Arte dell'ascoltare
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giovedì 30 aprile 2015
sabato 25 aprile 2015
Storia e curiosità su Pi greco La magia del Pi greco dalle origini ai giorni nostri.
Il Pi greco permea la nostra esistenza, ben oltre i problemi di geometria a scuola, dove è conosciuto come il rapporto fra la circonferenza e il diametro del cerchio (o l'area di un cerchio di raggio uguale a 1).
Dall'elettromagnetismo alla meccanica quantistica, il Pi greco investe molti settori. Ad esempio ha a che fare con il Principio di Indeterminazione di Heisenberg, entra in campo nel periodo di oscillazione del pendolo (che è proporzionale al nostro numero irrazionale), così come nella forza di Coulomb tra due oggetti carichi elettricamente.
Ma la storia del Pi greco ha circa 4mila anni.
BRITISH MUSEUM
I Greci usavano poligoni tangenti internamente ed esternamente a un cerchio, ovvero rispettivamente inscritti e circoscritti (vedi grafico sopra). La lunghezza di una circonferenza e infatti necessariamente compresa fra un limite superiore e uno inferiore, rappresentati rispettivamente dal perimetro del poligono esterno, leggermente maggiore, e quello interno, di poco minore. Quanti più lati ha un poligono, tanto più precisa e la sua approssimazione al cerchio, e di conseguenza tanto maggiore e la precisione con cui si può ricavare il numero che lega la circonferenza al suo diametro. Archimede di Siracusa (287- 212 a.C.) usò poligoni con 96 lati. La sua conclusione fu che il numero del cerchio doveva essere più piccolo di 3+(1/7) ma più grande di 3+(10/71). Rappresentare con un numero decimale il valore intermedio tra i due non era ancora alla portata dei Greci, ma il risultato sarebbe stato 3,1419. Ha tre cifre corrette dopo la virgola, e si discosta solo dell’1% dal valore di oggi.|
FOCUS
Nei secoli successivi i miglioramenti nell’approssimazione non furono particolarmente significativi. Un grande balzo riuscì a due astronomi cinesi del V secolo, Tsu Chung Chi e suo figlio Tsu Keng Chi, i quali trovarono come valore approssimato di Pi greco la frazione 355/113, da cui si ottiene il risultato arrotondato 3,1415929. Tramite poligoni con oltre 20mila lati giunsero a una valutazione di π che si discosta solo di una parte su un miliardo dal valore corretto: un record destinato a rimanere insuperato per quasi mille anni.
A partire dal XVI secolo anche molti matematici europei moltiplicarono i propri sforzi per meglio approssimare il Pi greco. Ludolph van Ceulen (1539-1610, nella foto) vi dedico 30 anni della sua vita. Calcolo il perimetro di poligoni con ben 4,6 miliardi di miliardi di lati e in tal modo riuscì a determinare 35 cifre decimali di π.
Il record di calcolo manuale fu pero stabilito nel 1946 da un tal D. F. Ferguson, che arrivò a 620 cifre decimali. Poi arrivarono i computer.
Ma perché tanto accanimento per un calcolo del genere?
«La matematica e il modo perfetto per prendersi in giro» ha detto Albert Einstein, il grande bastian contrario, il cui anniversario della nascita ricorre il 14 marzo (come i fan del Pi greco non mancano di ricordare).
Dieci cifre di π dopo la virgola sono già sufficienti a determinare il raggio terrestre con la precisione di un millimetro.
Il record mondiale (non ufficiale) della “disciplina” di ricordare a memoria e declamare a voce alta i numeri decimali del Pi greco è stato raggiunto al giapponese Akira Haraguchi, nella foto, che ha recitato 100mila cifre in 16 ore.
Il numero π è ciò che i matematici chiamano “normale”? Si può dire, cioè, che la successione dei suoi decimali sia completamente casuale, oppure da qualche parte fra i miliardi di cifre si nascondono imprevedibili regolarità? Al 762° decimale compare per esempio la sequenza 999999. Come si può escludere che sia un frammento di distribuzione regolare di cifre fino a ora inosservata?
Sommando le prime 20 cifre dopo la virgola si ottiene come risultato 100. Sommando le prime 144 si ottiene 666, ma 144 e il quadrato di 12, ovvero (6+6)×(6+6).
L’altezza di un elefante dal suolo alla spalla si può determinare moltiplicando per 2π il diametro di una sua zampa.
http://www.focus.it/scienza/scienze/storia-e-curiosita-su-pi-greco?gimg=58361&gpath=#img58361
venerdì 24 aprile 2015
Vilfredo Pareto. La teoria di Aristotele sulla schiavitù naturale è pure quella dei popoli civili moderni per giustificare le loro conquiste ed il loro dominio sui popoli da essi detti di razza inferiore. [...] Da ciò segue che un inglese, un tedesco, un francese, un belga, un italiano, se pugna e muore per la sua patria, è un eroe; ma un africano, se ardisce difendere la sua patria contro queste nazioni, è un vile ribelle ed un traditore. [...] Occorre aggiungere che, con ipocrisia veramente ammirevole, i buoni popoli civili pretendono di fare il bene dei popoli a loro soggetti, quando li opprimono e anche li distruggono. [...] Il gatto chiappa il sorcio e se lo mangia, ma non dice che fa ciò pel bene del sorcio, non proclama il domma dell'uguaglianza di tutti gli animali e non alza ipocritamente gli occhi al cielo per adorare il Padre comune.
La teoria di Aristotele sulla schiavitù naturale è pure quella dei popoli civili moderni per giustificare le loro conquiste ed il loro dominio sui popoli da essi detti di razza inferiore. [...]
Da ciò segue che un inglese, un tedesco, un francese, un belga, un italiano, se pugna e muore per la sua patria, è un eroe; ma un africano, se ardisce difendere la sua patria contro queste nazioni, è un vile ribelle ed un traditore. [...] Occorre aggiungere che, con ipocrisia veramente ammirevole, i buoni popoli civili pretendono di fare il bene dei popoli a loro soggetti, quando li opprimono e anche li distruggono. [...] Il gatto chiappa il sorcio e se lo mangia, ma non dice che fa ciò pel bene del sorcio, non proclama il domma dell'uguaglianza di tutti gli animali e non alza ipocritamente gli occhi al cielo per adorare il Padre comune.
