Fino al tardo Ottocento [...] era pratica comune per i giovani, e per i lettori impegnati vita natural durante, trascrivere lunghi discorsi politici, prediche, pagine di poesia e di prosa, voci di enciclopedie e capitoli di narrazioni storiche. Questo lavoro di copiatura aveva diversi scopi: il miglioramento del proprio stile, la tesaurizzazione voluta di esempi pronti di argomentazione o di persuasione, il rafforzamento di una memoria accurata (elemento cardinale). Soprattutto, la trascrizione comprende un coinvolgimento totale con il testo, una dinamica reciproca fra lettore e libro.
Questo coinvolgimento totale è la somma dei vari modi di risposta responsabile: marginalia, annotazione sistematica, correzione ed emendamenti filologici, trascrizione. Tutti insieme, essi generano una continuazione del libro che viene letto. La penna attiva del lettore verga «un libro in risposta». (da George Steiner, Una lettura ben fatta: p. 14
Oggi soltanto i professionisti – epigrafisti, bibliografi, filologi – correggono ciò che leggono.
Vale a dire coloro che incontrano il testo come una presenza viva, che ha bisogno della collaborazione del lettore per mantenere intatta la sua vitalità, la sua vivacità e luminosità. [...] E chi, fra noi, si prende la briga di trascrivere per piacere personale e per impararle a memoria le pagine che lo hanno interpellato più direttamente, che lo hanno «letto» con maggiore accuratezza?
La memoria, ovviamente, è il perno della questione.
La «responsabilità verso» il testo, la comprensione dell'auctoritas e la risposta critica che le si dà, le quali plasmano il modo classico di leggere e la sua rappresentazione da parte di Chardin, dipendono strettamente dalle «arti della memoria». [...]
L'atrofia della memoria è la caratteristica precipua dell'educazione e della cultura nella seconda metà del Novecento. [...]
Non impariamo più a memoria, «con il cuore».
Gli spazi interiori sono muti o intasati di banalità discordanti.
George Steiner, Una lettura ben fatta: p. 21 ss.
I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno.
Anche le idee più astratte e speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose.
Che dire allora dell'idea di Europa?
L'Europa è i suoi caffè, quelli che i francesi chiamano cafés.
Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa
ai cafès di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel.
Dai caffè di Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kierkegaard nel suo meditabondo girovagare, fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè archetipici a Mosca, che è già la periferia dell'Asia.
Ce ne sono pochissimi in Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo.
Non ce ne sono nell'America del Nord, con l'eccezione dell'avamposto francese di New Orleans.
Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori essenziali dell'«idea di Europa».
Il caffè è il luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo.
Lo frequentano il flâneur, il poeta, il metafisico con il suo taccuino.
È aperto a tutti, e al tempo stesso è un club,
una massoneria di identità politiche o artistico-letterarie.
George Steiner, Una certa idea di Europa
È il mio quarto assioma: la doppia eredità di Atene e Gerusalemme. [...]
Essere europei significa cercare di negoziare sul piano morale,
intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese,
le praxis contrastanti della città di Socrate e di quella di Isaia.
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 40
Il giudaismo e le sue due principali note a piè di pagina,
il cristianesimo e il socialismo utopico,
discendono direttamente dal Sinai,
e anche gli ebrei erano solo un piccolo gruppo disprezzato e perseguitato.
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 45
Chi è insensibile a quella che Platone chiamava mania, essere posseduti dalla ricerca di verità spesso astratte, senza alcuna immediata applicazione pratica, dovrebbe andarsene altrove. Gli scienziati, gli studiosi, sono destinati, come sostiene Weber, a un ideale sacrificale, antico come i presocratici, che caratterizza il genio dell'Europa.
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 49
Inoltre la nostra capacità di previsione è ridicolmente miope
(quasi sempre costruiamo le nostre ipotesi utilizzando uno specchietto retrovisore).
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 51
Non c'è dubbio: l'Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali. Perirà se dimentica che «Dio si trova nei dettagli».
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 54
Adesso, in un modo profondamente commovente, c'è gente in America che dice: non vogliamo più quella
discussione tremenda sulla doppia lealtà, sul fatto che ogni ebreo ha la consapevolezza traditrice di
essere ebreo prima che americano. Eppure quel fantasma continua a ossessionarci.
