martedì 13 dicembre 2011

Vittorio Alfieri. Volli, sempre volli, fortissimamente volli.

Volli, sempre volli, fortissimamente volli. 
Vittorio Alfieri


Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare. 
Vittorio Alfieri


TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzioni delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; OGNI POPOLO, CHE LO SOPPORTA, È SCHIAVO.
Vittorio Alfieri (1790)



Il problema del rapporto tra lotte, movimenti e partiti è un problema antico anche se c'è chi, soprattutto, mi pare, tra i Cinque Stelle, lo scopre ora. Probabilmente ogni generazione lo riscopre e questo va bene, ma secondo me si disperderebbero meno energie se si conoscesse un poco il passato, non per rifare le stesse cose ma per parlare ed agire con maggiore cautela e con minore ingenuità e presunzione. 
A questo proposito il colloquio tra Rossana Rossanda e jean Paul Sartre del settembre del '69 (R.Rossanda, Quando si pensava in grande, 2013 Einaudi) a me sembra ancora attuale, e del resto le domande che noi esseri umani periodicamente ci poniamo mi pare che siano più o meno le stesse e le risposte .... le risposte non c'erano e ancora non le abbiamo trovate.

La forma dell’intervista è una com­pli­cità «fra due che si par­lano»: così Ros­sana Ros­sanda intro­duce il suo libro «Quando si pen­sava in grande. Tracce di un secolo. Col­lo­qui con venti testi­moni del Nove­cento» (Einaudi, pp 243 euro 17,50). 
Venti inter­vi­stati, tutti uomini per­ché, sot­to­li­nea l’autrice, que­sta è la sto­ria della poli­tica che ha escluso le donne. [...]

Punti focali del libro le inter­vi­ste a Jean-Paul Sar­tre e a Louis Althus­ser. 
La prima, Par­titi e movi­menti due realtà incon­ci­lia­bili, del set­tem­bre ’69, rea­liz­zata nell’imminente radiazione del gruppo del Mani­fe­sto dal Pci, anti­cipa l’elaborazione che sul Mani­fe­sto rivi­sta la stessa Rossanda fece con il titolo Da Marx a Marx, sui limiti della forma par­tito e sulla neces­sità di un nuovo, cen­trale ruolo, e insieme qua­lità, dei movi­menti di massa. Con l’elaborazione di quella che si chiamò «stra­te­gia con­si­liare». A rileg­gerla tra­spare come una pro­fe­zia sull’universo informatico-telematico dei nostri giorni. Per­ché Sar­tre, nel ren­dere evi­dente l’elemento vin­cente del par­tito rispetto ai soli gruppi infor­mali, li chiama «in fusione», rico­no­scen­done però la loro imme­dia­tezza e rap­pre­sen­tanza diretta: come non pen­sare allo sta­tus delle nuove mobi­li­ta­zione poli­ti­che e gruppi nati e codi­fi­cati su web? Con la loro con­su­ma­bi­lità momen­ta­nea e cadu­cità tem­po­ra­nea, senza una memo­ria lunga che, pur non essendo neces­sa­ria­mente del «par­tito», non sia tut­ta­via solo seriale ma dura­tura e supe­riore alla rap­pre­sen­tanza poli­tica che non c’è più.

