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mercoledì 11 gennaio 2012

Orazio. Chi non si intende di navigazione, si guarda bene dal guidare navi; soltanto chi ha studiato prescrive l'abrotono al malato; di medicina si occupano i medici, e gli artigiani esercitano ciascuno il loro mestiere. Tutti, invece, capaci o incapaci, siedono al governo.

Mutato nomine de te Fabula narratur.
Sotto nome diverso la favola di te parla.
Orazio, Satire, I, I, 69-70.



La locuzione latina Ut pictura poësis, formulata dal poeta Quinto Orazio Flacco, tradotta letteralmente significa "Come nella pittura così nella poesia" (Orazio, A. Pisone, 361).
Come dire quindi "la poesia è come un quadro" o "un quadro è come una poesia".
Il Poeta spiega che esiste un tipo di poesia che piace maggiormente se vista da vicino, ed un'altra che piace solamente se guardata da lontano, o riosservata una seconda volta, o analizzata con un occhio critico, come avviene per la pittura. Fin dagli antichi il legame fra la poesia e la pittura è sempre stato dibattuto. Orazio con la sua "Ars Poetica" ("L'Epistola ai Pisoni", uno dei testi di riferimento fondamentali per tutto il discorso filosofico e storico sull'Estetica, fino ai giorni nostri) vuole mettere in risalto come in poesia e in arte esistano opere immediatamente comprensibili, lampanti, ed altre meno.



Chi parla male alle spalle dell'amico assente, chi non lo difende quando altri lo incolpa, chi si diverte con le feroci denigrazioni per accaparrarsi la fama di uomo di spirito, chi giunge ad inventarsi ciò che non ha mai visto, chi non sa tenere un segreto: costui è di animo nero e spregevole; da questi, o cittadino Romano, dovrai sempre guardarti e diffidare.
Absentem qui rodit amicum, qui non defendit alio culpante, solutos qui captat risus hominum famamque dicacis, fingere qui non visa potest, commissa tacere qui nequit: hic niger est, hunc tu, romane, caveto.
Quinto Orazio Flacco


Irreparabile temporis exitum caliginosa nocte premit deus
Un dio vela con caliginosa notte l'irreparabile scorrere del tempo.
Orazio


Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.
Orazio


Il ridicolo risolve le grandi questioni meglio e più vigorosamente della serietà.
Satire, Libro I - X Satira - Orazio