Da ciò segue che un inglese, un tedesco, un francese, un belga, un italiano, se pugna e muore per la sua patria, è un eroe; ma un africano, se ardisce difendere la sua patria contro queste nazioni, è un vile ribelle ed un traditore. [...] Occorre aggiungere che, con ipocrisia veramente ammirevole, i buoni popoli civili pretendono di fare il bene dei popoli a loro soggetti, quando li opprimono e anche li distruggono. [...] Il gatto chiappa il sorcio e se lo mangia, ma non dice che fa ciò pel bene del sorcio, non proclama il domma dell'uguaglianza di tutti gli animali e non alza ipocritamente gli occhi al cielo per adorare il Padre comune.
Vilfredo Pareto, da Trattato di sociologia generale: Capitolo VI - I residui, par. 1050
"Le aristocrazie non durano.
Qualunque ne siano le ragioni, è incontrastabile che dopo un certo tempo spariscono.
La Storia è un cimitero di aristocrazie.
Non è solo per il numero che certe aristocrazie decadono, ma anche per la qualità, nel senso che in esse scema l'energia. La classe governante viene restaurata non solo in numero, ma, ed è ciò che più preme, in qualità dalle famiglie che vengono dalle classi inferiori, che recano in essa l'energia necessaria per mantenersi al potere.
Ove uno di questi movimenti cessi e, peggio ancora, se cessano entrambi, la parte governante si avvia verso la rovina, che spesso trae seco quella dell'intera nazione. E' causa potente di turbamento dell'equilibrio l'accumularsi di elementi superiori nelle classi inferiori e, viceversa, di elementi inferiori nelle classi superiori.
Per via della circolazione delle classi elette, la classe eletta di governo è in uno stato di continua e lenta trasformazione, essa scorre come un fiume e questa d'oggi è diversa da quella di ieri. Ogni tanto si osservano repentini e violenti turbamenti come sarebbero le inondazioni di un fiume e, dopo, la nuova classe eletta di governo torna a modificarsi lentamente: il fiume, tornato nel suo letto, scorre di nuovo regolare.
Le rivoluzioni seguono perché, sia per il rallentarsi della circolazione della classe eletta, sia per altra causa, si accumulano negli strati superiori elementi scadenti che rifuggono dall'uso della forza, mentre crescono negli strati inferiori gli elementi di qualità superiore che sono disposti ad adoperare la forza".
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V. PARETO, Trattato di sociologia generale, cit. in G. Galli, Storia delle dottrine politiche, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 200-201.
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Per approfondire:
- S. Caputo: Vilfredo Pareto ✍️ http://bit.ly/caputopareto;
- P. Chiantera-Stutte: politica, classi sociali, élite ✍️ http://bit.ly/chianteraelite
Carlo De Luca
Riflessioni interessantissime che fanno riferimento, mi pare, alla “teoria delle élites”, intesa in senso ampio e comprensiva di orientamenti anche molto diversi che hanno però in comune l’assunzione di base: la tendenza intrinseca di ogni aggregato sociale a produrre una oligarchia. In qualunque collettivo umano, sono sempre emerse delle élites che sono riuscite ad accumulare una maggiore quantità di risorse la cui natura varia in rapporto al contesto (la ricchezza nelle società mercantili, il comando nei regimi militari, il potere politico nelle democrazie e nelle dittature, la cultura nelle organizzazioni più evolute). Molti i problemi di contenuti posti da questa definizione: dalla legittimità politica e sociale dell’élite alla sua effettiva corrispondenza con il merito, dalla sostanziale omogeneità alla sua multiforme pluralità, dal rapporto unidirezionale governanti/governati alla loro relazione osmotica. Dalle valutazioni su questi aspetti scaturiscono i diversi orientamenti che caratterizzano la teoria: dalle interpretazioni più reazionarie a quelle progressiste.
Il Sestante Grazie
Carlo per il commento molto puntuale.
Innanzitutto, la teoria classica delle élites ha avuto tre esponenti principali:
Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Robert Michels, che l'hanno delineata su basi ideologiche (parzialmente) diverse.
Il primo e l'ultimo in un contesto latamente liberale, Pareto partendo dall'economia e giungendo alla sociologia attraverso la considerazione dell'irrazionalità delle scelte umane, insuscettibili di essere descritte dalle leggi economiche.
L'evoluzione della teoria nel corso del Novecento, poi, ha seguito direttrici così diverse e multiformi da non poter essere riassunta qui, se non con il rischio di farvi rientrare fenomeni che solo marginalmente ne attingono il succo della dottrina. Mi ha interessato, però, anche la parte del tuo commento in cui ti soffermi sulla natura delle élites. Lo stesso Pareto lo ha affrontato in un'altra sua opera "I sistemi socialisti", del 1902. Riporto qui brevemente un frammento che ho potuto leggere nell'opera di Giorgio Galli "Storia delle dottrine politiche":
"Le élites si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale.
La conquista della ricchezza, presso i popoli commercianti e industriali, il successo militare, presso i popoli bellicosi, l'abilità politica e spesso lo spirito d'intrigo e la bassezza di carattere, presso le aristocrazie, le democrazie e le demagogie, i successi letterari nel popolo cinese, la conquista di dignità ecclesiastiche nel Medioevo ecc., sono altrettanti modi coi quali si effettua la selezione degli uomini. Nulla si può comprendere se non si separa la sostanza dalla forma. La sostanza è il movimento di circolazione delle élites, la forma è quella che domina nella società dove il movimento ha luogo".
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LA STORIA E' UN CIMITERO DI ARISTOCRAZIE"Le aristocrazie non durano.
Qualunque ne siano le ragioni, è incontrastabile che dopo un certo tempo spariscono.
La Storia è un cimitero di aristocrazie.
Non è solo per il numero che certe aristocrazie decadono, ma anche per la qualità, nel senso che in esse scema l'energia. La classe governante viene restaurata non solo in numero, ma, ed è ciò che più preme, in qualità dalle famiglie che vengono dalle classi inferiori, che recano in essa l'energia necessaria per mantenersi al potere.
Ove uno di questi movimenti cessi e, peggio ancora, se cessano entrambi, la parte governante si avvia verso la rovina, che spesso trae seco quella dell'intera nazione. E' causa potente di turbamento dell'equilibrio l'accumularsi di elementi superiori nelle classi inferiori e, viceversa, di elementi inferiori nelle classi superiori.
Per via della circolazione delle classi elette, la classe eletta di governo è in uno stato di continua e lenta trasformazione, essa scorre come un fiume e questa d'oggi è diversa da quella di ieri. Ogni tanto si osservano repentini e violenti turbamenti come sarebbero le inondazioni di un fiume e, dopo, la nuova classe eletta di governo torna a modificarsi lentamente: il fiume, tornato nel suo letto, scorre di nuovo regolare.