La seconda ad Althus­ser, Il punto di cieco di Marx, la que­stione dello Stato, è dell’aprile 1978 e prende spunto dalle sue affer­ma­zioni fatte al con­ve­gno del Mani­fe­sto di Vene­zia (novem­bre 1977) sull’inesistenza in Marx di una teo­ria dello Stato. Qui insi­ste sul comu­ni­smo «come ten­denza e realtà inter­sti­ziale» al capi­ta­li­smo in crisi, come sulla neces­sità di non ren­dere «vaga» la per­ce­zione di que­sta ten­denza, di dirlo insomma il comu­ni­smo nei suoi obiet­tivi pro­gram­ma­tici. Mate­ria­li­sti­ca­mente e non idea­li­sti­ca­mente come fosse una evo­ca­zione «feti­ci­sta». Ma l’equivoco più grande è lo Stato, al quale tutto, società poli­tica, par­tito e sin­da­cato — per­dendo così la loro natura di classe -, si riduce. E non ci sono dis­si­mu­la­zioni sulla pre­sunta novità dello «Stato allar­gato»: «Lo Stato è sem­pre stato allar­gato». Nell’introduzione l’autrice parla della sua impe­ri­tura ami­ci­zia con Althus­ser e con la moglie Hélène Ryt­man, fino alla prova estrema: «Le cir­co­stanze mi por­ta­rono a essere vicina a loro due nei giorni in cui egli la uccise; resto per­suasa che non volesse affatto la sua morte, ma non fosse in grado di ascol­tare quel che lei pen­sava di avere sco­perto pro­prio allora sull’origine della sua malat­tia e aveva impru­den­te­mente deciso di dirgli».Ecco la luce affet­tiva della spe­ranza. Quella del mili­tante ses­san­tot­tino Etienne Grum­bach, cuore pul­sante delle agi­ta­zioni ope­raie alla Renault di Flins, che non dismette mai l’impegno del suo «pes­si­mi­smo attivo». Così come spe­ranza e pas­sione tra­spa­iono dagli incon­tri di due mas­simi ana­li­sti delle crisi inter­na­zio­nali, Maxime Rodin­son del Medio Oriente e Paul Sweezy degli Stati uniti.Le crisi attra­ver­sate e infiniteL’intervista a Rodin­son è del 5 ago­sto 1982, pochi giorni prima del mas­sa­cro a Bei­rut di Sabra e Cha­tila. Egli non avverte che la nega­zione di una solu­zione, anzi la can­cel­la­zione da parte dell’Occidente e di Israele della crisi di tutte le crisi, quella pale­sti­nese, e il suo abban­dono all’occupazione mili­tare israe­liana, alle colo­nie che si espan­dono e al Muro dell’apartheid, avrebbe com­por­tato — insieme ad una frat­tura anche vio­lenta del movi­mento pale­sti­nese stesso — una radi­ca­liz­za­zione ideo­lo­gica, nella fat­ti­spe­cie isla­mica, in tutti i Paesi arabi, con il ritorno della guerra impe­riale all’ordine del giorno. Così come Paul Sweezy non com­prende che gli Stati uniti, pur man­te­nendo «le spese mili­tari come ele­mento essen­ziale della sta­bi­lità ame­ri­cana» ave­vano deciso il ritiro dal Viet­nam — a que­sto pun­tava il viag­gio del ’71 di Nixon a Pechino — e che quella vit­to­riosa lotta di popolo matu­rava un ridi­se­gno del con­flitto glo­bale nella Guerra fredda: in Asia con la guerra civile in Cam­bo­gia e la svolta epo­cale cinese, in Africa con lotta al neo­co­lo­nia­li­smo, in Ame­rica Latina con i golpe.Così, un bri­vido si prova alle parole del pre­si­dente cileno Sal­va­dor Allende che Ros­sana incon­tra nel ’71 nel palazzo della Moneda. Si avverte la sua soli­tu­dine, lo sforzo immane, l’equilibrio dif­fi­cile per soste­nere il «cam­bia­mento socia­li­sta». E la sua tra­gica e mal­ri­po­sta fidu­cia nella lealtà dei mili­tari. Men­tre se la prende con il nipote del Mir che, attac­cando l’esercito, «gioca col fuoco». Per­ché «…qui se l’esercito esce dalla lega­lità è la guerra civile. È l’Indonesia. Cre­dete che gli ope­rai si lasce­ranno togliere le indu­strie? E i con­ta­dini le terre? Ci saranno cen­to­mila morti, sarà un bagno di san­gue». Sap­piamo com’è andata.Stessa emo­zione per l’incontro a Lisbona con il mag­giore Erne­sto de Melo Antu­nes, lea­der della rivo­lu­zione dei garo­fani, nel disa­dorno palazzo del par­la­mento di San Bento. «Quel che oggi pos­siamo fare è cam­biare il modo in cui finora si è pen­sato lo svi­luppo, e cioè sem­pre e solo in ter­mini di acce­le­ra­zione di pro­du­zione e inve­sti­menti. Noi pre­fe­riamo par­lare di una via socia­liz­zante…». Era il gen­naio del 1975. Noi, al seguito, assi­ste­vamo ai semi­nari di Ros­sana Ros­sanda al Cen­tro Gubel­kian, il dopo­la­voro dello stato mag­giore por­to­ghese, sui pro­cessi di tran­si­zione. A segnora — così la chia­ma­vano — par­lava appas­sio­nata e fuori mon­ta­vano la guar­dia gio­va­nis­simi che­gue­vara bar­buti, sol­dati in mime­tica e mitra­glia in spalla, appena rien­trati dall’Angola e dal Mozam­bico. Quanto poteva durare? E non durò. Non capimmo, anche per l’enfasi reto­rica dei tanti arri­vati da tutta Europa a «diri­gere» con pre­sun­tuose cer­tezze la rivo­lu­zione che, al con­tra­rio, chie­deva, come faceva Ros­sana, di inter­ro­garsi insieme a noi. Che le scon­fitte alla fine — e vale anche per noi, adesso — non siano il ter­reno più fer­tile da seminare?

