Mutato nomine de te Fabula narratur.
Sotto nome diverso la favola di te parla.
Orazio, Satire, I, I, 69-70.
La locuzione latina Ut pictura poësis, formulata dal poeta Quinto Orazio Flacco, tradotta letteralmente significa "Come nella pittura così nella poesia" (Orazio, A. Pisone, 361).
Come dire quindi "la poesia è come un quadro" o "un quadro è come una poesia".
Il Poeta spiega che esiste un tipo di poesia che piace maggiormente se vista da vicino, ed un'altra che piace solamente se guardata da lontano, o riosservata una seconda volta, o analizzata con un occhio critico, come avviene per la pittura. Fin dagli antichi il legame fra la poesia e la pittura è sempre stato dibattuto. Orazio con la sua "Ars Poetica" ("L'Epistola ai Pisoni", uno dei testi di riferimento fondamentali per tutto il discorso filosofico e storico sull'Estetica, fino ai giorni nostri) vuole mettere in risalto come in poesia e in arte esistano opere immediatamente comprensibili, lampanti, ed altre meno.
Chi parla male alle spalle dell'amico assente, chi non lo difende quando altri lo incolpa, chi si diverte con le feroci denigrazioni per accaparrarsi la fama di uomo di spirito, chi giunge ad inventarsi ciò che non ha mai visto, chi non sa tenere un segreto: costui è di animo nero e spregevole; da questi, o cittadino Romano, dovrai sempre guardarti e diffidare.
Absentem qui rodit amicum, qui non defendit alio culpante, solutos qui captat risus hominum famamque dicacis, fingere qui non visa potest, commissa tacere qui nequit: hic niger est, hunc tu, romane, caveto.
Quinto Orazio Flacco
Irreparabile temporis exitum caliginosa nocte premit deus
Un dio vela con caliginosa notte l'irreparabile scorrere del tempo.
Orazio
Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.
Orazio
Il ridicolo risolve le grandi questioni meglio e più vigorosamente della serietà.
Satire, Libro I - X Satira - Orazio
4.9 Libro I, satira 9 : Satira dello Scocciatore
La Satira più famosa di Orazio, comunemente conosciuta come "La satira del seccatore", è una vivace scenetta che vede lo stesso Orazio passeggiare tranquillo per le vie di Roma, imbattendosi tutta un tratto in un suo conoscente, noto arrampicatore sociale, che gli si attacca come una zecca e lo sommerge di chiacchiere, chiedendogli di essere introdotto nel circolo di Mecenate.
I due incominciano a battibeccare dando vita ad una comicità che non ha nulla da invidiare alla satira moderna. Il povero Orazio viene infine salvato provvidenzialmente da un tizio che trascina il seccatore in tribunale. All'interno della Satira, attraverso l'immagine "in negativo'' del circolo di Mecenate proposta dal seccatore. Orazio intende in realtà celebrarlo ed onorare chi ne fa parte. Dalle sue asserzioni esce un ritratto idealizzato del circolo, all'interno del quale vige l'armonia, ognuno ricopre il suo ruolo e non c'è spazio per invidie, gelosia e sopraffazione reciproca: un vero esempio dell'integrità d'animo degli antichi romani. Il seccatore stenta a credere alle parole del poeta, poiché secondo la sua idea tra le persone raccolte attorno a Mecenate, un protettore cosi potente e famoso, non possono che esserci subdoli inganni per l'affermazione di uno a scapito dell'altro. Orazio invece va molto fiero del circolo di cui fa parte e dei valori sublimi che esso rappresenta, come l'amicizia vera, la purezza d'animo e la fatica, necessaria per raggiungere qualsiasi obiettivo, ed esce pienamente vincitore dal confronto verbale col seccatore, una persona vile ed ipocrita.
http://www.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fit-it.abctribe.com%2FWiki%2Fversioni_latino%2Flibro_i_satira_satira_dello%2F_gui_290_35&h=vAQG4SuWp
Passeggiavo, per caso, lungo la via Sacra: vecchia abitudine.
E intanto meditavo qualche mia sciocchezza, tutto concentrato.
Mi abborda d’improvviso un tizio di cui conosco solo il nome.
