancanza, in quel cercare gente che l'ascoltasse c'era una ricerca diversa. Cosimo non conosceva ancora l'amore, e ogni esperienza senza quello che è? che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?
Italo Calvino, Il barone rampante


Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.
Italo Calvino, "Il barone rampante"

Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita.
Italo Calvino, “Il barone rampante”


-Cosa sai di come sono io, eh, cosa sai?
S’era fatta dolce, e Cosimo a questi passaggi repentini non finiva di stupirsi.
Le venne vicino. Viola era d’oro e miele.  […]
Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo.
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino, Il barone rampante


Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, ma s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino, "Il barone rampante", cap.XXI

Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. 
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre mai s’era potuta riconoscere così.
Lui aveva ancora il sole negli occhi, quello rosso scuro dei tramonti d’agosto e d’improvviso in un giorno bianco di neve la luce calda dei suoi occhi si era specchiata in quelli di lei: freddi, grigio acciaio. 
Gli occhi di lui non avevano mai visto quel grigio inespugnabile fatto di quel cielo di Milano che ti si chiude piano piano addosso, inghiottendoti. 
Gli occhi di lei non avevano il calore e l’ingenuità di quel sole umile di passione ogni mattina allo specchio. 
Invano lo cercò lei, era fuggito. 
Lui temeva quegli occhi, impaurito e attratto dalla stanchezza dello sguardo di chi ha visto, vissuto, infine capitolato di fronte a quel turbinio di immagini che lascia il vuoto dentro. 
Occhi che ricercano, scrutano, mai capaci di sottrarsi. Ma il calore degli occhi di lui , quello che scalda la neve, era ormai lontano, scosso dal gelo che aveva visto. 
E così si erano conosciuti e nel gelo lui si era ormai saputo e lei, che si sapeva da sempre, finalmente si poté riconoscere.
Italo Calvino, "Il barone rampante", cap.XXI



E lei: Tu credi che l’amore sia dedizione assoluta, rinuncia di sé.
Era lì sul prato, bella come mai, e la freddezza che induriva appena i suoi lineamenti e l’altero portamento della persona sarebbe bastato un niente a scioglierli, e riaverla tra le braccia… Poteva dire qualcosa, Cosimo, una qualsiasi cosa per venirle incontro, poteva dirle: “Dimmi che cosa vuoi che faccia, sono pronto.” e sarebbe stata di nuovo felicità per lui, la felicità insieme senza ombre. Invece disse: “Non ci può essere amore se non si è sé stessi con tutte le proprie forze.
Italo Calvino, Il barone rampante

- Cosimo: Perché mi fai soffrire?
- Viola: Perché ti amo.
- Cosimo: No, non mi ami! Chi ama vuole la felicità, non il dolore.
- Viola: Chi ama vuole solo l'amore, anche a costo del dolore.
- Cosimo: Mi fai soffrire apposta, allora.
- Viola: Si, per vedere se mi ami.
Italo Calvino, Il barone rampante



- Sono stanca.
- Di quelli?
- Di tutti voi.
- Ah.
- Loro m’hanno dato le più grandi prove d’amore…
Cosimo sputò.
- … Ma non mi bastano.
Cosimo alzò gli occhi su di lei.
E lei: - Tu non credi che l’amore sia dedizione assoluta, rinuncia di sé…
Era lì sul prato, bella come mai, e la freddezza che induriva appena i suoi lineamenti e l’altero portamento della persona sarebbe bastato un niente a scioglierli, e riaverla tra le braccia…
Poteva dire qualcosa, Cosimo, una qualsiasi cosa per venirle incontro, poteva dirle: - Dimmi che cosa vuoi che faccia, sono pronto… - e sarebbe stata di nuovo la felicità per lui, la felicità insieme senza ombre. Invece disse: - Non ci può essere amore se non si è sé stessi con tutte le proprie forze.
Viola ebbe un moto di contrarietà che era anche un moto di stanchezza. Eppure ancora avrebbe potuto capirlo, come difatti lo capiva, anzi aveva sulle labbra le parole da dire: “Tu sei come io ti voglio…” e subito risalire da lui… Si morse un labbro. Disse: - Sii te stesso da solo, allora.
“Ma allora esser me stesso non ha senso…”, ecco quello che voleva dire Cosimo.
Invece disse: - Se preferisci quei due vermi…
- Non ti permetto di disprezzare i miei amici! - lei gridò, e ancora pensava:
“A me importi solo tu, è solo per te che faccio tutto quel che faccio!”
- Solo io posso essere disprezzato…
- Il tuo modo di pensare!
- Sono una cosa sola con esso.
- Allora addio. Parto stasera stessa. Non mi vedrai più. […] Fu di parola.
Italo Calvino, Il barone rampante