http://ilmanifesto.it/una-stagione-grande-e-aperta/

Sartre e il ’68

Rossana Rossanda ha raccolto le interviste realizzate negli anni sul “Manifesto” Con il filosofo dell’esistenzialismo, incontrato nel 1969, ragiona sul Maggio francese


di Rossana Rossanda Repubblica 19.11.13

Dagli avvenimenti di maggio in Francia, e in genere dalle lotte recenti è uscita una critica ai partiti che ne investe non soltanto le scelte ma la strutturaNe vengono messe in causa non soltanto le degenerazioni (per esempio la burocratizzazione), ma la stessa natura, il concetto di organizzazione politica, di partito. Questa polemica non è stata fruttuosa. In genere ha condotto il movimento a forme di impotenza, tanto da indurlo oggi alla tendenza inversa, cioè a riscoprire in una sua originale purezza la teoria leninista del partito, e ripeterla. [...] «In fondo ho tentato di dimostrare che il partito è per rapporto alla massa una realtà necessaria, perché la massa in sé, non possiede neppure una spontaneità. In sé, la massa resta seriale. Inversamente, però, appena il partito diventa istituzione, è — salvo in circostanze eccezionali — reazionario rispetto a ciò che esso stesso sollecita o crea, cioè il gruppo in fusione. In altre parole, il dilemma: spontaneità/partito è un falso problema. [...] Ciò detto, cosa rappresenta il partito rispetto alla serie? Certamente un bene, perché impedisce di cadere nella serializzazione completaI membri di un partito comunista resterebbero anch’essi individui isolati e serializzati, in contiguità l’uno con l’altro, se il partito non li costituisse in gruppo attraverso un legame organico, che permette al comunista di Milano di essere in rapporto con un altro lavoratore comunista di qualsiasi altro Paese. Inoltre, è grazie al partito che si formano nel corso della lotta molti gruppi, perché il partito facilita la comunicazione. Tuttavia rispetto al gruppo in fusione che esso stesso ha contribuito a creare, il partito si trova, di regola, nella duplice condizione di doverlo o assorbire, o rinnegareRispetto al gruppo, la cui strutturazione non va mai oltre una sorta di patto reciproco, il partito è molto più fortemente strutturato. Un gruppo si forma a caldo, per esempio, attorno a un obiettivo — “bisogna prendere la Bastiglia, andiamo”; e subito dopo l’azione, i suoi componenti si ritrovano inquieti l’uno rispetto all’altro e cercano di stabilire, nella loro libertà, un legame che sostituisca il legame immediato che era creato dall’azione, cioè una sorta di patto o giuramento, il quale a sua volta tende a costituire un embrione di una serie, a stabilire fra loro un rapporto di contiguità, reificato. È quel che sostengo in Fraternité et terreur.Il gruppo non va oltre. Il partito invece cresce come un insieme di istituzioni, quindi come un sistema chiuso, appesantito, tendenzialmente sclerotizzato. [...] In quanto istituzione, un partito ha un pensiero istituzionalizzato — cioè qualche cosa che si allontana da un pensiero sulla realtà — per riflettere soprattutto la sua propria organizzazione, un ideologismo insomma. Sul suo schema si incanala, deformandosi, anche l’esperienza di lotta; viceversa, il gruppo in fusione pensa l’esperienza così come si presenta, senza mediazione istituzionaleCosì il pensiero di un gruppo quando si pensava in grande può essere vago, impossibile da teorizzare, fastidioso — com’erano le idee degli studenti nel 1968 — ma rappresenta un grado di riflessione più vera, perché nessuna istituzione fa da filtro tra l’esperienza e la riflessione sull’esperienza. [...]»
