lunedì 31 luglio 2017

Fëdor Dostoevskij, L’adolescente. Era un signore vestito bene, grazie, evidentemente, a uno dei migliori sarti; vestiva come si suol dire in modo “signorile“, eppure non c’era in lui nulla di signorile nonostante il suo evidente desiderio di averne l’aria. La sua non era disinvoltura, ma piuttosto naturale sfacciataggine e dava l’impressione di uno che poco prima allo specchio si fosse preparato a recitare la sua parte. I suoi capelli scuri erano leggermente brizzolati, le sopracciglia nere; la barba lunga e gli occhi grandi non soltanto non gli davano un carattere personale, ma gli conferivano piuttosto un aspetto comune, simile a quello della maggioranza. Un uomo simile ride ed è disposto a ridere, ma chissà perché, non provate trovandovi con lui la minima allegria. Il suo aspetto canzonatorio si trasformava di colpo in un atteggiamento pieno di importanza, da importante diventava scherzoso o ammiccante, ma tutto questo in modo slegato e disordinato. Del resto, non vale la pena di descriverlo anticipatamente. Lo conobbi più tardi assai meglio e perciò involontariamente lo presento come se lo conoscessi più di come in realtà lo conoscevo in quel momento, quando aprì la porta ed entrò nella stanza. Tuttavia anche ora proverei difficoltà a dire di lui qualcosa di preciso e definitivo, poiché il carattere essenziale di tipi simili è appunto la mancanza di qualsiasi tratto definito e preciso.

http://www.writingshome.com/ebook_files/222.pdf

L’incipit del romanzo è sorprendente: 
«Spinto da un impulso irresistibile, mi misi a scrivere questa storia dei miei primi passi sul cammino della vita (…) Ho ultimato il corso liceale e ho già ventun anno (...) so perfettamente quanto sia stupida simile inesperienza in un giovanottone ventenne.» 

Dostoevskij sa perfettamente che i vent’anni non sono i “primi passi sul cammino della vita”, e molto probabilmente egli conosce l’incipit della Commedia dantesca (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”). La sua è dunque un’affermazione che vuole cancellare ben quattro lustri di vita e pensiero: 
sia i primi due, che siamo soliti chiamare infanzia, sia il terzo lustro che coincide grosso modo con la pubertà, quindi i teenage years. L’adolescenza non coincide con la pubertà, ma ne è il prolungamento via complicazione psicopatologica. E Dostoevskij, scrivendo il romanzo in prima persona, ci introduce come meglio non si potrebbe nel vivo del pensiero del protagonista, il “giovanottone” Arkadij Dolgorukij. 
http://www.culturacattolica.it/educazione/father-son/tutta-colpa-di-dostoevskij-1-l-invenzione-dell-adolescenza



 «Fin dalle primissime classi del ginnasio, appena uno dei compagni mi sorpassava o nel sapere o nelle risposte argute o in forza fisica, subito smettevo di aver relazioni e di parlare con lui. Non già che l’odiassi o gli augurassi del male; gli voltavo semplicemente le spalle, poiché tale era la mia indole». Né gli va meglio con il gentil sesso: «sputo sempre quando mi imbatto in una signora. (…) anch’io a tredici anni ho visto la donna completamente nuda, e da allora ne ho provato schifo
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.



L'epoca attuale, è l'epoca dell'aurea mediocrità e dell'insensibilità, dell'amore dell'ignoranza, della pigrizia, dell'inettitudine all'azione e della pretesa di trovare tutto pronto. Nessuno riflette; raramente qualcuno matura una propria idea.
Non è che sia cambiato molto...
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


La mia idea consiste proprio nell’essere lasciato in paceFintanto che avrò due rubli voglio vivere solo, non dipendere da nessuno e non fare niente, nemmeno per quella grande, futura umanità a lavorare per la quale mi invitava il signor Kraft. La libertà individuale, cioè la mia, prima di tutto, e non voglio sapere di nient’altro. (...) Io non devo niente a nessuno, pago alla società del denaro sotto forma di tasse per non essere derubato, schiacciato e ucciso, e nessuno ha il diritto di pretendere da me nient’altro. Forse sarei anche di idee diverse, e potrei voler servire l’umanità, e lo farò, magari lo farò dieci volte di più di tutti i predicatori; ma voglio soltanto che nessuno abbia il diritto di pretendere questo da me, di forzarmi; la totale libertà, e anche quella di non alzare nemmeno un dito.”
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


«La mia idea è di diventare Rothschild. (…) non semplicemente ricco, ma ricco come Rothschild (…) la mia norma principale sarà di non rischiare nulla e la seconda di guadagnare a ogni costo e ogni giorno qualche cosa oltre a quel che spendo per mantenermi, affinché non passi un solo giorno senza ch’io accumuli denaro.» 
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.



Loro sono capaci di continuare a vivere alla propria maniera nelle situazioni per loro più innaturali e di rimanere se stesse nelle situazioni a loro più estranee. Noi non abbiamo questa capacità.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Era un signore vestito bene, grazie, evidentemente, a uno dei migliori sarti; vestiva come si suol dire in modo “signorile“, eppure non c’era in lui nulla di signorile nonostante il suo evidente desiderio di averne l’aria. La sua non era disinvoltura, ma piuttosto naturale sfacciataggine e dava l’impressione di uno che poco prima allo specchio si fosse preparato a recitare la sua parte. I suoi capelli scuri erano leggermente brizzolati, le sopracciglia nere; la barba lunga e gli occhi grandi non soltanto non gli davano un carattere personale, ma gli conferivano piuttosto un aspetto comune, simile a quello della maggioranza. Un uomo simile ride ed è disposto a ridere, ma chissà perché, non provate trovandovi con lui la minima allegria. Il suo aspetto canzonatorio si trasformava di colpo in un atteggiamento pieno di importanza, da importante diventava scherzoso o ammiccante, ma tutto questo in modo slegato e disordinato. Del resto, non vale la pena di descriverlo anticipatamente. Lo conobbi più tardi assai meglio e perciò involontariamente lo presento come se lo conoscessi più di come in realtà lo conoscevo in quel momento, quando aprì la porta ed entrò nella stanza. Tuttavia anche ora proverei difficoltà a dire di lui qualcosa di preciso e definitivo, poiché il carattere essenziale di tipi simili è appunto la mancanza di qualsiasi tratto definito e preciso.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


E' sufficiente un granello o un peluzzo per dissipare nel mio animo il buono e sostituirlo col cattivo. Le cattive impressioni, invece, con mio cruccio, non si dissolvono tanto in fretta, sebbene non sia una persona che serba rancore.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Ma chissà, forse fanno meglio quelli che offendono la gente: 
per lo meno risparmiano agli altri la disgrazia di amarli.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Le cose più semplici si comprendono soltanto verso la fine, 
quando è stato già sperimentato tutto ciò che è più complicato o più stupido.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.



Amico mio, lascia sempre che un uomo menta un po', è una cosa innocente. Permettigli perfino di mentire molto. In primo luogo ciò dimostrerà la tua delicatezza, e in secondo luogo, in compenso, verrà consentito anche a te di mentire: due enormi vantaggi in un sol colpo. Que diable!
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Amico mio, amare gli uomini, così come essi sono, è impossibile. E tuttavia bisogna
Perciò fai loro del bene reprimendo i tuoi impulsi, turandoti il naso e chiudendo gli occhi. Sopporta il male che ti fanno possibilmente senza adirarti contro di loro, "ricordando che anche tu sei un uomo". Naturalmente, sei tenuto a essere severo con loro, se ti è toccato in sorte di essere appena appena più intelligente della media. Gli uomini sono per loro natura bassi e amano amare per paura; non lasciarti conquistare da un simile amore e non cessare di disprezzarli.
Sappi disprezzarli anche quando sono buoni, poiché, il più delle volte, anche in questo caso sono malvagi. Oh, mio caro, è pensando a me stesso che ho detto questo! Chi appena appena non è stupido non può vivere senza disprezzare se stesso, non importa se è onesto oppure no.
Amare il proprio prossimo e non disprezzarlo è impossibile. A mio giudizio l'uomo è stato creato fisicamente incapace di amare il proprio prossimo.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Le donne non sono davvero maestre nella valutazione degli intelletti degli uomini, se hanno un debole per quella persona, e scambiano volentieri i paradossi per conclusioni rigorose, se questi sono conformi ai loro desideri.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Tuttavia porrei come precetto per ogni persona evoluta di rendere immancabilmente felice in qualche modo almeno una creatura, ma praticamente, cioè realmente, così come imporrei per legge oppure come corvée, a ogni contadino, di piantare almeno un albero nel corso della propria vita vista la distruzione che sta avendo luogo in Russia; d'altronde, un albero solo non basterebbe, si potrebbe anche ordinare che ne piantassero uno all'anno.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Vi sono dei ricordi penosi, mio caro, che provocano una sofferenza autentica; quasi ognuno ne ha, soltanto, la gente se ne dimentica, ma accade che improvvisamente li rammenta, magari anche un tratto soltanto, e non riesce più a liberarsene. 
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Oh, lo giuro, io non serbo rancore e non sono vendicativo. 
Senza dubbio desidero sempre vendicarmi, persino in maniera morbosa, quando mi offendono, ma, lo giuro, soltanto e unicamente con la generosità. Sia pure così, io lo ripagherò soltanto con la generosità, ma a patto che egli ciò lo senta, che lo capisca, e io sarò vendicato!
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Lo sapete che esistono i colpevoli senza colpa? 
Sono queste le colpe più imperdonabili e quasi sempre subiscono una punizione.
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.



