Pagine

domenica 8 ottobre 2017

Álvaro Mutis, La neve dell'Ammiraglio. Ma se mi soffermo a considerare più attentamente queste ricorrenti cadute, questi mancati appuntamenti che continuo a dare al destino con la stessa ripetuta goffaggine, mi rendo conto che, al mio fianco, è andata scorrendo un'altra vita. Una vita che è trascorsa al mio fianco senza che io lo sapessi. È lì, continua ad essere lì: è la somma di tutti i momenti in cui ho rifiutato quella svolta del cammino, in cui ho eliminato quell'altra possibile via d'uscita, e così si è andata formando la cieca corrente di un altro destino che avrebbe potuto essere il mio e che, in un certo modo, continua ad esserlo laggiù, su quell'altra sponda su cui non sono mai stato e che corre parallela al mio itinerario quotidiano. Mi è estranea e, ciononostante, attira a sé tutti i sogni, le fantasie, i progetti, le decisioni che fanno parte di me quanto questa inquietudine presente e che avrebbero potuto dare forma alla materia di una storia che ora trascorre nel limbo del contingente. Una storia uguale forse a questa che mi riguarda, ma ricca di tutto ciò che qui non è stato, ma che là continua ad essere, prendendo forma, scorrendo al mio fianco come un sangue spettrale che mi nomina, e, allo stesso tempo, non sa nulla di me. Voglio dire, una storia uguale, in quanto io ne sarei sempre stato il protagonista e l'avrei colorata della mia solita e ottusa inquietudine, ma completamente diversa nei suoi episodi e nei suoi personaggi. Penso anche che allo scoccare dell'ultima ora sarà quell'altra vita a scorrere davanti agli occhi con il dolore di qualcosa che si è perso e sprecato del tutto e non questa, quella reale e compiuta, la cui materia non credo meriti questo sguardo, quest'ultimo esame conciliatorio, perché non ne vale la pena, né voglio che sia questa la visione che consolerà il mio ultimo istante. O il primo?

Mutis si è sempre definito «ghibellino, monarchico e legittimista», un uomo del Medio Evo perduto nel Novecento e con una profonda ripugnanza per il mondo moderno. I politici comunque li odiava e non ha mai votato, del tutto d’accordo con Borges quando diceva «Sospetto che la politica sia una delle forme della superficialità»…
http://ilmiolibro.kataweb.it/articolo/news/218/alvaro-mutis-lultimo-scalo-di-un-sognatore-di-navi/



Mutis ricorda che il biliardo e la poesia gli impedirono di finire il liceo, e comunque aveva troppo da leggere per studiare. A diciannove anni si sposò ed ebbe tre figli iniziando a lavorare nei settori più disparati, fuorché quelli che avessero attinenza con le sue passioni – per non contaminarle.[]
Maqroll giungerà persino in Italia. Una sua preghiera sarà tradotta e leggermente variata da Fabrizio de Anré nella sua Smisurata preghiera. 
http://www.artnoise.it/maqroll-il-gabbiere/


Interrotti gli studi che aveva iniziato presso i Gesuiti di San Michele a Bruxelles, dopo essere rientrato in patria non finì il liceo; stando a quanto egli stesso afferma, era distratto dal fatto che, leggendo moltissimi libri di storia, di letteratura e di viaggi, non poteva perdere tempo studiando.
https://it.wikipedia.org/wiki/%C3%81lvaro_Mutis


“Lei è penetrata in un recinto della mia intimità che era rimasto ermeticamente chiuso e che io stesso non conoscevo. Nei suoi gesti, nell’odore della sua pelle, nel suo modo di guardarmi, immediato, intenso, in un breve intervallo che mi lasciava imbevuto in una travolgente tenerezza, nella sua dipendenza fatta di accettazione irriflessiva e assoluta, aveva la virtù di riscattarmi all’istante dalle mie perplessità e ossessioni, dai miei avvilimenti e cadute o dalle mie semplici occupazioni quotidiane, per lasciarmi in una sorta di circolo radioso, fatto di palpitante energia, di vigorosa certezza, come l’azione sconosciuta di una droga sconosciuta che avesse il potere di concedere la felicità senza ombre.”
Álvaro Mutis


“Segui le navi.
Segui le rotte che solcano le logore
e tristi imbarcazioni.
Non ti fermare.
Evita persino il più umile ancoraggio.
Risali i fiumi. Discendi i fiumi.
Confonditi nelle piogge che
inondano le pianure.
Rifiuta ogni sponda.”
Alvaro Mutis


Fu allora che, per la prima volta, mi apparve il Tramp Steamer, personaggio di non secondaria importanza nella storia di cui ci occupiamo. Con questa espressione, come è noto, si definiscono i mercantili di scarso tonnellaggio, non appartenenti alle grandi compagnie di navigazione, che viaggiano di porto in porto cercando carichi occasionali da trasportare dove che sia. E così tirano a campare, trascinando la loro sagoma malconcia assai più a lungo di quanto potrebbero far prevedere le loro precarie condizioni. Entrò all'improvviso nel mio campo visivo con la lentezza di un sauro ferito a morte. Non potevo credere ai miei occhi. (..) Scivolava, irreale, con l'ansimare agonico delle sue macchine e il ritmo sconnesso delle sue bielle che, da un momento all'altro minacciavano di tacere per sempre. [...]
Quella nave sbandata e quasi in rovina che lei vide al porto di Kingston è il miglior ritratto dello stato d'animo del suo capitano. Non c'era rimedio per nessuno dei due. Il tempo riscuoteva i suoi crediti.
I giorni del vino e della rose erano finiti per entrambi.
Alvaro Mutis, L'ultimo scalo del Tram Steamer