- A Olivabassa c'è tutta una genìa di Spagnoli che vivono sugli alberi! 
- Cosimo non ebbe più pace finché non intraprese attraverso gli alberi dei boschi il viaggio per Olivabassa. [...] Cosimo riuscì a ricostruire la storia della colonia che soggiornava sui platani. Erano nobili spagnoli, ribellatisi a Re Carlos III per questioni di privilegi feudali contrastati, e perciò posti in esilio con le loro famiglie. Giunti a Olivabassa, era stato loro interdetto di continuare il viaggio: quei territori infatti, in base a un antico trattato con Sua Maestà Cattolica, non potevano dar ricetto e nemmeno venir attraversati da persone esiliate dalla Spagna. La situazione di quelle nobili famiglie era ben difficile da risolversi, ma i magistrati di Olivabassa, che non volevano avere seccature con le cancellerie straniere ma che neppure avevano ragioni d'avversione per quei ricchi viaggiatori, vennero a un accomodamento: la lettera del trattato prescriveva che gli esuli non dovessero «toccare il suolo» di quel territorio, quindi bastava che se ne stessero sugli alberi e si era in regola. Dunque gli esuli erano saliti sui platani e sugli olmi, con scale a pioli concesse dal Comune, che poi furono tolte. Stavano appollaiati lassù da alcuni mesi, confidando nel clima mite, in un prossimo decreto d'amnistia di Carlos III e nella provvidenza divina. Avevano una provvista di doppie di Spagna e compravano vivande, dando così commercio alla città. Per tirare su i piatti, avevano installato alcuni saliscendi. Su altri alberi c'erano baldacchini sotto ai quali dormivano. Insomma, s'erano saputi aggiustar bene, ossia, erano gli Olivabassi che li avevano così ben attrezzati, perché ci avevano il loro tornaconto. 
Gli esuli, da parte loro, non muovevano un dito in tutta la giornata.
Cosimo era la prima volta che incontrava degli altri esseri umani abitanti sulle piante, e cominciò a far domande pratiche.
- E quando piove, come fate?
- Sacramos todo el tiempo, Sehor!
E l'interprete, che era il Padre Sulpicio de Guadalete, della Compagnia di Gesù, 
esule da quando il suo ordine era stato messo al bando dalla Spagna: 
- Protetti dai nostri baldacchini, rivolgiamo il pensiero al Signore, 
ringraziandolo di quel poco che ci basta!...
- A caccia ci andate mai?
- Senor, algunas veces con el visco.
-Talvolta uno fra noi unge di vischio un ramo, per suo spasso. 
Cosimo non era mai stanco di scoprire come avevano risolto i problemi 
che s'erano presentati pure a lui.
- E per lavarvi, per lavarvi, come fate?
- Para lavar? Hay lavanderas! - disse Don Frederico, con un'alzata di spalle.
- Diamo i nostri indumenti alle lavandaie del paese, - tradusse Don Sulpicio. 
- Ogni lunedì, a esser precisi, noi si cala il canestro della roba sporca.
- No, volevo dire per lavarvi la faccia e il corpo.
Don Frederico grugnì e alzò le spalle, come se questo problema non gli si fosse mai presentato.
Don Sulpicio si credette in dovere d'interpretare: 
- Secondo il parere di Sua Altezza, queste son quistioni private di ciascheduno.
- E, chiedo venia, i vostri bisogni dove li fate?
- Ollas, Senor.
E Don Sulpicio, sempre col suo tono modesto: 
- S'usa certi orciuolini, in verità.
Congedatosi da Don Frederico, Cosimo fu guidato dal Padre Sulpicio a far visita ai vari membri della colonia, nei loro rispettivi alberi residenziali. Tutti questi hidalghi e queste dame serbavano, pur nelle ineliminabili scomodità del loro soggiorno, atteggiamenti abituali e composti. Certi uomini, per stare a cavalcioni sui rami, usavano selle da cavallo, e ciò piacque molto a Cosimo, che in tanti anni non aveva mai pensato a questo sistema (utilissimo per le staffe - notò subito -che eliminano l'inconveniente di dover tenere i piedi penzoloni, cosa che dopo un po' dà il formicolìo). Alcuni puntavano cannocchiali da marina (uno tra loro aveva il grado di Almirante) che probabilmente servivano soltanto a guardarsi tra loro da un albero all'altro, curiosare e far pettegolezzi. Le signore e signorine sedevano tutte su cuscini da loro stesse ricamati, agucchiando (erano le uniche persone in qualche modo operose) oppure carezzando grossi gatti. Di gatti, v'era su quegli alberi gran numero, come pure d'uccelli, in gabbia questi (forse erano le vittime del vischio) tranne alcuni liberi colombi che venivano a posarsi sulla mano delle fanciulle, e carezzati tristemente.