Dai dodici anni, credo cioè più o meno dal sorgere di una normale coscienza, ho cominciato a non amare gli uomini. Non che non li amassi, ma diciamo che mi pesavano. A volte mi sentivo tanto triste nei miei momenti puri, perché non potevo in nessun modo dire tutto nemmeno a chi mi era vicino, cioè avrei potuto, ma non volevo, chissà perché, mi trattenevo; il fatto è che sono diffidente, scontroso e non comunicativo. (...) Per non dover affrontare simili questioni, naturalmente, cercavo la solitudine. Inoltre non ci trovavo nulla nella compagnia della gente, per quanto mi sforzassi, e mi sforzavo; perlomeno tutti i miei coetanei, tutti i miei compagni, tutti fino all’ultimo, risultavano inferiori a me nei pensieri, non ricordo nemmeno un’eccezione.”
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.


Arkadij Dolgorukij, l'io narrante, è il figlio naturale di Versilov, 
"un uomo, asciutto e superbo, nei miei riguardi altezzoso e negligente e che .... dopo avermi generato e abbandonato tra gli estranei, non solo non mi conosceva affatto ma non se ne pentiva neanche mai". 

"Ero come un escluso... e avevo deciso di ripudiarli tutti e di rinchiudermi definitivamente nella mia vita". 

A togliere dall'isolamento il ragazzo, che ha ormai concluso gli studi liceali, è una lettera di Versilov, che lo invita a Pietroburgo. La prima parte del romanzo narra la conoscenza da parte di Arkadij della figura complessa e sfuggente del padre: è un rapporto difficile anche perché 
"quell'uomo non era che il mio sogno, il sogno degli anni dell'infanzia. Così lo avevo inventato io stesso, mentre in realtà si era dimostrato diverso, caduto tanto al di sotto della mia fantasia". 



[...] E' difficile muoversi nell'intrigo, soprattutto quando non si ha la percezione del bene e del male e quando le persone non sono né chiaramente cattive né nettamente buone. Domina "l'anima del ragno", ossia che l'uomo "possa accarezzare nella propria anima un altissimo ideale accanto alla più grande bassezza, e tutto in perfetta buona fede". 
Ma anche Arkadij si fa catturare da "ignominiosi pensieri", per esempio, utilizzare il documento in suo possesso per conquistare l'amore di Katerina. 
"Di dove mai, dunque, era venuto tutto ciò, già così pronto? E questo, perché avevo l'anima del ragno! Vuol dire che tutto era germogliato da un pezzo e giaceva nel mio cuore corrotto, giaceva nel mio desiderio". 
Ed è proprio la debolezza di Arkadij, il suo lasciarsi attirare dal male, a far precipitare la situazione nella terza parte del romanzo. Il giovane si fa a sua volta ingannare da alcuni criminali, che gli rubano di nascosto il documento e cercano di ricattare Katerina. Con orrore il giovane deve poi scoprire che essi sono d'accordo con Versilov.. La doppia personalità di Versilov si pone dinanzi al giovane come una " immagine spezzata", tanto più dopo un intenso e tante volte atteso colloquio, nel quale Versilov aveva dichiarato al figlio il suo amore per la madre, salvo poi inviare a Katerina una richiesta ufficiale di matrimonio. Ma allora chi è veramente il padre ? Forse solo un uomo spinto dal capriccio, da una vanità senza freni, pensa Arkadij. La disillusione della figura paterna si è compiuta. Arkadij non è più un adolescente.
http://www.rikipedia.it/recensioni/Ladolescente


Fëdor Dostoevskij, L’adolescente.
Questo romanzo rappresenta una tappa fondamentale nel percorso creativo dell'autore. 
La disperazione del giovane Arkadij, umiliato dalla propria nascita illegittima e angosciato all'idea di "diventare Rothschild", anticipa uno dei grandi temi che saranno sviluppati ne "I fratelli Karamazov": il sentimento forte e contraddittorio nei confronti della figura paterna è il fulcro dei tormenti esistenziali di Arkadij, addolciti dalla mitezza della giovane Sof'ja Andrèevna.
http://www.anobii.com/books/L'adolescente/9788881833009/01c4235b824c946111



La cronaca famigliare che Dostoevskij inventa ispirandosi alle rubriche dei giornali è molto diversa da quella cui ci aveva abituato Tolstoj, con la sua rappresentazione di un solido mondo patriarcale. Lacerata e divisa, la famiglia di Dostoevskij è lo specchio dei tempi nuovi, dei traffici di una società avida e iniqua che non esita a lanciarsi nelle imprese più spregiudicate, a perdersi in tormentosi conflitti con i demoni che la agitano. [...] Figlio naturale di un proprietario terriero, Arkadij coltiva sogni di potere e rivincita, ma non riuscirà a sottrarsi al giro di ricatti e intrighi.
https://www.ibs.it/adolescente-libro-fedor-dostoevskij/e/9788806175672


[...] Uno dei personaggi più riusciti del romanzo è la mamma di Arkadij, Sofia Andréevna, donna di umili origini, sposa di Makar Ivanov Dolgorouki, giardiniere di Versilov. Dostoevskij ce la presenta con questa intrigante premessa: «certe donne seducono con la loro bellezza o con altri loro modi in un attimo; altre, invece bisogna avvicinarle almeno per sei mesi prima di capire cosa realmente siano, e per innamorasi di loro [...] occorre, anzitutto, esser dotati di un certo acume». Con rara sensibilità Dostoevskij riesce poi ad entrare nell’animo di questa tenera donna, nella sua semplicità dotata di grandissima amorevolezza e sensibilità; l’unico personaggio che rimane saldo nel vortice degli eventi.

«L’idea» di Arkadij è quella di puntare tutto su «tenacia e continuità» per diventare un giorno ricco come Rothschild. Dostoevskij ne approfitta per darci una bella lezione sulla forza di volontà: 
«C’è al mondo una gran differenza di forze, specialmente di forza di volontà. 
Esiste la temperatura dell’acqua a bollore e quella del ferro incandescente». 

Arkadij avendo messo alla prova la sua volontà sa di poter raggiungere la sua meta, anzi qualunque meta. In queste righe non possiamo non scorgere, in controluce, il “segreto” di Dostoevskij stesso che, resistendo a quattro anni di lavori forzati in Siberia, riuscì, con una determinazione suprema, a diventare uno dei più grandi scrittori della letteratura occidentale

In un altro passo Arkadij ci sorprende con una osservazione ancora più illuminante: 
«la coscienza solitaria e sicura [corsivo dell’autore] della mia forza! 
Ecco la definizione della libertà che il mondo cerca con tanta ansia». 
Ai giorni nostri un cantante che viene tuttora considerato un “genio” in una canzone cantava che «la libertà è partecipazione»; vedete che antitesi con «la libertà è la coscienza solitaria e sicura della mia forza»; spero notiate che differenza di spessore! c’è “genio” e genio... (Se fossi stato un giornalista avrei intitolato questo post "Dostoevskij contro Gaber"!).

E quanto alla meschinità del sogno di “diventare ricco come Rothshild” Arkadij risponde facendo eco al principe Myŝkin: «Beato colui che ha l’ideale della bellezza seppur errato!» È questo un concetto tipico di Dostoevskij, e che torna spesso lungo tutto il romanzo.

Quanto alla classe dirigente, Versilov ‒ che è un po’ il Dr Jekyll e Mr Hide della situazione ‒ in una delle sue impennate più alte dice, a proposito dell’aristocrazia: 
«L’idea dell’onore e della cultura come obbligo per chiunque voglia entrar a far parte d’una classe non chiusa e che senza tregua si rinnova è certamente un’utopia, ma perché non dovrebbe essere attuabile? Se questa idea vive sia pure soltanto in pochi cervelli, non è ancora perita e illumina, come un barlume di luce in una tenebra fitta». 

