Antonio Diego Manca, "La Donna delle Sette Fonti".
La protagonista è Maria Antonietta, una ragazza di 14 anni che non riesce più ad accettarsi e si sente “un fiore avvizzito ancora prima di sbocciare”. Quando viene a sapere di aver i giorni contati causa leucemia cade in depressione e sembra abbandonare ogni volontà di vivere.
Le cure “ufficiali” non danno risultati, così la madre decide di seguire il consiglio di una zia e contatta una “maialzas” ovvero “donna che si occupa di misteri (una guaritrice locale).
Inizia così il viaggio di Maria alla riscoperta di sé stessa,della sua voglia di vivere,ma soprattutto del valore dell’acqua che sgorga dalle fonti, riempie i laghi, scava passaggi tra le rocce e che ha segato la storia del popolo sardo.
“Come puoi pensare a guarire se non vuoi bene alla vita?”
“Annunciò che le avrebbe insegnato a dar da mangiare ai suoi sogni”.
E Maria imparerà ad amare la vita con tutte le sue gioie e le sue difficoltà, come imparerà ad amare la propria terra, a rispettare l’Acqua e lo spirito in essa contenuto.
“Puoi combattere per qualcosa o per qualcuno solo se l’ami.
Ma puoi amare davvero ciò che non conosci? E puoi conoscere davvero ciò che non ami?”
Assieme alla protagonista veniamo a contatto con luoghi liturgici ( Pozzo sacro di santa Cristina, Pozzo sacro di san Salvatore), leggende che si intrecciano alla storia (le battaglie dei Sardi Pelliti contro i Romani), saggi poeti (Melchiorre Murenau, Peppino Mereu) e luoghi di meditazione in cui troneggiano fonti o cascate curative.
Un cammino che porterà la giovane a un maggior rispetto verso la natura e soprattutto vero sé stessa.
http://www.nonsolocinema.com/La-donna-delle-sette-fonti-di.html
https://youtu.be/sg9SGD3d9Vo
Diego Manca, La Donna delle Sette Fonti.
di Angelo Da Fano, 12 Dicembre 2012
"Con la guida di Tia Nanna, Maria percorrerà e completerà un viaggio di scoperta e di crescita, visitando luoghi e fonti sacre"
La Donna delle Sette Fonti[1] è un romanzo, non è una storia reale.
Tia Nanna e Zia Rosaria non esistono realmente, anche se esistono persone reali a cui Diego Manca si è ispirato. La Donna delle Sette Fonti è un romanzo di idee, di sentimenti: è un cammino verso la conoscenza di se stessi. È la storia della guarigione da una grave malattia di Antonietta che, nello scoprire se stessa, la sacralità della sua terra e delle sue acque, scopre il vero senso della salute e della vita.
Antonietta consuma una vita di insoddisfazioni, senza neanche avere il coraggio dei sogni di un futuro migliore. Dopo la scoperta della malattia, le donne della sua famiglia la presentano ad un’anziana, Tia Nanna, amica di vecchia data, che gestisce una trattoria e ha fama di guaritrice. L'incontro vede subito fronteggiarsi l’apatia da una parte e la volontà di dare senso alla vita dall’altra. L’educazione, o la rieducazione, della ragazza inizia, infatti, all’istante: Tia Nanna chiede ad Antonietta di cambiare nome e farsi chiamare Maria, nome che la rappresenta meglio, e le impone un nuovo modo di rapportarsi col mondo circostante, col cibo, con tutto. Ogni cosa dovrà essere vista con occhi nuovi e trattata con rispetto e riconoscenza. Ma il cambiamento maggiore dovrà essere in special modo con la natura: con l’acqua, i fiumi, le cascate e gli alberi. Maria dovrà trattarli come cose vive che la ascoltano e la capiscono. Saranno suoi confidenti e amici.
È la meravigliosa Sardegna antica e incontaminata, questa: quella dei boschi di querce, delle fonti e dei pozzi sacri. Con la guida di Tia Nanna, Maria percorrerà e completerà un viaggio di scoperta e di crescita, visitando luoghi e fonti sacre. Conoscerà la potenza vitale dell’acqua e ne assaporerà la sacralità, fisicamente e spiritualmente. Un cammino che la porterà alla guarigione dalla malattia, ma, soprattutto, al superamento di quell’incapacità di sentirsi responsabile che la stava allontanando dalla vita.
Così come la Torah è detta “Acqua di Vita” e “Sorgente di Vita”, nel libro di Diego è l’acqua che ci dà la spinta.