Le rivoluzioni seguono perché, sia per il rallentarsi della circolazione della classe eletta, sia per altra causa, si accumulano negli strati superiori elementi scadenti che rifuggono dall'uso della forza, mentre crescono negli strati inferiori gli elementi di qualità superiore che sono disposti ad adoperare la forza".
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V. PARETO, Trattato di sociologia generale, cit. in G. Galli, Storia delle dottrine politiche, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 200-201.
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Per approfondire:
- S. Caputo: Vilfredo Pareto ✍️ http://bit.ly/caputopareto;
- P. Chiantera-Stutte: politica, classi sociali, élite ✍️ http://bit.ly/chianteraelite
Carlo De Luca
Riflessioni interessantissime che fanno riferimento, mi pare, alla “teoria delle élites”, intesa in senso ampio e comprensiva di orientamenti anche molto diversi che hanno però in comune l’assunzione di base: la tendenza intrinseca di ogni aggregato sociale a produrre una oligarchia. In qualunque collettivo umano, sono sempre emerse delle élites che sono riuscite ad accumulare una maggiore quantità di risorse la cui natura varia in rapporto al contesto (la ricchezza nelle società mercantili, il comando nei regimi militari, il potere politico nelle democrazie e nelle dittature, la cultura nelle organizzazioni più evolute). Molti i problemi di contenuti posti da questa definizione: dalla legittimità politica e sociale dell’élite alla sua effettiva corrispondenza con il merito, dalla sostanziale omogeneità alla sua multiforme pluralità, dal rapporto unidirezionale governanti/governati alla loro relazione osmotica. Dalle valutazioni su questi aspetti scaturiscono i diversi orientamenti che caratterizzano la teoria: dalle interpretazioni più reazionarie a quelle progressiste.
Il Sestante Grazie
Carlo per il commento molto puntuale.
Innanzitutto, la teoria classica delle élites ha avuto tre esponenti principali:
Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Robert Michels, che l'hanno delineata su basi ideologiche (parzialmente) diverse.
Il primo e l'ultimo in un contesto latamente liberale, Pareto partendo dall'economia e giungendo alla sociologia attraverso la considerazione dell'irrazionalità delle scelte umane, insuscettibili di essere descritte dalle leggi economiche.
L'evoluzione della teoria nel corso del Novecento, poi, ha seguito direttrici così diverse e multiformi da non poter essere riassunta qui, se non con il rischio di farvi rientrare fenomeni che solo marginalmente ne attingono il succo della dottrina. Mi ha interessato, però, anche la parte del tuo commento in cui ti soffermi sulla natura delle élites. Lo stesso Pareto lo ha affrontato in un'altra sua opera "I sistemi socialisti", del 1902. Riporto qui brevemente un frammento che ho potuto leggere nell'opera di Giorgio Galli "Storia delle dottrine politiche":
"Le élites si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale.
La conquista della ricchezza, presso i popoli commercianti e industriali, il successo militare, presso i popoli bellicosi, l'abilità politica e spesso lo spirito d'intrigo e la bassezza di carattere, presso le aristocrazie, le democrazie e le demagogie, i successi letterari nel popolo cinese, la conquista di dignità ecclesiastiche nel Medioevo ecc., sono altrettanti modi coi quali si effettua la selezione degli uomini. Nulla si può comprendere se non si separa la sostanza dalla forma. La sostanza è il movimento di circolazione delle élites, la forma è quella che domina nella società dove il movimento ha luogo".
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martedì 21 aprile 2015
Hikikomori 引きこもり letteralmente “stare in disparte, isolarsi.
Si chiama “hikikomori”. E’ considerato il più grande pericolo psico-sociale per la nostra specie.
Il primo campanello d’allarme ufficiale è suonato una decina di anni fa, nel 2006.
Anche se ne parlavano già alla fine degli anni’80.
E’ accaduto in Giappone, il paese al mondo che più di ogni altra nazione sul pianeta, segue le problematiche sociali della propria popolazioni con grande cura e attenzione e interviene sempre preventivamente.
Così la loro cultura e tradizione.
Le cifre parlano chiaro: in Giappone la disoccupazione è intorno all’1%, i poveri sono lo 0,3% della popolazione, gli indigenti lo 0,7%. Non hanno spese militari, hanno il più grande disavanzo pubblico del pianeta (equivalente a circa -235%) e sono la seconda potenza economica della Terra come produzione di ricchezza, pari al quintuplo di quella italiana; il più alto tasso di longevità (87 anni per le femmine e 82 per i maschi) il più basso tasso di natalità -record che condivide con l’Italia- e il più alto tasso di suicidi, circa 3.500 all’anno.
Uno studio dell’istituto di sociologia dell’università di Tokyo, finanziato dalla fondazione studi sociali dell’imperatore, nel 2006 evidenziò e coniò il neologismo che oggi terrorizza il Giappone: “hikikomori”.
E’ una parola che agli italiani non dice nulla, ma molto presto, purtroppo, diventerà un termine familiare
Non soltanto è finito su wikipedia, ma una richiesta ufficiale del Giappone è arrivata prima all’Onu e poi come domanda formale all’Oms, perchè venga rubricata sotto la voce “potenziale piaga sociale che può annicchilire intere nazioni”.
Ecco come wikipedia declina il termine:
“Hikikomori (引きこもり? letteralmente “stare in disparte, isolarsi”,[1] dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi”[2]) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia natura. Tra questi, la particolarità del contesto familiare in Giappone, caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da un’eccessiva protettività materna, la grande pressione della società giapponese verso autorealizzazione e successo personale, cui l’individuo viene sottoposto fin dall’adolescenza. Il termine hikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale.
Il percorso terapeutico, che può durare da pochi mesi a diversi anni, consiste nel trattare la condizione come un disturbo mentale (con sedute di psicoterapia e assunzione di psicofarmaci) oppure come problema di socializzazione, stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di migliorarne la capacità di interagire. Il fenomeno, già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti e in Europa
Dal 2009, in seguito all’uso massiccio di facebook e al dominio della comunicazione virtuale via web al posto di quella umana carnale nella vita reale, il fenomeno ha iniziato ad assumere chiari segnali di patologia sociale. In Giappone, il hikikomori, è aumentato dal 2009 al 2014 del 356%. E’ aumentato anche in Europa. Non esistono ancora dati ufficiali per quanto riguarda l’Italia, forse nessuno se ne occupa. Purtroppo, siamo in uno spaventoso ritardo culturale, sociale, imprenditoriale. Questo tipo di studi dovrebbe far parte al primo posto nella annuale legge di stabilità sotto la voce “ricerca e innovazione” come misura preventiva.
