giovedì 17 maggio 2018

Truman Capote, Colazione da Tiffany. Non amate mai una creatura selvatica, signor Bell. Non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica; più le si vuole bene più forte diventa. Finché diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto. Poi in cielo. E sarà questa la vostra fine, signor Bell, se vi concederete il lusso di amare una creatura selvatica. Finirete per guardare il cielo

Truman Capote (nato a New Orleans il 30 ottobre 1924)

«Ogni volta che cambiamo marca di sigarette, traslochiamo in una nuova casa, ci abboniamo a un altro giornale, ci innamoriamo e ci disinnamoriamo, in realtà non facciamo che protestare in modo più o meno frivolo contro l’insormontabile noia della vita quotidiana. Purtroppo però tutti gli specchi sono bugiardi, e a un certo punto, ci rimandano la solita faccia vuota e insoddisfatta: perciò mentre si domandava cosa aveva fatto, in realtà Grady si domandava cosa stava facendo, come al solito».
Truman Capote, “Incontro d’estate”



"Mi sento sempre attratto dai posti dove sono vissuto, le case e i loro dintorni. 
Per esempio, nella Settantesima Est c'è un edificio di pietra grigia dove, al principio della guerra, ho avuto il mio primo appartamento newyorchese.
Era una stanza sola affollata di mobili di scarto, un divano e alcune poltrone paffute, ricoperte di quel particolare velluto rosso e pruriginoso che ricolleghiamo alle giornate d'afa in treno. Le pareti erano a stucco, di un colore che ricordava uno sputo tabaccoso. Dappertutto, perfino in bagno, c'erano stampe di rovine romane, molto vecchie e tempestate di puntolini scuri.
L'unica finestra dava sulla scala di sicurezza. Ma, anche così, mi si rialzava il morale ogni volta che mi sentivo in tasca la chiave del mio appartamento; per triste che fosse, era un posto mio, il primo, e lì c'erano i miei libri, i barattoli pieni di matite da temperare, tutto quello che mi occorreva (o così almeno pensavo) per diventare lo scrittore che volevo diventare."
[Incipit di 'Colazione da Tiffany' di Truman Capote, nato il 30 settembre 1924]


Abitavo nella casa da circa una settimana quando notai che la casella dell’appartamento numero due era contrassegnata da un bigliettino perlomeno strano. Stampato con una certa eleganza formale, il biglietto diceva: Signorina Holiday Golightly, e sotto, in un angolo: in transito. 
Cominciò a perseguitarmi come una canzonetta: Signorina Holiday Golightly, in transito.
La signorina aveva un gatto, e suonava la chitarra. Nei giorni in cui il sole picchiava forte si lavava i capelli, poi, assieme al gatto, un maschio rosso tigrato, si metteva a sedere sulla scala di soccorso a pizzicare la chitarra mentre i capelli asciugavano. Ogni volta che sentivo la musica, andavo a mettermi in silenzio accanto alla finestra. Suonava molto bene, e qualche volta cantava. Cantava con il timbro rauco, incerto di un adolescente. Conosceva tutti i grandi successi, Cole Porter e Kurt Weill; le piacevano soprattutto le arie di Oklahoma! che erano nuove quell’estate e che si sentivano dappertutto. Ma c’erano momenti in cui cantava cose che vi facevano domandare dove poteva averle imparate, o da dove mai potevano venire. Strane arie dolci-amare con parole che sapevano di pini e di prateria. Una diceva: Don’t wanna sleep, Don’t wanna die, Just wanna go atravelin’ trough the pastures of the sky; e questa sembrava piacerle più delle altre, perché continuava a ripeterla anche quando i capelli erano già asciutti, anche quando il sole era tramontato e le finestre si illuminavano nel crepuscolo.
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958) 