In queste specie di salotti arborei Cosimo era ricevuto con ospitale gravità. Gli offrivano il caffè, poi subito si mettevano a parlare dei palazzi da loro lasciati a Siviglia, a Granada, e dei loro possedimenti e granai e scuderie, e lo invitavano pel giorno in cui sarebbero stati reintegrati nei loro onori. Del Re che li aveva banditi parlavano con un accento che era insieme d'avversione fanatica e di devota reverenza, talvolta riuscendo a separare esattamente la persona contro la quale le loro famiglie erano in lotta e il titolo regale dalla cui autorità emanava la propria. Talvolta invece a bella posta mescolavano i due opposti modi di considerazione in un solo slancio dell'animo: e Cosimo, ogni volta che il discorso cadeva sul Sovrano, non sapeva più che faccia fare.
Aleggiava su tutti i gesti e i discorsi degli esuli un'aura di tristezza e lutto, che un po' corrispondeva alla loro natura, un po' a una determinazione volontaria, come talora avviene in chi combatte per una causa non ben definita nei convincimenti e cerca di supplire con l'imponenza del contegno.
Nelle giovinette - che a una prima occhiata parvero a Cosimo tutte un po' troppo pelose e opache di pelle - serpeggiava un accenno di brio, sempre frenato a tempo. Due d'esse giocavano, da un platano all'altro, al volano. Tic e tac, tic e tac, poi un gridolino: il volano era caduto in strada. Lo raccattava un monello olivabasso e per tirarlo su pretendeva due pesetas.
Sull'ultimo albero, un olmo, stava un vecchio, chiamato El Conde, senza parrucca, dimesso nel vestire. Il Padre Sulpicio, avvicinandosi, abbassò la voce, e Cosimo fu indotto a imitarlo. El Conde con un braccio spostava ogni tanto un ramo e guardava il declivio della collina e una piana or verde or brulla che si perdeva lontano.
Sulpicio mormorò a Cosimo una storia d'un suo figlio detenuto nelle carceri di Re Carlo e torturato. Cosimo comprese che mentre tutti quegli hidalghi facevano gli esuli così per dire, ma dovevano ogni poco richiamarsi alla mente e ripetersi perché e percome si trovavano là, solo quel vecchio soffriva davvero. Questo gesto di scostare il ramo come aspettandosi di veder apparire un'altra terra, quest'inoltrare pian piano lo sguardo nella distesa ondulata come sperando di non incontrare mai l'orizzonte, di riuscire a scorgere un paese ahi quanto lontano, era il primo segno vero d'esilio che Cosimo vedeva. E comprese quanto per quegli hidalghi contasse la presenza del Conde, come fosse quella a tenerli insieme, a dare loro un senso. Era lui, forse il più povero, certo in patria il meno autorevole di loro, che diceva loro quello che dovevano soffrire e sperare.
Tornando dalle visite, Cosimo vide su lui ontano una fanciulla che non aveva visto prima. In due salti fu lì.
Era una ragazza con occhi di bellissimo color pervinca e carnagione profumata. Reggeva un secchio.
- Com'è che quando ho visto tutti non vi ho vista?
- Ero per acqua al pozzo, - e sorrise. Dal secchio, un po' inclinato, cadde dell'acqua. Lui la aiutò a reggerlo.
- Voi dunque scendete dagli alberi?
- No; c'è un ritorto ciliegio che fa ombra al pozzo. Di là caliamo i secchi. Venite.
Camminarono per un ramo, scavalcando il muro d'una corte. Lei lo guidò nel passaggio sul ciliegio. Sotto era il pozzo.
- Vedete, Barone?
- Come sapete che sono un Barone?
- Io so tutto, - sorrise. - Le mie sorelle m'hanno subito informata della visita.
- Sono quelle del volano?
- Irena e Raimunda, appunto. [...]