«Pochi giorni dopo questo dialogo sulla terrazza, entrò a Villa Rosa l’infausto messaggero che inviano gli déi per ricordarci che non sta nelle nostre mani il modificare neppure la più lieve particella del nostro destino. Giunse in forma di donna, con il nome slavo, evidentemente fittizio, di Larissa. I dadi stavano rotolando già da molto tempo prima delle nostre risoluzioni sulla terrazza. Lo scoprimmo presto».
Alvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia


Perché la morte, ciò che sopprime non sono gli esseri vicini e che sono la nostra stessa vita.
Ciò che la morte si porta via per sempre è il loro ricordo, l’immagine che si va cancellando, diluendo, sino a perdersi, ed è allora che cominciamo anche noi a morire”.
Alvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia


Ho sentito che al mio personaggio, a Maqroll il Gabbiere, un uomo così vissuto, dovevo dare un'amica assolutamente partecipe, una complice capace di entrare appieno nel suo gioco. È così che ho creato Ilona.
Álvaro Mutis






 Alvaro Mutis, L’ultima goccia di splendore.
E’ doveroso lanciarsi alla scoperta di nuove città.
Ci attendono razze generose. I pigmei meticolosi.
I grassocci e imberbi indiani della selva,
asessuati e bianchi come i serpenti delle paludi.
Gli abitanti delle piane più alte del mondo, stupiti
dinanzi al fremito della neve.
I deboli abitanti delle distese ghiacciate.
Le guide delle greggi.
Coloro che vivono in mezzo al mare da tanti secoli e che nessuno conosce
perché viaggiano sempre in direzione ostinata e contraria alla nostra.
Da loro dipende l’ultima goccia di splendore.
Restano ancora da scoprire luoghi importanti della Terra:
i grandi condotti da cui respira l’oceano,
le spiagge dove muoiono i fiumi che non vanno da nessuna parte,
i boschi dove nasce il legno di cui è fatta la gola dei grilli,
il posto dove vanno a morire le farfalle scure dalle grandi ali lanute
con il colore acre dell’erba secca del peccato.
Bisogna cercare e inventare di nuovo.
Resta ancora il tempo. Ben poco, è vero, ma è doveroso approfittarne.
 Alvaro Mutis, L’ultima goccia di splendore.


I perdenti sono le persone che più mi affascinano. Per me dietro ogni barbone si nasconde un eroe. Solo queste persone dimenticate riescono, come dice il poeta Álvaro Mutis, "a consegnare alla morte una goccia di splendore". È la fuga dal branco che ci porta a maturare spiritualmente. Così la solitudine diventa una possibilità di riscatto. E forse la vita, più che una corsa verso la morte, è una fuga dalla nascita.
Fabrizio De Andrè, Una goccia di splendore


Cioran, uomo di grande lucidità, diceva che la vita, più che una corsa verso la morte, è una disperata fuga dalla nascita. Quando veniamo al mondo affrontiamo una sofferenza e un disagio che ci portiamo avanti tutta la vita, quelli di un passaggio traumatico da una situazione conosciuta all'ignoto. Questo è il primo grande disagio. Il secondo, non meno traumatico, è quando ci rendiamo conto che dovremo morire. Per me questa spaventosa consapevolezza è arrivata verso i quattro anni. L'uomo diventa "grande", diventa spirituale o altro, quando riesce a superare questi disagi senza ignorarli. Ora, se a essi si aggiunge anche l'esercizio della solitudine, ecco che allora forse, a differenza di altri che vivono protetti dal branco, alla fine della tua vita riesci a "consegnare alla morte una goccia di splendore", come recita quel grande poeta colombiano che è Alvaro Metis. Se ti opponi, se ti rifiuti di attraversare e superare questi disagi, per sopravvivere ti organizzi affinché siano gli altri a occuparsene e deleghi. Questa rinuncia ti toglie dignità, ti toglie la vita. Credo che l'uomo, per salvarsi, debba sperimentare l'angoscia della solitudine e dell'emarginazione. La solitudine, come scelta o come costrizione, è un aiuto: ti obbliga a crescere. Questa è la salvezza.
Fabrizio De Andrè, Una goccia di splendore


"Smisurata preghiera" si ispira al libro di poesie "Summa di Maqroll il gabbiere.
Antologia poetica 1948-1988" di Álvaro Mutis. É considerata il testamento spirituale di De Andrè, che aveva, quasi trent'anni prima, cominciato la sua carriera discografica con una
"Preghiera in Gennaio".
É una della canzoni dove più si manifesta lo spirito anarchico e individualista di De Andrè.
É un grido contro le leggi e i compromessi imposti dalla società, dai più forti, dai più numerosi. Racconta a tal proposito l'autore:
"L'ultima canzone dell'album è una specie di riassunto dell'album stesso: è una preghiera, una sorta di invocazione... un'invocazione ad un'entità parentale, come se fosse una mamma, un papà molto più grandi, molto più potenti. Noi di solito identifichiamo queste entità parentali, immaginate così potentissime come una divinità; le chiamiamo Dio, le chiamiamo Signore, la Madonna. In questo caso l'invocazione è perché si accorgano di tutti i torti che hanno subito le minoranze da parte delle maggioranze."

"Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi... dire 'Siamo 600 milioni, un miliardo e 200 milioni' e, approfittando del fatto di essere così numerose, pensano di poter essere in grado, di avere il diritto, soprattutto, di vessare, di umiliare le minoranze. La preghiera, l'invocazione, si chiama 'smisurata' proprio perché fuori misura e quindi probabilmente non sarà ascoltata da nessuno, ma noi ci proviamo lo stesso."
http://www.fabiosroom.eu/it/canzoni/smisurata-preghiera/

Fabrizio de André ha preso ispirazione da questa Summa 
per una delle sue ultime canzoni più intense 'Smisurata preghiera'. 
La fine del viaggio è la morte a cui si consegna con la sua goccia di splendore:

Si addentrava tra alti scogli le cui lisce pareti verticali
penetravano docilmente un'acqua addormentata.
Navigava in silenzio. Una parola
il colpo dei remi,
il rumore di una catena sul fondo dell'imbarcazione
rimbombavano a lungo e inquietavano l'ombra fresca
che ispessiva a mano a man che si addentrava nell'isola.
Sul molo, una scalinata saliva soavemente
fino al promontorio più alto su cui fluttuava un ampio cielo in disordine.
Soltanto un uomo con una grande anima avrebbe potuto
scrivere una cosa così, una preghiera davvero smisurata.
L'eleganza, la forza, la grazia di quei versi, vestiti di una musica
come di sogno, non potevano che provenire dalla mente e dal
cuore di un artista immenso. Dubitai che forse dovevo essere io
tra i due, quello lusingato di aver incontrato l'altro.

Álvaro Mutis, 1999


Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità
Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie
Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità
ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere
Compositori: Alvaro Mutis / Fabrizio De Andre' / Ivano Fossati

https://youtu.be/RvEWdaRoduY


Amen di Álvaro Mutis (Colombia)
Che la morte ti accolga
con tutti i tuoi sogni intatti.
Di ritorno da una furiosa adolescenza,
all’inizio delle vacanze che non ti hanno mai concesso,
la morte t’ individuerà con un suo primo avviso.
Aprirà i tuoi occhi alle sue vaste acque,
t’inizierà nella sua brezza costante d’altro mondo.
La morte confonderà i tuoi sogni
e in essi riconoscerà i segni
da lei lasciati un tempo,
come un cacciatore che di ritorno
riconosce le sue tracce sull’aperto sentiero.

Amén de Álvaro Mutis (Colombia)
Que te acoja la muerte
con todos tus sueños intactos.
Al retorno de una furiosa adolescencia,
al comienzo de las vacaciones que nunca te dieron,
te distinguirá la muerte con su primer aviso.
Te abrirá los ojos a sus grandes aguas,
te iniciará en su constante brisa de otro mundo.
La muerte se confundirá con tus sueños
y en ellos reconocerá los signos
que antaño fuera dejando,
como un cazador que a su regreso
reconoce sus marcas en la brecha.
traduzione: Martha Canfield


da "Gli elementi del disastro" di Alvaro Mutis
Diceva Maqroll il Gabbiere:
Signore, perseguita gli adoratori del serpente lascivo!
Fa che tutti concepiscano il mio corpo come una fonte
inesauribile della tua infamia.
Signore, secca i pozzi che stanno in mezzo al mare dove i
pesci copulano senza riuscire a riprodursi.
Lava i cortili delle caserme e vigila sui neri peccati della
sentinella. Genera, Signore, nei cavalli l'ira delle tue
parole e il dolore di vecchie donne senza pietà.
Smembra le bambole.
Illumina la stanza del pagliaccio. Oh Signore!
Perché infondi quell'impudico sorriso di piacere nella
sfinge di stracci che predica nella sala d'aspetto?
Perché hai tolto ai ciechi il bastone con cui laceravano la
densa felpa del desiderio che li assedia e li sorprende
nelle tenebre?
Perché impedisci alla selva di entrare nei giardini e di
divorare i sentieri di sabbia percorsi nelle sere di festa
dagli incestuosi, dagli amanti attardati?
Con la tua barba da assiro e le tue mani callose, presiedi,
oh fecondissimo!, la benedizione delle piscine
pubbliche e il conseguente bagno degli adolescenti
senza peccato.
Oh signore! accogli le preghiere di questo scrutatore
supplicante e concedigli la grazia di morire avvolto
nella polvere delle città, addossato alle gradinate di
una casa infame e illuminato da tutte le stelle del
firmamento.
Ricorda Signore, che il tuo servo ha osservato pazientemente
le leggi del branco. Non dimenticare il suo volto.
Amen.