L’acqua è una protagonista di questo romanzo, come lo è il 'femminile', non solo perché i personaggi principali sono tutte donne, piuttosto perché l’interesse di Diego è la comunicazione, la trasformazione e la sperimentazione, caratteristiche, queste, tutte femminili.
Per Diego, ciò che è in natura ha un legame diretto con il mondo spirituale: ogni azione ha un effetto sui mondi superiori. E questo, per Diego, non è solo un modo di pensare. Egli ha sempre praticato e non solo studiato: si è interessato di buddismo, praticandolo per anni; si è interessato di sciamanesimo, ed è stato allievo di Hyemeyohsts Storm, seguendo la Via della Medicina degli Indiani d'America. Ora, sta studiando Kabbalah[2], imparando anche l’ebraico, per poter meglio comprendere e mettere in pratica millenni di insegnamenti.
Percorrere tante strade, ha permesso a Diego di comprendere una cosa: che tutto è uno. Ai livelli superiori tutte le pratiche vere dicono le stesse cose, anche se non tutti seguono lo stesso cammino. La Spiritualità è come una montagna, tutti puntano alla cima, che è una. Qualcuno, però, si ferma su un altopiano e si accontenta di vedere la cima dal basso; qualcun altro sale da sud, in mezzo agli alberi e con un cammino pieno di sole; altri ancora salgono da nord, col freddo e il vento. C’è anche chi cerca la via diretta, un 6° grado: chi resiste può arrivare prima, ma molti cadono. C’è infine chi, guardando la cima coperta di nuvole e non vedendola, si chiede: “ma c’è una cima?”
In questo libro ci sono molte di queste esperienze, ma forse è proprio la visione kabbalistica della vita quella che gli si confà maggiormente.
La donna delle sette fonti, Diego Manca, Ed. Condaghes, 2007.
La Donna delle Sette Fonti è, infatti, un romanzo 'terrestre', ossia rivolto all’ingaggio totale con questo mondo, al non annullare i desideri, ma a cambiarne il fine, al considerare ogni oggetto come sacro, santificando le cose con la ritualità del quotidiano, differentemente dal 'celeste' di alcune filosofie orientali, tese a lasciar andare l’attaccamento a cose e persone e al superamento della sofferenza esistenziale. Parafrasando un detto del Gaon di Vilna , grande saggio del 18mo secolo, il fine dell’ebraismo e della Kabbalah non è quello di trascendere questo mondo, ma quello di elevarlo, così perfezionando se stessi.
Ogni concetto in questo libro è intriso di idee kabbalistiche. Così come la Torah è un cammino di elevazione dell’Uomo e di guarigione dell’Anima, il libro di Diego Manca è un cammino di guarigione e di ritorno al sé. Così come la Torah è detta 'Acqua di Vita' e 'Sorgente di Vita', nel libro di Diego è l’acqua che ci dà la spinta. Il Creatore è infinito e immutabile. L’uomo, che vive in un mondo finito e mutabile, usa la preghiera come veicolo di comunicazione ed elevazione: la preghiera è la scala che mette in contatto il mondo spirituale con quello materiale. Ma pregare, in ebraico, è un verbo riflessivo, poiché la preghiera è rivolta per prima a noi stessi. Essa cambia noi stessi, non il Creatore. Siamo noi che dobbiamo risalire la scala dopo la caduta sulla Terra.
Note
1. Antonio Diego Manca, La Donna delle Sette Fonti, Condaghes Edizioni, Cagliari 2007.
2. La Kabbalah è la dimensione mistica dell’Ebraismo, che fornisce una prospettiva della realtà spirituale da cui deriva qualunque cosa nell’universo. Capire queste forze e i loro effetti ci consente di percepire l’unità con la Creazione e usare questa conoscenza per guidarci in tutti gli aspetti della vita. La parola Kabbalah significa 'ricezione', 'accettazione' e anche 'parallelo'. L’Insegnamento, infatti, viene ricevuto da Mosè, ma non basta riceverlo, bisogna accettarlo, mentre il terzo significato è nella ricerca di un’unica Legge, che metta in parallelo mondo spirituale e materiale.
Nella Donna delle Sette Fonti (di Diego Manca, Ed. Condaghes, 2007, ndr), non ci curiamo attraverso il contatto fisico con l’acqua, ma innescando l’effetto guaritivo con la consapevolezza del nostro sé, riconoscendo il nostro ruolo e avendo il coraggio di porci in gioco e di risalire la scala, gradino per gradino.