E di fronte al più prosaico principe Sergei, Versilov ribatte con un affondo: 
«Perché vivere secondo un’idea è difficile, mentre è facilissimo invece vivere senza idee».

Notevolissima è anche la “favola” della conversione di Maksim Ivanovic, una breve parentesi all’interno del romanzo, che costituisce un racconto a sé di grande impatto emotivo. Questa è una di quelle “resurrezioni morali” che più di una volta si incontrano in Dostoevskij e che penso abbiano pure ispirato l’ultimo grande romanzo di Tolstoj, Resurrezione.

Di grande fascino è il personaggio dell’ex giardiniere, poi pellegrino, Makar Ivanovic, una sorta di monaco errante senza essere monaco, una specie di santo incapace di provare odio o rancore per chicchessia, ingenuo e saggio allo stesso tempo, col sorriso gioioso di un bambino. Qui riceviamo anche un’altra lezione sul riso: «nel riso è la più sicura rivelazione dell’anima» conclude Dostoevskij dopo una lunga e profonda analisi.

Detto ciò, mi sembra di non avere ancora neanche incominciato a parlare di questo libro-miniera. Considerate questo: è come se, volendo mostrarvi una spiaggia grandissima, vi avessi portato solo qualche granello di sabbia.
Pubblicato da Marco Pizzi a 12:43
http://marcopizziparalipomena.blogspot.it/2012/01/ladolescente-di-dostoevskij-alcune.html



Fëdor Dostoevskij, L’adolescente, 1875
“[...] Arkadij Dolgorukij, figlio illegittimo del nobile Versilov e di un’umile serva, abbandonato dai genitori a pochi anni di vita, condannato ad un’infanzia solitaria costellata di umiliazioni e discriminazioni proprio per quel cognome principesco che stride così tanto a fronte della sua misera condizione di “bastardo”.
Il desiderio di rivalsa cresce con Arkadij ed esplode in un fermo proposito, in un’ ”idea” segreta covata con dedizione per lunghi anni che Dostoevskij sapientemente non rivela nell’immediato, tenendo i lettori incollati alle pagine fino al V capitolo quando il mistero è svelato: 
La mia idea è diventare Rotschild (...) di diventare, cioè, ricco quanto Rotschild” 
Lo scopo della mia “idea” è l’isolamento (…) oltre che dell’isolamento io ho bisogno anche del potere.” Arkadij esprime, con tutta l’ingenuità e la foga che si può avere solo a vent’anni, il suo ambizioso progetto: il potere fine a se stesso, il denaro per il denaro, non già per poter godere dei piaceri della vita, che a quelli anche una volta divenuto ricco rinuncerà, ma per poter imporsi, vendicarsi dei tanti torti subiti, per essere finalmente liberoSe fossi Rotschild, andrei vestito d’un vecchio cappotto e con un ombrellaccio. (…) La coscienza d’essere Rotschild mi metterebbe di buon umore.” 
E’ ossessionato da tutto ciò, ha rinunciato all’università per raggiungere il suo fine e si dice pronto a vivere di pane e acqua se necessario.

Ma ecco che nella seconda parte del romanzo tutto è cambiato: 
Arkadij si trova a Pietroburgo da circa due mesi, chiamato dal padre legittimo Versilov, e come egli stesso ammette non senza vergogna, la vita cittadina e il susseguirsi di fatti sorprendenti tutti legati ad una lettera compromettente per molte persone e conservata gelosamente dallo stesso Arkadij, gli hanno fatto accantonare l’”idea”: ora veste elegantemente, ha un parrucchiere francese, un cocchiere privato, sperpera i soldi alla roulette…insomma non proprio la vita morigerata che si prefiggeva

Ed è a questo punto del romanzo che si ha la conferma che il perno attorno al quale ruota tutta la concezione del romanzo, non è l’adolescente Arkadij, nonostante il lettore continui ad avere una percezione della realtà filtrata dalla sua personalità influenzabile, debole e altamente impressionabile, bensì l’enigmatico Versilov. I personaggi che mano a mano vengono introdotti magistralmente nell’intreccio (e sono come al solito davvero tanti!) sono tutti tesi nello sforzo di decifrare la personalità di quest’uomo misterioso, “sdoppiato”, con una storia passata oggetto di continuo pettegolezzo e un presente non meno turbolento.

Il lettore, parallelamente ad Arkadij, accecato dal complesso rapporto di odio-amore verso il padre, fino alla fine è disorientato: si convince che Versilov sia un uomo meschino, crudele, senza scrupoli, un fedifrago, un nichilista, un ateo poi ecco che un dialogo, un gesto, un’espressione lo scaraventa dal punto di vista opposto e improvvisamente gli sembra di aver frainteso ogni cosa perché Versilov è in realtà il marito amorevole, l’uomo saggio e generoso, dai forti valori, legato alla “madre russia” e alla famiglia. In ogni caso un uomo dotato di un forte magnetismo ed il personaggio più indecifrabile e umano che io abbia mai incontrato leggendo Dostoevskij

Ci sarebbero ancora troppi aspetti di questo capolavoro, come premettevo, su cui varrebbe la pena soffermarsi e dei quali invece non ho neanche accennato come ad esempio le “tirate” di Arkadij o di Versilov nelle quali si riconosce tutta la finezza intellettuale di Dostoevskij su temi politici, religiosi, sociologici.

Troppa “carne al fuoco”, come gli editori spesso ripetevano a Fedor , ma per fortuna ha sempre fatto di testa sua.

Pubblicato da Viviana

Nicola Ruffo
http://fahrenheit70.blogspot.it/2008/06/ladolescente-fdostoevskij-1875.html

La coazione a ripetere, ovvero coercizione a compiere ripetutamente le stesse azioni, è il principio per cui una persona cerca di superare qualcosa di irrisolto che affonda le radici nel remoto passato, rimettendosi nelle identiche circostanze che provocarono quell’antica difficoltà.

La coazione a ripetere.
(una spiegazione semplice..)
Poche cose sono cosi’ centrali nella psicologia e nella vita di ciascuno di noi come la coazione a ripetere.

Credo che chiunque - o quasi - si sia chiesto almeno una volta nella vita perché lui stesso o comunque persone a lui vicine, facciano sempre gli stessi errori, incontrino sempre lo stesso tipo di persone. 

Ovviamente, molti anni fa ormai, me lo domandai anche io scoprendo che quell'enigma era in realtà ampiamente conosciuto e dibattuto non solo in termini psicologici ma perfino esoterici. Appena incontrai il principio della coazione a ripetere, ne rimasi dunque affascinato. 
E non poteva essere altrimenti.

La coazione a ripetere, ovvero coercizione a compiere ripetutamente le stesse azioni, è il principio per cui una persona cerca di superare qualcosa di irrisolto che affonda le radici nel remoto passato, rimettendosi nelle identiche circostanze che provocarono quell’antica difficoltà.

Spesso la coazione a ripetere è collegata ad un altro problema, ad esempio l’ansia abbandonica, ma sono in genere facce diverse della medesima medaglia.

Facciamo un esempio. 
Il bambino (o la bambina) che viene “abbandonato” quasi ogni mattina da una o più figure genitoriali, che si allontana per andare al lavoro, può vivere tale allontanamento come fosse un ciclico abbandono. 

Non è forse un vero trauma all’inizio, ma il ripetersi costante di tale allontanamento ne rende gli effetti spesso più devastanti che un singolo grave evento, scatenante un trauma più facilmente identificabile.

Una volta cresciuta, la persona cerca di superare la paura di quell’abbandono dimostrando a sé stessa che riuscirà a non essere lasciata. 

Ma per poterlo fare deve necessariamente, e inconsciamente, rimettersi in condizioni simili, ad esempio andandosi a cercare una relazione difficile, dove sia facile innescare una sensazione di “pericolo di rottura” che faccia riprovare quella antica sensazione di essere a rischio di abbandono. 

Addirittura è spesso la persona stessa a “guidare” la relazione verso la sua fine, per una sensazione di ineluttabile “ecco, ci risiamo” che la porta a vedere nel partner segnali di insofferenza o di tradimento che magari non hanno – almeno all’inizio - nessun fondamento.

Quello dello “abbandono” da bambini, è solo un esempio. 
Può essere stata la mancanza di attenzioni e amore da parte di uno o entrambi i genitori a spingere l’ex bambino a cercare figure che ricalchino la figura genitoriale assente. 

Possono essere persone anche molto diverse, ma con il fattore comune di far percepire un “senso di instabilità’”, di potenziale “assenza”, che permetta l’identificazione con quel modello.