4.9 Libro I, satira 9 : Satira dello Scocciatore
La Satira più famosa di Orazio, comunemente conosciuta come "La satira del seccatore", è una vivace scenetta che vede lo stesso Orazio passeggiare tranquillo per le vie di Roma, imbattendosi tutta un tratto in un suo conoscente, noto arrampicatore sociale, che gli si attacca come una zecca e lo sommerge di chiacchiere, chiedendogli di essere introdotto nel circolo di Mecenate.
I due incominciano a battibeccare dando vita ad una comicità che non ha nulla da invidiare alla satira moderna. Il povero Orazio viene infine salvato provvidenzialmente da un tizio che trascina il seccatore in tribunale. All'interno della Satira, attraverso l'immagine "in negativo'' del circolo di Mecenate proposta dal seccatore. Orazio intende in realtà celebrarlo ed onorare chi ne fa parte. Dalle sue asserzioni esce un ritratto idealizzato del circolo, all'interno del quale vige l'armonia, ognuno ricopre il suo ruolo e non c'è spazio per invidie, gelosia e sopraffazione reciproca: un vero esempio dell'integrità d'animo degli antichi romani. Il seccatore stenta a credere alle parole del poeta, poiché secondo la sua idea tra le persone raccolte attorno a Mecenate, un protettore cosi potente e famoso, non possono che esserci subdoli inganni per l'affermazione di uno a scapito dell'altro. Orazio invece va molto fiero del circolo di cui fa parte e dei valori sublimi che esso rappresenta, come l'amicizia vera, la purezza d'animo e la fatica, necessaria per raggiungere qualsiasi obiettivo, ed esce pienamente vincitore dal confronto verbale col seccatore, una persona vile ed ipocrita.
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Passeggiavo, per caso, lungo la via Sacra: vecchia abitudine.
E intanto meditavo qualche mia sciocchezza, tutto concentrato.
Mi abborda d’improvviso un tizio di cui conosco solo il nome. 
Afferra la mia mano: «come va, carissimo?»
«fin qui, stupendamente» gli rispondo, «e t’auguro ogni bene».
Non molla. Mi tallona. «Insomma, cosa vuoi?» gli butto là. E lui:
«dovresti pur conoscerci» dichiara «siamo intellettuali». «avrò
per te» gli dico «stima ancor maggiore». Tentando disperato di
tagliare l’ora acceleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. «beato te, Bolano, spirito bollente!»
rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro, garrulo, ciarlava, proclamava
il suo entusiasmo per le strade, la città.
Io non replicavo. «ma tu» sogghigna «tu non vedi l’ora di
piantarmi in asso. Da un bel pezzo l’ho notato. Niente da fare: ti terrò
ben stretto, restandoti alle costole. Dove sei diretto, adesso?» «giri
inutili per te: vado a trovare una persona che certo non conosci. È
a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare»
«non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro, ti accompagno».
Mi si abbassano le orecchie, come a un somarello rassegnato suo
malgrado quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello
ricomincia: «mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno 
quanto quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia 
scrivere più versi, e più velocemente; chi danzi con maggiore grazia. 
Se udisse il mio canto, Ermogene m’invidierebbe».
Era giunto il momento d’interromperlo: «hai ancora la madre,
dei parenti cui stai a cuore il tuo stato di salute?» «più
nessuno, tutti li ho sepolti» «beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
Dammi il colpo di grazia: un tragico destino incombe su di me. Una
vecchia sabina, svuotando l’urna per i vaticini (ero fanciullo), lo predisse:
"questo ragazzo non l’ammazzeranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tisi o podagra che rallenta il passo;
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone. Uscito dunque
dalla pubertà, abbia il buonsenso di stare alla larga dai loquaci"».
Eravamo giunti al tempio di Vesta. Scoccava in quel momento l’ora quinta,
e «guarda caso» gli toccava presentarsi in tribunale,
in seguito a cauzione; se non fosse comparso, il processo era perduto.
«fammi un piacere» salta su «assistimi un istante». «fossi matto:
non mi reggo in piedi, di diritto civile non m’intendo,
e poi ho fretta d’andare dove sai». «e io che faccio?» dice
«rinuncio a te, o alla mia causa?» «a me, ti prego»
«nient’affatto» replica, e va avanti. È duro contrastare un vincitore:
finisco col venire dietro. «come va, con Mecenate?»
torna alla carica. «è un uomo assennato, coltiva pochi amici».
«nessuno ha saputo sfruttare più abilmente la fortuna. Avresti
un ottimo assistente, bravo a spalleggiarti, se soltanto acconsentissi
a presentarmi a lui. Garantito che allora li sbaraglieresti
tutti». «no, non è come tu pensi che viviamo in quel circolo:
non c’è ambiente più limpido, più immune
da simili bassezze. Non mi da nessun fastidio, t’assicuro, 
che un tale sia più ricco, un altro più dotato di cultura: ognuno 
ha il posto che gli spetta». «fantastico, incredibile!» «è
la pura verità!» «ma tu mi fai bruciare ancora di più
dalla gran voglia d’accostare il personaggio!» «se ci tieni tanto,
con le tue capacità lo espugnerai; è tutt’altro che invincibile:
proprio per questo, anzi, non concede facilmente un primo approccio» «non 
mi smentirò: corromperò i suoi servi a colpi di tangenti. Se per oggi
resterò tagliato ancora fuori, non desisterò; aspetterò il momento
buono, cercando d’incontrarlo nei crocicchi, poi d’accompagnarlo. Non c’è
nulla in questa vita, che si ottenga senza sforzo». Mentre si esibisce,
ecco spunta Aristio Fusco, caro amico, lo conosce benissimo, lui, quel
seccatore. Ci fermiamo per la strada «donde vieni?
Dove vai?» ci si chiede a vicenda, e si risponde. Accenno a tirarlo
per la veste, cerco di tastare con la mano le sue braccia insensibili. Gli faccio
dei segnali, strizzatine d’occhi: che mi tiri lui fuori dai guai! E invece,
dispettoso, ride, fa lo gnorri. Il fegato mi brucia dalla bile.
«mi pare che tu avessi l’intenzione di parlarmi in confidenza di qualcosa, 
almeno, lo dicevi» «certo, mi ricordo. Te ne parlerò, 
sì, ma in un momento più opportuno. Oggi è novilunio,
sabato: vuoi forse spernacchiare i giudei circoncisi?» «Non ho»
rispondo «scrupoli religiosi». «ma ce li ho io; soffro, come tanti, di qualche
debolezza in più. Abbi un poco d’indulgenza: un’altra volta ti dirò». Che
sole tenebroso era mai sorto su di me! Se la squaglia, il briccone, e mi lascia
col pugnale sospeso sulla testa. Colpo di scena: viene incontro al seccatore
il suo avversario, e ad alta voce: «infame, dove scappi?» lo apostrofa; 
e a me: «testimonieresti a mio favore?» non ho difficoltà a
porgergli l’orecchio. Vanno dritti in tribunale. Gridano ambedue.
Grande accorrere di gente. E fu così che Apollo decise di salvarmi.

Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos, 
nescio quid meditans nugarum, totus in illis: 
accurrit quidam notus mihi nomine tantum 
arreptaque manu, «Quid agis, dulcissime rerum?». 
«Suaviter, ut nunc est», inquam «et cupio omnia quae vis». 
Cum adsectaretur, «Numquid vis?» occupo. At ille 
«Noris nos» inquit; «docti sumus». Hic ego «Pluris 
hoc» inquam «mihi eris». Miserere discedere quaerens, 
ire modo oscius, interdum consistere, in aurem 
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos 
manaret talos. «O te, Bolane, cerebri 
felicem» aiebam tacitus, cum quidlibet ille 
garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi 
nil respondebam, «Misere cupis» inquit «abire: 
iamdudum video; sed nihil agis: usque tenebo; 
persequar. Hinc quo nunc iter est tibi?». «Nil opus est te 
circumagi: quendam volo visere non tibi notum; 
trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos». 
«Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te». 
Demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus, 
cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille: 
«Si bene me novi, non Viscum pluris amicum, 
non Varium facies; nam quis me scribere pluris 
aut citius possit versus? Quis membra movere 
mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto». 
Interpellandi locus hic erat: «Est tibi mater, 
cognati, quis te salvo est opus?». «Haud mihi quisquam. 
Omnis composui». «Felices! Nunc ego resto. 
Confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella 
quod puero cecinit divina mota anus urna: 
"Hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis 
nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra: 
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces, 
si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas"». 
Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei 
praeterita, et casu tum respondere vadato 
debebat, quod ni fecisset, perdere litem. 
«Si me amas», inquit «paulum hic ades». «Inteream si 
aut valeo stare aut novi civilia iura; 
et propero quo scis». «Dubius sum quid faciam», inquit, 
«tene relinquam an rem». «Me, sodes». «Non faciam» ille, 
et praecedere coepit; ego, ut contendere durum 
cum victore, sequor. «Maecenas quomodo tecum?» 
hinc repetit. «Paucorum hominum et mentis bene sanae». 
«Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes 
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas, 
hunc hominem velles si tradere: dispeream, ni 
summosses omnes». «Non isto vivimus illic, 
quo tu rere, modo; domus hac nec purior ulla est 
nec magis his aliena malis; nil mi officit, inquam, 
ditior hic aut est quia doctior; est locus uni 
cuique suus». «Magnum narras, vix credibile». «Atqui 
sic habet». «accendis quare cupiam magis illi 
proximus esse». «Velis tantummodo: quae tua virtus, 
expugnabis: et est qui vinci possit eoque 
difficiles aditus primos habet». «Haud mihi dero: 
muneribus servos corrumpam; non, hodie si 
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram, 
occurram in triviis, deducam. Nil sine magno 
vita labore dedit mortalibus». Haec dum agit, ecce 
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum 
qui pulchre nosset. Consistimus. «Unde venis et 
quo tendis?» rogat et respondet. Vellere coepi 
et prensare manu lentissima bracchia, nutans, 
distorquens oculos, ut me eriperet. Male salsus 
ridens dissimulare; meum iecur urere bilis. 
«Certe nescio quid secreto velle loqui te 
aiebas mecum». «Memini bene, sed meliore 
tempore dicam; hodie tricensima, sabbata: vin tu 
curtis Iudaeis oppedere?». «Nulla mihi» inquam 
«religio est». «At mi: sum paulo infirmior, unus 
multorum. Ignoscens; alias loquar». Huncine solem 
tam nigrum surrexe mihi! Fugit improbus ac me 
sub cultro linquit. Casu venit obvius illi 
adversarius et «Quo tu, turpissime?» magna 
inclamat voce, et «Licet antestari?». Ego vero 
oppono auriculam. Rapit in ius; clamor utrimque. 
Undique concursus. Sic me servavit Apollo.
http://defaste.altervista.org/orazio/sermones/I9.htm