Osservando il cestino dei rifiuti davanti alla sua porta, scoprii che le sue normali letture consistevano in giornali scandalistici, volantini di viaggio e oroscopi, che fumava strane sigarette di nome Picayune, che si nutriva a base di ricotta e melba toast; che i suoi capelli multicolori avevano, in un certo senso, un'origine volontaria. La stessa fonte m'informò che la signorina riceveva lettere di militari a sacchi. Erano sempre strappate a strisce, come segnalibri. Qualche volta, mentre passavo, prelevavo un segnalibro. Ricordo, la tua mancanza, pioggia, ti prego di scrivere, accidenti e maledizione erano le parole che ricorrevano più di frequente, insieme a solitario e amore.
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958) 

“Lui è buono, vero, Gatto? 
Su, vieni qua, povero amore, povero amore senza nome… 
ma io penso che non ho il diritto di dargli un nome… 
perché in fondo noi due non ci apparteniamo, è stato un incontro casuale. 
E poi non voglio possedere niente, finché non avrò trovato un posto che mi vada a genio… 
non so ancora dove sarà, ma so com'è”
Colazione da Tiffany


Sono una randagia che non appartiene a nessuno e a cui nessuno appartiene… 
[...] Non lo so chi sono. Io e il mio gatto siamo due randagi senza nome, 
che non appartengono a nessuno e a cui nessuno appartiene: 
ecco qual è la verità.
Audrey Hepburn, Colazione da Tiffany


-Non graffia?
-Macchè! Lui è buono, vero, Gatto? 
Su, vieni qua, povero amore, povero amore senza nome… 
ma io penso che non ho il diritto di dargli un nome… 
perché in fondo noi due non ci apparteniamo, è stato un incontro casuale. 
E poi non voglio possedere niente, finché non avrò trovato un posto che mi vada a genio… 
non so ancora dove sarà, ma so com’è. È come Tiffany!
-Tiffany? Tiffany il gioielliere?
-Appunto. Io vado pazza per Tiffany… 
specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie.
-Vuol dire quando è triste?
No, uno è triste perché si accorge che sta ingrassando o perché piove, ma è diverso. No, le paturnie sono orribili, è come un’ improvvisa paura di non si sa che. È mai capitato a lei? 
-Beh, certo.
-In questi casi mi resta solo una cosa da fare: prendere un taxi e correre da Tiffany. È un posto che mi calma subito. Quel silenzio e quell’aria solenne. 
Li non può accaderti niente di brutto. Se io trovassi un posto a questo mondo che mi facesse sentire come da Tiffany… comprerei i mobili e darei al gatto un nome!
Audrey Hepburn - Colazione da Tiffany


« (…) Non voglio possedere niente finché non avrò trovato un posto dove io e le cose faremo un tutto unico. Non so ancora precisamente dove sarà. Ma so com’è.» 
Sorrise e lasciò cadere il gatto sul pavimento. 
«È come da Tiffany,» disse. «Non che me ne freghi niente dei gioielli. I brillanti, sì. 
Ma è cafone portare brillanti prima dei quaranta, ed è anche pericoloso. (…) 
Ma non è per questo che vado pazza per Tiffany. 
Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie?» (…)
« (…) le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente, ma non si sa di cosa si ha paura. (…) Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. 
È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo. Se riuscissi a trovare un posto vero e concreto dove abitare che mi desse le medesime sensazioni di Tiffany, allora comprerei un po’ di mobili e darei un nome al gatto.»
Truman Capote, Colazione da Tiffany

-Io vado pazza per Tiffany: 
specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie.
-Vuoi dire quando è triste?
-No… Uno è triste perché si accorge che sta ingrassando, 
o perché piove. Ma è diverso. No, le paturnie sono orribili: 
è come un'improvvisa paura di non si sa che. 
È mai capitato a Lei?
Truman Capote, Colazione da Tiffany


In qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, 
finirai sempre per imbatterti in te stesso.
Truman Capote, Colazione da Tiffany

Non sono capace di leggere un messaggio triste senza prima mettermi il rossetto.
Truman Capote, Colazione da Tiffany