Secondo me, bisognerebbe cominciare a parlarne e ad alzare il livello dell’attenzione, prima che sia troppo tardi
Lo fa da tempo il più famoso romanziere giapponese, Murakami.
I suoi racconti, infatti, al di là dei paesaggi socio-onirici che lui crea, hanno tutti in comune un aspetto caratteristico: i giovani protagonisti, sia maschi che femmine, sono sempre soli, vivono da soli, se possono non escono di casa.
Sono, per l’appunto, vittime inconsapevoli del hikikomori.
Una decina di giorni fa, la giornalista Lidia Baratta, ha pubblicato sul quotidiano on-line linkiesta, un reportage proprio su questo tema, visto che in questi giorni sia l’Onu che l’Oms che l’Unicef se ne sta occupando con enorme preoccupazione
Ecco il suo pezzo e il link di riferimento:http://www.linkiesta.it/hikikomori-italia
Controllare il profilo Facebook in piena notte, rinunciare a un aperitivo per restare a chattare. Anche Internet, come l’alcol o la droga, può creare dipendenza. Le uscite fuori casa diminuiscono fino a sparire, le ore davanti a uno schermo aumentano. In Giappone, dove ne hanno contati più di un milione, gli adolescenti ritirati sociali che sostituiscono i rapporti diretti con quelli mediati da Internet si chiamano “hikikomori”. Da noi dati certi non ne esistono. Le ultime rilevazioni parlano di 240mila under 16, ma gli esperti dicono che anche in Italia gli autoreclusi dipendenti dalla Rete sono in continuo aumento.
La finestra di una chat è molto più sicura e controllabile di un bar in centro all’ora dell’aperitivo. Puoi decidere quando aprirla, selezionare cosa mostrare di te ed essere brillante al momento giusto, senza essere colto impreparato. La casa diventa un bunker dove creare il proprio spazio protetto. E il computer connesso è l’unica porta verso il mondo esterno per comunicare senza esporsi troppo.
«Stiamo registrando una crescita delle persone che si rivolgono a noi», spiega Valentina Di Liberto, sociologa e presidente dellaCooperativa Hikikomori di Milano. «Soprattutto perché c’è una maggiore consapevolezza delle dipendenze da Internet, in particolar modo da parte degli insegnanti».
L’autoreclusione parte dalla scuola, vissuta spesso come un allontanamento forzato dal mondo del Web. Suonata la campanella, non c’è altra attività che il ritiro in camera davanti a uno schermo. «Prima ci si ritira dalla scuola, poi dalla scena sociale», spiega Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta presidente della cooperativa sociale Minotauro, specializzata nei disturbi adolescenziali. Anche qui, negli ultimi anni, le cure di adolescenti ritirati sociali e dipendenti dalla Rete sono in continuo aumento. «Di solito l’abbandono scolastico avviene nel biennio delle superiori, ma negli ultimi tempi viene anticipato anche alle medie», precisa Lancini. Si comincia con mal di pancia e mal di testa, per poi scoprire che sono solo sintomi fisici per sfuggire da un ambiente scolastico vissuto come un incubo. E in Italia il tasso di abbandono scolastico è ben sopra la media europea: tra il 2011 e il 2014, 167mila ragazzi hanno rinunciato al diploma.
Ritiro sociale e dipendenza da Internet sono spesso interconnessi e si sostengono reciprocamente. Dove sorge la dipendenza, aumenta il ritiro sociale. Dove c’è il ritiro sociale, aumenta l’uso della Rete come valvola di sfogo. Anche se, come Lancini precisa nel suo libro Adolescenti Navigati, «non tutti i ritirati sociali riescono ad accedere alle esperienze offerte dalla rete».
Un campanello d’allarme è il restare connessi in Rete durante la notte.
«Questi ragazzi», spiega Valentina Di Liberto, «spesso invertono il ritmo circadiano, restando svegli la notte e dormendo il giorno, cominciando via via a evitare le relazioni reali, lo sport o altre attività all’aperto». Reclusi nelle loro stanze, frequentano il resto della casa quando tutti dormono. Per procurarsi del cibo, o solo delle sigarette. Poi tornano nell’incubatrice virtuale, dove tutto è più semplice e confortevole. «Non c’è un confronto diretto, non c’è un impatto emotivo né i giudizi, spesso spietati, dei compagni di classe», spiega Di Liberto. Tutto in Rete sembra sotto controllo. «Ci si può scollegare quando si vuole, decidere con chi connettersi, gestire la comunicazione. C’è una forte sensazione di controlloche non c’è invece nella vita reale».
Le modalità di dipendenza dalla Rete sono diverse, in realtà. C’è chi mantiene le relazioni solo online, chi usa i videogiochi senza alcun contatto, chi naviga solitario alla ricerca di informazioni. Qualcuno degli hikikomori, raccontano gli esperti, arriva a rispondere solo se viene chiamato con il nickname che usa in Rete e non con il vero nome. C’è chi si rinchiude per mesi, chi per anni.
Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare il disturbo di Hikikomori, evidenziando anche alcune analogie tra i ragazzi giapponesi e i cosiddetti “mammoni italiani”. «Una delle caratteristiche degli hikikomori è lo stretto rapporto con una madre iperprotettiva», spiega Valentina Di Liberto. L’iperprotezione può rendere il figlio narcisista e fragile allo stesso tempo. Se la realtà non coincide con la sua idea di perfezione, c’è il rischio del rifiuto e del ritiro.
Spesso si parte da una sensazione di vergogna e inadeguatezza per il proprio corpo, che porta anche a creare identità diverse da se stessi in Rete. «Su Internet si diventa aggressivi o trasgressivi, al contrario di quello che si è nella realtà», racconta Valentina Di Liberto, «incanalando le emozioni represse che non si usano nella vita reale. Si costruiscono personaggi che hanno anche connotati fisici diversi da quelli della realtà».Ragazzi tanto silenziosi nel mondo reale, quanto disinibiti in quello virtuale. Come Lucia, 13 anni, che viene scoperta dalla nonna davanti al suo portatile mentre fotografa e posta in Rete l’unica parte secondo lei accettabile del suo corpo. O come Stefano, pacato e timido dal vivo, che diventa violento quando entra nel personaggio di un videogioco.