Afferra la mia mano: «come va, carissimo?»
«fin qui, stupendamente» gli rispondo, «e t’auguro ogni bene».
Non molla. Mi tallona. «Insomma, cosa vuoi?» gli butto là. E lui:
«dovresti pur conoscerci» dichiara «siamo intellettuali». «avrò
per te» gli dico «stima ancor maggiore». Tentando disperato di
tagliare l’ora acceleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. «beato te, Bolano, spirito bollente!»
rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro, garrulo, ciarlava, proclamava
il suo entusiasmo per le strade, la città.
Io non replicavo. «ma tu» sogghigna «tu non vedi l’ora di
piantarmi in asso. Da un bel pezzo l’ho notato. Niente da fare: ti terrò
ben stretto, restandoti alle costole. Dove sei diretto, adesso?» «giri
inutili per te: vado a trovare una persona che certo non conosci. È
a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare»
«non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro, ti accompagno».
Mi si abbassano le orecchie, come a un somarello rassegnato suo
malgrado quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello
ricomincia: «mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno
quanto quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia
scrivere più versi, e più velocemente; chi danzi con maggiore grazia.
Se udisse il mio canto, Ermogene m’invidierebbe».
Era giunto il momento d’interromperlo: «hai ancora la madre,
dei parenti cui stai a cuore il tuo stato di salute?» «più
nessuno, tutti li ho sepolti» «beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
Dammi il colpo di grazia: un tragico destino incombe su di me. Una
vecchia sabina, svuotando l’urna per i vaticini (ero fanciullo), lo predisse:
"questo ragazzo non l’ammazzeranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tisi o podagra che rallenta il passo;
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone. Uscito dunque
dalla pubertà, abbia il buonsenso di stare alla larga dai loquaci"».
Eravamo giunti al tempio di Vesta. Scoccava in quel momento l’ora quinta,
e «guarda caso» gli toccava presentarsi in tribunale,
in seguito a cauzione; se non fosse comparso, il processo era perduto.
«fammi un piacere» salta su «assistimi un istante». «fossi matto:
non mi reggo in piedi, di diritto civile non m’intendo,
e poi ho fretta d’andare dove sai». «e io che faccio?» dice
«rinuncio a te, o alla mia causa?» «a me, ti prego»
«nient’affatto» replica, e va avanti. È duro contrastare un vincitore:
finisco col venire dietro. «come va, con Mecenate?»
torna alla carica. «è un uomo assennato, coltiva pochi amici».
«nessuno ha saputo sfruttare più abilmente la fortuna. Avresti
un ottimo assistente, bravo a spalleggiarti, se soltanto acconsentissi
a presentarmi a lui. Garantito che allora li sbaraglieresti
tutti». «no, non è come tu pensi che viviamo in quel circolo:
non c’è ambiente più limpido, più immune
da simili bassezze. Non mi da nessun fastidio, t’assicuro,
che un tale sia più ricco, un altro più dotato di cultura: ognuno
ha il posto che gli spetta». «fantastico, incredibile!» «è
la pura verità!» «ma tu mi fai bruciare ancora di più
dalla gran voglia d’accostare il personaggio!» «se ci tieni tanto,
con le tue capacità lo espugnerai; è tutt’altro che invincibile:
proprio per questo, anzi, non concede facilmente un primo approccio» «non
mi smentirò: corromperò i suoi servi a colpi di tangenti. Se per oggi
resterò tagliato ancora fuori, non desisterò; aspetterò il momento
buono, cercando d’incontrarlo nei crocicchi, poi d’accompagnarlo. Non c’è
nulla in questa vita, che si ottenga senza sforzo». Mentre si esibisce,
ecco spunta Aristio Fusco, caro amico, lo conosce benissimo, lui, quel
seccatore. Ci fermiamo per la strada «donde vieni?
Dove vai?» ci si chiede a vicenda, e si risponde. Accenno a tirarlo
per la veste, cerco di tastare con la mano le sue braccia insensibili. Gli faccio
dei segnali, strizzatine d’occhi: che mi tiri lui fuori dai guai! E invece,
dispettoso, ride, fa lo gnorri. Il fegato mi brucia dalla bile.