“Ecco perché mi piace venire da Tiffany per l'atmosfera tranquilla e serena che si respira non per i gioielli, sinceramente a me non piacciono i gioielli, ma solo i diamanti!”
Truman Capote, Colazione da Tiffany





Non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica: più le si vuole bene, più diventa ribelle.
Colazione da Tiffany

«Non amate mai una creatura selvatica, signor Bell. Non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica; più le si vuole bene più forte diventa. Finché diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto. Poi in cielo. E sarà questa la vostra fine, signor Bell, se vi concederete il lusso di amare una creatura selvatica. Finirete per guardare il cielo».
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958)  


Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? 
Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa!
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958)  


− Non permetterò a nessuno di mettermi in gabbia.
− Non voglio metterti in gabbia, io voglio amarti.
− È la stessa cosa.
Colazione da Tiffany, 1961 (Audrey Hepburn e George Peppard)


— Io ti amo e tu mi appartieni.
— Oh no, nessuno appartiene a un altro.
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958)  

«E, a un tratto, accadde. 
Mentre guardavo i colori sfumati dei capelli di Holly 
balenare nella luce rosso-gialla delle foglie, 
l’amai abbastanza da dimenticare me stesso, 
le mie disperazioni egoistiche e da essere contento 
perché stava per succedere qualcosa 
che lei pensava felice»
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958)  


«Oh, ci si abitua a tutto,» risposi, irritato con me stesso, 
perché in realtà ero orgoglioso della mia sistemazione».
«Io no. Non mi abituo mai a niente, io. 
Chi si abitua a tutto tanto vale che muoia».
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958)  

Non può continuare così per sempre, 
a non sapere che cos'è tuo finché non lo butti via.
Truman Capote, Colazione da Tiffany (1958)  





Prima di iniziare le riprese di SABRINA, 1954, il regista Billy Wilder, che sta ancora ultimando la sceneggiatura, chiede alla Hepburn, in partenza per una breve vacanza a Parigi, di cercare nella capitale europea della moda qualche abito da far copiare alle sarte dello studio.
Audrey si reca nei principali atellier, allora l’ultimo grido era Dior, ma trova lo stile troppo sofisticato e non adatto alla sua figura minuta.
Su suggerimento di qualche amica si reca da uno stilista esordiente Hubert de Givenchy. Anche Givenchy è giovane e alle prime armi e quando gli dicono che la diva del cinema, Miss Hepburn, si sta recando da lui, pensa di dover incontrare la più nota Katharine Hepburn. Audrey è infatti all’inizio della sua folgorante carriera, solo l’anno prima ha girato Vacanze Romane, il primo film a darle il successo, e non è ancora un volto noto. In realtà proprio per Vacanze romane vincerà l’oscar che ritirerà indossando un abito esclusivo di Givenchy.
A dispetto di tutto e tutti, i due si trovano enormemente simpatici e con lo stesso innato gusto per la moda e lo stile.
Audrey gira indisturbata per l’atellier e sceglie alcuni modelli che si porta in patria.
In realtà non permette di copiarli, indossa, in tutto il film gli originali.
La storia, per altro si presta, perché Sabrina è un brutto anatroccolo, figlia dell’autista di una ricca famiglia di industriali americani, che si innamora del figlio minore del padrone. Per allontanarla dal ragazzo, donnaiolo e poco serio, il padre la manda a studiare cucina a Parigi. Qui si trasforma in uno splendido cigno, che indossa solo abiti sofisticati ed esclusivi. Tornata a casa farà innamorare di sé il giovane, preferendogli però il più serio fratello maggiore.
Givenchy non viene neppure citato nei titoli di coda del film e la maternità dei costumi viene data ad Edith Head, responsabile del settore costumi della società di produzione. Per assurdo la Head vincerà anche l’oscar per i migliori costumi con il film Sabrina, non battendo un ciglio sul fatto che quei meravigliosi abiti venissero da Parigi.
In realtà grazie a Audrey Hepburn, Hubert de Givenchy, diventa uno dei nomi più importanti del panorama internazionale. Da allora in poi Audrey Hepburn, indossa i suoi abiti in ogni film in cui sia richiesta una presenza elegante e sofisticata (il massimo è raggiunto con il meraviglioso tubino nero indossato in “Colazione da Tiffany” - 1961) e non accadrà mai più che lo stilista non venga accreditato nei titoli di coda.