Fiorirono i peschi, i mandorli, i ciliegi. Cosimo e Ursula passavano insieme le giornate sugli alberi fioriti. La primavera colorava di gaiezza perfino la funerea vicinanza del parentado.
Nella colonia degli esuli mio fratello seppe subito rendersi utile, insegnando i vari modi di passare da un albero all'altro e incoraggiando quelle nobili famiglie a uscire dalla abituale compostezza per praticare un po' di movimento, gettò anche dei ponti di corda, che permettevano agli esuli più vecchi di scambiarsi delle visite. E così, in quasi un anno di permanenza tra gli Spagnoli, dotò la colonia di molti attrezzi da lui inventati: serbatoi d'acqua, fornelli, sacchi di pelo per dormirci dentro. Il desiderio di far nuove invenzioni lo portava a secondare le usanze dì questi hidalghi anche quando non andavano d'accordo con le idee dei suoi autori preferiti: così, vedendo il desiderio di quelle pie persone di confessarsi regolarmente, scavò dentro un tronco un confessionale, dentro il quale poteva entrare il magro Don Sulpicio e da una finestrella con tendina e grata ascoltare i loro peccati.
La pura passione delle innovazioni tecniche, insomma, non bastava a salvarlo dall'ossequio alle norme vigenti; ci volevano le idee. Cosimo scrisse al libraio Orbecche che da Ombrosa gli rimandasse per la posta a Olivabassa i volumi arrivati nel frattempo. Così potè far leggere a Ursula Paolo e Virginia e La Nuova Eloisa.
Gli esuli tenevano spesso adunanze su una vasta quercia, parlamenti in cui stilavano lettere al Sovrano. Queste lettere in principio dovevano essere sempre d'indignata protesta e di minaccia, quasi degli ultimatum; ma a un certo punto, dall'uno o dall'altro di loro venivano proposte formule più blande, più rispettose, e così si finiva in una supplica in cui si prosternavano umilmente ai piedi delle Graziose Maestà implorandone il perdono.
Allora s'alzava El Conde. Tutti ammutolivano. El Conde, guardando in alto, cominciava a parlare, a voce bassa e vibrata, [...]