Davo, lo schiavo di Orazio, gli fa una predica:
La verità è che tu, che comandi a me, ubbidisci umilmente ad un altro, e ti fai guidare come una marionetta dai fili tirati da altri. Chi, dunque, è libero? Il sapiente, che è padrone di se stesso, che non ha paura né della povertà, né della morte, né delle catene, che sa resistere alle passioni, che ha la forza di disprezzare gli onori. Orazio Satira II, VI ((Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.)
nempe 80
tu, mihi qui imperitas, aliis servis miser atque duceris ut nervis alienis mobile lignum.
quisnam igitur liber? sapiens sibi qui imperiosus, quem neque pauperies neque mors neque vincula terrent,
responsare cupidinibus, contemnere honores 85 fortis, ....?



Questa è filosofia stoica e riguarda il vivere quotidiano, cioè ciò che costituisce la fatica più grande.
Orazio è scherzoso -tanto è vero che ambienta il dialogo durante i Saturnali, circa il nostro Carnevale- e rovescia la realtà: non è il solito maestro filosofo ad insegnare, ma uno schiavo... questa è stata la strada per l'abolizione della schiavitù. Seneca poi, 50 anni dopo, dirà che gli schiavi sono uomini colpiti dal destino, uomini come noi...
Le mie citazioni hanno valore 'storico': voglio far vedere il percorso fatto dall'uomo, prima timidamente poi via via più sicuro, verso una società accettabile.
E poi servono anche per far vedere che non esiste il 'buon tempo antico', ma un faticoso cammino: e la fatica dell'uomo riscatta tutte le brutture commesse




Est modus in rebus. 
Nota sentenza di Orazio, cui fa seguito (Satire I, 1, vv. 106-107) sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura.
http://www.treccani.it/vocabolario/est-modus-in-rebus/

"Est modus in rebus.
Orazio con questo motto (Satire (I, 1, 106), voleva far capire che c’è una misura nelle cose. 
Ci sono delle regole scritte e non che bisognerebbe rispettare per non cadere negli eccessi.
Tutto questo è valido per il privato e a maggior ragione per il pubblico ( res pubblica): 

http://grottablog.wordpress.com/2009/08/20/est-modus-in-rebus/

Est modus in rebus. 
Nota sentenza di Orazio, cui fa seguito (Satire I, 1, vv. 106-107) sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura.
http://www.treccani.it/vocabolario/est-modus-in-rebus/

"Est modus in rebus.
Orazio con questo motto (Satire (I, 1, 106), voleva far capire che c’è una misura nelle cose
Ci sono delle regole scritte e non che bisognerebbe rispettare per non cadere negli eccessi.
Tutto questo è valido per il privato e a maggior ragione per il pubblico ( res pubblica): 
la “cosa” pubblica non è arrivata per eredità agli amministratori , è stata affidata agli stessi dagli elettori.