Alvaro Mutis, La paura.
Bandiera d'impiccati, contrassegno di barili, capitana della disperazione,
bidello di sodomia, sandolo oscuro che al calare della sera raggiunge la mia amaca.
E' allora che la paura fa il suo ingresso.
Passo dopo passo la notte va raffreddando i tetti di zinco, le cascate, le cinghie delle macchine, i fondi acri di miele impoverito.
Tutto infine soggiace al suo astuto dominio. Fino al terrazzo sale l'odore marcio del giorno.
Enorme piuma che evade e visita altre contrade.
Il freddo percorre le stanze più recondite.
La paura inizia la sua danza. Si ode il lontano e mansueto ronzio delle lampade ad arco, russare di pianeti.
Un Dio dimenticato guarda crescere l'erba.
Il senso di certi ricordi che mi invadono, mi sfugge dolorosamente: spiegge di tiepida cenere, vasti aerodromi all'alba, saluti interminabili.
L'ombra erige ebre colonne di terrore. Si inquietano i pisamos.
Capisco solo alcune voci.
Quella del'impiccato di Cocora, quella dell'anziano minatore che morì di fame sulla spiaggia coperto inspiegabilmente da foglie luccicanti di banano; quella delle ossa di donna scoperte nella gola dell'Orsa; quella del fantasma che vive nel forno di trapiche.
Mi segue una colonna di fumo, albero spesso di radici ardenti.
Vivo città solitarie dove i rospi muoiono di sete. Mi inizio a misteri semplici elaborati con parole trasparenti.
E giro eternamente dattorno al defunto capitano dai capelli d'acciaio. Mie sono tutte queste regioni, mie sono le famiglie esaurite del sogno. Dalla casa degli uomini non esce una voce di soccorso che allievi il dolore di tutti i miei seguaci.
Il suo dolore disseminato come l'aroma spesso dei zapotes maturi.
Il risveglio avviene all'improvviso e senza senso. La paura si dilegua vertiginosamente per tornare poi con energie nuove e opprimenti.
La vita sofferta a sorsi; bocconi amari che feriscono profondamente, ci colgono ancora di sorpresa.

Il mattino si riempie di voci:
Voci che vengono dai treni
dai bus delle scuole
dai tram di periferia
dalle coltri tiepide stese al sole
dalle golette
dai tricicli
dai burattinai di vergini infami
dal quarto piano dei seminari
dai giardini pubblici
da qualche stanza di pensione
e da molte altre dimore diurne della paura.
(da "Gli elementi del disastro")




Mutis (alias il Gabbiere):
Ma se mi soffermo a considerare più attentamente queste ricorrenti cadute, questi mancati appuntamenti che continuo a dare al destino con la stessa ripetuta goffaggine, mi rendo conto che, al mio fianco, è andata scorrendo un'altra vita. Una vita che è trascorsa al mio fianco senza che io lo sapessi. È lì, continua ad essere lì: è la somma di tutti i momenti in cui ho rifiutato quella svolta del cammino, in cui ho eliminato quell'altra possibile via d'uscita, e così si è andata formando la cieca corrente di un altro destino che avrebbe potuto essere il mio e che, in un certo modo, continua ad esserlo laggiù, su quell'altra sponda su cui non sono mai stato e che corre parallela al mio itinerario quotidiano. Mi è estranea e, ciononostante, attira a sé tutti i sogni, le fantasie, i progetti, le decisioni che fanno parte di me quanto questa inquietudine presente e che avrebbero potuto dare forma alla materia di una storia che ora trascorre nel limbo del contingente. Una storia uguale forse a questa che mi riguarda, ma ricca di tutto ciò che qui non è stato, ma che là continua ad essere, prendendo forma, scorrendo al mio fianco come un sangue spettrale che mi nomina, e, allo stesso tempo, non sa nulla di me. Voglio dire, una storia uguale, in quanto io ne sarei sempre stato il protagonista e l'avrei colorata della mia solita e ottusa inquietudine, ma completamente diversa nei suoi episodi e nei suoi personaggi. Penso anche che allo scoccare dell'ultima ora sarà quell'altra vita a scorrere davanti agli occhi con il dolore di qualcosa che si è perso e sprecato del tutto e non questa, quella reale e compiuta, la cui materia non credo meriti questo sguardo, quest'ultimo esame conciliatorio, perché non ne vale la pena, né voglio che sia questa la visione che consolerà il mio ultimo istante.
O il primo?
E per quanto l'errare sia vano, per quanto il cammino non conduca a nulla, è necessario percorrerlo. E' una ricerca interiore che, per onestà verso se stessi, non si può eludere - e lungo la quale in verità occorre superare diverse prove - a meno di non volersi aggrappare a facili, ma false, verità:

Segui le navi, segui le rotte che solcano le logore e tristi imbarcazioni. Non ti fermare. Evita persino il più umile ancoraggio. Risali i fiumi. Discendi i fiumi. Confonditi nelle piogge che inondano le pianure. Rifiuta ogni sponda.

Saremmo salvi, forse, se potessimo liberarci della nostalgia. Ma potremo mai giungere a sbarazzarci di quei compagni di vita tanto letali, eppure così umani - e a volte così cari - che sono i ricordi?

Apprendere, soprattutto, a non fidarsi della memoria. Ciò che crediamo di ricordare è completamente estraneo e diverso da quanto in verità è accaduto. Quanti momenti di un irritante e penoso astio ci riconsegna la memoria, anni dopo, come episodi di una spendida felicità. La nostalgia è la menzogna grazie alla quale ci avviciniamo più velocemente alla morte. Vivere senza ricordare è, forse, il segreto degli dèi.
Alvaro Mutis, La neve dell'Ammiraglio


La mia vita è fatta come se avessero cucito insieme capricciosamente gli scampoli che restano dopo aver tagliato un vestito.
Álvaro Mutis, La Neve dell'Ammiraglio


La donna, come le piante, come le tempeste nelle selve, 
come il fragore delle acque, si nutre dei più oscuri disegni celesti. 
Álvaro Mutis, La Neve dell'Ammiraglio

Mi incuriosisce oltremodo la maniera in cui si ripetono nella mia vita queste cadute, queste decisioni sbagliate fin dall'inizio, questi vicoli senza uscita la cui somma darebbe la storia della mia esistenza. Un'ardente vocazione di felicità costantemente tradita, quotidianamente smarrita e che si risolve sempre nella necessità di miseri insuccessi, tutti completamente estranei a ciò che, nel più profondo e vero del mio essere, ho sempre saputo che dovesse compiersi se non fosse per questa mia inclinazione a una continua sconfitta. Chi può capirlo?
Álvaro Mutis, La Neve dell'Ammiraglio, pag.16