Norbert Wiener. Abbiamo modificato così radicalmente il nostro ambiente che adesso dobbiamo modificare noi stessi per sopravvivere nell'ambiente nuovo.

Abbiamo modificato così radicalmente il nostro ambiente
che adesso dobbiamo modificare noi stessi
per sopravvivere nell'ambiente nuovo.
Il 26 novembre 1894 nasceva Norbert Wiener



venerdì 25 novembre 2016

giovedì 24 novembre 2016

Circle Time. L’insegnante ricopre nel cerchio un ruolo di mediatore, proponendo l’argomento e dando una direzione sia alla conversazione che ai contributi degli alunni, ma in questo caso non è parte del suo compito rispondere alle domande e ai dubbi degli studenti in modo diretto.

Il “Circle Time” È la Metodologia più Efficace per la Gestione della Classe.
In classi sempre più eterogenee, con alunni dalle esigenze sempre più diversificate e articolate, il metodo di insegnamento frontale, che propone un’unica soluzione per tutti gli alunni, non è certo sufficiente.
Da anni perciò vengono introdotte nella scuola metodologie didattiche ed educative che includano tutti gli alunni, prendendo in considerazione le esigenze di ciascuno e che propongano risposte differenti per ogni necessità e individualità.
Una di queste metodologie è il Circle Time, ideata negli anni ’70 ed usata con successo in molte scuole d’Italia.

Il Circle Time rappresenta un momento in cui, come suggerisce il nome stesso, gli alunni si siedono in cerchio con un coordinatore (l’insegnate), che fa anch’esso parte del cerchio, proprio perché il Circle Time rappresenta un momento di parità, dove tutti riescono a vedersi in faccia e ad esprimere le proprie opinioni e emozioni liberamente.

L’insegnante ricopre nel cerchio un ruolo di mediatore, proponendo l’argomento e dando una direzione sia alla conversazione che ai contributi degli alunni, ma in questo caso non è parte del suo compito rispondere alle domande e ai dubbi degli studenti in modo diretto.

L’obiettivo principale del Circle Time è infatti quello di facilitare la comunicazione tra pari e approfondire la conoscenza reciproca tra gli alunni, in modo da creare integrazione all’interno della classe e di valorizzare le competenze dei singoli e del gruppo.

Ovviamente, il Circle Time rappresenta uno strumento di prevenzione e risoluzione delle eventuali conflittualità all’interno della classe e permette anche all’insegnante di conoscere meglio i propri alunni e le dinamiche presenti all’interno del gruppo.

Affinché il Circle Time sia svolto correttamente, la programmazione da parte del gruppo docenti è fondamentale. Senza seguire una struttura precisa di argomenti da trattare o di fasi da affrontare, il Circle Time rischia di diventare un percorso infruttuoso, o comunque meno utile di quanto potrebbe esserlo potenzialmente. Dal momento che il Circle Time può avere diversi scopi e funzionalità, è importante strutturarlo in modo tale che diventi un appuntamento sicuro e proficuo sia per gli alunni che per i docenti.

http://www.youreduaction.it/circle-time-metodologia-efficace-per-gestione-della-classe/




Ho avuto la fortuna di sperimentarlo. 
Da bimba, alla scuola materna, la mia maestra lo utilizzava quando doveva spiegarci qualcosa 
(ad esempio, colori, schema corporeo, ecc...), quando ci leggeva le favole, 
quando cantavamo. Ricordo con piacere i vivaci dibattiti che si creavano!
E poi l'ho risperimentato all'università: una delle esperienze universitarie che mi ha davvero 
"aperto la mente". La mia prof di "diritti umani", ad ogni sua lezione, 
ci faceva letteralmente smontare l'aula per poter creare il cerchio. 
Le sue non erano "lezioni", ma veri e propri dibattiti tra pari!
Lei introduceva l'argomento, sulla base di materiale che già ci aveva fornito 
(e che noi studenti avevamo studiato) e poi iniziavano "le danze" ! :)

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