Badate non si tratta di un sofisma ma qualcosa di molto più serio : il gestore non è il padrone.
Non si può gestire la cosa pubblica come un proprio patrimonio ; il comune non può e non deve diventare la riserva di caccia privata per nessuno.

Non siamo nati ieri e speriamo, almeno per dispetto, di non morire domani per cui  l’andazzo delle cose bene o male lo si conosce, ma ci sono situazioni, atteggiamenti che travalicano e non di poco i  “ paletti” del buon senso   e che vanno comunque stigmatizzati per non creare equivoci.

Le risorse comunali, siano finanziarie che materiali (mezzi , dipendenti, servizi, ecc), sono a disposizione della comunità intera e non dei singoli privati più o meno vicini  o “simpatici”.

Sono inaccettabili, oltre che  illegali quei pezzi di strade e accessi privati rifatti “in pegno” in periodo pre elettorale; è discutibile la gestione padronale dei mezzi comunali: il taglia siepe usato in conto terzi .

E non tiriamo in ballo il boicottare la “crescita” del paese: facciamo crescere le cose serie e utili e ci vedrete sicuramente  vicini e partecipi".

http://grottablog.wordpress.com/2009/08/20/est-modus-in-rebus/






Aurea mediocritas, ovvero "una ottimale moderazione", e non, come qualcuno potrebbe tradurre letteralmente, "un'aurea mediocrità", è una locuzione latina tratta dal poeta Orazio (Odi 2, 10, 5); nella lingua latina termine "mediocritas" non ha il valore dispregiativo che ha in italiano la parola "mediocrità", ma significa piuttosto "stare in una posizione intermedia" tra l'ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, ed esalta il rifiuto di ogni eccesso, invitando a rispettare il "giusto mezzo".
La "mediocritas", pertanto, il tenersi cioè lontano dagli estremi di ogni posizione intellettuale o condizione di vita, è definita dal poeta "aurea", che non è da intendere in senso letterale, cioè tutta d'oro, ma piuttosto come ottimale, come la migliore che si possa immaginare, così come l'oro è il più apprezzabile dei metalli.
Questa concezione esistenziale si ispira alla filosofia epicurea che invitava l'uomo a godere dei piaceri della vita senza abusarne, come per esempio bere il vino ma senza ubriacarsi, godere del cibo senza essere dediti alla crapula, apprezzare il piacere sessuale senza soggiacere alla libidine. Qualora l'uomo la realizzi, avrà raggiunto il fine ideale che è quello di trovare una misura in tutte le cose, senza mai trascorrere negli eccessi, come il poeta stesso raccomanda quando dice anche est modus in rebus (Satire 1, 1, 106-107).
L'espressione, tuttavia, oggi viene anche usata in senso ironico e sarcastico, in riferimento a una persona che non ha particolari capacità e non risplende per apprezzabili doti intellettuali, ma occupa ugualmente un posto di responsabilità.
http://it.wikipedia.org/wiki/Aurea_mediocritas





Chi non si intende di navigazione, si guarda bene dal guidare navi; soltanto chi ha studiato prescrive l'abrotono al malato; di medicina si occupano i medici, e gli artigiani esercitano ciascuno il loro mestiere. Tutti, invece, capaci o incapaci, siedono al governo.
Orazio

Il popolo è un pessimo giudice, nella sua stoltezza per lo più onora chi non lo merita, perché stupidamente crede all'apparenza.

Orazio



L'ira è un furore di breve durata, trattieni i tuoi impulsi, che, se non sono sottomessi, comandano.
Orazio


Poni un limite ai tuoi desideri:
a chi è troppo avido manca sempre qualcosa.
Quinto Orazio Flacco


Bisogna saper distinguere l’apparenza dalla sostanza:
quando si muore di sete, è inutile cercare un calice d’oro.
Orazio


Chi vive nella paura non sarà mai libero
Orazio





Gìgnōske kairòn
"Riconosci il momento giusto!", massima di Pittaco di Mitilene. 
Il dio greco del momento giusto, Kairos, era rappresentato rasato sulla nuca e un ciuffo di capelli sulla fronte, che si doveva afferrare al momento giusto.
La versione latina è «Tempus nosce» o «Nosce tempus».