Truman Capote a Katherine Warner
Luglio, 1945

Gentile Miss Warren;
la ringrazio per la sua lettera alquanto angosciante, ma davvero divertente. Francamente, la natura della sua richiesta mi sconcerta un po’.

Penso che lei non abbia capito nulla della relazione tra Miriam e Mrs. Miller. 
Bene, Miriam è Mrs. Miller, o meglio, l’elemento malvagio che è in lei (come c’è sempre una quota di malvagità in ogni uomo), che non ha mai avuto modo di esplodere, o di fiorire, per così dire. In altre parole, Miriam è una proiezione. Ricorda la storia fantastica dei folletti che hanno fabbricato uno specchio maligno, lo hanno conficcato in cielo e distrutto, finché una piccola scheggia non finisce nell’occhio di un ragazzino distorcendo tutto quello che vede? Qualcosa di simile è all’opera in Mrs. Miller. Insomma, quando Mrs. Miller pensa di essersi sbarazzata di quella figlia demone una volta per sempre, Miriam ritorna… e il lettore dovrebbe capire che sarà per sempre la compagna di Mrs. Miller. Ovviamente, esiste una terminologia clinica che definisce la malattia mentale di Mrs. Miller: Disturbo della personalità, Schizofrenia etc. Ma la mia storia è un documento immaginario, e non è sempre possibile mostrare ‘il perché e il percome’ di cose che un uomo sperimenta nella sua mente.

Non penso di avere ricevuto sei rose bianche, ma la ringrazio lo stesso. Spero di non averla definitivamente confusa. Mi scusi, ad ogni modo.

Truman Capote.
Nel 1945 un ragazzo di vent’anni era all’alba della fama. Si chiamava Truman Capote e da un paio d’anni aveva preso a scrivere racconti, la formula più facile per fare successo. 
In quell’estate pubblica sulla rivista femminile Mademoiselle – nata dieci anni prima, e con una certa attenzione verso la letteratura contemporanea: vi troviamo William Faulkner, Tennessee Williams, Flannery O’Connor, Sylvia Plath… – il racconto “Miriam”.

Forse è la prima prova convincente di Truman, la prima a cui resta affezionato. 
La storia, inizialmente del tutto normale, in realtà racconta il delirio dell’anziana con il demone di se stessa, che ha le sembianze della giovane Miriam, ventenne. 
La storia convince anche gli esperti: 
nel 1946 “Miriam” è premiato come miglior inedito dell’anno con l’O. Henry Adward, a cui seguiranno i suoi capolavori.

In merito a questo racconto The New York Times giorni fa ha pubblicato una lettera inedita nella quale Capote risponde a una lettrice – tale “Miss Warren” – piuttosto piccato perché costei dimostra di “non aver capito nulla” del racconto.

La storia nella storia è fascinosa. 
Quando Susan Akers scoprì una lettera irritata di Truman Capote tra i documenti che stava consultando, ciò che la sorprese fu l’identità del lettore tanto idiota che aveva mandato a Capote una nota sul suo primo racconto pubblicato su Mademoiselle.

Quel lettore così cretino era sua madre, all’epoca una studentessa”. La mamma di Susan si chiamava Katherine. Katherine Warner – non Warren come scrive Capote. 
E conservò gelosamente la lettera del grande scrittore fino alla morte, accaduta a 91 anni, nel 2014. Soltanto ora la figlia ha trovato questo prezioso documento e ha deciso di renderlo pubblico. Un dono per noi lettori, per i quali anche un tratto semplice come una lettera è significativo per conoscere meglio un grande scrittore.


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