È inerente alla natura stessa dell'identità di un popolo che rivendica di essere una razza ma non una razza, una nazione ma non una nazione, di avere una vocazione religiosa quando questa vocazione non ha più senso per la maggioranza secolare.
George Steiner, Totem o tabù: p. 147
La presenza ebraica, spesso impressionante, nella matematica moderna, in fisica, nella teoria economica e sociale, nasce direttamente da quella astinenza dall'approssimazione e dall'effimero che caratterizza l'ethos del chierico.
(da La nostra terra, il testo: p. 237)
Per due millenni la dignità dell'ebreo ha consistito nell'essere troppo debole per trasformare altri uomini in profughi altrettanto infelici di sé stesso.
(da La nostra terra, il testo: p. 242)
Il marxismo è essenzialmente un giudaismo che ha perso la pazienza.
Il Messia ci ha messo troppo a venire, o piuttosto a non venire.
Il regno della giustizia deve essere instaurato dall'uomo stesso, su questa terra, qui e ora.
(da Attraverso quello specchio, oscuramente: p. 259)
Due morti hanno plasmato in gran parte la sensibilità occidentale.
Due casi di pena capitale, di omicidio giudiziario
determinano i nostri riflessi religiosi, filosofici e politici.
Sono due morti a governare la percezione metafisica e politica
che abbiamo noi stessi: quella di Socrate e quella di Cristo.
Siamo tuttora figli di quelle morti.
George Steiner, Due galli: p. 281
Sono stati l'accademismo rarefatto di Platone,
l'istituzionalizzazione dell'insegnamento metafisico,
la nuova definizione, in parte sofistica in parte scientifica,
del filosofo e dialettico come specialista accademico dopo Socrate,
a permettere il commercio opportunistico e istrionico fra intelletto e potere.
George Steiner, Due galli: p. 300
Uccidendo i suoi ebrei, l'Europa si è suicidata.
George Steiner, (dal discorso al convegno di European Judaism, Amsterdam, 1969[1])
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
Al cuore della cultura ci sono i classici – ovvero opere fuori dal tempo.
Sono fuori dal tempo e immortali perché il loro significato trascende la morte.
Nelle parole di HöIderlin: «Was bleibet aber, stiften die Dichter».
(«E tuttavia quello che resta, sono i poeti che lo creano.»)[1]
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
La caratteristica dei capolavori è che ci interrogano, ci impongono di reagire.
L'antico busto di Apollo nel celebre poema di Rilke ce lo dice in termini chiari:
«Du sollst dein Leben ändern». («Devi cambiare vita.»)[1]
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
Solo gli sciocchi ignorano il significato della tradizione, dei fatti e della conoscenza. Hölderlin:
«Wir sind nur Originai, weil wir nichts wissen».
(«Noi siamo originali solo perché non sappiamo nulla.»)[1]
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
Essere a casa propria nel mondo della cultura significa essere a casa propria in molti mondi, in molti linguaggi: significa trovarsi a casa propria nella storia delle idee, nella letteratura, nella musica, nelle arti. Richiede erudizione e la capacità di cogliere i rapporti tra i diversi mondi: il nexus.[1]
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
Esiste un rapporto tra l'arte e la politica, tra la cultura e la società.
Per capire l'evoluzione della cultura, per capire quali idee prevalgano
e quali siano le loro conseguenze, è indispensabile la riflessione culturale e filosofica.[1]
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
Il linguaggio è una creazione costante di mondi alternativi. [...]
L'incertezza di significato è poesia incipiente.
Dopo Babele (III, 4; p. 226)
Elencate san Gerolamo, Lutero, Dryden, Hölderlin, Novalis, Schleiermacher, Nietzsche, Ezra Pound, Valéry, MacKenna, Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Quine – e avrete quasi esattamente il totale complessivo di quanti hanno detto qualcosa di fondamentale o di nuovo sulla traduzione. (IV, 1; p. 260)
George Steiner, Dopo Babele (III, 4; p. 226):
Il linguaggio e la traduzione, traduzione di Ruggero Bianchi, Sansoni Editore, 1984. ISBN
E cosa lasciò Cristo alla sua piccola mafia? Un tesoro d'impazienza.
Bramavano la fine dei tempi come cani che muoiono di sete. [...]
La storia non aveva chiuso bottega.