Ma se la Rete «diventa la difesa che la mente sceglie di utilizzare», spiega Lancini nel suo libro, «significa innanzitutto che l’adolescente sta cercando di non cedere a un dolore che, per qualità e intensità potrebbe risultare inaccessibile». E in questo caso, rispetto a chi si aliena anche dalla Rete, Internet è un’àncora di salvezza. La Rete non è la causa del ritiro dalla realtà, ma un tentativo estremo di restare agganciati al mondo esterno, dice Lancini. Non a caso, c’è chi, navigatore solitario senza contatti, comincia a guarire proprio aprendo un profilo su Facebook.«I rischi più grandi da cui si salva un ragazzo immerso nella Rete e ritirato socialmente possono essere dunque il suicidio e il break down psicotico, ovvero la perdita della speranza di riuscire a costruirsi un’identità e un ruolo sociale presentabili al mondo esterno».
E spesso proprio dalla Rete comincia la cura per i ritirati sociali. Che per definizione non vogliono incontrare nessuno, tantomeno uno psicologo stipendiato dai genitori. Non esiste un approccio univoco. Alla cooperativa Hikikomori di Milano si fanno sedute di psicoterapia individuale o di gruppo, e il Comune ha finanziato fino a giugno anche un laboratorio di consulenza gratuita per otto adolescenti con dipendenze da internet e dai videogiochi che include la consulenza ai genitori. Anche la cooperativa Minotauro ha un consultorio gratuito per chi non può permettersi sedute di psicoterapia per i propri figli adolescenti in crisi. Le dipendenze da Internet, spiega Lancini, non vengono trattate con un approccio di disintossicazione, sottraendo smartphone, router e pc. Si parte spesso dai genitori, per arrivare ai figli anche dopo molti mesi. E il primo contatto, anche con lo psicologo, molto spesso avviene in chat.
Ma Lidia Baratta non è la prima a parlarne.
Il primo articolo sull’argomento (è considerato il primo in Europa) è stato scritto da una giovane truccatrice italiana che se ne è andata a vivere a Londra dove lavora come make up artist. Si chiama Rosita Baiamonte e il suo pezzo risale al 1 Marzo del 2013, ben venticinque mesi fa, apparso sul suo sito/blog che si chiama “abattoir”.
Lo trovo un pezzo interessante. Un esempio sullo stato di salute del nostro paese, sempre ghettizzato e distratto, a parlare solo e soltanto di danaro e di partiti politici. La Baiamonte, allora, ci aveva provato con più articoli, ma vista la totale indifferenza del pubblico, ha poi lasciato perdere. Rimane il suo accredito, che io le riconosco, per essere stata la prima curiosa ad affrontare l’argomento in lingua italiana.
Ecco il suo articolo di allora con relativo link
http://www.abattoir.it/2012/03/01/hikikomori-mi-dissolvo-2/
Hikikomori: mi dissolvo
Pubblicato il 1 marzo 2012 da Rosita Baiamonte
Il sol levante è portatore di novità, di tecnologie avanzate, di una quantità di suggestioni figlie di una cultura diametralmente opposta a quella occidentale; in particolare, il Giappone è una terra affascinante e per certi versi incomprensibile a noi poveri occidentali.
Ad esempio, è notizia recente quella di una donna giapponese invalida che ha rifiutato di farsi pagare una pensione d’invalidità dallo stato. Strano, assurdo, incredibile.
Sì, per noi che viviamo in un mondo popolato da falsi invalidi con pensioni d’oro, è un bel po’ strano.
Tuttavia, il Giappone è sempre fonte d’ispirazione, sia nel bene che ne male.
Nasce in Giappone il fenomeno Hikikomori, che è a tutti gli effetti una sindrome che colpisce soprattutto gli adolescenti, un fenomeno che, fino a qualche anno fa, sembrava non aver colpito l’Italia, ma che invece negli ultimi anni pare essere sbarcato anche da noi, quasi fosse una moda.
L’hikikomori è un ragazzo che a un certo punto della sua esistenza decide di isolarsi dal mondo e dalla realtà che lo circonda, si chiude in camera e lì passa le sue giornate. La camera diventa il luogo fisico, dove egli conduce la sua vita, luogo che a poco a poco si ammassa di oggetti, di resti di cibo, di sporcizia, di polvere, quasi come se gli oggetti diventassero essi stessi hikikomori e non potessero più uscire da quel luogo, così come chi li possiede. Oggetti che, in qualche modo, lo riportano in quella realtà che egli vive e osserva solo attraverso un computer.
Egli vive di notte, di giorno oscura le finestre, odia la luce. La notte si rifugia nei social network, nei forum, dove incontra altri hikkikomori come lui, creando quasi una rete. Un po’ come accadeva qualche anno fa (ma forse accade ancora), con le adepte di Ana, la dea dell’anoressia, fenomeno quanto mai preoccupante che vedeva coinvolte centinaia di ragazze che, da un giorno all’altro, avevano messo su una rete di blog dove si scambiavano consigli su come dimagrire in fretta e su come essere sempre fedeli ad Ana (e guai a sgarrare!).
Alienante.
L’ikikomori trasferisce nello spazio angusto della sua camera tutta la forza e l’onnipotenza che non riesce ad avere fuori da lì, nella vita vera, quasi come se vivesse dentro un videogioco dove egli è l’eroe, e in quello spazio l’hikkikomori crea, inventa, scrive, produce.
In Giappone il fenomeno è in fortissima espansione; si contano già più di un milione di casi.
Uscire dall’isolamento è difficile se non impossibile, curare dei soggetti in hikikomori è un’ardua impresa, perché rifiutano di lasciare il loro habitat e nessuno riesce a raggiungerli. Inoltre, aspetto da non trascurare è la non volontà di tornare a un’esistenza normale, perché la loro è una scelta, è un’auto esclusione dalla vita.
L’hikkikomori smette di avere bisogni pratici, non si cura di sé, del suo aspetto fisico, il suo unico bisogno è quello di espandersi mentalmente attraverso la rete, attraverso la scrittura, la pittura, la creatività.
La cosa realmente preoccupante di questo fenomeno è che l’hikkikomori finisce con l’appassire, perché si nega al sole, alla luce, ai rapporti sociali, e piano piano, deperisce e muore.