Lei afferma, dunque, che il vero luogo della coscienza rivoluzionaria non sono né la classe nella sua immediatezza, né il partito, ma la lotta. Che il partito vive fintanto che è strumento di lotta, mentre, appena diventa istituzione, scambia i mezzi per il fine e diventa fine a sé stessod’altra parte la classe non avrebbe coscienza di sé finché non si costituisce in gruppo, e non può costituirsi in gruppo se non in quanto esprime un progetto politico. La contraddizione che lei mette in evidenza può forse risolversi soltanto se si tenta di andare oltre un’impostazione generale del problema e lo si cala nell’immediatezza delle singole situazioni. Insomma non sembra possibile una soluzione metastorica. Vanno piuttosto individuate le condizioni oggettive in cui volta a volta questo dilemma possa trovare una soluzione. Per questo occorrono, a nostro avviso, due condizioni, la prima delle quali è che la classe superi il livello della serialità per diventare effettivamente e interamente soggetto di azione collettivacapace di egemonia… «Questa è una condizione impossibile, la classe operaia non può mai esprimersi interamente, come soggetto politico attivo: ci saranno sempre zone o regioni o frange, che per ragioni storiche di sviluppo resteranno serializzate, massificate, estranee auna presa di coscienza. Un residuo c’è sempre. È ora molto in uso la generalizzazione del concetto di coscienza di classe e di lotta di classe come elementi preesistenti, a priori rispetto alla lotta. A priori non c’è che lo stato oggettivo di sfruttamento della classe. La coscienza nasce soltanto nella lotta; la lotta di classe esiste solo in quanto ci siano luoghi dove effettivamente si combatte. È vero che il proletariato porta in sé la morte della borghesia, è vero che il sistema capitalistico è minato da contraddizioni strutturali e antagoniste; ma questo non comporta necessariamente l’esistenza di una coscienza di classe o di una lotta di classe. Perché ci sia coscienza e lotta occorre che qualcuno si batta. [...] Nel maggio, partiti sindacati non solo non erano al potere, ma non svolsero un ruolo neppur paragonabile. L’elemento che unificò la lotta è qualche cosa che, secondo me, viene da lontano: è un’idea che ci viene dal Vietnam e che gli studenti hanno espresso nella formula “l’imagination au pouvoir”. In altre parole, il campo del possibile è molto più vasto di quel che le classi dominanti ci hanno abituato a credere. Chi avrebbe creduto che un popolo di 14 milioni di contadini poteva tenere testa alla più grande potenza industriale e militare del mondo? Eppure è stato così. Il Vietnam ci ha insegnato che il campo del possibile è enorme, che non bisogna rassegnarsi. Questa è stata la molla della rivolta studentesca e gli operai l’hanno capito. Nella manifestazione in comune del 13 maggio questa idea è diventata, d’improvviso, dominante. Se qualche migliaio di ragazzi occupa le facoltà e tiene in scacco il governo, perché non lo possiamo fare anche noi? Così, dopo il 13 maggio e sulla base di un modello che in quel momento veniva loro dall’esterno, gli operai sono scesi in sciopero e hanno occupato le fabbricheL’elemento che li mobilitò e unificò non fu una piattaforma rivendicativa: questa venne dopo, a giustificazione dello sciopero, e certo non ne mancavano i motivi. Ma è interessante che le rivendicazioni siano venute dopo, quando le fabbriche eranogià state occupate».