E ci siamo ritrovati nell'implacabile routine di sempre.
A quel punto la Chiesa ordinò la pazienza,
pazienza e ancora pazienza, e distribuì i calmanti. [...]
Non c'è niente che Roma abbia temuto più dell'impazienza.
Il suo regno non è di questo mondo.
C'è mai stato un manifesto politico più abile?
Rispondi, Professore.
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 46 sg.
Il marxismo ha reso all'uomo il massimo onore.
La visione di Mosè e di Gesù e di Marx,
la visione di una terra giusta, di un amore per il prossimo,
di un'universalità, l'abolizione delle barriere fra paesi,
classi, razze, l'abolizione degli odi tribali:
questa visione era – siamo rimasti d'accordo su questo, vero?
– un'immensa impazienza.
Ma era anche qualcosa di più.
Era una sopravvalutazione dell'uomo.
Una sopravvalutazione forse fatale,
forse insensata, eppure magnifica, giubilante, dell'uomo.
Il più grande complimento che gli sia mai stato fatto.
La Chiesa ha ostentato un disprezzo tremendo per l'uomo.
L'uomo è una creatura caduta dalla grazia,
condannata a trascorrere la sua sentenza a vita
lavorando col sudore della fronte.
Polvere alla polvere.
George Steiner, il Professore: cap. VIII, p. 57
Sono un socialista. Sono e rimango un marxista.
Perché altrimenti non potrei essere un correttore di bozze!»
Questa evidenza assoluta l'aveva fulminato.
Voleva allargare le braccia, ballare lì in strada.
«Se trionfa la California, non serviranno più i correttori di bozze.
Le macchine se la caveranno meglio.
Oppure tutti i testi diventeranno audiovisivi,
con programmi autocorrettori incorporati.
Notte dopo notte dopo notte, Carlo, lavoro finché mi duole il cervello.
Per arrivare all'esattezza perfetta.
Per correggere il più infimo refuso in un testo
che forse nessuno leggerà mai
o che verrà mandato al macero il giorno dopo.
L'esattezza. La santità dell'esattezza.
Il rispetto di se stesso.
Gran Dio, Carlo, devi capire quello che cerco di dire.
L'Utopia significa semplicemente l'esattezza!
Il comunismo significa togliere gli errata dalla storia.
Dall'uomo. Correggere bozze.»
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 67 sg.
Questo è il vero genio del capitalismo:
impacchettare, mettere l'etichetta
con il prezzo sui sogni degli uomini.
Mai valutarci al di sopra della nostra mediocrità. [...]
Con quanta precisione l'America ha valutato l'uomo,
riducendolo al benessere,
mettendo pace tra i desideri umani e l'appagamento.
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 60 sg.
E quando l'America dice:
"Sii soltanto te stesso,"
non dice: "Non migliorarti."
Dice: "Lotta per quel Premio Nobel,
se è questo che ti accende l'anima.
O per quella piscina riscaldata."
Non che l'America creda
che le piscine riscaldate siano il Partenone;
non le considera nemmeno una necessità.
Ma perché sembrano procurare piacere e causare pochi danni. [...] Sai, Professore, l'America è probabilmente la prima nazione e società nella storia dell'umanità a incoraggiare gli esseri comuni, fallibili e impauriti, a sentirsi a loro agio nella propria pelle. [...]
Ma, tutto sommato, l'America è davvero l'unica grande potenza, l'unica comunità che, a differenza di tutte le altre che conosco,
si sforza di rendere la terra un filino migliore,
un filino più speranzosa di quanto l'abbia trovata.
Infatti la speranza è la principale materia prima della nazione e la sua maggior esportazione.
George Steiner, Carlo: cap. VIII, pp. 62 sg.
Cosa diavolo può sperare un ricco?
Perché tormentarti con la speranza quando hai la pancia piena?
E' questo che fa di ogni vittima un ebreo, un vero ebreo.
Il progenitore degli autentici eletti non è Abramo, che era miliardario.
Non discendiamo da Giobbe, che raddoppiò i suoi beni.
Siamo figli di Agar.
Ci siamo cibati di sassi e le vespe hanno cantato per noi.
Non può esistere un comunista, un vero socialista che non sia, in fondo, un ebreo. [...]
C'erano ebrei che vedevano più in fondo alle cose
e capirono che il Messia non sarebbe mai venuto. Mai.