«mi pare che tu avessi l’intenzione di parlarmi in confidenza di qualcosa,
almeno, lo dicevi» «certo, mi ricordo. Te ne parlerò,
sì, ma in un momento più opportuno. Oggi è novilunio,
sabato: vuoi forse spernacchiare i giudei circoncisi?» «Non ho»
rispondo «scrupoli religiosi». «ma ce li ho io; soffro, come tanti, di qualche
debolezza in più. Abbi un poco d’indulgenza: un’altra volta ti dirò». Che
sole tenebroso era mai sorto su di me! Se la squaglia, il briccone, e mi lascia
col pugnale sospeso sulla testa. Colpo di scena: viene incontro al seccatore
il suo avversario, e ad alta voce: «infame, dove scappi?» lo apostrofa;
e a me: «testimonieresti a mio favore?» non ho difficoltà a
porgergli l’orecchio. Vanno dritti in tribunale. Gridano ambedue.
Grande accorrere di gente. E fu così che Apollo decise di salvarmi.
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis:
accurrit quidam notus mihi nomine tantum
arreptaque manu, «Quid agis, dulcissime rerum?».
«Suaviter, ut nunc est», inquam «et cupio omnia quae vis».
Cum adsectaretur, «Numquid vis?» occupo. At ille
«Noris nos» inquit; «docti sumus». Hic ego «Pluris
hoc» inquam «mihi eris». Miserere discedere quaerens,
ire modo oscius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. «O te, Bolane, cerebri
felicem» aiebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi
nil respondebam, «Misere cupis» inquit «abire:
iamdudum video; sed nihil agis: usque tenebo;
persequar. Hinc quo nunc iter est tibi?». «Nil opus est te
circumagi: quendam volo visere non tibi notum;
trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos».
«Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te».
Demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille:
«Si bene me novi, non Viscum pluris amicum,
non Varium facies; nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? Quis membra movere
mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto».
Interpellandi locus hic erat: «Est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?». «Haud mihi quisquam.
Omnis composui». «Felices! Nunc ego resto.
Confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
"Hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis
nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas"».
Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
praeterita, et casu tum respondere vadato
debebat, quod ni fecisset, perdere litem.
«Si me amas», inquit «paulum hic ades». «Inteream si
aut valeo stare aut novi civilia iura;
et propero quo scis». «Dubius sum quid faciam», inquit,
«tene relinquam an rem». «Me, sodes». «Non faciam» ille,
et praecedere coepit; ego, ut contendere durum
cum victore, sequor. «Maecenas quomodo tecum?»
hinc repetit. «Paucorum hominum et mentis bene sanae».
«Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
hunc hominem velles si tradere: dispeream, ni
summosses omnes». «Non isto vivimus illic,
quo tu rere, modo; domus hac nec purior ulla est
nec magis his aliena malis; nil mi officit, inquam,
ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
cuique suus». «Magnum narras, vix credibile». «Atqui
sic habet». «accendis quare cupiam magis illi
proximus esse». «Velis tantummodo: quae tua virtus,
expugnabis: et est qui vinci possit eoque
difficiles aditus primos habet». «Haud mihi dero:
muneribus servos corrumpam; non, hodie si
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram,
occurram in triviis, deducam. Nil sine magno
vita labore dedit mortalibus». Haec dum agit, ecce
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
qui pulchre nosset. Consistimus. «Unde venis et
quo tendis?» rogat et respondet. Vellere coepi
et prensare manu lentissima bracchia, nutans,
distorquens oculos, ut me eriperet. Male salsus
ridens dissimulare; meum iecur urere bilis.
«Certe nescio quid secreto velle loqui te
aiebas mecum». «Memini bene, sed meliore
tempore dicam; hodie tricensima, sabbata: vin tu
curtis Iudaeis oppedere?». «Nulla mihi» inquam
«religio est». «At mi: sum paulo infirmior, unus
multorum. Ignoscens; alias loquar». Huncine solem
tam nigrum surrexe mihi! Fugit improbus ac me
sub cultro linquit. Casu venit obvius illi
adversarius et «Quo tu, turpissime?» magna
inclamat voce, et «Licet antestari?». Ego vero
oppono auriculam. Rapit in ius; clamor utrimque.