Sì, l’hikikomori è un alienato, non per natura, ma per scelta, sebbene esistano delle cause scatenanti che portano il soggetto a voler fuggire dalla realtà; ad esempio, soggetti che per natura molto timidi o che sono costantemente oggetto di scherno da parte dei coetanei sviluppano una forma di repulsione e di rifiuto verso quella società che, di fatto, ride di lui.
Tuttavia, non bisogna relegare il fenomeno a semplice apatia o forma acuta di timidezza. È qualcosa di più, è come un morbo che pian piano si espande a macchia d’olio e che sta coinvolgendo sempre più paesi, compresa l’Italia, anche se in forme diverse.
Secondo alcuni psicoterapeuti, come la Dott. Carla Ricci, autrice del libro: “Hikikomori: adolescenti, volontà di reclusioni”, il fenomeno in Italia ha preso una piega diversa e presenta dei lati meno feroci, ad esempio l’isolamento non è quasi mai totale: gli hikikomori italiani, a differenza dei giapponesi, accettano di consumare i pasti coi genitori, e di vedere, di tanto in tanto, un amico con cui passare delle ore. Questo è dovuto anche a una differente organizzazione della società e della famiglia rispetto al Giappone, dove il fenomeno è visto dalla società come un’onta e qualcosa da nascondere, per cui le famiglie non se ne preoccupano e preferiscono, anzi, agevolare l’esclusione dell’adolescente nel tentativo di nasconderlo al mondo.
Tuttavia il fenomeno italiano, pur essendo ancora marginale, desta già preoccupazione; sempre più genitori lamentano nei loro figli una sorta di apatia e di disinteresse verso tutto, per cui sempre più spesso gli adolescenti vengono affidati alle cure di psicoterapeuti e questo, in qualche modo, fa da argine a una degenerazione della patologia.
Quanti di noi non hanno attorno amici che passano la maggior parte della loro vita davanti a un pc? Che se gli chiedi: ehi, usciamo a farci una pizza? Ti rispondono: no, devo ultimare il livello, di non so quale diavolo di gioco di ruolo! Ce ne preoccupiamo? Avvertiamo che anche noi spesso ci lasciamo andare a momenti di tremenda apatia, che ci risucchia le energie e ci spegne?
Ho idea che questo fenomeno sia lontano dall’arrestarsi, magari non sfocerà mai nelle forme di totale reclusione, ma sicuramente le nuove generazioni si stanno sempre più alienando, e sempre più spesso si rifugiano in un mondo a parte, dove si sentono eroi, insuperabili, onnipotenti, anche se in realtà, sono fragili e indifesi.
E voi che ne pensate? Credete sia la solita moda esportata dal Giappone o è qualcosa che accomuna tutti gli adolescenti del mondo a prescindere dal paese? E credete che la tecnologia abbia esacerbato il fenomeno?
http://www.libero-pensiero.net/si-chiama-hikikomori-e-considerato-il-piu-grande-pericolo-psico-sociale-per-la-nostra-specie/
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L’uomo ha saputo distruggere la vita quotidiana rendendola troppo comoda, facile e superficiale per un verso, con una organizzazione sempre più ferruginosa e complicata dall’altro verso.
I giovani, e non solo loro, provano un naturale e comprensibile rifiuto di tutto ciò.
Mi vien persino da pensare che l’invasione brutalmente medioevale, apparentemente lenta, ma inesorabilmente sempre più veloce, quella che viene dal sud, forse porterà un inesorabile scossone che cambierà drasticamente in meglio questa nostra orrida decadenza.
Almeno, lo spero.
prima ogni 30/40anni scattava una guerra che riportava al via la società, o una pestilenza che sterminava e riportava al punto di partenza la società…….adesso, in mancanza di cavalli trottano gli asini, chissa che il famoso scossone con conseguente riduzione di persone (leggi malattie e modi di vita cui non siamo piu abituati) non ce lo tirino dal sud del mondo…..
Lo studio delle funzioni neurali è compiuto da psicologi con laurea in Neuroscienze, mentre l’uso dei farmaci è interdetto agli psicologi e permesso agli psichiatri e medici di base.
Forse lei usa come fonte un’immaginario comune piuttosto diffuso (purtroppo, aggiungerei) che identifica una fantomatica figura di psicologo non meglio identificato (psicanalista ? cognitivista ? comportamentalista ? neuroscenziato ? psicologo del lavoro ? psicologo sociale ?) che si occupa di temi più vicini alla filosofia che non alla medicina.
Ciò non toglie che purtroppo molti psicologi usino l’ingenuità e la poca cultura scientifica nel nostro paese per speculare sui loro pazienti (ma anche i fantomatici counselor operano in questo modo, non si preoccupi).
Gli psicologi curano i problemi interni della persona senza psicofarmaci proprio perché quest’ultimi svolgono la funzione che ha anche la società moderna: arginare il sintomo per un periodo limitato senza entrare nel cuore del problema.
La cura fondata sulla parola e quindi sulle tecniche fondate su di essa, mirano a scavare nell’individuo fino al nocciolo della sua impostazione psichica per far sì che le risorse di cui dispone emergano da sole. Chi si domanda cos’è la realtà è la filosofia, non la psicologia. Temo che lei abbia preso una cantonata dicendo ciò che ha detto. Si informi meglio.
L’uomo si crea la sua cerchia di amicizie, si relaziona con essi in una dimensione umana, non in mezzo a milioni di individui ove la solitudine e ancor più peggiore e tangibile che in cima ad una montagna.
La massa distrugge l’umanità delle persone, e la ricerca di se stessi la si pratica con l’introspezione non al centro di una città di milioni di persone.
Questo è l’effetto delle società moderne, caotiche, abnormi rispetto al peso che i singoli individui possono supportare.
I migliori pensieri, le migliori forme di intelligenza si concretizzano quando si è da soli, in piena solitudine confrontandosi con se stessi, non con gli altri.
Le migliori menti lo confermano.
Essere umani non è proprio una bella cosa, la storia ci ricorda cosa sono stati capaci di fare le masse quando condividono le loro coscienze, noi abbiamo piuttosto bisogno di ritrovare noi stessi dentro noi stessi, liberando le nostre potenzialità affinché i nostri simili possano anch’essi beneficiarne, non passare le giornate a relazionarci sterilmente per poi giungere alle stesse conclusione che autonomamente con la riflessione potremmo raggiungere ascoltando noi stessi.
Noi nasciamo soli, viviamo soli in mezzo agli altri e moriamo soli, il fatto che altri individui siano presenti temporalmente con noi e solo una casualità che ne migliora e ne peggiora la nostra essenza, anzi se troppi sono, oltre a creare problemi di convivenza, mettono in seria difficoltà la natura.