Nella coazione a ripetere si può perciò intravedere un tentativo addirittura positivo: quello di risolvere un dramma mai davvero superato. 

E’ molto difficile però che essendo giunti così vicini allo… 
ineluttabile, questo cessi di essere tale, potendo essere così superato. Di solito si va incontro ad un’altra fine che rinforza, se non compresa, il desiderio di dimostrare a sé stessi di essere in grado di sottrarsi ad essa.

E’ curioso notare che perfino nell’esoterismo si celano teorie simili, anche se spalmate su più vite: c’e’ una lezione che bisogna imparare, e finché non la si apprende, si è destinati non solo al continuo ciclo di morte e rinascita, ma addirittura a quello del ritrovarsi davanti a situazioni simili a quelle già vissute, situazioni che se non si ripresentassero, non offrendoci la possibilità di imparare, non potrebbero essere superate.

Uscire dalla coazione a ripetere non è semplice perché, perfino sapendo di essere suoi schiavi, avendo per lo più natura inconscia diviene difficilmente controllabile. Le emozioni e le antiche paure ed ansie assalgono chi la vive, al punto di prendere la guida delle sue azioni.

La strada è naturalmente quella della consapevolezza, del riconoscere il meccanismo del quale si e’ vittime e di essere capaci di “frenarsi”, sia quando il disagio si manifesta – evitando ad esempio di saltare troppo presto a conclusioni affrettate nelle scelte che si vanno a compiere...

Scritto da: Wolfghost

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Harald Bellachioma. [...] l'unificazione della Norvegia è legata ad una storia d'amore. La vicenda inizia con una proposta di matrimonio rifiutata da Gyda, la principessa di un regno confinante; lei disse che avrebbe rifiutato di sposare Harald "prima che fosse diventato re di tutta la Norvegia". Harald fu, quindi, spinto a fare voto di non tagliarsi né pettinarsi i capelli finché non fosse diventato l'unico re di Norvegia, e dieci anni dopo fu giustificato a curare nuovamente i suoi capelli; da quel momento il suo epiteto cambiò da "capelli aggrovigliati" a quello con cui è ancora definito.

[...] l'unificazione della Norvegia è legata ad una storia d'amore. 
La vicenda inizia con una proposta di matrimonio rifiutata da Gyda, la principessa di un regno confinante; lei disse che avrebbe rifiutato di sposare Harald "prima che fosse diventato re di tutta la Norvegia". Harald fu, quindi, spinto a fare voto di non tagliarsi né pettinarsi i capelli finché non fosse diventato l'unico re di Norvegia, e dieci anni dopo fu giustificato a curare nuovamente i suoi capelli; da quel momento il suo epiteto cambiò da "capelli aggrovigliati" a quello con cui è ancora definito. [...] 

Non riuscendo ad eliminare definitivamente molti dei suoi avversari, il suo regno era minacciato costantemente. Un consistente numero di essi dato si erano rifugiati non solo in Islanda, ma anche nelle isole Orkney, nelle Shetland, nelle Ebridi, nelle Isole Fær Øer e in Scozia. Da qui compirono scorrerie in Norvegia e in Europa. Non tutti i suoi nemici, però, se ne andarono volontariamente. Infatti, molti capi norvegesi, ricchi e rispettati, essendo una minaccia, vennero spinti da Harald a lasciare le loro terre. Questa sua linea di condotta portò a molti insediamenti in Islanda. In un certo senso, quindi, Harald contribuì alla formazione della moderna società di quest'isola e alla scrittura della Saga islandese. Il numero di questi “esiliati” fu accresciuto da gente norvegese scontenta per la tassazione imposta da Harald sulle terre, cosa che, prima, sembra non esistesse. [...] 

Egli ebbe otto mogli e 23 figli, 12 dei quali divennero re, solo due, però, di tutto il paese. [...] 


https://it.wikipedia.org/wiki/Harald_I_di_Norvegia



Con la morte di Halfdan il nero, il figlio Harald Bellachioma ereditò il Vestfold, territorio a sud della Norvegia, punto strategico per via delle principali rotte commerciali che lo attraversavano, perché vi si trovava la grossa città commerciale di Kaupang e perchè era il primo punto di approdo avvicinandosi da sud via mare. 

La fertile terra attorno al Vik diede a Harald un grosso vantaggio sui suoi avversari. 
E lui non attese molto: i territori rivali vennero conquistati dal re eliminando uno ad uno gli jarl norvegesi, accaparrandosi i piccoli regni dell’Uppland, Trondelag, Maera, Halogaland, Raumsdale e Naumdale. La crescente potenza economica e militare di Harald costrinse all’esilio forzato gran parte della popolazione che abitava quelle terre, in quanto non accettavano la sovranità del re norvegese

Ma alcuni tra gli uomini più forti rimasero e formarono una fazione ribelle. I capitani di queste fazioni secondo le saghe erano: re Eirik di Hordaland; re Sulke di Rogaland e suo fratello Earl Sote; Kjotve il Ricco, re di Agder, e suo figlio Thor Haklang, e dal Thelemark due fratelli, Hroald Hryg e Had il Duro. 

A quel punto ad Harald giunse notizia della resistenza che stava via via formandosi, e non perse un attimo. Partì verso sud lungo la costa e radunò con se gente da ogni distretto che attraversava. Quando re Eirik seppe dei movimenti del nemico si mosse a sua volta verso sud e si radunò con gli altri ribelli a nord di Jadar. Insieme entrarono nell’Hafrsfjord, dove Harald li attendeva con il suo esercito. La battaglia ebbe inizio. Non si sa qual’era l’entità delle forze in campo, ma quello che è certo è che viene ricordata come la battaglia più grande e dura combattuta dal re norvegese. 
Il primo giorno di lotta fu suo, ebbe la meglio su re Eirik e re Sulke, nonché su suo fratello Earl Sote.

Nonostante fu combattuta in mare non assunse quasi mai le caratteristiche di una battaglia navale
Le frecce giocarono un ruolo decisamente marginale nella vicenda, che si risolse con una serie di abbordaggi. Il più importante senza dubbio è stato quello tra la nave di Harald e di Thor Haklang il quale era un grande berserk. Nella prima linea della nave di Harald c’erano uomini disarmati, e nascosti dietro di loro dodici Ulfhednar pronti a colpire. La strategia del re era di riuscire ad avvicinarsi indisturbato alla nave di Thor, una delle figure chiave della resistenza. Quando le navi si toccarono Harald diede l’ordine di attacco e i suoi Ulfhednar, sui quali il ferro delle armi non ha effetto, colsero di sorpresa Haklang (uccidendolo per primo) e in seguito sterminarono tutto il suo equipaggio. Eliminando la parte mistica del racconto, si può vedere come la monarchia sia riuscita a mettere insieme, addestrare e impiegare una squadra d’elite la cui forza venne considerata soprannaturale. Nonostante la strategia molto semplice Harald vinse la battaglia. Kjotve il Ricco si spostò su un’isoletta dove si era radunata un po’ di resistenza, ma i suoi uomini in seguito fuggirono di lì, chi via nave, chi via terra e a lui non restò altro da fare che fuggire a sud attraverso il Jadar.

La battaglia di Hafrsfjord e la conseguente vittoria del re Harald Bellachioma, segnano l’inizio dell’unione della Norvegia sotto il controllo di un unico sovrano. Ma la vittoria di Harald segna l’inizio anche di un altro avvenimento storico, e cioè della massiccia migrazione della popolazione norvegese verso l’Islanda, le isole Faeröer, le Orcadi e le Ebridi. Ma queste isole non erano del tutto disabitate prima dell’arrivo degli esuli, vi si trovavano infatti alcuni eremiti irlandesi fuggiti a causa delle precedenti scorrerie dei vichinghi norvegesi in terra d’Irlanda, ma questa volta la migrazione vichinga avvenne per motivi di colonizzazione e quindi con scopi pacifici.

Un primo monumento chiamato “Haraldshaugen” fu eretto nel 1872 nell’Haugesund (Norvegia) per commemorare la battaglia vinta da Harald, mente nel 1983 Fritz Røed eresse un secondo monumento a Møllebukta nell’Hafrsfjord, inaugurato da re Olav V di Norvegia. Questo monumento, chiamato “Sverd i Fjell” (letteralmente: Spade nella roccia), consiste in tre gigantesche spade di bronzo alte circa 10 metri infilate nella solida roccia. La spada più grande rappresenta il re Harald Bellachioma. Tutto il monumento è un ricordo dell’epica battaglia combattuta, e anche un segno di pace in quanto le spade sono ben piantate nella roccia e non verranno mai più usate.