Undique concursus. Sic me servavit Apollo.
http://defaste.altervista.org/orazio/sermones/I9.htm
Sotto nome diverso la favola di te parla.
Orazio, Satire, I, I, 69-70.
Come dire quindi "la poesia è come un quadro" o "un quadro è come una poesia".
Il Poeta spiega che esiste un tipo di poesia che piace maggiormente se vista da vicino, ed un'altra che piace solamente se guardata da lontano, o riosservata una seconda volta, o analizzata con un occhio critico, come avviene per la pittura. Fin dagli antichi il legame fra la poesia e la pittura è sempre stato dibattuto. Orazio con la sua "Ars Poetica" ("L'Epistola ai Pisoni", uno dei testi di riferimento fondamentali per tutto il discorso filosofico e storico sull'Estetica, fino ai giorni nostri) vuole mettere in risalto come in poesia e in arte esistano opere immediatamente comprensibili, lampanti, ed altre meno.
Chi parla male alle spalle dell'amico assente, chi non lo difende quando altri lo incolpa, chi si diverte con le feroci denigrazioni per accaparrarsi la fama di uomo di spirito, chi giunge ad inventarsi ciò che non ha mai visto, chi non sa tenere un segreto: costui è di animo nero e spregevole; da questi, o cittadino Romano, dovrai sempre guardarti e diffidare.
Absentem qui rodit amicum, qui non defendit alio culpante, solutos qui captat risus hominum famamque dicacis, fingere qui non visa potest, commissa tacere qui nequit: hic niger est, hunc tu, romane, caveto.
Quinto Orazio Flacco
Un dio vela con caliginosa notte l'irreparabile scorrere del tempo.
Orazio
Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.
Orazio
Il ridicolo risolve le grandi questioni meglio e più vigorosamente della serietà.
Satire, Libro I - X Satira - Orazio
4.9 Libro I, satira 9 : Satira dello Scocciatore
La Satira più famosa di Orazio, comunemente conosciuta come "La satira del seccatore", è una vivace scenetta che vede lo stesso Orazio passeggiare tranquillo per le vie di Roma, imbattendosi tutta un tratto in un suo conoscente, noto arrampicatore sociale, che gli si attacca come una zecca e lo sommerge di chiacchiere, chiedendogli di essere introdotto nel circolo di Mecenate.
I due incominciano a battibeccare dando vita ad una comicità che non ha nulla da invidiare alla satira moderna. Il povero Orazio viene infine salvato provvidenzialmente da un tizio che trascina il seccatore in tribunale. All'interno della Satira, attraverso l'immagine "in negativo'' del circolo di Mecenate proposta dal seccatore. Orazio intende in realtà celebrarlo ed onorare chi ne fa parte. Dalle sue asserzioni esce un ritratto idealizzato del circolo, all'interno del quale vige l'armonia, ognuno ricopre il suo ruolo e non c'è spazio per invidie, gelosia e sopraffazione reciproca: un vero esempio dell'integrità d'animo degli antichi romani. Il seccatore stenta a credere alle parole del poeta, poiché secondo la sua idea tra le persone raccolte attorno a Mecenate, un protettore cosi potente e famoso, non possono che esserci subdoli inganni per l'affermazione di uno a scapito dell'altro. Orazio invece va molto fiero del circolo di cui fa parte e dei valori sublimi che esso rappresenta, come l'amicizia vera, la purezza d'animo e la fatica, necessaria per raggiungere qualsiasi obiettivo, ed esce pienamente vincitore dal confronto verbale col seccatore, una persona vile ed ipocrita.
http://www.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fit-it.abctribe.com%2FWiki%2Fversioni_latino%2Flibro_i_satira_satira_dello%2F_gui_290_35&h=vAQG4SuWp
Passeggiavo, per caso, lungo la via Sacra: vecchia abitudine.
E intanto meditavo qualche mia sciocchezza, tutto concentrato.
Mi abborda d’improvviso un tizio di cui conosco solo il nome.
