Volli, sempre volli, fortissimamente volli.
Vittorio Alfieri
Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare.
Vittorio Alfieri
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzioni delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; OGNI POPOLO, CHE LO SOPPORTA, È SCHIAVO.
Vittorio Alfieri (1790)
Il problema del rapporto tra lotte, movimenti e partiti è un problema antico anche se c'è chi, soprattutto, mi pare, tra i Cinque Stelle, lo scopre ora. Probabilmente ogni generazione lo riscopre e questo va bene, ma secondo me si disperderebbero meno energie se si conoscesse un poco il passato, non per rifare le stesse cose ma per parlare ed agire con maggiore cautela e con minore ingenuità e presunzione.
A questo proposito il colloquio tra Rossana Rossanda e jean Paul Sartre del settembre del '69 (R.Rossanda, Quando si pensava in grande, 2013 Einaudi) a me sembra ancora attuale, e del resto le domande che noi esseri umani periodicamente ci poniamo mi pare che siano più o meno le stesse e le risposte .... le risposte non c'erano e ancora non le abbiamo trovate.
La forma dell’intervista è una complicità «fra due che si parlano»: così Rossana Rossanda introduce il suo libro «Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento» (Einaudi, pp 243 euro 17,50).
Venti intervistati, tutti uomini perché, sottolinea l’autrice, questa è la storia della politica che ha escluso le donne. [...]
Punti focali del libro le interviste a Jean-Paul Sartre e a Louis Althusser.
La prima, Partiti e movimenti due realtà inconciliabili, del settembre ’69, realizzata nell’imminente radiazione del gruppo del Manifesto dal Pci, anticipa l’elaborazione che sul Manifesto rivista la stessa Rossanda fece con il titolo Da Marx a Marx, sui limiti della forma partito e sulla necessità di un nuovo, centrale ruolo, e insieme qualità, dei movimenti di massa. Con l’elaborazione di quella che si chiamò «strategia consiliare». A rileggerla traspare come una profezia sull’universo informatico-telematico dei nostri giorni. Perché Sartre, nel rendere evidente l’elemento vincente del partito rispetto ai soli gruppi informali, li chiama «in fusione», riconoscendone però la loro immediatezza e rappresentanza diretta: come non pensare allo status delle nuove mobilitazione politiche e gruppi nati e codificati su web? Con la loro consumabilità momentanea e caducità temporanea, senza una memoria lunga che, pur non essendo necessariamente del «partito», non sia tuttavia solo seriale ma duratura e superiore alla rappresentanza politica che non c’è più.
La seconda ad Althusser, Il punto di cieco di Marx, la questione dello Stato, è dell’aprile 1978 e prende spunto dalle sue affermazioni fatte al convegno del Manifesto di Venezia (novembre 1977) sull’inesistenza in Marx di una teoria dello Stato. Qui insiste sul comunismo «come tendenza e realtà interstiziale» al capitalismo in crisi, come sulla necessità di non rendere «vaga» la percezione di questa tendenza, di dirlo insomma il comunismo nei suoi obiettivi programmatici. Materialisticamente e non idealisticamente come fosse una evocazione «feticista». Ma l’equivoco più grande è lo Stato, al quale tutto, società politica, partito e sindacato — perdendo così la loro natura di classe -, si riduce. E non ci sono dissimulazioni sulla presunta novità dello «Stato allargato»: «Lo Stato è sempre stato allargato». Nell’introduzione l’autrice parla della sua imperitura amicizia con Althusser e con la moglie Hélène Rytman, fino alla prova estrema: «Le circostanze mi portarono a essere vicina