PUBBLICATO DA MATERIALISMOSTORICO A 16:28 
materialismostorico.blogspot.it/2013/11/rossana-rossanda-da-lukacs-e-sartre.html


TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
Vittorio Alfieri (1790)

L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. 
Italo Calvino 


Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande (1968-1998)

E' in libreria “Quando si pensava in grande” di Rossana Rossanda. Raccoglie 20 interviste apparse sul Manifesto dal '68 alla fine degli anni '90. Trent'anni nelle riflessioni degli esponenti di una sinistra che oggi non esiste più

Tratto da: Blog di Benedetto Vecchi. La scommessa politica di ripartire dopo la sconfitta


La let­tura delle inter­vi­ste, ma il più delle volte sono incon­tri alla pari tra una comu­ni­sta «ere­tica» e pro­ta­go­ni­sti del movi­mento ope­raio e comu­ni­sta, costringe a ripen­sare il lungo Nove­cento [...] Quel che inte­ressa Ros­sana Ros­sanda era di dare forma poli­tica a un’idea di rivo­lu­zione, di tra­sfor­ma­zione radi­cale a par­tire dall’imprevisto della Sto­ria che è stato il Sessantotto.

Tutto, allora, diven­tava pos­si­bile. Tutto però diven­tava dif­fi­cile. Era la faci­lità dif­fi­cile a farsi annun­ciata da Ber­tolt Bre­cht. Il par­tito non è la forma orga­niz­za­tiva che può inter­cet­tare que­gli «strani stu­denti» che hanno preso la parola nelle metro­poli euro­pee e sta­tu­ni­tensi. Al suo posto, tut­ta­via, non ha preso piede nes­sun valido sosti­tu­tivo. Anche la classe ope­raia è cam­biata. Non vuole solo più sala­rio, ma chiede di eser­ci­tare il suo potere den­tro la fab­brica e nella società. Per una comu­ni­sta come Ros­sana Ros­sanda que­sto signi­fica fare i conti con la cri­tica dell’economia poli­tica mar­xiana, senza però andare oltre Marx. Non a caso, viene ricor­dato un sag­gio, a suo modo pro­gram­ma­tico, dal titolo «Da Marx a Marx». E pro­gram­ma­tico è l’incontro con Louis Althus­ser, dove il filo­sofo fran­cese, quasi in un mono­logo, evi­den­zia il fatto che l’opera mar­xiana più che aperta è «finita», inten­dendo con ciò che è va integrata lad­dove necessita.

Ma se il Ses­san­totto è lo spar­tiac­que per una rin­no­vata teo­ria della rivo­lu­zione, le pagine di que­sto libro sono attra­ver­sate dalla scon­fitta di tale scom­messa poli­tica. È que­sta la parte più pro­ble­ma­tica, almeno per chi scrive, del volume. Certo il movi­mento ope­raio esce scon­fitto dal lungo Nove­cento, ma ciò non signi­fica che non sia pos­si­bile ripren­dere le fila di una prassi teo­rica e poli­tica che «imma­gi­nava» un altro tipo di tra­sfor­ma­zione radi­cale. La caduta del Muro di Ber­lino e l’implosione del socia­li­smo reale sono entrambi uno spar­tiac­que, anche se la con­tro­ri­vo­lu­zione neo­li­be­rale si era già dispie­gata a livello pla­ne­ta­rio. Da que­sto punto vista, l’Ottantanove è la rati­fica di un pas­sag­gio di fase. In altri ter­miniil movi­mento ope­raio era già stato scon­fitto. E con esso il Ses­san­totto. Il nodo da scio­gliere allora non è quello della scon­fitta, ma dal dove e dal come ripar­tire. Fuori dai denti: pre­con­di­zione di tutto è inno­vare pro­prio quella cri­tica dell’economia poli­tica a cui Ros­sana Ros­sanda ha più volte invi­tato a tornare.