«Non basta!» fu la risposta di Tia Nanna. «Ti devi impegnare! Se stai facendo sul serio, devi tornare all’albera e le devi promettere che t’impegni a guarire. Va’!» (D. Manca, La Donna delle Sette Fonti, p. 38)
Non solo ci dobbiamo impegnare nella volontà, nell’intenzione che mettiamo nelle cose: nella Kabbalah, la santità della vita va trovata in ogni nostro atto. Ogni cosa è importante e degna di rispetto. Ogni atto è fondamentale e va vissuto nel momento.
«Devi imparare ad apprezzare e a trattare con rispetto le cose che mangi», continuò Tia Nanna. «Quando tocchi i ravioli, o un pomodoro, o una foglia di basilico, o un pezzo di pane oppure bevi un sorso d’acqua, pensa che sono tutte cose che ti fanno vivere, che fanno vivere te». (p. 44)
Tia Nanna continuò a mettere i ravioli nell’acqua bollente, con tale concentrazione e attenzione che sembrava si fosse dimenticata di lei. (p. 45)
Non esistono attività meno importanti: santificare ogni nostro atto significa fare il nostro lavoro con coscienza. Questa è una delle intuizioni più profonde della Kabbalah: ogni cosa nella vita ha un senso, perché ogni cosa è stata creata per un motivo, secondo un progetto. Per questo nell’ebraismo ogni precetto è minutamente descritto, è un’azione consacrata. La ricerca della perfezione è sempre presente in chi segue questa via.
Le spiegò allora che se non faceva bene un lavoro, significava che non stava rispettando se stessa, poiché non ci sono lavori belli o brutti e che anche lavando i piatti lei era sempre lei. Cercare di svolgere qualunque attività il meglio possibile era un modo per rispettare se stessa: è questo che doveva capire, ad ogni costo. (p. 91)
«I cuochi a volte preparano male un piatto di fagioli e invece preparano con attenzione un piatto di aragosta», le disse un giorno Zia Rosaria, vedendola sbucciare svogliatamente delle patate. «Devi imparare a preparare qualunque cibo con il massimo impegno e attenzione. Diversamente, anche se non te ne renderai conto, avrai la tendenza a umiliarti con chi ritieni superiore a te e a trattare con sufficienza chi consideri inferiore.» (p. 136)
E per cambiare, Antonietta deve iniziare cambiando il suo nome in Maria. Perché Maria è il nome che rappresenta il suo “io”.
«Ti volevo dire che da ora, per tutti, lei è Maria!» le disse Tia Nanna. (p. 47)
Il leggendario kabbalista del sedicesimo secolo, Arizal [1], diceva che la natura essenziale di una persona poteva essere scoperta analizzandone il nome. Ricordiamo che il nome ebraico per la parola “anima” è neshamà, che a sua volta contiene la parola shem, “nome”: l’essenza è contenuta nel nome. È come un recipiente che è definito dal suo contenuto: se è vuoto, diciamo: «passami quel recipiente», ma se contiene del latte, diciamo: «passami il latte».
Nell’ebraismo, quando una persona è malata, è in uso dargli un nome aggiuntivo, come buon auspicio. Ad esempio Chaim, vita, o Rafael, curato da Dio. E, nella Bibbia, ogni volta che un personaggio cambia nome, è un segno di trasformazione spirituale: è come se fosse rinato.
Il Popolo della Torah è il Popolo che segue le vie indicate dal Nome.
Iddio è HaShem: il Nome. Adamo conosce e ha potere sugli animali perché gli dà un nome:
il cane è chelev, tutto-cuore, mentre il leone è aryeh, che incute timore e la cicogna è chasidà, amore.
Tia Nanna le rispose che era una pianta di leccio e le annunciò che, ora che sapeva come si chiamava, poteva andare a piantarla in un posto speciale, poiché quella pianta sarebbe stata la sua amica per tutta la vita. (p. 73)
"E chi è Maria? Maria è Miriam, che significa acque amare".
E chi è Maria? Maria è Miriam, che significa “acque amare” ma che, permutando le lettere, si può leggere “acque elevate”, mentre nell’etimologia egizia significa “la madre del mare”. Miriam è quindi legata alle acque: nel deserto, infatti, è colei che disseta il popolo con il suo pozzo, al punto che, alla sua morte, Mosè dovrà colpire la roccia, per trovare dell’acqua. Inoltre, come donna, Miriam è legata alla praticità, alle incombenze giornaliere, all’hic et nunc. È singolare l’episodio dell’inno al mare, intonato da Mosè appena attraversato il Mar Rosso. Anche Miriam e le altre donne celebrano la gloria del Signore per ciò che è appena avvenuto e, mentre nel suo canto, Mosè usa il verbo futuro, Miriam usa il presente: il maschile è legato alla progettualità, il femminile è calato nel momento.