Ma se mi soffermo a considerare più attentamente queste ricorrenti cadute, questi mancati appuntamenti che continuo a dare al destino con la stessa ripetuta goffaggine, mi rendo conto che, al mio fianco, è andata scorrendo un'altra vita. Una vita che è trascorsa al mio fianco senza che io lo sapessi. È lì, continua ad essere lì: è la somma di tutti i momenti in cui ho rifiutato quella svolta del cammino, in cui ho eliminato quell'altra possibile via d'uscita, e così si è andata formando la cieca corrente di un altro destino che avrebbe potuto essere il mio e che, in un certo modo, continua ad esserlo laggiù, su quell'altra sponda su cui non sono mai stato e che corre parallela al mio itinerario quotidiano. Mi è estranea e, ciononostante, attira a sé tutti i sogni, le fantasie, i progetti, le decisioni che fanno parte di me quanto questa inquietudine presente e che avrebbero potuto dare forma alla materia di una storia che ora trascorre nel limbo del contingente. Una storia uguale forse a questa che mi riguarda, ma ricca di tutto ciò che qui non è stato, ma che là continua ad essere, prendendo forma, scorrendo al mio fianco come un sangue spettrale che mi nomina, e, allo stesso tempo, non sa nulla di me. Voglio dire, una storia uguale, in quanto io ne sarei sempre stato il protagonista e l'avrei colorata della mia solita e ottusa inquietudine, ma completamente diversa nei suoi episodi e nei suoi personaggi. Penso anche che allo scoccare dell'ultima ora sarà quell'altra vita a scorrere davanti agli occhi con il dolore di qualcosa che si è perso e sprecato del tutto e non questa, quella reale e compiuta, la cui materia non credo meriti questo sguardo, quest'ultimo esame conciliatorio, perchè non ne vale la pena, né voglio che sia questa la visione che consolerà il mio ultimo istante.
O il primo? Questa è una domanda su cui meditare in un'altra occasione.
Álvaro Mutis, La Neve dell'Ammiraglio, pag. 18/19


Stabilisco, cosciente della loro ingenua inutilità, alcune regole di vita. È uno dei miei esercizi preferiti. Mi fa sentire meglio e credo in questo modo di mettere in ordine qualcosa anche dentro di me. Vecchi retaggi del collegio dei gesuiti, che non servono a niente e non portano a niente, ma che possiedono questo carattere di benefica litania nella quale mi rifugio quando sento cedere le fondamenta. Vediamo.
Meditare sul tempo, cercare di sapere se il passato e il futuro hanno valore e se veramente esistono, ci conduce in un labirinto familiare, ma non per questo meno indecifrabile.
Ogni giorno siamo un altro, ma ci dimentichiamo sempre che la stessa cosa accade ai nostri simili. In questo, forse, consiste ciò che gli uomini chiamano solitudine. O è così, o si tratta di una solenne imbecillità.
Quando mentiamo a una donna torniamo ad essere il bambino abbandonato che non ha appiglio nel suo abbandono. La donna, come le piante, come le tempeste nella selva, come il fragore delle acque, si nutre dei più oscuri disegni celesti. È meglio saperlo fin da subito. In caso contrario, ci aspettano sorprese desolanti.
Una coltellata nel corpo di qualcuno che sta dormendo. Le labbra esatte della ferita che non sanguina. La vertigine, il rantolo, la quiete finale. Così alcune certezze che ci assesta la vita, l'indecifrabile, l'astuta, l'erratica e indifferente vita.
Bisogna pagare certe cose, di altre rimaniamo sempre in debito. Questo crediamo. Nel «bisogna» si nasconde la trappola. Continuiamo a pagare e continuiamo a essere in debito e molte volte non lo sappiamo neppure.
Gli sparvieri che gridano sopra i precipizi e volteggiano cercando la loro preda sono l'unica immagine che trovo per evocare gli uomini che giudicano, legiferano e governano. Siano maledetti.
Una carovana non simbolizza né rappresenta nulla. Il nostro errore consiste nel pensare che vada da qualche parte o provenga da qualche altra. Il significato della carovana si cifra nella sua stessa deriva. Lo sanno gli animali che la compongono, lo ignorano i carovanieri. Sarà sempre così.
Mettere il dito sulla piaga. Opera di uomini, compito bastardo che nessun animale sarebbe in grado di portare a termine. Stupidità di profeti e di ciarlatani indovini. Pessima genìa e, ciononostante, tanto ascoltata e tanto richiesta.
Tutto ciò che dicamo sulla morte, tutto ciò che si vuole ricamare attorna al tema, non cessa di essere un esercizio sterile, completamente inutile. Non avrebbe più senso tacere per sempre e aspettare? Non lo si chieda agli uomini. In fondo devono rendere necessaria la parca, forse appartengono esclusivamente ai suoi domini.
Un corpo di donna sul quale scorre l'acqua dei torrenti; le sue brevi grida di sorpresa e di gioia, l'agitarsi delle sua membra tra le schiume che travolgono rossi frutti di caffé, polpa di canna, insetti che lottano per liberarsi dalla corrente: ecco qui la lezione di un gaudio che, sicuramente, non tornerà a ripetersi.
Nel Crac dei Cavalieri di Rodi, le cui rovine si innalzano sopra un dirupo vicino a Tripoli, c'è una tomba anonima che porta la seguente iscrizione: «Non era qui». Non c'è giorno in cui io non mediti su queste parole. Sono chiarissime e nello stesso tempo racchiudono tutto il mistero che ci è dato sopportare.
Dimentichiamo veramente parte di quanto ci è accaduto? Non sarà piuttosto che questa porzione del passato serva da seme, da anonimo incentivo perché si riparta nuovamente verso un destino che stupidamente avevamo abbandonato? Misera consolazione. Sì, dimentichiamo. Ed è giusto che sia così.
Álvaro Mutis, La Neve dell'Ammiraglio, pag. 20/21