FONTI:
“Viking Hersir 793-1066”, Mark Harrison, Osprey
“The Vikings”, Else Roesdahl, Penguin Books
“Heimskringla or the Chronicle of the Kings of Norway”, Snorri Sturluson, IndyPublish
“I Vichinghi”, Johannes Brøndsted, Einaudi

http://www.skjoldungar.it/storia/battaglie-vichinghe/la-battaglia-di-hafrsfjord/



Harald Bellachioma (Haraldr Hárfagri), fondatore del regno di Norvegia, fu il più grande re di questa nazione, e probabilmente condivide con il famoso imperatore Ottone I la reputazione di essere la figura più eroica della storia europea del X secolo.
La data in cui Harald salì al trono di solito è detta essere circa l’860 d.C. Secondo un gruppo di storie nordiche il suo regno durò dal 852 al 923, ma, seguendo la cronologia migliore di Ari Frode, Harald fu re dal 862 al 932. Una nuova datazione, tuttavia, è stata proposta dal prof. Halfdan Koht, che dopo il calcolo della probabile durata delle generazioni tra Harald ed i re successivi con datazione certa, arriva alla conclusione che la nascita di Harald deve essere avanzata nel 865-70, ed il suo regno deve quindi essere definito come durata dal 875-80 al 940-45.

Harald era il figlio di Halfdan il Nero e Ragnhild, figlia di un piccolo sovrano del Ringerike e legata alla famiglia reale danese. Egli aveva solo una decina di anni quando salì al trono e, immediatamente dopo la morte del padre, la gelosia e l’invidia dei piccoli principi al di fuori e all’interno del regno minacciavano la sicurezza del suo trono. 

Il primo ad attaccare fu Gandalf di Ranrike, ma i capi del Vestfold non solo respinsero Gandalf, ma in seguito guidarono la guerra nel paese di questo re, lo uccisero, e presero possesso di tutto il suo regno. Così all’inizio del suo regno Harald acquisì la grande distesa del paese sul lato est dello Skagerrak che si estendeva verso sud, quasi fino all’odierna città di Göteborg in Svezia, una considerabile lunghezza di costa a lungo ambita dai re svedesi. 

Nel frattempo, un gruppo di capi dell’Opland si era ribellato, ma i generali di Harald invasero l’Opland, colsero di sorpresa i ribelli, e li bruciarono a morte nella casa dove alloggiavano. 
Le regioni di Toten, Hedemark e Romerike furono da allora sotto il potere del giovane re.

E’ in questa fase della saga di Harald che Snorri racconta la spesso ripetuta storia di come il re fu per la prima volta pervaso dalla determinazione di conquistare tutta la Norvegia.

Si innamorò di una ragazza, Gyda, figlia di un re nel Hordaland, ma quando chiese la mano della ragazza ella sprezzante rispose ai messaggeri di Harald che non avrebbe sprecato la sua verginità per un re che governava solo poche genti. “Mi sembra incredibile” disse lei “che non ci sia un re che faccia propria la Norvegia, e che ne sia l’unico sovrano, come re Gorm ha fatto in Danimarca, ed Eric a Uppsala.” Quando questa risposta fu riferita ad Harald, disse che la ragazza aveva parlato bene. Gli pareva strano, infatti, non aver già pensato alla conquista di tutta la Norvegia, e ha promise che non avrebbe più tagliato o pettinato i capelli fino a quanto questo obiettivo non fosse raggiunto. Così la sua splendida chioma di capelli dorati fu fatta crescere molto, fino a meritare per lui il soprannome di Bellachioma. [...] 
La sua prima mossa fu un attacco diretto e senza compromessi contro i pirati della regione di Sogn, nel Vestland, stipulando in seguito un’alleanza con il riconoscente jarl Haakon Grjotgardsson, signore di un vasto tratto di litorale occidentale che includeva Hålogaland, Namdal, il Trøndelag esterno e la maggior parte del nord Möre; allo stesso modo con il capo del territorio costiero adiacente, lo jarl di Möre, Harald concluse una pace. 

Ma la dimostrazione contro i pirati di Sogn non aveva raggiunto il suo scopo, per il popolo del Vestland più a sud rimanevano un serio pericolo relativo alle spedizioni che costeggiavano questa terra dai grandi fiordi, così che Harald, per il compimento del suo scopo, si trovò di fronte a una guerra contro i temibili vichinghi di Hordaland e Rogaland. La lunghezza ed il carattere dello scontro non sono noti, ma sul suo risultato non c’è dubbio, la vittoria andò ad Harald. Utstein in Boknfjord divenne una residenza del vincitore, e Avaldsnes, un po’ più a nord in Karmsund, un’altra delle sue roccaforti.

Eppure, anche così, la guerra ad occidente non era finita, perchè lo Jaeder si opponeva ancora ed era sostenuto da capi del Agder e ribelli, in modo che l’opposizione per far espandere ulteriormente Harald si rafforzò. Infine, furono raccolte navi ed un esercito, e la forza del sud-ovest della Norvegia si radunò per resistere ad Harald; i nomi di molti dei leader che si sono sollevati contro di lui sono registrati nelle saghe, alcuni dei quali sono senza dubbio invenzioni abituali che nel il corso dei secoli sono stati aggiunti come nella maggior parte delle battaglie antiche. Ma l’unico uomo che era certamente la molla principale di questi preparativi bellici era Kjötve, un re o nello Jaeder o nel Agder, e con lui c’era un guerriero, Haklang, a volte chiamato il figlio Kjötve.

Ma la preparazione di Harald non era stata meno accurata rispetto a quella dei suoi avversari, ed intorno all’anno 900 ebbe luogo la memorabile battaglia che doveva decidere il destino dei vichinghi ancora fuori dal suo dominio.

Il suo esercito navigò un tratto a sud del Trøndelag mentre i suoi nemici si stavano concentrando nello Jaeren; quando il loro assembramento fu quasi completo e stavano disponendosi in Hafrsfjord, trovarono che Harald li aveva superati, e stava aspettando con la flotta schierata e preparata.

La battaglia che ne seguì fu lunga e difficile, le saghe raccontano di una grande strage su entrambi i lati, la morte di molti capi del Vestland, e la fuga di Kjötve. Harald aveva vinto ed il Vestland era caduto. Hafrsfjord fu una battaglia decisiva, e la fama della vittoria Harald era ormai annoverata tra i temi più cari di scaldi e cronisti.

Harald era ormai padrone della Norvegia. 
Ma c’erano ancora molti pericoli davanti a lui, i sussulti della gente conquistata nel Vestland, l’emigrazione dei ricchi proprietari terrieri che non appoggiavano il suo regno, e il ritorno frequente di questi emigranti in incursioni piratesche, erano la prova evidente che non comandava ancora una nazione unita e solida. Trascorsero due o più anni prima che il suo titolo di signore venisse riconosciuto ovunque e la sua autorità non venisse più messa in discussione.

Poi, finalmente, Harald, ritenendo il suo grande compito realizzato, consentì che la sua folta chioma di capelli venisse tagliata e pettinata.

Il re trascorse gran parte di questi due anni nella regione che gli aveva dato più fastidio, il Vestland. Qui, soprattutto nel Sogn e nel Nordfjord, fu per lungo tempo occupato in una serie di piccole lotte, e di ciò le saghe hanno riportato molte storie, storie che di solito terminano con la morte o la fuga di qualche proprietario terriero ribelle

Così fu per Thorolf Kveldulfsson, un tempo uno scagnozzo del re che aveva combattuto a fianco di Harald a Hafrsfjord. Era poi diventato un uomo estremamente ricco con una casa a Sandness in Hålogaland, ma fu così sconsiderato da intrattenere Harald circondandosi da un corteo in numero superiore a quello del re, suscitando ben presto la gelosia e la rabbia del suo sovrano. L’inimicizia di Harald fece di Thorolf un ribelle ed un vichingo, e non passò molto tempo prima che provocasse la massima furia del re con un atto audace di saccheggio. Harald mandò due navi da guerra e duecento uomini in cerca di Thorolf a Hålogaland, ed egli stesso seguì con quattro navi ed un grande corpo di uomini. Thorolf fu ucciso nella valorosa difesa della sua casa che bruciò dinanzi alla popolazione di Hålogaland e Namdal prima che si potesse unire alla sua causa. E non c’è dubbio che con questa tragica lotta a Sandness una eventuale insurrezione nel nord fu soffocata sul nascere. Non fu la prima volta che una rapida azione era stata il segreto del successo di Harald.