Ed è l’acqua che guarisce, l’acqua, che in ebraico si dice maim, mentre cielo è shamaim, ovvero le acque lassù. Il Creatore divise le acque “di giù” dalle acque “di su”, perché all’origine tutto era acqua. Dall’acqua si è formata la vita, tanto che un bimbo nasce con la rottura delle acque; il diluvio purifica la terra; gli Ebrei attraversano le acque del Mar Rosso per uscire dalla schiavitù. L’attraversamento delle acque riguarda sia il trapasso sia il vedere la luce. Ed è il pozzo che riunisce le acque di su, piovane, con le acque sotterranee della terra: le acque superiori rappresentano la saggezza e quelle inferiori l’emotività.
“Pozzo” in ebraico è beer, stesse lettere [2] di barà che significa “creò”, la seconda parola della Torah, da cui deriva briut, “salute”. Guarire è come essere rigenerati, ricreati. La salute, quindi, è legata all’Inizio, ma anche al pozzo, nel senso che, collegando costantemente il basso con l’alto, il creato con la fonte creativa, si ottiene il benessere.
Il pozzo di Miriam è il simbolo della sapienza. Il grande kabbalista Arizal non mise mai per iscritto il suo sapere: fu il suo discepolo rabbi Vital [3] a trascrivere le sue lezioni. Ma all’inizio non riusciva a capire nulla di quello che il maestro gli insegnava. Allora l’Arizal lo portò a bere l’acqua del pozzo di Miriam presso Tiberiade e, da allora, rabbi Vital fu in grado di comprendere ogni insegnamento e di trascriverne le parole.
Il pozzo è saggezza, perché l’acqua è legata alla verità: maim si scrive in ebraico con la lettera mem (מ), che è la lettera al centro dell’alfabeto ebraico, mentre verità si dice emet, che si scrive אמת, dove la prima lettera da destra [4] è l’alef, prima lettera dell’alfabeto, la terza è la tav, ultima lettera dell’alfabeto, e al centro c’è la mem. L’alef rappresenta l’Uno, il Divino, lo spirituale, mentre la tav è il terreno, l’esistente, la materia; la mem è al centro, come il perno della bilancia. Se togliamo da questa parola il terreno, cioè la tav, otteniamo אמ, che si legge em e significa madre, ma anche origine e utero, cioè il Soffio Divino che ha partorito l’uomo; e se togliamo il collegamento col Divino, cioè l’alef, resta מת, met, che è morte. Non c’è vita senza verità e non c’è vita senz’acqua.
È significativo che la Torah sia detta “Insegnamento di Verità”, ma anche “Sorgente di vita” e “Acqua di vita”.
Note
1. Rabbi Isaac Luria (1534 – 1572), conosciuto anche come il santo Ari, il santo leone, è considerato tra i maggiori e più celebri pensatori del misticismo ebraico. Esponente della scuola kabbalistica di Safed, fu l’iniziatore della Kabbalah Lurianica, la cui influenza è ancora preponderante nelle correnti del mondo ebraico, senza eccezioni.
2. L'ebraico scritto non ha vocali, queste sono inserite mentalmente da chi legge, a seconda del contesto. Per cui, “parole con stesse lettere” significa parole con uguali consonanti. Inoltre, a differenza che in italiano, parole con uguali consonanti hanno significati legati tra loro.
3. Rabbi Chaim ben Yosef Vital (1543 - 1620) fu uno dei maggiori esponenti della scuola kabbalistica di Safé. Allievo prediletto del Santo Ari, gli successe alla sua morte e cominciò a scrivere tutto quello che aveva imparato dal suo maestro.