Afferra la mia mano: «come va, carissimo?»
«fin qui, stupendamente» gli rispondo, «e t’auguro ogni bene».
Non molla. Mi tallona. «Insomma, cosa vuoi?» gli butto là. E lui:
«dovresti pur conoscerci» dichiara «siamo intellettuali». «avrò
per te» gli dico «stima ancor maggiore». Tentando disperato di
tagliare l’ora acceleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. «beato te, Bolano, spirito bollente!»
rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro, garrulo, ciarlava, proclamava
il suo entusiasmo per le strade, la città.
Io non replicavo. «ma tu» sogghigna «tu non vedi l’ora di
piantarmi in asso. Da un bel pezzo l’ho notato. Niente da fare: ti terrò
ben stretto, restandoti alle costole. Dove sei diretto, adesso?» «giri
inutili per te: vado a trovare una persona che certo non conosci. È
a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare»
«non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro, ti accompagno».
Mi si abbassano le orecchie, come a un somarello rassegnato suo
malgrado quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello
ricomincia: «mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno
quanto quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia
scrivere più versi, e più velocemente; chi danzi con maggiore grazia.
Se udisse il mio canto, Ermogene m’invidierebbe».
Era giunto il momento d’interromperlo: «hai ancora la madre,
dei parenti cui stai a cuore il tuo stato di salute?» «più
nessuno, tutti li ho sepolti» «beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
Dammi il colpo di grazia: un tragico destino incombe su di me. Una
vecchia sabina, svuotando l’urna per i vaticini (ero fanciullo), lo predisse:
"questo ragazzo non l’ammazzeranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tisi o podagra che rallenta il passo;
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone. Uscito dunque
dalla pubertà, abbia il buonsenso di stare alla larga dai loquaci"».
Eravamo giunti al tempio di Vesta. Scoccava in quel momento l’ora quinta,
e «guarda caso» gli toccava presentarsi in tribunale,
in seguito a cauzione; se non fosse comparso, il processo era perduto.
«fammi un piacere» salta su «assistimi un istante». «fossi matto:
non mi reggo in piedi, di diritto civile non m’intendo,
e poi ho fretta d’andare dove sai». «e io che faccio?» dice
«rinuncio a te, o alla mia causa?» «a me, ti prego»
«nient’affatto» replica, e va avanti. È duro contrastare un vincitore:
finisco col venire dietro. «come va, con Mecenate?»
torna alla carica. «è un uomo assennato, coltiva pochi amici».
«nessuno ha saputo sfruttare più abilmente la fortuna. Avresti
un ottimo assistente, bravo a spalleggiarti, se soltanto acconsentissi
a presentarmi a lui. Garantito che allora li sbaraglieresti
tutti». «no, non è come tu pensi che viviamo in quel circolo:
non c’è ambiente più limpido, più immune
da simili bassezze. Non mi da nessun fastidio, t’assicuro,
che un tale sia più ricco, un altro più dotato di cultura: ognuno
ha il posto che gli spetta». «fantastico, incredibile!» «è
la pura verità!» «ma tu mi fai bruciare ancora di più
dalla gran voglia d’accostare il personaggio!» «se ci tieni tanto,
con le tue capacità lo espugnerai; è tutt’altro che invincibile:
proprio per questo, anzi, non concede facilmente un primo approccio» «non
mi smentirò: corromperò i suoi servi a colpi di tangenti. Se per oggi
resterò tagliato ancora fuori, non desisterò; aspetterò il momento
buono, cercando d’incontrarlo nei crocicchi, poi d’accompagnarlo. Non c’è
nulla in questa vita, che si ottenga senza sforzo». Mentre si esibisce,
ecco spunta Aristio Fusco, caro amico, lo conosce benissimo, lui, quel
seccatore. Ci fermiamo per la strada «donde vieni?
Dove vai?» ci si chiede a vicenda, e si risponde. Accenno a tirarlo
per la veste, cerco di tastare con la mano le sue braccia insensibili. Gli faccio
dei segnali, strizzatine d’occhi: che mi tiri lui fuori dai guai! E invece,
dispettoso, ride, fa lo gnorri. Il fegato mi brucia dalla bile.