La politica di consolidamento del re non si limitava alle lotte interne. 
I norvegesi nelle isole scozzesi, che a quel tempo includevano nel loro numero molti esuli e malcontenti, stavano cominciando a razziare le coste occidentali della Norvegia con gravità crescente, e si rese necessario adottare misure per impedire che questa gente turbolenta diventasse una seria minaccia per la sicurezza del nuovo regno di Harald. Il racconto di come il re riuscì a distruggere i covi dei pirati è complicato da molte confusioni ed inesattezze, ma sembra che circa nel 910 abbia nominato Ketil Flatneb come governatore delle isole Ebridi, mentre negli anni ’20, ancora profondamente insoddisfatto dal comportamento dei vichinghi occidentali, egli stesso intraprese una seria campagna punitiva. Salpò con una flotta di grandi dimensioni ed accompagnato da alcuni dei suoi più valorosi guerrieri prima mosse verso la costa occidentale della Scozia, ricercando ovunque insediamenti vichinghi e mettendo i prigionieri a fil di spada, poi procedette a cacciare i capi vichinghi dalle Ebridi, e si dice anche che sia disceso sull’Isola di Man. Dopo andò a nord, nelle Orcadi e nelle Shetland, che pose sotto il suo dominio, e a Sigurd, fratello di Ragnvald, lo jarl di Möre, fu affidata la contea di questi due arcipelaghi.

Nel caso della Norvegia non sussiste neppure il margine di dubbio che una considerevole ondata di emigrazione e di imprese vichinghe aveva avuto luogo prima del tempo di Harald Bellachioma. 

All’inizio del IX secolo i contadini del Möre e del Agder erano diventati abitanti delle Orcadi e delle Shetland, ed è difficile credere che questo possa essere stato causato da fattori quali le guerre dei loro principi o l’inizio della lotta per la supremazia tra il Vestfold ed i suoi rivali. Ma è anche un fatto che nella prima metà di questo secolo (800-850), durante il lungo periodo di disordini politici in Vestfold prima e durante il regno di Olof Geirstada-Alf, un popolo più audace e aristocratico di questi contadini poveri aveva preso le Ebridi e porti-roccaforti in Irlanda, dove avevano vinto molte ricchezze. 

Gli storici hanno attestato che una seconda ondata di emigranti partì, andando anche oltre verso le Isole Faroe e l’Islanda, al momento del conseguimento dell’alta sovranità da parte di Harald. E’ tuttavia possibile esagerare gli effetti improvvisi e profondi del suo governo, ed è certamente esagerato dichiarare che eventi di rilievo come la colonizzazione di Islanda e Isole Faroe furono solamente il risultato dell’odio nei confronti della dura supremazia di Harald nel suo nuovo regno.

Ma che una aristocrazia norvegese, scontenta e risentita, materialmente gonfiava durante il regno di Harald il flusso di esuli e avventurieri che cercavano casa in terra straniera e formavano la maggioranza degli emigranti provenienti dalla Norvegia alla fine del IX secolo, è un assioma di ogni libro di storia.

Ad Harald è stata spesso attribuita l’introduzione di un rivoluzionario sistema di governo in Norvegia, un nuovo ed efficiente sistema di governo centrale che legava saldamente insieme le genti in una singola unità politica. Questo concetto si fonda principalmente sulla entusiasta narrazione di Snorri nella Heimskringla, in cui si descrive il sistema amministrativo sotto il regno di Harald in modo tale da suggerire che è stato un’invenzione del re. In realtà, Harald apportò solo un piccolo contributo ai metodi di governo in Norvegia, e la vecchia partizione del territorio, le vecchie alleanze legali tra le genti e le vecchie funzioni giudiziarie, tutto ciò fu lasciato invariato.

Fece comunque trattare le province conquistate con severità simile a quella esercitata dai vichinghi nella gestione dei territori vinti all’estero, e può anche darsi che l’effetto di questo trattamento su genti fino a quel momento indipendenti, fu un acuto senso di alterazione del loro governo.

Lo stato di Norvegia, al momento della sua nascita con Harald, fu sotto molti aspetti molto simile a qualsiasi altro giovane regno germanico, come quello di Carlo Magno o quello di Alfred in Inghilterra. Come essi, subì tutte le debolezze insite in una costituzione fondata sull’autorità personale del re, e anche se Harald certamente creò un regno che doveva durare, la sua storia successiva è il lungo racconto di inevitabili dissidi interni e lotte, interrotto non solo da più di un crollo in stati separati, ma anche da parte di parziale dominio straniero. Anche nell’età avanzata di Harald il problema era all’inizio, e non passò molto tempo dopo la sua morte, che l’unità del suo regno era seriamente minacciata.

FONTI

Thomas Downing Kendrick, “A History of The Vikings”, Dover Publications

Scritto da Nicola “Surtr” Fin

http://www.skjoldungar.it/storia/norvegia/harald-bellachioma/




Islanda, la Storia. Capitolo III: 
Capitolo III: I primi coloni islandesi e il primo parlamento dell'età moderna (IX-X sec.).
Con questo capitolo continuiamo a sfogliare il "Libro degli Islandesi" entrando nel vivo della colonizzazione dell'Islanda. E' un momento epico e probabilmente unico nella storia: i primi migranti non sono nullatenenti in cerca di fortuna, bensì nobili norvegesi in fuga dalla madrepatria.

Protagonista assoluto è Harald "Bellachioma", primo re di Norvegia, che con la leggendaria battaglia di Hafrsfjord conclude la riunificazione del regno. Curiosamente, a raccontarne le gesta, sarà l'islandese Snorri Sturluson trecento anni dopo.

Altro personaggio leggendario che incontriamo è Ingòlfur Arnarson, il primo islandese. 

A lui seguiranno molti altri nobili che inizieranno ad organizzare la nascente società islandese. 
Nel 930, nella spianata di Þingvellir, viene aperto quello che viene considerato il primo parlamento dell'età moderna: l'Alþingi.

Per gli islandesi è un luogo sacro: qui proclamarono la propria indipendenza nel 1944. 
A Þingvellir si respira la storia. Chi c'è stato può capire cosa intendo. 
Nel 2004 è stato dichiarato patrimonio dell'UNESCO. 

Ingòlfur Arnarson sbarca nei pressi dell'odierna Reykjavik e pone le basi della prima fattoria islandese (wikipedia.org)

La nascita dell’Islanda: 
la colonizzazione inizia a seguito di una serie di importanti eventi accorsi durante l’unificazione del Regno di Norvegia sotto Harald “Bellachioma”. Costui nell’860 ereditò dal padre molti piccoli regni del Vestfold (regione sud-orientale dell’attuale Norvegia).

Mediante una lunga serie di battaglie e conquiste ampliò il suo regno fino alla costa occidentale e dopo la decisiva battaglia di Hafrsfjord divenne “re supremo”. 

Nonostante i successi militari continuò a resistere un fronte interno che si opponeva al nuovo sovrano. Questo fronte era composto prevalentemente dai capi e dalla nobiltà dei precedenti stati e Harald, sentendosi costantemente minacciato, esiliò tutti coloro che riteneva potessero rappresentare una minaccia per lui. Harald “Bellachioma” fu così involontariamente uno dei “promotori” dell’espansione vichinga di quel periodo e soprattutto della colonizzazione dell’Islanda.

Secondo Þorgilsson il primo esule a creare un insediamento stabile in Islanda fu Ingòlfur Arnarson che costruì la sua fattoria nelle vicinanze dell’attuale Reykjavìk nell’874. 

A lui seguirono molti altri norvegesi che partivano alla volta dell’Islanda con la propria famiglia o anche, chi poteva permetterselo, con i propri schiavi e i propri averi (utensilerie, bestiame).

L’eredità delle leggi norvegesi: 
in breve tempo l’Islanda cominciò a popolarsi e venne disseminata di fattorie, le quali venivano stabilite soprattutto in prossimità della costa. Benché in rapporto all’estensione dell’isola il numero degli abitanti era decisamente esiguo (circa 35.000 persone), né sorsero villaggi di grandi dimensioni, si sentì presto l’esigenza di istituire delle apposite assemblee dove dirimere le contese fra i coloni e disciplinare altre questioni della vita quotidiana.

Un uomo di nome Ulfljótr importò dalla Norvegia le prime leggi mentre un altro, Grímr Goatshoe, fece il giro dell’isola per organizzare delle assemblee locali.

L’insediamento dell’Alþingi: 
i coloni si diedero un’organizzazione locale, tuttavia nel 930 in una spianata che si trova nella parte sud-occidentale dell’isola venne istituita una camera parlamentare comune: l’Alþingi.