a loro due nei giorni in cui egli la uccise; resto persuasa che non volesse affatto la sua morte, ma non fosse in grado di ascoltare quel che lei pensava di avere scoperto proprio allora sull’origine della sua malattia e aveva imprudentemente deciso di dirgli».Ecco la luce affettiva della speranza. Quella del militante sessantottino Etienne Grumbach, cuore pulsante delle agitazioni operaie alla Renault di Flins, che non dismette mai l’impegno del suo «pessimismo attivo». Così come speranza e passione traspaiono dagli incontri di due massimi analisti delle crisi internazionali, Maxime Rodinson del Medio Oriente e Paul Sweezy degli Stati uniti.Le crisi attraversate e infiniteL’intervista a Rodinson è del 5 agosto 1982, pochi giorni prima del massacro a Beirut di Sabra e Chatila. Egli non avverte che la negazione di una soluzione, anzi la cancellazione da parte dell’Occidente e di Israele della crisi di tutte le crisi, quella palestinese, e il suo abbandono all’occupazione militare israeliana, alle colonie che si espandono e al Muro dell’apartheid, avrebbe comportato — insieme ad una frattura anche violenta del movimento palestinese stesso — una radicalizzazione ideologica, nella fattispecie islamica, in tutti i Paesi arabi, con il ritorno della guerra imperiale all’ordine del giorno. Così come Paul Sweezy non comprende che gli Stati uniti, pur mantenendo «le spese militari come elemento essenziale della stabilità americana» avevano deciso il ritiro dal Vietnam — a questo puntava il viaggio del ’71 di Nixon a Pechino — e che quella vittoriosa lotta di popolo maturava un ridisegno del conflitto globale nella Guerra fredda: in Asia con la guerra civile in Cambogia e la svolta epocale cinese, in Africa con lotta al neocolonialismo, in America Latina con i golpe.Così, un brivido si prova alle parole del presidente cileno Salvador Allende che Rossana incontra nel ’71 nel palazzo della Moneda. Si avverte la sua solitudine, lo sforzo immane, l’equilibrio difficile per sostenere il «cambiamento socialista». E la sua tragica e malriposta fiducia nella lealtà dei militari. Mentre se la prende con il nipote del Mir che, attaccando l’esercito, «gioca col fuoco». Perché «…qui se l’esercito esce dalla legalità è la guerra civile. È l’Indonesia. Credete che gli operai si lasceranno togliere le industrie? E i contadini le terre? Ci saranno centomila morti, sarà un bagno di sangue». Sappiamo com’è andata.Stessa emozione per l’incontro a Lisbona con il maggiore Ernesto de Melo Antunes, leader della rivoluzione dei garofani, nel disadorno palazzo del parlamento di San Bento. «Quel che oggi possiamo fare è cambiare il modo in cui finora si è pensato lo sviluppo, e cioè sempre e solo in termini di accelerazione di produzione e investimenti. Noi preferiamo parlare di una via socializzante…». Era il gennaio del 1975. Noi, al seguito, assistevamo ai seminari di Rossana Rossanda al Centro Gubelkian, il dopolavoro dello stato maggiore portoghese, sui processi di transizione. A segnora — così la chiamavano — parlava appassionata e fuori montavano la guardia giovanissimi cheguevara barbuti, soldati in mimetica e mitraglia in spalla, appena rientrati dall’Angola e dal Mozambico. Quanto poteva durare? E non durò. Non capimmo, anche per l’enfasi retorica dei tanti arrivati da tutta Europa a «dirigere» con presuntuose certezze la rivoluzione che, al contrario, chiedeva, come faceva Rossana, di interrogarsi insieme a noi. Che le sconfitte alla fine — e vale anche per noi, adesso — non siano il terreno più fertile da seminare?