4. L’ebraico si legge da destra a sinistra.
Continua sul n.3 de L'Eterno Ulisse
http://www.eternoulisse.it/percorsi_guarigione/donna_sette_fonti_riflessioni_kabbalistiche_prima_parte.html
Dal romanzo: "La Donna delle Sette Fonti"
di Antonio Diego Manca
Élighes Uttiòsos (Lecci gocciolanti),
Qualche chilometro dopo Santulussurgiu, Tìu Brotu disse di svoltare a destra in una stradina che si inerpicava su per la montagna. A dire la verità non era neanche una stradina: era poco più di una mulattiera e, con la piccola vettura, ebbero non poche difficoltà ad arrivare fino in cima a un cucuzzolo; da qui proseguirono a piedi. Lucia aveva la busta di plastica con dentro la piantina e una paletta e insieme a Maria si era incamminata dietro a Tiu Brotu che, nonostante l'età - diceva di avere 83 anni -, si era avviato con passo rapido e deciso lungo uno stretto sentiero. Maria dopo pochi minuti si sentiva già molto stanca. In lontananza si vedeva il mare e l'azzurro delle sue acque dava un senso di serenità che ripagava di tutte le fatiche fatte per arrivare fin li. Dopo una decina di minuti di marcia, Tìu Brotu si fermò e rivolto a Maria le indicò col bastone la costa in lontananza."Vedi quel paese laggiù, vicino al mare?" "Si." "Quella è Santa Caterina di Pitinnuri e il paese vicino è S'Archittu. In mezzo c'è una collinetta, la vedì?""SÌ, si.""Tia Nanna mi ha incaricato di dirti che in quella collinetta c'era la città di Cornus e li i Sardi Pelliti hanno combattuto contro i Romani."Senza aggiungere altro il vecchio riprese a camminare. Le due donne rimasero ancora un momento a osservare il magnifico panorama e poi gli andarono dietro. Maria e Lucia non videro subito la sorgente. Alcune piante di leccio ai lati del sentiero avevano formato una specie di grotta verde, dalla cui volta pendevano brandelli di muschio. Seminascosta dalla vegetazione, l'acqua sgorgava silenziosamente dalla parete di tufo. Maria ebbe l'impressione che la natura trasudasse il liquido prezioso, che gocciolava a terra formando una piccola pozza, da dove defluiva, attraversando il sentiero, per dare vita a un ruscelletto che iniziava cosi il suo cammino verso il mare. Tìu Brotu fece notare che il bosco intorno a loro era composto soprattutto da lecci: la sorgente si chiamava infatti Élighes Uttiòsos, che in sardo significa Lecci Gocciolanti. Il vecchio pastore le invitò a dissetarsi bevendo lui stesso con le mani a coppa. Si era tolto il cappello e beveva a piccoli sorsi, gustando la bontà e la freschezza dell'acqua. Erano quasi le undici del mattino e faceva già molto caldo. Tìu Brotu si allontanò, dicendo che le avrebbe attese vicino alla macchina. Lucia consigliò alla sua giovane amica di cercare un posto adatto per trapiantare la piantina di leccio. Maria aveva notato una piccola radura attraversata dal ruscelletto proveniente dalla fonte e scavò una buca vicino al bordo, in modo che le radici potessero avere accesso all'acqua facilmente. Tolse la piantina dal vaso, la mise nella buca e copri le radici con la terra. Con le mani spruzzò un po' d'acqua intorno alla piantina e poi chiese a Lucia che cos'altro doveva fare."Sta' un po' con lei," le consigliò la donna, "poi cercati un posto all'ombra e pensa a ciò che ti ha detto di fare Tia Nanna." Quindi si allontanò e andò a sdraiarsi all'ombra di una quercia. Maria si guardò intorno e decise di sedersi accanto la fonte, da dove poteva vedere anche il mare. Chiuse gli occhi e incominciò a visualizzare la sua personale battaglia contro la malattia. Quando li riapri, il sole era alto. Aveva le palme delle mani cosi calde che la sensazione era quasi spiacevole, ma accanto alla fonte l'aria era fresca. Si avvicinò alla sorgente, appoggiò le mani sul muschio bagnato e la fonte le trasmise, insieme a una deliziosa sensazione di freschezza, una gioia inspiegabile, una voglia di cantare, ridere, correre, che non provava ormai da tanto tempo. Le fu grata di quel dono, perché questo fu il suo pensiero: che la fonte le avesse regalato qualcosa, forse il suo amore.
http://lnx.montaltomarche.it/montalto2/Arknews/Recensioni/diego_manca.php"La Donna delle Sette Fonti"
Intervista all'autore Antonio Diego Manca
di Sandro Pintus
Come è nata la storia del romanzo?