Bisogna tornare alle origini, quando l’incontro con altri umani non della propria comunità era un evento raro e come tale molto apprezzato, tenuto in conto e quasi sacralizzato.
Questa è l’umanità, questo è relazionarsi, questa è la vera essenza dell’uomo e, questo fu all’origine.
Nonostante gli incredibili raggiungimenti tecnologici degli ultimi anni, sembrerebbe davvero che la qualità della vita, quindi il livello di felicità, sia sceso invece che aumentare. In realtà il livello della felicità non si potrebbe quantificare, ma l’aumento delle “fughe dalla realtà” sembrerebbe comunque essere un buon indicatore.
Sarebbe interessante conoscere le statistiche del numero dei suicidi prima e dopo l’avvento dell’informatica come fenomeno sociale, cioè prima e dopo il fatidico 1995, l’anno in cui venne reso disponibile il sistema operativo windows.
La tecnologia, per sua natura, non fornisce risposte esistenziali, ma crea solo delle comodità, cioè risponde a delle esigenze indipendentemente che siano vere o false, giustificabili o meno.
Mi spiego meglio. La tecnologia mi può fornire le conoscenze per costruire un ponte, che mi porti ad attraversare un fiume, ma non può dirmi per quale motivo ho l’esigenza di attraversare il fiume. Non può dirmi cosa ci vado a fare dall’altra parte, può solo offrirmi la soddisfazione di un desiderio.
Quindi, dal momento in cui abbiamo un forte desiderio di fuggire dalla realtà, la tecnologia mi può aiutare, creando sistemi virtuali sempre più sofisticati. Ma se ci chiediamo perché vogliamo così tanto separarci dalla nostra fisicità, perché essa ci risulta così dolorosa, allora la tecnologia non può aiutarci e dovremmo rivolgerci a strumenti di indagine interiore differenti, e di cui si stanno perdendo le capacità.
L’uomo è un animale sociale: non vuol dire che deve per forza passare le sue giornate a divertirsi in compagnia, ma semplicemente che ha bisogno dell’altro per costruirsi e vivere. Il neonato senza la mamma (o la persona che risponde ai suoi bisogni) non sopravvive.
https://www.youtube.com/watch?v=1sAPKr_qr6s
Trovo questo articolo molto buono anche se mi trovo in disaccordo rispetto certi punti che lei riporta da altri articoli.
Ad esempio dire che gli hikikomori sono i “mammoni di italia” è abbastanza offensivo nei confronti dell’intelligenza di chi vive quella situazione (putroppo tale termine si trova anche in wikipedia).
Va specificato, come nel caso delle depressioni, che chi vive tale situazione ha un reale problema a non ha una innata pigrizia o poca voglia di fare che lo portano a stare sotto la gonnella della mamma o ad evitare le responsabilità. Molto spesso l’hikikomori parte con una depressione ma se ne vergogna perchè la società ancora accetta poco e non comprende la depressione come una malattia ma come una debolezza e la vergogna della sua condizione lo porta ad isolarsi dal resto del mondo creando un luogo sicuro e protetto.
Si stima che la depressione nel 2020 sarà la prima causa di morte, è una piaga sociale sempre più grossa e l’hikikomori non è altro che uno delle tante manifestazioni e meccanismi di difesa che accompagnano la depressione.
Posso riportare il mio caso ma anche il caso di altri hikikomori.
Oppure basta cercare su youtube un video in inglese che spiega cosa i depressi vorrebbero dire alle persone intorno a loro per vedere gente da tutto il mondo che esprime nei commenti la propria frustrazione verso il doversi nascondere per l’ignoranza che ancora oggi c’è verso questo argomento (“What People With Depression Want You To Know”, non è un video accademico ma fatto da un sito piuttosto popolare e per questo si puo comprendere meglio la dimensione globale e condivisa di quello che dico).
Conosco anche moltissime persone che fingono di avere una malattia fisica grave perchè sanno che in quel caso la gente comprenderà e accetterà il loro malessere.
Internet e i videogiochi e tutto il resto non sono il problema in se. La tecnologia esiste e fare i tecnoapocalittici, come spesso ho sentito in giro, è cosa inutile. Ma manca una struttura sociale che non dico fornisca, ma dia per lo meno spazio nella ricerca di valori in cui credere. Io e la mia generazione (e credo anche non solo la mia generazione) ci sentiamo persi in un mare iconografico, soggetti a stimoli e implusi che spesso sono agli antipodi l’uno con l’altro, senza una linea guida. Non è troppa libertà di scelta e di possibilità come potrebbe sembrare ad un occhio poco attento. E’ la mancanza di un obiettivo interiore, di accordare il ritmo interno con la pressione e velocità esterna.
Non credo che sistemi di valori si possano costruire dall’oggi al domani e dubito fortemente in un cambiamento dal puto in cui ci troviamo.
Il singolo individuo deve lavorare più che altro sul concetto di adattamento. Il nostro ambiente sta cambiando troppo velocemente rispetto alla nostra capacità di evoluzione come specie. Credo che quello che qualche utente qui scrive nei commenti rispetto alle epidemie e catastrofi, si stia in realtà già verificando ed è questo silente ma sempre più consistente gap tra gli individui che si schermano e si adattano e quelli che invece soccombono. Non è propriamente un sistema darwiniano ma per alcuni aspetti è similare.
Dal mio punto di vista l’hikikomori non è una moda passeggera. Forse il nome, la definizione lo è. Ma appunto questo gap tra adattamento e non, sarà sempre più consistente attraverso varie manifestazioni perlopiù mentali e di conseguenza fisiche.
Quanto alla terapia sono felice che qualcuno si occupi della cosa anche in Italia perchè la terapia psicologica è molto utile ma poichè è un fenomeno relativamente nuovo è difficile trovare persone preparate o anche solo che siano disposte ad una terapia a domicilio.
Per quanto riguarda i farmaci sinceramente li considero invasivi e aatti solo in caso di situazioni non gestibili con la terapia psicologica.
Occorre una modifica negli insegnamenti, sin da quando si nasce e passando per una scuola che dev’essere rinnovata, è indietro di secoli rispetto al mondo che ci circonda, vengono insegnate cose che non ti aiuteranno a vivere, ed oramai forse nemmeno a trovare un posto di lavoro… ma si stanno perdendo anche valori come rispetto ed amore. Incominciamo ad insegnare nuovamente i modi di fare, ma attraverso un coinvolgimento emotivo degli alunni, perchè senza le emozioni tutto diventa noioso, diventa brutto, diventa una mancanza di rispetto verso l’essere uomo di ognuno di noi.