http://ilmanifesto.it/una-stagione-grande-e-aperta/
Sartre e il ’68
Rossana Rossanda ha raccolto le interviste realizzate negli anni sul “Manifesto” Con il filosofo dell’esistenzialismo, incontrato nel 1969, ragiona sul Maggio francese
di Rossana Rossanda Repubblica 19.11.13
Dagli avvenimenti di maggio in Francia, e in genere dalle lotte recenti è uscita una critica ai partiti che ne investe non soltanto le scelte ma la struttura. Ne vengono messe in causa non soltanto le degenerazioni (per esempio la burocratizzazione), ma la stessa natura, il concetto di organizzazione politica, di partito. Questa polemica non è stata fruttuosa. In genere ha condotto il movimento a forme di impotenza, tanto da indurlo oggi alla tendenza inversa, cioè a riscoprire in una sua originale purezza la teoria leninista del partito, e ripeterla. [...] «In fondo ho tentato di dimostrare che il partito è per rapporto alla massa una realtà necessaria, perché la massa in sé, non possiede neppure una spontaneità. In sé, la massa resta seriale. Inversamente, però, appena il partito diventa istituzione, è — salvo in circostanze eccezionali — reazionario rispetto a ciò che esso stesso sollecita o crea, cioè il gruppo in fusione. In altre parole, il dilemma: spontaneità/partito è un falso problema. [...] Ciò detto, cosa rappresenta il partito rispetto alla serie? Certamente un bene, perché impedisce di cadere nella serializzazione completa. I membri di un partito comunista resterebbero anch’essi individui isolati e serializzati, in contiguità l’uno con l’altro, se il partito non li costituisse in gruppo attraverso un legame organico, che permette al comunista di Milano di essere in rapporto con un altro lavoratore comunista di qualsiasi altro Paese. Inoltre, è grazie al partito che si formano nel corso della lotta molti gruppi, perché il partito facilita la comunicazione. Tuttavia rispetto al gruppo in fusione che esso stesso ha contribuito a creare, il partito si trova, di regola, nella duplice condizione di doverlo o assorbire, o rinnegare. Rispetto al gruppo, la cui strutturazione non va mai oltre una sorta di patto reciproco, il partito è molto più fortemente strutturato. Un gruppo si forma a caldo, per esempio, attorno a un obiettivo — “bisogna prendere la Bastiglia, andiamo”; e subito dopo l’azione, i suoi componenti si ritrovano inquieti l’uno rispetto all’altro e cercano di stabilire, nella loro libertà, un legame che sostituisca il legame immediato che era creato dall’azione, cioè una sorta di patto o giuramento, il quale a sua volta tende a costituire un embrione di una serie, a stabilire fra loro un rapporto di contiguità, reificato. È quel che sostengo in Fraternité et terreur.Il gruppo non va oltre. Il partito invece cresce come un insieme di istituzioni, quindi come un sistema chiuso, appesantito, tendenzialmente sclerotizzato. [...] In quanto istituzione, un partito ha un pensiero istituzionalizzato — cioè qualche cosa che si allontana da un pensiero sulla realtà — per riflettere soprattutto la sua propria organizzazione, un ideologismo insomma. Sul suo schema si incanala, deformandosi, anche l’esperienza di lotta; viceversa, il gruppo in fusione pensa l’esperienza così come si presenta, senza mediazione istituzionale. Così il pensiero di un gruppo quando si pensava in grande può essere vago, impossibile da teorizzare, fastidioso — com’erano le idee degli studenti nel 1968 — ma rappresenta un grado di riflessione più vera, perché nessuna istituzione fa da filtro tra l’esperienza e la riflessione sull’esperienza. [...]»
Lei afferma, dunque, che il vero luogo della coscienza rivoluzionaria non sono né la classe nella sua immediatezza, né il partito, ma la lotta. Che il partito vive fintanto che è strumento di lotta, mentre, appena diventa istituzione, scambia i mezzi per il fine e diventa fine a sé stesso; d’altra parte la classe non avrebbe coscienza di sé finché non si costituisce in gruppo, e non può costituirsi in gruppo se non in quanto esprime un progetto politico. La contraddizione che lei mette in evidenza può forse risolversi soltanto se si tenta di andare oltre un’impostazione generale del problema e lo si cala nell’immediatezza delle singole situazioni. Insomma non sembra possibile una soluzione metastorica. Vanno piuttosto individuate le condizioni oggettive in cui volta a volta questo dilemma possa trovare una soluzione. Per questo occorrono, a nostro avviso, due condizioni, la prima delle quali è che la classe superi