Sacra ispirazione dei miei patroni e antenati, delle mie guide e dei miei protettori di ogni ora, sii presente in questo momento di pericolo, diffondi il tuo coraggio, mantieni con fermezza la legge dei tuoi propositi, revoca il disordine degli uccelli e delle creature augurali e netta il vestibolo degli innocenti dove il vomito dei respinti si rapprende come un segno di sfortuna, dove gli abiti dei supplici sono macchia che confonde la nostra bussola, rende incerti i nostri calcoli e ingannevoli i nostri pronostici.
Invoco la tua presenza in questa ora e deploro con tutto il cuore la catena delle mie trasgressioni:
il mio patto con i leopardi nutriti nelle greppie, la mia debolezza e la mia tolleranza con i serpenti che cambiano pelle al solo grido dei cacciatori smarriti, la mia solitaria comunione con corpi che sono passati di mano in mano come verga che aiuta a passarei guadi e nella cui pelle si cristallizza la saliva degli umili, la mia abilità nell'ordire la menzogna di poteri e astuzie che sviano i miei fratelli dalla retta applicazione delle loro intenzioni, la mia inavvedutezza nel proclamare i tuoi poteri negli uffici della dogana e nei saloni della guardia, nei padiglioni del dolore e sulle barche dove fiorisce la festa, sulle torri che vigilano la frontiera e nei corridoi dei potenti.
Cancella con un solo tratto tanta miseria e tanta infamia, preservami con la certezza della mia obbedianza alle tue amare leggi, alla tua ingiuriosa arroganza, alle tue lontane occupazioni, ai tuoi argomenti desolati.
Mi consegno per intero al dominio della tua incontestabile misericordia e umilmente mi prosterno
per ricordarti che sono un viandante in pericolo di morte, che la mia ombra non vale nulla,
che colui che muore lontano dai suoi è come spazzatura calpestata negli angoli del mercato,
che sono il tuo servo e che niente posso e che in queste parole è racchiuso il metallo senza lega né impurità di colui che ha pagato il tributo che ti
si deve ora e sempre per la pallida eternità.
Amen.
Álvaro Mutis, La Neve dell'Ammiraglio, pag.  71/72



Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità

…Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respiri muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore,
di umanità, di verità […]
ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un’anomalia
Fabrizio De André, Smisurata Preghiera


https://youtu.be/zmDwPwDa6CY



Fabrizio De André, Smisurata preghiera.
Album: "Anime salve".
L'ultima canzone dell'ultimo disco di Fabrizio De André, Anime Salve (1996). 
Smisurata preghiera (ispirata dal "Gabbiere" di Alvaro Mutis) è invece secondo me non solo la somma dei percorsi del disco, ma anche di quelli della vita poetica di De Andrè. Fortissima la presenza di Mutis qui ripreso sia per la "Preghiera" di Maqroll, che al contrario recita "Ricorda Signore che il tuo servo ha osservato pazientemente le leggi del branco. Non dimenticare il suo volto", sia in più punti, a partire da quel "gli elementi del disastro" che ricorda appunto una delle raccolte più note del poeta. Ma De Andrè attraverso la poesia stavolta ci offre un vero, grande affresco a tinte forte della solitudine libera e scelta, presupposto necessario per "consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità", perché l'uomo è individuo non esaltato dalla massa, dalla folla, dalla maggioranza, ma da essa annullato, appiattito, reso schiavo e complice di naufragi, scandali, disastri. Una condizione questa che necessita forza, tenacia ("direzione ostinata e contraria") ma sembra garantire soltanto una vita disagevole ed emarginata ("nel vomito dei respinti", "marchio speciale di speciale disperazione"). [...]
(Federico Moss)

Smisurata preghiera [...] è una specie di salmo di invocazione e di imprecazione sulle minoranze. Ed è costruita a partire da testi di Alvaro Mutis, che in un'intervista televisiva ha dichiarato che occorre un talento straordinario per sintetizzare un'intera opera in una sola canzone.
[Alessandro Gennari, in Le mie note a margine (intervista a F. De André)]

- "Partiamo proprio da Mutis. Come è arrivato a conoscerlo?".
"Per una di quelle gradevoli coincidenze che il destino, ogni tanto, si diverte a mettere in scena.
Nel 1991 il mio amico Vittorio Bo mi regalò un romanzo, La nave dell'ammiraglio, che trovai semplicemente straordinario. Allora cominciai a divorare tutti gli altri suoi scritti, e quando arrivai alla raccolta di poesie Summa di Maqroll-il gabbiere presi il coraggio a quattro mani:
gli domandai se avesse nulla in contrario a che mi appropriassi di qualche pezzo pregiato della sua sterminata gioielleria, per incastonarlo in una canzone che avevo in mente. In questo modo è nata Smisurata preghiera, e devo confessare che mai parto fu tanto soddisfacente".
Intervista di F. De André con A. Podestà (L'Espresso, 18 settembre 1996)