O piuttosto che il Messia era un uomo anche lui.
Che la rivelazione e i grandi venti a venire erano quelli della nostra storia.
Che gli uomini e le donne ordinari non avevano neppure cominciato ad essere se stessi. [...]
Uomini e donne, creature della ragione, custodi di questa terra:
sì, c'è un Messia, e una Gerusalemme.
Ma non dopo il nostro funerale e non fatti di nubi rosee.
E ci sono leggi, ma non sono quelle eruttate da qualche vulcano nel Sinai.
Ci sono le leggi della storia, e della scienza, e della domanda e dell'offerta.
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 50 sg.
Hai ragione, perché trasformare l'acqua in vino?
Un trucco da baraccone, sono d'accordo.
Quando puoi trasformare il sangue e il sudore dell'uomo in oro e ferro. [...]
Nel cuore del comunismo c'è la menzogna.
La menzogna centrale, assiomatica:
un regno di giustizia, una fratellanza senza classi,
una liberazione dalla servitù qui e ora. In questo mondo.
È questa la grande menzogna.
La corruzione e il tradimento sistematici della speranza umana.
George Steiner, Carlo: cap. VIII, pp. 54 sg.
È indispensabile essere elitari – ma nel senso più autentico del termine:
prendersi la responsabilità per «il meglio» della mente umana.
Una élite culturale deve sentirsi responsabile della conoscenza e della conservazione delle idee e dei valori più importanti, dei classici, del significato delle parole, della nobiltà dei nostri spiriti. Essere elitari, come ha spiegato Goethe, significa essere rispettosi: rispettosi del divino, della natura, degli altri esseri umani, e dunque della nostra umana dignità.[1]
Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006
Heidegger è il grande maestro della meraviglia, l'uomo il cui stupore di fronte al semplice fatto che noi siamo invece di non essere ha posto un luminoso ostacolo sul sentiero dell'ovvio.
George Steiner
Non ci sono stati successori di Joyce nella lingua inglese; forse non ce ne possono essere di un talento così esauriente del suo proprio potenziale.[3]
citato in Charles Shaar Murray, Jimi Hendrix. Una chitarra per il secolo, traduzione di Massimo Cotto, Feltrinelli 1992>
Incontro con il grande critico “È il tempo dell’odio, ma la gente riscoprirà la riflessione e la musica”
«No, niente passeggiata». Lo hanno intervistato tante persone illustri. Non ha senso. E poi, a 86 anni, è troppo cagionevole. Capisco che sta per riattaccare. «Aspetti, che ne pensa di due passi in giardino, attorno alla casa?». Pensavo ad Albert Speer a Spandau, a come il vice di Hitler girando in tondo per il cortile del carcere immaginava di andare a Heidelberg. Ma Spandau non è Cambridge e Speer sotto ogni profilo è l’opposto di George Steiner. Nel mio pensiero Steiner è un girovago intellettuale che si è lasciato indietro gran parte della sua generazione. Avevo 17 anni quando ascoltai un suo coraggioso discorso sulla supremazia della letteratura che avvalorò la mia scelta della facoltà di Lettere. All’università studiai i suoi “La morte della tragedia” e “Dopo Babele” e avrei preferito avere lui come docente invece degli pseudo-campioni dello strutturalismo che continuavano, in maniera scandalosa, a negargli la cattedra. Quindi se esiste un intellettuale con cui non mi dispiacerebbe fare due passi, anche solo un giretto, è proprio Francis George Steiner. All’altro capo del filo c’è esitazione. «Va bene».
L’uomo in maglia bianca mi apre la porta con un sorriso. Sotto il mento ha una barbetta da mandarino cinese. La stretta di mano è goffa – come il Kaiser e Lord Halifax non riesce a ruotare il braccio per via di un’atrofia muscolare congenita. «Nasce tutto da lì», dice. «I primi anni di vita li ho passati in terapia, cliniche a Parigi e in Svizzera. Mia madre ha lottato contro la mia menomazione come una leonessa. Mi costringeva ad allacciarmi le scarpe – avrei potuto averle con la zip, ma no. Dovevo per forza scrivere con la destra – potevo farlo benissimo con la sinistra, ma no. Mia madre non mi permetteva di aggirare il problema. Quando avevo quattro anni arrivò il momento fatidico in cui mi disse: “Non ti rendi conto della fortuna che hai: non farai il militare”. All’epoca la leva durava tre anni, ti distruggeva la vita. Ne fui così felice che non mi sentii mai più menomato né condannato, ma speciale e privilegiato». Può anche essere che ne derivi quello che Steiner considera il suo maggior talento: «La mia prima dote nella vita è stata una sfacciataggine cosmica».