il livello della serialità per diventare effettivamente e interamente soggetto di azione collettiva, capace di egemonia… «Questa è una condizione impossibile, la classe operaia non può mai esprimersi interamente, come soggetto politico attivo: ci saranno sempre zone o regioni o frange, che per ragioni storiche di sviluppo resteranno serializzate, massificate, estranee auna presa di coscienza. Un residuo c’è sempre. È ora molto in uso la generalizzazione del concetto di coscienza di classe e di lotta di classe come elementi preesistenti, a priori rispetto alla lotta. A priori non c’è che lo stato oggettivo di sfruttamento della classe. La coscienza nasce soltanto nella lotta; la lotta di classe esiste solo in quanto ci siano luoghi dove effettivamente si combatte. È vero che il proletariato porta in sé la morte della borghesia, è vero che il sistema capitalistico è minato da contraddizioni strutturali e antagoniste; ma questo non comporta necessariamente l’esistenza di una coscienza di classe o di una lotta di classe. Perché ci sia coscienza e lotta occorre che qualcuno si batta. [...] Nel maggio, partiti e sindacati non solo non erano al potere, ma non svolsero un ruolo neppur paragonabile. L’elemento che unificò la lotta è qualche cosa che, secondo me, viene da lontano: è un’idea che ci viene dal Vietnam e che gli studenti hanno espresso nella formula “l’imagination au pouvoir”. In altre parole, il campo del possibile è molto più vasto di quel che le classi dominanti ci hanno abituato a credere. Chi avrebbe creduto che un popolo di 14 milioni di contadini poteva tenere testa alla più grande potenza industriale e militare del mondo? Eppure è stato così. Il Vietnam ci ha insegnato che il campo del possibile è enorme, che non bisogna rassegnarsi. Questa è stata la molla della rivolta studentesca e gli operai l’hanno capito. Nella manifestazione in comune del 13 maggio questa idea è diventata, d’improvviso, dominante. Se qualche migliaio di ragazzi occupa le facoltà e tiene in scacco il governo, perché non lo possiamo fare anche noi? Così, dopo il 13 maggio e sulla base di un modello che in quel momento veniva loro dall’esterno, gli operai sono scesi in sciopero e hanno occupato le fabbriche. L’elemento che li mobilitò e unificò non fu una piattaforma rivendicativa: questa venne dopo, a giustificazione dello sciopero, e certo non ne mancavano i motivi. Ma è interessante che le rivendicazioni siano venute dopo, quando le fabbriche eranogià state occupate».
PUBBLICATO DA MATERIALISMOSTORICO A 16:28
materialismostorico.blogspot.it/2013/11/rossana-rossanda-da-lukacs-e-sartre.html
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
Vittorio Alfieri (1790)
L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Italo Calvino
Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande (1968-1998)
E' in libreria “Quando si pensava in grande” di Rossana Rossanda. Raccoglie 20 interviste apparse sul Manifesto dal '68 alla fine degli anni '90. Trent'anni nelle riflessioni degli esponenti di una sinistra che oggi non esiste più.
Tratto da: Blog di Benedetto Vecchi. La scommessa politica di ripartire dopo la sconfitta
La lettura delle interviste, ma il più delle volte sono incontri alla pari tra una comunista «eretica» e protagonisti del movimento operaio e comunista, costringe a ripensare il lungo Novecento [...] Quel che interessa Rossana Rossanda era di dare forma politica a un’idea di rivoluzione, di trasformazione radicale a partire dall’imprevisto della Storia che è stato il Sessantotto.
Tutto, allora, diventava possibile. Tutto però diventava difficile. Era la facilità difficile a farsi annunciata da Bertolt Brecht. Il partito non è la forma organizzativa che può intercettare quegli «strani studenti» che hanno preso la parola nelle metropoli europee e statunitensi. Al suo posto, tuttavia, non ha preso piede nessun valido sostitutivo. Anche la classe operaia è cambiata. Non vuole solo più salario, ma chiede di esercitare il suo potere dentro la fabbrica e nella società. Per una comunista come Rossana Rossanda questo significa fare i conti con la critica dell’economia politica marxiana, senza però andare oltre Marx. Non a caso, viene ricordato un saggio, a suo modo programmatico, dal titolo «Da Marx a Marx». E programmatico è l’incontro con Louis Althusser, dove il filosofo francese, quasi in un monologo, evidenzia il fatto che l’opera marxiana più che aperta è «finita», intendendo con ciò che è va integrata laddove necessita.