Non domandarti
non è giusto saperlo 
a me, a te quale sorte
abbian dato gli dèi,
e non chiederlo agli astri,
o Leuconoe;
al meglio sopporta quel che sarà:
se molti inverni Giove ancor ti conceda
o ultimo questo 
che contro gli scogli fiacca le onde
del mare Tirreno. 
Sii saggia, mesci il vino
breve è la vita
rinuncia a speranze lontane. 
Parliamo
e fugge il tempo geloso:
cogli l'attimo,
non pensare a domani.
Orazio, Carpe diem


Carpe diem, quam minimum credula postero 
Cogli l'attimo, confidando il meno possibile nel domani
Quinto Orazio Flacco


Nessun testo alternativo automatico disponibile.


Mentre parliamo il tempo, invidioso, sarà già fuggito. 
Godi il giorno, confidando meno che puoi nel domani.
Orazio




Carpe diem quam minimum querula postero...




Nulla impedisce di dire la verità scherzando
Orazio


Perchè ti affretti a togliere il granellino di sabbia che offusca il tuo occhio e per quello che ti mangia l'animo rimandi il momento di intervenire di anno in anno?
Orazio


Perché, se qualcosa ti dà noia / 
all'occhio, sei sollecito a rimuoverla/ 
e d'anno in anno rimandi la cura/ 
del male interno che ti rode l'animo ? 
Cominciare significa aver fatto/ 
metà dell'opera; osa conoscere; comincia.
Lettera a Lollio Massimo di Orazio (Epistolae, I, 2, 40)

“nam cur / 
quae laedunt oculos festinas demere, si quid/ 
est animum, differs curandi tempus in annum?/ 
dimidium facti qui coepit habet: sapere aude:/ incipe.” 





...sii saggia, filtra il vino; e poiché il tempo è breve,
riduci la lunga speranza. Mentre parliamo sarà già fuggita la vita invidiosa: 

cogli il giorno, e non credere al domani.
Orazio, Odi, Libro I

«... sapias vina liques, et spatio brevi 
spem longam reseces. Dum loquimur fugerit invida 
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.» 


«Non domandarti – non è giusto saperlo – a me, a te quale sorte abbian dato gli dèi, e non chiederlo agli astri, o Leuconoe; al meglio sopporta quel che sarà: se molti inverni Giove ancor ti conceda o ultimo questo che contro gli scogli fiacca le onde del mare Tirreno. Sii saggia, mesci il vino – breve è la vita – rinuncia a speranze lontaneParliamo e fugge il tempo geloso: “carpe diem”, non pensare a domani
Orazio Carminum I, 11



Chi parla male alle spalle dell'amico assente, chi non lo difende quando altri lo incolpa, chi si diverte con le feroci denigrazioni per accaparrarsi la fama di uomo di spirito, chi giunge ad inventarsi ciò che non ha mai visto, chi non sa tenere un segreto: costui è di animo nero e spregevole; da questi, dovrai sempre guardarti e diffidare.
Orazio Flacco
Cultura Classica:
CARPE DIEM
Tu non domandare,
non è concesso agli uomini saperlo,
quale la fine di vita a te, o Leuconoe *, quale a me
gli dèi abbiano sancito,
e non stare a consultare
gli oroscopi babilonesi.
Sia che molti inverni
Giove abbia stabilito per noi,
sia che si riveli l’ultimo,
questo che ora sfianca il mar Tirreno
contro le opposte scogliere,
quant’è meglio accettare qualunque cosa sarà.
Sii saggia, spilla il vino
e dallo spazio breve della vita
una lunga speranza toglila via.
Noi parliamo, e intanto se ne sarà andato
il tempo, ostile: 
afferralo il tempo, fiduciosa nel domani
il meno che puoi.