«mi pare che tu avessi l’intenzione di parlarmi in confidenza di qualcosa,
almeno, lo dicevi» «certo, mi ricordo. Te ne parlerò,
sì, ma in un momento più opportuno. Oggi è novilunio,
sabato: vuoi forse spernacchiare i giudei circoncisi?» «Non ho»
rispondo «scrupoli religiosi». «ma ce li ho io; soffro, come tanti, di qualche
debolezza in più. Abbi un poco d’indulgenza: un’altra volta ti dirò». Che
sole tenebroso era mai sorto su di me! Se la squaglia, il briccone, e mi lascia
col pugnale sospeso sulla testa. Colpo di scena: viene incontro al seccatore
il suo avversario, e ad alta voce: «infame, dove scappi?» lo apostrofa;
e a me: «testimonieresti a mio favore?» non ho difficoltà a
porgergli l’orecchio. Vanno dritti in tribunale. Gridano ambedue.
Grande accorrere di gente. E fu così che Apollo decise di salvarmi.
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis:
accurrit quidam notus mihi nomine tantum
arreptaque manu, «Quid agis, dulcissime rerum?».
«Suaviter, ut nunc est», inquam «et cupio omnia quae vis».
Cum adsectaretur, «Numquid vis?» occupo. At ille
«Noris nos» inquit; «docti sumus». Hic ego «Pluris
hoc» inquam «mihi eris». Miserere discedere quaerens,
ire modo oscius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. «O te, Bolane, cerebri
felicem» aiebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi
nil respondebam, «Misere cupis» inquit «abire:
iamdudum video; sed nihil agis: usque tenebo;
persequar. Hinc quo nunc iter est tibi?». «Nil opus est te
circumagi: quendam volo visere non tibi notum;
trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos».
«Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te».
Demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille:
«Si bene me novi, non Viscum pluris amicum,
non Varium facies; nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? Quis membra movere
mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto».
Interpellandi locus hic erat: «Est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?». «Haud mihi quisquam.
Omnis composui». «Felices! Nunc ego resto.
Confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
"Hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis
nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas"».
Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
praeterita, et casu tum respondere vadato
debebat, quod ni fecisset, perdere litem.
«Si me amas», inquit «paulum hic ades». «Inteream si
aut valeo stare aut novi civilia iura;
et propero quo scis». «Dubius sum quid faciam», inquit,
«tene relinquam an rem». «Me, sodes». «Non faciam» ille,
et praecedere coepit; ego, ut contendere durum
cum victore, sequor. «Maecenas quomodo tecum?»
hinc repetit. «Paucorum hominum et mentis bene sanae».
«Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
hunc hominem velles si tradere: dispeream, ni
summosses omnes». «Non isto vivimus illic,
quo tu rere, modo; domus hac nec purior ulla est
nec magis his aliena malis; nil mi officit, inquam,
ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
cuique suus». «Magnum narras, vix credibile». «Atqui
sic habet». «accendis quare cupiam magis illi
proximus esse». «Velis tantummodo: quae tua virtus,
expugnabis: et est qui vinci possit eoque
difficiles aditus primos habet». «Haud mihi dero:
muneribus servos corrumpam; non, hodie si
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram,
occurram in triviis, deducam. Nil sine magno
vita labore dedit mortalibus». Haec dum agit, ecce
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
qui pulchre nosset. Consistimus. «Unde venis et
quo tendis?» rogat et respondet. Vellere coepi
et prensare manu lentissima bracchia, nutans,
distorquens oculos, ut me eriperet. Male salsus
ridens dissimulare; meum iecur urere bilis.
«Certe nescio quid secreto velle loqui te
aiebas mecum». «Memini bene, sed meliore
tempore dicam; hodie tricensima, sabbata: vin tu
curtis Iudaeis oppedere?». «Nulla mihi» inquam
«religio est». «At mi: sum paulo infirmior, unus
multorum. Ignoscens; alias loquar». Huncine solem
tam nigrum surrexe mihi! Fugit improbus ac me
sub cultro linquit. Casu venit obvius illi
adversarius et «Quo tu, turpissime?» magna
inclamat voce, et «Licet antestari?». Ego vero
oppono auriculam. Rapit in ius; clamor utrimque.