Qui iniziarono a riunirsi annualmente i “goðar”, ovvero gli uomini di maggior spicco provenienti da ogni parte dell’isola. Il luogo dove si riuniva questa assemblea venne chiamato Þingvellir (“pianura del parlamento”), i partecipanti eleggevano al proprio interno una sorta di presidente dell’assemblea detto “legislatore” che si occupava di dirigere i lavori. Spesso veniva scelto fra i membri più anziani e carismatici e, secondo Þorgilsson, il primo ad essere scelto per ricoprire questa carica fu lo stesso Ulfljótr.

La scelta del calendario: 
i coloni presto si accorsero che il calendario di cinquantadue settimane precise (quindi di trecentosessantaquattro giorni) non era preciso e mancava almeno un giorno ogni anno. Þorgilsson narra di un’accesa riunione dell’Alþingi dove i più saggi riconoscono l’imperfezione del calendario, ma sono altresì riluttanti a modificarlo e renderlo imperfetto con l’aggiunta di un giorno.

La questione venne argutamente risolta da un uomo chiamato Þorsteinn e detto Surtr (“il nero”) che propose di aggiungere una settimana ogni sette anni, mettendo tutti d’accordo.

La divisione dell’Islanda in quadranti giuridici: 
poiché le assemblee locali non bastavano a dirimere le questioni giuridiche più complesse l’Alþingi fu chiamato a decidere una sorta di riforma del sistema giudiziario.

Secondo Þorgilsson il problema si pose quando un uomo chiamato Þórðr presentò durante una seduta dell’Alþingi un caso che in sede di assemblea locale non era riuscito a risolvere. 
Questo infatti riguardava persone rappresentate anche in altre assemblee.

Si poneva quindi un problema di disciplina delle competenze. 
La soluzione che venne adottata fu quella di creare una corte di appello e una corte giuridica per ogni tre assemblee locali, quattro nel caso delle assemblee del nord dell’isola. In definitiva le corti saranno quattro, corrispondenti ai punti cardinali, più la corte di appello.

Il principio della colonizzazione dell’Islanda è anche preludio e leitmotiv del periodo sanguinoso che seguirà. Secondo la leggenda infatti Ingólfr Arnarson sbarcò in Islanda con il suo fratellastro Hjörleifur Hróðmarsson.

Il primo si stabilì presso l’odierna Reykjavík mentre il secondo venne assassinato poco tempo dopo da alcuni suoi schiavi irlandesi. Informato di ciò Ingólfr andò alla ricerca degli assassini e li raggiunse in un arcipelago a sud dell’Islanda dove li uccise tutti.

Per questo motivo oggi queste isole si chiamano Vestmannaeyjar (“Isole degli uomini dell’ovest”, gli schiavi irlandesi appunto). Questo fu solo il primo di una lunga serie di faide che avrebbe caratterizzato la vita di questa giovane colonia, faide che sarebbero sfociate in una vera e propria guerra civile.

Fabio Quartino
La Costituzione Islandese: storia ed evoluzione
Università degli Studi di Genova, 2009
&
Nordicum-Mediterraneum
Icelandic E-Journal of Nordic and Mediterranean Studies
http://nome.unak.is/wordpress/06-1/dissertation/la-terra-del-ghiaccio-e-del-fuoco19/
Pubblicato da Snorri alle 12:16:00 







sabato 29 luglio 2017

Gaetano Bresci. Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le altre repressioni del ‘98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d’assedio emanati con decreto reale


29 LUGLIO 1900: L’ATTENTATO A RE UMBERTO I° DI SAVOIA.

Subito dopo l'arresto giustificò così il suo gesto:
"Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le altre repressioni del ‘98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d’assedio emanati con decreto reale"


Gaetano Bresci uccise re Umberto I° di Savoia a Monza, la sera di domenica 29 luglio 1900, sparandogli con una rivoltella, una “Massachusetts” a 5 colpi calibro 9. La prima pallottola colpì il re alla gola, la seconda al cuore, il terzo colpo andò a vuoto, sembra che ci fu anche un quarto colpo deviato grazie all'intervento del maresciallo dei carabinieri Giuseppe Braggi che colpì con un forte pugno il braccio dell'attentatore.

Poi Bresci si lasciò catturare senza opporre resistenza evitando probabilmente il linciaggio da parte della folla inferocita. Il processo fu istruito in brevissimo tempo. Il 29 agosto, cioè un mese esatto dopo il delitto, comparve davanti alla corte d’Assise di Piazza Beccaria a Milano. 
La sentenza era scontata.

Ascoltati i testimoni, i giurati si ritirarono per decidere e dopo pochi minuti il verdetto dichiarava l’imputato colpevole e lo condannava ai lavori forzati. Scontò la pena nel penitenziario di S. Stefano, presso Ventotene e per poterlo controllare a vista venne edificata per lui una speciale cella di tre metri per tre, priva di suppellettili. Morì il 22 maggio 1901 ufficialmente per "suicidio", impiccato per mezzo di un asciugamani. Ma probabilmente morì anche prima di questa data ufficiale.

Chi era Gaetano Bresci e chi aveva armato la sua mano?
Nato a Coiano, frazione di Prato, da famiglia contadina, all'età di 15 anni entrò a far parte di un circolo anarchico di Prato. Nel 1892 fu condannato a 15 giorni di carcere per oltraggio e rifiuto di obbedienza alla forza pubblica. Schedato come "anarchico pericoloso" fu relegato a Lampedusa. Amnistiato sul finire del 1896, emigrò negli Stati Uniti, a Paterson nel New Jersey dove trovò lavoro come tessitore. Era solito frequentare una comunità anarchica di emigrati italiani. 
Nella primavera del 1900 rientrò in Italia, il 29 luglio sparò a re Umberto I°.

Oltre alla teoria che vuole Bresci deciso ad uccidere il re perchè particolarmente colpito dai moti di Milano del 1898 e dalla dura repressione operata da Bava Beccaris, c'è anche un'altra ipotesi che riguarderebbe un complotto ben più articolato. Da alcuni rapporti segreti della polizia recapitati al primo ministro Giolitti emersero precise responsabilità circa i complici di Bresci e i mandanti del regicidio. Da molto tempo i servizi italiani tenevano d’occhio una villa di Neully, in Francia, mèta di continui via vai di personaggi tra i più disparati.

Tra i tanti, Errico Malatesta, Pietro Gori, Charles Malato noti anarchici, Angelo Insogna giornalista napoletano e fervente borbonico.

Il tutto condurrebbe alla figura di una “Grande Vecchia” ispiratrice e mandante del complotto di Monza. Essa venne individuata in Maria Sofia di Borbone, ultima regina di Napoli, moglie di Francesco II defenestrato dal Regno delle Due Sicilie da Vittorio Emanuele II con l’aiuto di Garibaldi nel 1860. In una lettera privata il prefetto di Torino Guido Guiccioli affermò che Giolitti aveva le prove della macchinazione e che fu l’ex Regina di Napoli a fornire i mezzi necessari per attuare il piano. E Gaetano Bresci corrispondeva perfettamente all’identikit di chi avrebbe potuto materialmente attuare l'attentato.

Vera o fantasiosa questa ricostruzione sta di fatto che, dopo la condanna del regicida, Giovanni Giolitti venne a conoscenza di una lettera del 18 maggio 1901, intercettata dai servizi, scritta da Errico Malatesta che parlava della preparazione di un grosso colpo da parte dei “noti” di Neully: la liberazione di Gaetano Bresci. Questo spiegherebbe sia il telegramma che Giolitti inviò al direttore del penitenziario di Santo Stefano con l’invito a rafforzare la sorveglianza, sia l’invio sull’isola di una compagnia del 49° Fanteria al comando del tenente Orazio Carola per sorvegliare dall’esterno l’istituto di pena.

Sta di fatto che il 22 maggio, o forse qualche giorno prima, Gaetano Bresci “l’anarchico venuto dall’America” pur guardato a vista da almeno due secondini, fu trovato impiccato nella sua cella.

Antonio A. – Fonte: “L’anarchico che venne dall’America” di Arrigo Petacco



venerdì 28 luglio 2017

Le guerre persiane. CAPIRE IL PUNTO CULMINANTE. Il tedesco Karl von Clausevitz, generale dell'impero prussiano durante le guerre napoleoniche ed autore del trattato "Della guerra", sostenne che esiste un modello ricorrente nella storia dei grandi imperi: dopo una serie di guerre produttive, arriva un momento in cui si deve capire che andare oltre significherebbe la fine. È questo il punto culminante, che per la storia delle guerre persiane arrivò con la battaglia di Salamina, dopo la quale i persiani trattarono con la Grecia per vie diplomatiche. Il disastro si sarebbe potuto evitare se Serse avesse dato ascolto ad Artabano, suo zio, che aveva previsto il momento culminante, ma così non fu e la Persia ne uscì enormemente indebolita. Al punto che, un secolo e mezzo dopo, venne spazzata via da Alessandro Magno.