Purtroppo persone capaci di fare questo sono davvero poche, e l’evoluzione delle persone stesse è molto indietro rispetto alle problematiche che stanno nascendo nelle nuove generazioni, differenze abissali che stanno creando questi disagi.
Io sto cercando una soluzione alternativa, adoro passare il mio tempo con le persone, non ho problemi a relazionarmi con nessuno, ma non amo la freddezza nè il materialismo che è insito in questo nostro mondo.
21 anni
è come se a un certo punto la realtà – “subita” in totale passività – si riducesse a un bombardamento di stimoli violenti e totalizzanti rispetto a un ritmo interno sempre più alienato, perdendo la possibilità di una sincronizzazione fra “interiorità” ed “esteriorità”, vissute non più come due poli di una relazione psicodinamica, ma come due entità metafisiche a sè stanti, due domini rigidamente incomunicabili.
La causa di questo sfacelo, a mio modo di vedere, è da imputarsi alla serie ormai lunghissima di concause che dalla prima rivoluzione industriale indirizzano gli schemi comportamentali in maniera sempre più violenta verso una società dell’avidità. Chiaro che, in un contesto di attrito sociale in funzione di una “lotta per il successo”, dove la competitività è il parametro fondamentale per selezionare la validità di un’idea, di un comportamento, persino di una persona nella sua complessità, la “medicina-internet”, basata sul mero appagamento di impulsi, offre la via di fuga più semplice nell’isolamento progressivo, a fronte di un destino di – quasi certamente fallimentare – sanguinosa lotta per il “successo”, che altro non è se non una deriva narcisistica sempre meno elaborata, in un contesto sociale che fa dell’apparenza e della mitologia dell’io le proprie architravi fondanti.
Il problema è che si tende a paragonare lo stile di vita attuale con quello di una 20ina di anni fa senza tenere in conto che il mondo nel frattempo è cambiato, che la tecnologia è cambiata.
Alla luce di ciò perchè dare per scontato che è meglio conoscere una persona in un bar piuttosto che su facebook? Perchè chi fa la partita a calcetto è considerato sano e chi gioca a uno sparatutto online è considerato strano?
Partendo dal presupposto che chi da del “lei” su internet è ormai troppo vecchio per permettersi di dire ancora la sua opinione sul mondo reale…
Linguaggio ed emozioni viaggiano a braccetto, il linguaggio genera azioni.
Prestare attenzione al nostro dialogo interno, vuol dire che ci stiamo occupando di noi, dei nostri bisogni, che soddisfaremo oppure no. Usare un linguaggio corretto il più preciso possibile, ci dà le indicazioni di come muoverci. L’isolarsi fisicamente dagli altri non è dell’uomo in quanto animale che vive in gruppo.
E’l’uso inadeguato o improprio dei mezzi, che provoca le dipendenze come ad es. quella sopra citata. Relazionarsi col mondo virtuale per giorni ininterrottamente come il fenomeno hikikomori, può realmente portare a gravissime conseguenze.
Ai ragazzi che hanno commentato questo articolo dico che i valori possiamo stabilirli noi – ognuno ha i propri – ne conseguono degli obiettivi più o meno difficili da raggiungere, l’indispensabile è averne sempre qualcuno. Evitate di lasciarvi inondare da notizie, modi di dire o fare da massificazione per uniformare tutti, togliendo la capacità di obiettività. Sforzatevi di relazionarvi fisicamente con altri, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di noi e viceversa, basta scovarlo. Non è detto che i conoscenti che abbiamo intorno, siano le persone adatte a noi, così com’è vero che sulla terra ci sono 7 miliardi di persone potenzialmente pronti a diventare nostri nuovi amici reali.
Confrontarsi, per scoprire di non essere diversi ma simili. Essere propositivi anziché sempre polemici, dare il vostro contributo magari anche a CHI ha scritto proprio qui sopra, sarebbe un utile gesto intelligente di UTILIZZO DI WEB.
Chi si ritiene “libero pensatore” non obbedisce ai luoghi comuni e non incrementa, con la sua voce, il belato del pecorismo di massa. Cara Tamara, o Tamara cara che a zero spara, lei è nata vecchia e nella sua sicumera si specchia…
I dati economici e di disoccupazione di cui si parla nell’articolo sono superati da anni, quelli sono praticamente i dati pre-crisi. Il Giappone ha perso il suo status di super-potenza economica a favore della Cina, e ormai fenomeni come disoccupazione e povertà sono, purtroppo, bene conosciuti anche lì, sebbene non ai nostri livelli.
L’articolo quindi fa pensare che abbia preso una parte scritta una decina di anni fa e riaggiornato nella seconda parte ai dati sociologici attuali; il che però è fuorviante, laddove si parla di un aumento del fenomeno hikikomori del 356% dal 2009 al 2014 (che sono gli anni della crisi).
Anche la descrizione del quadro familiare giapponese è, nella sua estrema sintesi, piuttosto distorta. In termini generali di casi clinici può essere vero, ma siamo sullo stesso piano dello definire tutti gli italiani “mammoni”; attenzione però, quando si generalizza così su una cultura lontana dalla nostra, oltre a generalizzare, si fa cattiva informazione.
Non esiste niente nell’umano per qui valga veramente la pena di vivere e ci consenta di essere veramente felici, sicuri, responsabili e rispettosi a nostra volta degli altri e di tutto quello che esiste e si manifesta. Le culture che hanno formato le nostre mentalità, sono antisociali, obsolete. Gli unici sistemi sociali che funzionano nel nostro pianeta, sono quelli degli insetti e degli animali in genere. Sistemi sociali questi, per la cui costituzione non sono stati necessari, ne le culture, ne le religioni e tanto meno i governi o le regole precostituite da rispettare. Ogni essere vivente, compreso l’uomo hanno già impresso nei loro animi il senso etico della coesistenza e per poterlo manifestare, devono essere solo rispettati. Siamo delle anime ideali immortali, generate da cause ideali, viviamo immersi nelle idealità delle creazioni e non ce ne siamo mai accorti………….
Renzo De Santis
C. Ricci, Hikikomori : adolescenti in volontaria reclusione, Milano, Franco Angeli, 2008
C. Ricci, Hikikomori : narrazioni da una porta chiusa, Roma, Aracne, 2009