Undique concursus. Sic me servavit Apollo.
http://defaste.altervista.org/orazio/sermones/I9.htm
Davo, lo schiavo di Orazio, gli fa una predica:
La verità è che tu, che comandi a me, ubbidisci umilmente ad un altro, e ti fai guidare come una marionetta dai fili tirati da altri. Chi, dunque, è libero? Il sapiente, che è padrone di se stesso, che non ha paura né della povertà, né della morte, né delle catene, che sa resistere alle passioni, che ha la forza di disprezzare gli onori. Orazio Satira II, VI ((Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.)
nempe 80
tu, mihi qui imperitas, aliis servis miser atque duceris ut nervis alienis mobile lignum.
quisnam igitur liber? sapiens sibi qui imperiosus, quem neque pauperies neque mors neque vincula terrent,
responsare cupidinibus, contemnere honores 85 fortis, ....?
Questa è filosofia stoica e riguarda il vivere quotidiano, cioè ciò che costituisce la fatica più grande.
Orazio è scherzoso -tanto è vero che ambienta il dialogo durante i Saturnali, circa il nostro Carnevale- e rovescia la realtà: non è il solito maestro filosofo ad insegnare, ma uno schiavo... questa è stata la strada per l'abolizione della schiavitù. Seneca poi, 50 anni dopo, dirà che gli schiavi sono uomini colpiti dal destino, uomini come noi...
Le mie citazioni hanno valore 'storico': voglio far vedere il percorso fatto dall'uomo, prima timidamente poi via via più sicuro, verso una società accettabile.
E poi servono anche per far vedere che non esiste il 'buon tempo antico', ma un faticoso cammino: e la fatica dell'uomo riscatta tutte le brutture commesse
Est modus in rebus.
La verità è che tu, che comandi a me, ubbidisci umilmente ad un altro, e ti fai guidare come una marionetta dai fili tirati da altri. Chi, dunque, è libero? Il sapiente, che è padrone di se stesso, che non ha paura né della povertà, né della morte, né delle catene, che sa resistere alle passioni, che ha la forza di disprezzare gli onori. Orazio Satira II, VI ((Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.)
nempe 80
tu, mihi qui imperitas, aliis servis miser atque duceris ut nervis alienis mobile lignum.
quisnam igitur liber? sapiens sibi qui imperiosus, quem neque pauperies neque mors neque vincula terrent,
responsare cupidinibus, contemnere honores 85 fortis, ....?
Questa è filosofia stoica e riguarda il vivere quotidiano, cioè ciò che costituisce la fatica più grande.
Orazio è scherzoso -tanto è vero che ambienta il dialogo durante i Saturnali, circa il nostro Carnevale- e rovescia la realtà: non è il solito maestro filosofo ad insegnare, ma uno schiavo... questa è stata la strada per l'abolizione della schiavitù. Seneca poi, 50 anni dopo, dirà che gli schiavi sono uomini colpiti dal destino, uomini come noi...
Le mie citazioni hanno valore 'storico': voglio far vedere il percorso fatto dall'uomo, prima timidamente poi via via più sicuro, verso una società accettabile.
E poi servono anche per far vedere che non esiste il 'buon tempo antico', ma un faticoso cammino: e la fatica dell'uomo riscatta tutte le brutture commesse
Est modus in rebus.
Nota sentenza di Orazio, cui fa seguito (Satire I, 1, vv. 106-107) sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura.
http://www.treccani.it/vocabolario/est-modus-in-rebus/
"Est modus in rebus.
Orazio con questo motto (Satire (I, 1, 106), voleva far capire che c’è una misura nelle cose.
Ci sono delle regole scritte e non che bisognerebbe rispettare per non cadere negli eccessi.
Tutto questo è valido per il privato e a maggior ragione per il pubblico ( res pubblica):
http://grottablog.wordpress.com/2009/08/20/est-modus-in-rebus/
Est modus in rebus.