«L'ultima canzone dell'album è una specie di riassunto dell'album stesso:
è una preghiera, una sorta di invocazione...
un'invocazione ad un'entità parentale, come se fosse una mamma, un papà molto più grandi, molto più potenti. Noi di solito identifichiamo queste entità parentali, immaginate così potentissime come una divinità; le chiamiamo Dio, le chiamiamo Signore, la Madonna. In questo caso l'invocazione è perchè si accorgano di tutti i torti che hanno subito le minoranze da parte delle maggioranze.
Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi ... dire "Siamo 600 milioni, un miliardo e 200 milioni..." e, approfittando del fatto di essere così numerose, pensano di poter essere in grado, di avere il diritto, soprattutto, di vessare, di umiliare le minoranze.
La preghiera, l'invocazione, si chiama "smisurata" proprio perchè fuori misura e quindi probabilmente non sarà ascoltata da nessuno, ma noi ci proviamo lo stesso.»
(Presentazione dello stesso De André durante un concerto)

Dal sito Via del Campo, un'interessante analisi:
Giacomo Falconi -

Dalla Summa di Maqroll a Desmedida Plegaria (PDF)
Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al di sopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità

Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta

recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie
Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta

come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine

per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità

per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità

ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti

come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere
Desmedida plegaria: La versione spagnola di Álvaro Mutis.

 ►

È opera dello stesso Álvaro Mutis e del compositore argentino Luis Bacalov.
E' stata interpretata dallo stesso Fabrizio de André (ma mai incisa in album, sebbene sia reperibile facilmente in registrazioni ufficiose) per la colonna sonora del film Ilona arriva con la pioggia (Ilona llega con la lluvia) di Sergio Cabrera.

DESMEDIDA PLEGARIA
Sobre los naufragios,
desde el Mirador de las Torres,
Lejana y sobre los elementos del desastre
De las cosas que suceden por encima de la palabras
Celebrantes de la nada
En un viento tán fácil
De saciedad, de impunidad

Bajo el escándalo metálico
De armas bluntas o en desuso
Conduciendo la columna
De dolor y de humareda
Que deja las batallas infinitas al caer de la tarde,
La mayoría está, la mayoría está

Recitando un rosario
De mezquinas ambiciones,
De temores milenarios,
De inagotables astucias
Cultivando tranquila
La horrible variedad
De su propia soberbia
La mayoría está

Como una enfermedad
Como un infortunio
Como una anestesia
Como una costumbre

Para quien viaja con obstinada y contraria dirección,
Con su estigma especial de especial desesperanza
Y entre vómitos de rechazados sus últimos pasos va dando
Para entregar a la muerte una gota de esplendor,
De humanidad, de verdad

Por quien en Aqaba curó la lepra con un cetro ficticio
Y sembró su travesía de celos devastadores y de hijos
Con improbables nombres de cantantes de tango
En un vasto programa de eternidad

Recuerda, Señor, a estos siervos desobedientes
A las leyes de la manada,
No olvides sus rostros
Que al cabo de la alternancia
Es apenas justo que la fortuna los toque

Como un descuido,
Como una anomalía,
Como una distracción,
Como un deber.
inviata da Riccardo Venturi



https://youtu.be/qA6AZ5ziAms



Versione in sardo campidanese di Stèvini Cherchi
Ho voluto mettere un'altra versione in sardo campidanese non per sminuire quella di Francu de Fabiis, che pure è bellissima (e che non avevo letto), ma solo perché la mia è cantabile rispettando la melodia dell'originale.
Una canzone che amo molto perché potrebbe essere un programma per noi sardi "minorizzati".

Faber, un’esempru po totu is Sardus
PREGADORIA STREMENADA

Apitzus de is afundaus
castiendi arta de is turris
incrubada e atesu de is elementus sciusciaus
de is cosas chi acadessint asuba de is fueddus
chi tzirimòniant de nudda
in d-unu fàtzili bentu
de satzadura de sfacidura.

In su scàndulu metàllicu
de armas imperadas e no
a ghiai sa coròndua
de dolori e de fumu
chi lassat totu is batallas a su scurigadòrgiu
sa majoria stat, sa majoria stat

arresendi un'arrosàriu
de speddieddus piticus
de timorias de mill'annus
de trassas chi no acabant
pesendi sullena
sa lista arrorosa
de is artivesas suas
sa majoria stat

che a una maladia
che a una malasorti
che a un'anestesia
che a un'imbitzu malu

po chini tirat deretu tostorrudu e contràriu
cun su siddu nodiu de nodiu disisperu
in su vòmbitu de is arreusaus giait is ùrtimus coscus
po intregai a sa morti unu stìddiu de luxentori
de umanidadi de beridadi.