«Ora che mi avvicino alla fine dei miei giorni mi affascinano i limiti di tutta la narrativa. Né Shakespeare né Dante sarebbero riusciti a inventare Stephen Hawking, la sua persona, le sue opere. Dal minuscolo margine di una palpebra è al centro dell’universo ».
Anche Steiner abita i margini. Ha passato gran parte della sua vita a bordo ring degli studi umanistici definendosi “l’uccellino pulitore dei rinoceronti”, un piccolo volatile giallo che vide in Africa che, appollaiato sul dorso del rinoceronte, segnalava a tutti l’arrivo dell’animale. Analogamente, dice, un insegnante e un critico validi ti diranno cosa leggere e perché.
Sulla poltrona gialla di fronte si sono seduti scrittori che hanno fatto esclamare Steiner di meraviglia. In questa stanza è entrato misurando i passi Jorge Luis Borges, il mago cieco d’Argentina. Per Steiner «Borges rappresenta un particolare momento della storia dell’immaginazione. Ha lasciato una sorta di incantesimo, seppur breve».
All’epoca Steiner aveva due bimbi piccoli. «Borges si sedette su quella poltrona a raccontargli storie. Volle che non fossi presente. Lo portammo in auto alla facoltà di lettere dove avrebbe tenuto un’importante conferenza. Lo accompagnai all’ingresso. “Non vorrà certo entrare”, mi disse. Era capace di una finissima, soprannaturale empatia. La facoltà di lettere mi aveva comunicato che non mi sarebbe stata assegnata una cattedra, per cui non avevo accesso alla sala docenti». Un altro occupante della poltrona gialla fu Bruce Chatwin, di ritorno dalla Scozia, dove, a quanto sosteneva, era stato a caccia di cervi. Dice Steiner: «Ho una teoria sugli uomini belli. Esser belli è difficile e Bruce era bello davvero. Seduto su quella poltrona lesse brani interi del manoscritto de Le vie dei canti . Avevo contattato Shawn al New Yorker segnalandogli Chatwin, il suo libro sulla Patagonia mi aveva fatto impazzire. Shawn lo bocciò. Il suo riserbo era leggendario: lasciava trapelare una profonda diffidenza, come se non credesse a una sola parola».
Non mi dica… «Sì, sì, della sua biblioteca sono sopravvissuti solo tre libri, questo è uno».
Leggo il titolo, Was du tust, das tue recht, e noto che è stato stampato a Stoccarda nel 1910. «Ciò che fai andrà bene», traduce. «Una tesi pedagogica, del tutto mediocre sull’istruzione femminile ». Lo ha letto? «No, è un libro insulso, ma spesso l’ho preso in mano e ho sentito un brivido intenso lungo la schiena al pensiero che Kafka lo aveva avuto a sua volta tra le mani».
Come Kafka, il padre di Steiner, Frederick, lavorava per una banca a Vienna. Sigmund Freud e Frederick Steiner erano amici. Andavano a passeggio a Vienna e sui colli intorno, chiacchierando. Steiner, maestro di connessioni, non riesce a immaginare che Hitler, Freud, Mahler e suo padre non si siano mai incontrati a passeggio sul Ring. «È inevitabile, soggiornando nella stessa città per due, tre anni». Aveva cinque anni quando udì la frase che, a suo dire, ha improntato tutta la sua vita. Stava osservando dalla finestra a Parigi la folla che urlava “morte agli ebrei! “ e suo padre disse: «Non devi mai aver paura; quel che hai davanti agli occhi si chiama storia».
Steiner non andò incontro al destino di tutti i suoi compagni di classe ebrei, tranne due, grazie alla dritta di un uomo d’affari tedesco nella neutrale New York. Nel gennaio 1940 in una toilette del Wall Street Club, il padre di Steiner si imbatté in un conoscente, un dirigente della Siemens, che afferrandolo per un braccio gli disse: «Mi ascolti bene, che le piaccia o no. Molto presto arriveremo in Francia. Porti via la sua famiglia, costi quello che costi». Quando, cinque mesi dopo, i carri armati nazisti entrarono a Parigi, gli Steiner erano in America.