LE GUERRE PERSIANE.

IL QUADRO STORICO.
Le guerre persiane hanno come prologo l'espansione della Persia nella regione della Lidia, dove sorgevano numerose colonie greche, e la rivolta di una di queste, Mileto. Il tiranno della città, Aristagora, recatosi di persona in Grecia per avere rinforzi militari, ottenne da Atene venti navi, a cui poi se ne aggiunsero altre cinque da Eretria.

La rivolta si concluse con la sconfitta navale di Lade (494 a.C.) e la distruzione di Mileto, mentre le altre città greche della Ionia rinnovarono la loro sottomissione alla Persia.
Per punire Atene ed Eretria, Dario, sovrano persiano, organizzò una prima spedizione, capeggiata da Dati e Artaferne: Eretria fu espugnata e i suoi abitanti vennero deportati in Persia, ma gli ateniesi, comandati da Milziade, vinsero nella battaglia di Maratona (490 a.C.).

Morto Dario (485 a.C.), fu suo figlio Serse a portare avanti il progetto di sottomettere la Grecia: un potente esercito di terra e di mare fu fatto avanzare verso il territorio greco, dove fu momentaneamente rallentato alle Termopili (questo diede tempo agli ateniesi di evacuare la città, poi bruciata) e poi battuto nella battaglia navale di Salamina (480 a.C.), cui seguì la sconfitta a Platea, sulla terraferma (479 a.C.).

GUERRE PRODUTTIVE E PACE PERSIANA.
Ci sono vari tre tipi di guerra in relazione all'impatto che esse hanno sulla società:
- produttiva, quando crea una situazione più stabile, meno violenta;
- improduttiva, se non ha un vero e proprio impatto sulla società;
- controproduttiva, quando determina realtà più pericolose e conflittuali (come nel primo Medioevo).
La Persia, prima del conflitto con la Grecia, aveva combattuto una serie di guerre produttive, che avevano creato all'interno del suo territorio un ambiente stabile e sicuro per le popolazioni che lì vivevano (pace persiana).

PERSIA E GRECIA A CONFRONTO.
Come fosse la Persia anticamente è descritto nell'Anabasi di Senofonte, opera di un secolo successiva ai fatti delle guerre persiane. Lì si legge di numerose tribù che vivevano in villaggi, ciascuna delle quali aveva una propria lingua e costumi differenti. Si tratta quindi di un impero non omogeneo dal punto di vista culturale, una struttura premoderna, governata da una élite aristrocratica, che viaggiava e si incontrava, fungendo un po' come da collante, anche perché in possesso di una stessa lingua.
In Grecia, invece, aristocrazia e masse erano meno separate (parlavano, infatti, la stessa lingua), né erano enormi le diversità tra città e città. Stando così le cose, se era facile per le popolazioni che vivevano nelle terre dell'impero persiano passare da un dominio all'altro (cambiava soltanto a chi si versavano i tributi), meno semplice era per i greci assimilarsi.

PRESSIONI PERSIANE.
I persiani tentarono di convincere gli spartani a non sostenere la causa greca. Certamente fecero promesse allettanti, quale quella di lasciare a Sparta, una volta sottomessa la Grecia, l'egemonia su tutte le città. Gli aristocratici delle varie città, poi, potevano facilmente essere stati indotti a pensare che, sotto la Persia, sarebbero potuti diventare tiranni, governando da soli. 
Perché Sparta non accettò le offerte persiane? 
È difficile dirlo perché mancano del tutto fonti spartane scritte. 
C'è solo un aneddoto, che quindi non ha valore storico: si racconta che un aristocratico persiano e due messaggeri spartani si incontrarono sulle coste della Ionia e che, quando il persiano prospettò agli spartani una vita sicura sotto il suo impero, questi risposero che preferivano la libertà.

I NUMERI DELL'ARMATA PERSIANA.
La fonte storica principale per la ricostruzione delle guerre persiane è Erodoto, il quale, a proposito dell'armata persiana parla di un numero esorbitante di uomini: cinque milioni. Il conto veniva fatto in questo modo: i soldati venivano fatti entrare a gruppi in una sorta di recinto, che poteva contenere diecimila uomini; quando questo si riempiva, gli uomini uscivano e ne entravano altri. Che però se ne fossero contati cinque milioni appare assai improbabile. Un simile esercito, infatti, richiede enormi quantità di cibo e acqua (i fiumi greci in estate sono asciutti, quindi occorreva pensare anche al rifornimento idrico), da trasportare per lunghe distanze e da conservare per un certo tempo. Probabilmente non superava il mezzo milione di soldati, un'armata comunque considerevole, forse la più grande mai radunata nel mondo antico. Il dato tramandato dallo storico greco sottolinea l'impressione lasciata nei greci, il loro sgomento di fronte a una forza soverchiante.

LA POTENZA GRECA.
Gli studi demografici sulla Grecia dell'inizio del V secolo a.C. ci parlano di una certa vitalità: la densità di popolazione era molto alta (200 abitanti per kmq nel territorio intorno ad Atene), anche forse per il miglioramento climatico iniziato dopo il VII secolo, e l'economia era florida. La Grecia, infatti, nonostante il territorio montuoso, che lascia poco spazio alla coltivazione della terra, ha una buona posizione nel Mediterraneo e ciò consentiva alle sue città di commerciare con altri popoli. Da questi importava cibo, essenziale per far fronte alle necessità della popolazione in crescita, ed esportava prodotti finiti. Quando i greci, quindi, si scontrarono con la Persia, stavano vivendo un periodo di boom economico e demografico. A questo si aggiunga il fatto che la Grecia era dotata di tecnologie militari più moderne (una flotta più agile, per esempio), dovute a uno stato di continua conflittualità tra le città.

UNA DEMOCRAZIA IN GUERRA.
Kant sosteneva che è difficile che in una democrazia, dove la gente vota, i votanti si esprimano a favore della guerra, perché poi molti di loro dovranno prendere le armi, combattere e rischiare la vita (è la teoria della pace democratica). Quando però Atene votò l'invio delle navi per aiutare Mileto, era già una democrazia. E lo era anche quando, qualche decennio dopo, entrò in guerra contro Sparta. Che cosa, dunque, fece propendere per l'intervento? 
Il governo della città, che, come accade ancora oggi, fece di tutto per persuadere la popolazione, creando una sorta di "guerra del popolo" e giocando sul tema della sopravvivenza. In questi casi si ha una guerra totale, capace di arrivare a livelli di ferocia che generalmente non si riscontrano in un conflitto gestito da un sovrano distante.

IL RUOLO DELLA GEOGRAFIA NELLA STORIA.
Le coste della Turchia, dove Mileto sorgeva, erano già state al centro di uno scontro tra Ittiti e Micenei e, nel Medioevo, videro il passaggio delle Crociate.
Si tratta di un punto caldo geopoliticamente parlando? 
Non c'è dubbio che la geografia abbia un ruolo importante nella storia: 
se l'Inghilterra non avesse avuto importanti giacimenti di carbone, la rivoluzione industriale non vi avrebbe avuto origine; allo stesso tempo, però, lo sviluppo di una società dà significato alla geografia (che cosa ci avrebbero fatto col carbone, se non fosse stata disponibile la macchina a vapore?).
Questo ragionamento vale anche per Mileto, città sulla costa turca, ultima frontiera dell'impero persiano. Era collocata tra le immense ricchezze dell'est e le enormi potenzialità dell'ovest e questa posizione geografica le aveva consentito una certa fioritura. Quando i persiani decisero di espandersi a ovest, Mileto si trovò nel mezzo e fu distrutta.

CAPIRE IL PUNTO CULMINANTE.
Il tedesco Karl von Clausevitz, generale dell'impero prussiano durante le guerre napoleoniche ed autore del trattato "Della guerra", sostenne che esiste un modello ricorrente nella storia dei grandi imperi: dopo una serie di guerre produttive, arriva un momento in cui si deve capire che andare oltre significherebbe la fine.
È questo il punto culminante, che per la storia delle guerre persiane arrivò con la battaglia di Salamina, dopo la quale i persiani trattarono con la Grecia per vie diplomatiche. Il disastro si sarebbe potuto evitare se Serse avesse dato ascolto ad Artabano, suo zio, che aveva previsto il momento culminante, ma così non fu e la Persia ne uscì enormemente indebolita. Al punto che, un secolo e mezzo dopo, venne spazzata via da Alessandro Magno.




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