Nota sentenza di Orazio, cui fa seguito (Satire I, 1, vv. 106-107) sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura.
http://www.treccani.it/vocabolario/est-modus-in-rebus/
"Est modus in rebus.
Orazio con questo motto (Satire (I, 1, 106), voleva far capire che c’è una misura nelle cose.
Ci sono delle regole scritte e non che bisognerebbe rispettare per non cadere negli eccessi.
Tutto questo è valido per il privato e a maggior ragione per il pubblico ( res pubblica):
la “cosa” pubblica non è arrivata per eredità agli amministratori , è stata affidata agli stessi dagli elettori.
Badate non si tratta di un sofisma ma qualcosa di molto più serio : il gestore non è il padrone.
Non si può gestire la cosa pubblica come un proprio patrimonio ; il comune non può e non deve diventare la riserva di caccia privata per nessuno.
Non siamo nati ieri e speriamo, almeno per dispetto, di non morire domani per cui l’andazzo delle cose bene o male lo si conosce, ma ci sono situazioni, atteggiamenti che travalicano e non di poco i “ paletti” del buon senso e che vanno comunque stigmatizzati per non creare equivoci.
Le risorse comunali, siano finanziarie che materiali (mezzi , dipendenti, servizi, ecc), sono a disposizione della comunità intera e non dei singoli privati più o meno vicini o “simpatici”.
Sono inaccettabili, oltre che illegali quei pezzi di strade e accessi privati rifatti “in pegno” in periodo pre elettorale; è discutibile la gestione padronale dei mezzi comunali: il taglia siepe usato in conto terzi .
E non tiriamo in ballo il boicottare la “crescita” del paese: facciamo crescere le cose serie e utili e ci vedrete sicuramente vicini e partecipi".
http://grottablog.wordpress.com/2009/08/20/est-modus-in-rebus/
Aurea mediocritas, ovvero "una ottimale moderazione", e non, come qualcuno potrebbe tradurre letteralmente, "un'aurea mediocrità", è una locuzione latina tratta dal poeta Orazio (Odi 2, 10, 5); nella lingua latina termine "mediocritas" non ha il valore dispregiativo che ha in italiano la parola "mediocrità", ma significa piuttosto "stare in una posizione intermedia" tra l'ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, ed esalta il rifiuto di ogni eccesso, invitando a rispettare il "giusto mezzo".
La "mediocritas", pertanto, il tenersi cioè lontano dagli estremi di ogni posizione intellettuale o condizione di vita, è definita dal poeta "aurea", che non è da intendere in senso letterale, cioè tutta d'oro, ma piuttosto come ottimale, come la migliore che si possa immaginare, così come l'oro è il più apprezzabile dei metalli.
Questa concezione esistenziale si ispira alla filosofia epicurea che invitava l'uomo a godere dei piaceri della vita senza abusarne, come per esempio bere il vino ma senza ubriacarsi, godere del cibo senza essere dediti alla crapula, apprezzare il piacere sessuale senza soggiacere alla libidine. Qualora l'uomo la realizzi, avrà raggiunto il fine ideale che è quello di trovare una misura in tutte le cose, senza mai trascorrere negli eccessi, come il poeta stesso raccomanda quando dice anche est modus in rebus (Satire 1, 1, 106-107).
L'espressione, tuttavia, oggi viene anche usata in senso ironico e sarcastico, in riferimento a una persona che non ha particolari capacità e non risplende per apprezzabili doti intellettuali, ma occupa ugualmente un posto di responsabilità.
http://it.wikipedia.org/wiki/Aurea_mediocritas
Chi non si intende di navigazione, si guarda bene dal guidare navi; soltanto chi ha studiato prescrive l'abrotono al malato; di medicina si occupano i medici, e gli artigiani esercitano ciascuno il loro mestiere. Tutti, invece, capaci o incapaci, siedono al governo.
Orazio
Orazio
L'ira è un furore di breve durata, trattieni i tuoi impulsi, che, se non sono sottomessi, comandano.
Orazio
Poni un limite ai tuoi desideri:
a chi è troppo avido manca sempre qualcosa.
Quinto Orazio Flacco
quando si muore di sete, è inutile cercare un calice d’oro.
Orazio
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