Po chini in Aqaba sanàt sa lepra a pèrtia frassa de cumandu
e seminàt passendi su giassu de fèngia mala e de fillus
a nomìngius strambecus de cantadoris de tangu
in d-unu grandu programa de eternidadi

arregorda-tì o Deus de is serbidoris arrebellus
a sa lei de su tallu
no ti scarèsciat sa faci insoru
chi apustis tanti stontonu
est finsas bonu chi ddus agiudit sa sorti 

che a una faddina
che a una stramberia
che a unu sbèliu
che a unu doveri.
inviata da Stèvini Cherchi





L’infermiere – non abbiamo mai saputo il suo nome e lo chiamiamo sempre con quello del suo mestiere – era solito battezzare le nostre malattie con nomi di ragazze. E mentre le sue pazienti e sagge mani cambiavano i lenzuoli, egli domandava della nostra malattia come fosse stata una fanciulla che ci avesse accompagnato amorosamente lungo il penoso travaglio delle nostre notti.
Ah, quei nomi pronunciati da un letto all’altro come una litania di ricordi fermati sulle inebrianti soglie dell’infanzia! 
Alvaro Mutis


di Andrea Bajani.
Gli ospedali li aveva passati in rassegna in maniera meticolosa, e dentro uno di questi Alvaro Mutis è andato a morire. A Città del Messico – una settimana fa – a 90 anni compiuti. Si intitolava Reseña de los Hospitales de Ultramar, quell’incursione ospedaliera, ed era composta di undici testi in prosa che Mutis aveva pubblicato nel 1955 sulla prestigiosa rivista colombiana Mito. Li avrebbe poi ripubblicati più tardi in volume, e li avrebbe intitolati Memoria de los Hospitales de Ultramar.

Degli ospedali, diceva, lo affascinavano i confini, lo stare stretti tra due fuori: 
tra la vita e la vita, se il ricovero avrebbe portato la cura, oppure tra la vita e la morte, se il tempo avesse chiuso la porta. L’ospedale è comunque un passaggio, diceva. Da lì si va verso la salute o verso la fine. È il terreno, gli piaceva dire, in cui la speranza resta sospesa, si alza dal tavolo e lascia le carte al destino. E per Mutis non c’era niente di più ricattatorio della speranza, che dava dipendenza, era la carota sbandierata di fronte al somaro per fargli apprezzare la vita.

Gli ospedali, per lo scrittore e poeta colombiano autore di Un bel morir e di L’ultimo scalo di Tramp Steaner, erano un porto in mezzo a un inferno. Quello che succedeva lì dentro era la “enumeración interminable de los requisitos exigidos para zarpar de aquel puerto de maldición”, la ricerca di quei requisiti che, soli, avrebbero potuto portarlo fuori da lì. E se la morte fosse arrivata, pazienza. Avrebbe tolto alla vita la maschera:
“La morte benvenuta – scriveva –
ci esime da ogni vana speranza”.

D’altronde era uomo di porti e destini anche il leggendario gabbiere Maqroll, che proprio negli Ospedali d’oltremare si era affacciato e che poi sarebbe diventato l’eroe di tanti romanzi, da Ilona arriva con la pioggia a La neve dell’ammiraglio.

Sarebbe probabilmente inesatto dire che Alvaro Mutis prediligesse quei luoghi in cui la vita se la gioca fino all’ultimo, in cui non è un dato di diritto riportartarla a casa. Però è un fatto, che nella sua prosa la vita scorreva lì dove la morte le faceva da liquido di contrasto. E il gabbiere, che è l’uomo che sale sui pennoni degli alberi per manovrare la vela, è quello che più di tutti poteva capire dove il mare finiva e dove cominciava la terra.

Era questo il Gabbiere Maqroll, in cui forse in tanti lettori si sono riconosciuti per l’essere a metà del guado, uomo del mistero e del confine, avventuroso, malinconico, fatalista, arreso e inarreso al contempo. In tanti avevano provato a imparentarlo con qualcuno, a procacciargli un pedigree. I più gli proponevano Lord Jim o Marlow di Conrad, e Mutis lasciava parlare. Poi avanzava candidamente, e forse senza prendersi troppo sul serio, Melville e la lotta metafisica di Ishmael contro la balena.

In fondo i personaggi di Alvaro Mutis erano uomini di scoperta e di attesa, di solitudini estreme e di bramosa ricerca di una relazione con l’umano. Lui stesso l’aveva sperimentata sulla sua pelle, un’altra attesa, un’altra gabbia, un altro ospedale: nel 1959 era stato rinchiuso dentro il carcere messicano di Lecumberri, accusato di peculato. Da lì nacque il dolorosissimo Diario di Lecumberri, e quel libro in qualche modo unico che sono le conversazioni in carcere con Elena Poniatowska, le Cartas de Alvaro Mutis a Elena Poniatowska.

Da dentro la cella 52, sulla cui parete aveva appeso una foto del suo Marcel Proust, Mutis per quindici mesi salì su altri pennoni, cercando di capire dove finisse quel mare plumbeo che tecnicamente chiamavano detenzione e dove ricominciava la vita.Privato della relazione umana, per la quale sempre aveva vissuto, Mutis si sentiva stretto dentro una morsa, un gabbiere sopra una nave senza vento.

Poi uscì e il resto lo si trova nei libri, nei ricordi di Gabriel Garcia Marquez, nella Smisurata preghiera di Fabrizio De Andrè, che gli diede in qualche modo la fama in Italia.

E infine, oltre le porte di quell’ultimo ospedale d’oltremare dove Alvaro Mutis è andato a morire, a portare via ogni sua ulteriore vana speranza. È lì che si spalanca qualcosa di più grande e di più misterioso:

“Oh signore! – queste le parole ormai celebri di Maqroll
– accogli le preghiere di questo scrutatore supplicante
e concedigli la grazia di morire
avvolto nella polvere delle città,
addossato alle gradinate di una casa infame
e illuminato da tutte le stelle del firmamento”.

http://www.minimaetmoralia.it/wp/ricordando-alvaro-mutis/



Nessun commento:

Posta un commento