Il mondo uscito dall’Ottantanove non è però un deserto da attra­ver­sare, né una realtà a volte feroce che ha biso­gno di una buona ammi­ni­stra­zione della cosa pub­blica (come emerge nelle parole di Giu­seppe De Rita e Mas­simo D’Alema), ma un modo di pro­du­zione che ha visto ridi­se­gnare i rap­porti sociali di pro­du­zione sem­pre all’insegna del lavoro sala­riato. Mutate sono le figure del lavoro vivo, mutati sono i rap­porti tra stato e eco­no­mia, mutate sono infine le sog­get­ti­vità poli­ti­che. Anche qui, a scanso di equi­voci: la scom­parsa della sini­stra non è da salu­tare come una vit­to­ria, bensì un prin­ci­pio di realtà da cui par­tire che dovrebbe met­tere al riparo dal riflesso pavlo­viano di guar­dare agli attuali par­titi eredi della sini­stra poli­tica nove­cen­te­sca — sia ita­liana che euro­pea — come un con­te­sto in grado di poter garan­tire un timido rifor­mi­smo che con­tenga gli «spi­riti ani­mali» del capi­ta­li­smo. Sem­mai sono parte inte­grante di un sistema poli­tico fun­zio­nale al sistema di potere attuale.

Ovvia­mente, la cita­zione del sor­gere e dell’eclissi dei movi­menti sociali, le insor­genze sociali, financo le rivolte può essere facil­mente deriso se messo a para­gone con il lungo Nove­cento. Ma que­sta è la realtà in cui vivere e agire poli­ti­ca­mente. Altre strade con­du­cono in vicoli cie­chi o nell’aderire al domi­nante spi­rito del tempo.

Il volume di Ros­sana Ros­sanda si chiude su que­sti nodi. È com­pito di un altro ordine del discorso scio­glierli. A lei il merito di con­ti­nuare a scavare.

(Da: Il Manifesto del 4 dicembre 2013)

Rossana Rossanda
Quando si pen­sava in grande
Einaudi, 2013
euro 17,50
PUBBLICATO DA VENTO LARGO A 12:21 

http://cedocsv.blogspot.it/2013/12/rossana-rossanda-quando-si-pensava-in.html

JEAN PAUL SARTRE /ROSSANA ROSSANDA: un frammento
Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo (Einaudi editore) 
COSCIENZA DI CLASSE, PARTITO, EGEMONIA
(19 Novembre 2013)


"….Il vero luogo della coscienza rivoluzionaria non sono né la classe nella sua immediatezza, né il partito ma la lotta. Che il Partito viva fintanto che è strumento di lotta, mentre, appena diventa istituzione, scambia i mezzi per il fine e diventa fine a se stesso; d’altra parte la classe non avrebbe coscienza di sé finché non può costituirsi in gruppo, e non può costituirsi in gruppo se non in quanto esprime un progetto politico. Si evidenzia così una contraddizione che forse può risolversi soltanto se si tenta di andare oltre un’impostazione generale del problema e lo si cala nell’immediatezza delle situazioni storiche. 
Vanno individuate così le condizioni oggettive in cui volta a volta questo dilemma possa trovare una soluzione. Per questo è necessario che la classe superi il livello della serialità per diventare effettivamente e interamente soggetto di azione collettiva, capace di egemonia”. 

Nota della redazione di “Perché la Sinistra”: questo che stiamo attraversando è uno di quei momenti storici, dove le condizioni oggettive ci dicono che è necessario costituirsi in gruppo, esprimere un progetto politico al fine di esercitare egemonia.
Jean Paul Sartre, Rossana Rossanda

dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it







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