Ma se il Sessantotto è lo spartiacque per una rinnovata teoria della rivoluzione, le pagine di questo libro sono attraversate dalla sconfitta di tale scommessa politica. È questa la parte più problematica, almeno per chi scrive, del volume. Certo il movimento operaio esce sconfitto dal lungo Novecento, ma ciò non significa che non sia possibile riprendere le fila di una prassi teorica e politica che «immaginava» un altro tipo di trasformazione radicale. La caduta del Muro di Berlino e l’implosione del socialismo reale sono entrambi uno spartiacque, anche se la controrivoluzione neoliberale si era già dispiegata a livello planetario. Da questo punto vista, l’Ottantanove è la ratifica di un passaggio di fase. In altri termini, il movimento operaio era già stato sconfitto. E con esso il Sessantotto. Il nodo da sciogliere allora non è quello della sconfitta, ma dal dove e dal come ripartire. Fuori dai denti: precondizione di tutto è innovare proprio quella critica dell’economia politica a cui Rossana Rossanda ha più volte invitato a tornare.
Il mondo uscito dall’Ottantanove non è però un deserto da attraversare, né una realtà a volte feroce che ha bisogno di una buona amministrazione della cosa pubblica (come emerge nelle parole di Giuseppe De Rita e Massimo D’Alema), ma un modo di produzione che ha visto ridisegnare i rapporti sociali di produzione sempre all’insegna del lavoro salariato. Mutate sono le figure del lavoro vivo, mutati sono i rapporti tra stato e economia, mutate sono infine le soggettività politiche. Anche qui, a scanso di equivoci: la scomparsa della sinistra non è da salutare come una vittoria, bensì un principio di realtà da cui partire che dovrebbe mettere al riparo dal riflesso pavloviano di guardare agli attuali partiti eredi della sinistra politica novecentesca — sia italiana che europea — come un contesto in grado di poter garantire un timido riformismo che contenga gli «spiriti animali» del capitalismo. Semmai sono parte integrante di un sistema politico funzionale al sistema di potere attuale.
Ovviamente, la citazione del sorgere e dell’eclissi dei movimenti sociali, le insorgenze sociali, financo le rivolte può essere facilmente deriso se messo a paragone con il lungo Novecento. Ma questa è la realtà in cui vivere e agire politicamente. Altre strade conducono in vicoli ciechi o nell’aderire al dominante spirito del tempo.
Il volume di Rossana Rossanda si chiude su questi nodi. È compito di un altro ordine del discorso scioglierli. A lei il merito di continuare a scavare.
(Da: Il Manifesto del 4 dicembre 2013)
Rossana Rossanda
Quando si pensava in grande
Einaudi, 2013
euro 17,50
PUBBLICATO DA VENTO LARGO A 12:21
http://cedocsv.blogspot.it/2013/12/rossana-rossanda-quando-si-pensava-in.html
JEAN PAUL SARTRE /ROSSANA ROSSANDA: un frammento
Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo (Einaudi editore)
COSCIENZA DI CLASSE, PARTITO, EGEMONIA
(19 Novembre 2013)
"….Il vero luogo della coscienza rivoluzionaria non sono né la classe nella sua immediatezza, né il partito ma la lotta. Che il Partito viva fintanto che è strumento di lotta, mentre, appena diventa istituzione, scambia i mezzi per il fine e diventa fine a se stesso; d’altra parte la classe non avrebbe coscienza di sé finché non può costituirsi in gruppo, e non può costituirsi in gruppo se non in quanto esprime un progetto politico. Si evidenzia così una contraddizione che forse può risolversi soltanto se si tenta di andare oltre un’impostazione generale del problema e lo si cala nell’immediatezza delle situazioni storiche.
Vanno individuate così le condizioni oggettive in cui volta a volta questo dilemma possa trovare una soluzione. Per questo è necessario che la classe superi il livello della serialità per diventare effettivamente e interamente soggetto di azione collettiva, capace di egemonia”.
Nota della redazione di “Perché la Sinistra”: questo che stiamo attraversando è uno di quei momenti storici, dove le condizioni oggettive ci dicono che è necessario costituirsi in gruppo, esprimere un progetto politico al fine di esercitare egemonia.
Jean Paul Sartre, Rossana Rossanda
dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it
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