Una delle idee è venuta da una parte di me che considero una mia parte femminile e che ho chiamato Antonietta. E' una donna sarda, bruna, piccola di statura, timida e insicura che somiglia un po' a quelle donne sarde che andavano a lavorare come domestiche in continente. Antonietta si sente vittimista e perdente ma io so anche che è molto forte. Infatti uno dei miei sogni era trasformare Antonietta in una donna sicura di sé, competente e consapevole della propria bellezza. Ne ho fatto uno dei personaggi del libro anche perché volevo scrivere qualcosa di divertente su una donna come lei.
Attraverso il personaggio di Antonietta cosa ha voluto dire?
Attraverso Antonietta ho voluto mandare un messaggio soprattutto alle ragazze e ragazzi tra i 13 e 18 anni e stavo pensando anche alle mie due figlie. E' un messaggio sul coraggio. Le donne del romanzo, soprattutto Tia Nanna, spingono Antonietta a lottare contro la sua malattia e contro la rassegnazione ma soprattutto lottare per realizzare il proprio sogno.
Il suo romanzo è ambientato in Sardegna.......
L'ho voluto ambientare nella terra dove sono nato, uno dei luoghi che credo di conoscere meglio anche se poteva essere ambientato in qualsiasi altra parte perché è un romanzo sull'Acqua. Da quando, nel 1964, ho lasciato il mio paese Santulussurgiu per emigrare, lo ricordo come il paese dell'Acqua. Tutta l'area è infatti famosa per l'abbondanza delle sue Acque. Quando tornavo per le vacanze la prima cosa che facevo era bere l'acqua delle fonti, un gesto che mi riportava a casa. Negli anni Sessanta ci fu un grande incendio che distrusse gran parte dei boschi di querce e lecci. L'anno seguente l'incendio, quando tornai in paese, andando a visitare le fonti per berne l'Acqua vidi che ne rimaneva un sottile filo a causa del terribile incendio. Tutto il paese si rese conto che l'acqua era quasi esaurita e che tesoro aveva perso. I pastori, per la prima volta nella storia del posto, si dovettero portare l'acqua per abbeverare il bestiame.
Il romanzo è dedicato a tutte le Acque della Terra ma anche a un gattino selvatico, perché?
L'ho voluto dedicare a tutte le Acque. La storia contiene informazioni sull'Acqua, sulla sua sacralità e la sua bellezza. Gli antichi popoli della Sardegna conoscevano la sua preziosità al punto che l'adoravano attraverso deità e templi come i pozzi sacri.
Mentre raccoglievo il materiale per scrivere il romanzo ebbi un sogno molto forte: ero a San Leonardo di Siete Fuentes, in un boschetto di querce. Vidi un gattino selvatico grigio tigrato e lo presi anche se cercava di scappare. Volevo portarlo a casa ma dopo essermi allontanato mi chiesi cosa stavo facendo. Stavo portando a casa un gattino selvatico per addomesticarlo? Decisi che doveva rimanere selvatico e lo lasciai andare nel bosco. Questo sogno fu molto importante e mi diede una grande carica perché vidi la parte selvatica in me che non deve essere addomesticata. Qualche giorno dopo iniziai a scrivere il romanzo.
Il romanzo è introdotto dallo scrittore indiano americano Hyemeyohosts Wolf Storm, autore del libro "Sette Frecce"...
Wolf Storm è un amico che conosco da oltre 20 anni. Lui mi ha spinto a scrivere e mi ha fatto dono, come introduzione al libro, di una "Preghiera alle Sacre Acque". Penso che non ci possa essere migliore introduzione di questa per un romanzo dedicato all'Acqua. Attraverso Wolf Storm ho imparato scoprire la mia terra e ad amarla. E stato un processo durato anni e io mi sono innamorato della Terra come di una bella donna. Tramite Wolf Storm ho scoperto la Terra come un essere vivente e ho imparato ad amarla.
Ogni capitolo è introdotto da una poesia, perché questa scelta?
Ho scelto una poesia perché, nel "terreno" che compone il romanzo, è come un solco lasciato da un aratro nel quale può crescere qualcosa che è stato seminato. In questo modo, leggendo una poesia di Garcia Lorca o un Haiku, il lettore viene guidato al capitolo che segue.
Cosa vorrebbe dai lettori del suo romanzo?
Mi piacerebbe che leggendo il romanzo "scoprissero" lo Spirito dell'Acqua. I nostri antenati conoscevano questo Spirito e andavano alle fonti per curarsi ed ispirarsi. Se alcuni dei lettori dopo aver letto il libro riuscissero trovare questo Spirito per me sarebbe un dono immenso. Sarebbe questo il successo del mio romanzo. http://www.catpress.com/dedpla/acque/intervsw.htm