Nell’estate del 1943 giunse un altro momento decisivo. «Ero in vacanza a White Plains, fuori New York, e in uno studio medico vidi sulla rivista Life un paginone dedicato ai membri dell’Accademia sovietica della scienza, in cui erano indicate le rispettive competenze: radiologia, biochimica, matematica». A 14 anni Steiner restò molto colpito dal fatto che non si trattasse di artisti, bensì di scienziati. «Mi incaponii a fare quello da grande, non so spiegarlo, ma fu decisivo. La mia unica ambizione divenne studiare scienze a Chicago». Ebbe insegnanti di tutto rispetto, Enrico Fermi di fisica, Harold Urey di chimica. Ma non servì. «Mi dissero che tecnicamente ero un idiota. Potevo contare sulle capacità mnemoniche esercitate al liceo nel sistema scolastico francese, ma non avevo un briciolo di creatività. Se almeno, come un certo Jim Watson, fossi stato indirizzato alla biologia… Fu così che, col cuore a pezzi, approdai alla letteratura e alla filosofia».
Da Chicago passò a Harvard, dove si laureò, quindi a Oxford, per vedersi respingere la tesi che divenne poi La morte della tragedia .
(«Stupefacente, non trova? »); poi vennero l’Economist, Princeton e, nel 1961, Cambridge.
Prende una chiave e a piccoli passi leggeri mi porta fuori, nel suo giardino all’inglese. Steiner scrive dell’importanza del camminare nel suo ultimo libro, The Idea of Europe . Kant che attraversa Königsberg con precisione cronometrica. Le passeggiate di Kierkegaard per Copenhagen. Il corpulento Coleridge che ogni giorno percorreva cinquanta chilometri su terreni ardui e montuosi poetando o ragionando su complessi temi teologici a ogni passo. Secondo Steiner è una pratica che ci differenzia dall’America. «In America non si va da una città all’altra a piedi».
Steiner inserisce la chiave nella toppa, mi invita a entrare. Il suo studio ha il perimetro pentagonale e il soffitto a piramide. La luce cade dall’alto sulla scrivania occupata da una macchina da scrivere elettrica di dimensioni ragguardevoli. Steiner vi si siede ogni mattina con un libro scelto a caso. «Prendo un paragrafo e lo traduco nelle mie quattro lingue» e scrive la traduzione su un pezzo di carta che getta nel cestino. Lo definisce «un esercizio musicale della mia pluralità». Poi, dopo aver risposto alla mezza dozzina di lettere che riceve ogni giorno, legge per un’ora o due.
Cosa le piacerebbe aver scritto?, gli chiedo. «Narrativa di altissimo livello». Perché non lo ha fatto? «Ero troppo dispersivo e appassionato di troppe cose». O è stato qualcos’altro a limitarlo? Anche quando segnalava i nomi degli autori che dovevamo leggere avvertiva sempre che il rinoceronte su cui era appollaiato era una bestia pericolosa, capace di travolgere e distruggere. Che gli studi umanistici non sono di per sé umanizzanti, bensì troppo spesso legittimano la bestialità. In The Idea of Europe ci ricorda che «L’Europa è il luogo in cui il giardino di Goethe quasi confina con Buchenwald».
Steiner è pessimista, pensa che non abbiamo mai toccato un livello superiore di brutalità e vede profilarsi una catastrofe. «Ci sarà una guerra. Posso essere più preciso. È imminente». Una guerra religiosa islamica che darà il via al nuovo Armageddon. «Si tratta di odi implacabili. Già non si riescono a bloccare gli sbarchi di profughi in Italia. È un fiume in piena».
(Intervista a George Steiner.A cura di NICHOLAS SHAKESPEARE traduzione di Emilia Benghi)
Ogni mattina prendo un paragrafo a caso e lo traduco nelle mie quattro lingue. È l’esercizio della mia pluralità
Mi affascinano i limiti della narrativa Né Shakespeare né Dante sarebbero riusciti a inventare Stephen Hawking
Da Kant a Coleridge è stata fondata sul camminare In America non si va da una città all’altra a piedi