• Leoconoe, nome di una interlocutrice immaginaria. E’ un nome di impasto linguistico greco: leukòs = bianco, nous= mente. Quindi ingenua, mente candida. O candida-mente
• Il verbo càrpere indica il gesto di cogliere un frutto o un fiore. Qui l’uso è metaforico.
E’ inverno , e la scena è in un interno. Il freddo impedisce il lavoro, e la candida mente butta via il tempo a interrogarsi sul domani, e pretendere di prevederlo con l’aiuto degli oroscopi. Ma la razional mente la richiama alla realtà: cosa si può fare oggi? Spillare il vino e aggiungere abbondante legna sul fuoco, come dice in un’altra splendida ode. Questo è quello che puoi fare oggi: fallo, e non te ne privare, dietro pensieri vietati alla condizione umana, pur tuttavia capaci di distoglierti dal fare quello che puoi fare. Il domani è nella mente di Giove, quindi fuori della nostra portata, e preoccuparcene può recarci danno, con l’ impedirci di fruire dell’oggi, intanto.
Qualcuno traduce CARPE DIEM con “l’attimo fuggente”, che è stato anche titolo per un bel film e di successo. Ma non mi pare giusto. Sia la parola “attimo” che la parola “fuggente”, ed ancor più se messe insieme, hanno un che di angosciante e di angosciato, che può anche essere legittimo, ma non in Orazio. Il poeta è un epicureo convinto, anche se non proprio ortodosso, per qualche sua piccola eresia rispetto alla dottrina del Maestro. E per Epicuro è saggio colui che approda ad una condizione di vita serena. Questa – ma purtroppo raramente – ci può arrivare anche come grazioso dono del destino. Di solito, però, è una nostra conquista. Come? Selezionando i dati della vita, fino ad enucleare quelle pochissime cose, che sono veramente INDISPENSABILI ED INEVITABILI per vivere bene, così da ridurre al minimo minimo ciò da cui ci può venire turbamento. E meno cose sono importanti per noi, meno può succedere che vengano a mancarci, turbandoci. L’ASSENZA DI TURBAMENTO è la condizione base, perché noi si raggiunga quella condizione di spirito, che si chiama ATARASSIA (imperturbabilità, mancanza di turbamento). E’ il porto tranquillo del saggio, da cui osserva gli altri lottare accanitamente contro i marosi della vita. Detto per inciso, SAGGEZZA non è un capo di abbigliamento, da togliere ed indossare a seconda delle occasioni, ma uno stabile stato d’animo, che ci permette di affrontare le vicende della vita al meglio possibile per gli esseri umani. Non mi pare poco, né cosa da guardare con aria di compatimento e di sufficienza. Dunque, se il saggio epicureo è colui che ha costruito se stesso, in modo tale da evitare il turbamento dell’angoscia, allora si va fuori del giusto, se si attribuisce ad Orazio, poeta epicureo, un’esortazione carica d’angoscia, qual è “l’attimo fuggente”.
C’è anche la traduzione “cogli l’attimo”, che pare meno angosciante dell’altra, ma non tanto. “Vivi alla giornata”, è l’altra interpretazione che si incontra. Ma anche questa non si inquadra nel pensiero epicureo: il saggio arriva ad essere tale solo con un assiduo lavoro su se stesso, essendo la saggezza un progetto di vita, da costruire giorno dopo giorno, come un filo ininterrotto, che si dipana nel tempo, un giorno dopo l’altro, mentre “vivi alla giornata” mi pare che presupponga un atteggiamento del tipo “vediamo che succede”, ieri non conta, domani si vedrà: vale solo l’oggi. Ma l’oggi non esiste, direbbero Platone, S.Agostino e Bergson, oscillando esso tra ciò che non c’è più (il passato) e ciò che ancora non c’è (il futuro).
E allora? Il senso – anche alla luce di altre Odi ed altri componimenti oraziani – a me pare questo: la vita, giorno per giorno, offre ad ognuno di noi l’opportunità di fare qualcosa di bello, di buono, di utile, o anche di importante per noi e per gli altri. Bene! Fallo oggi, perché domani avrà altre opportunità, e forse non ci sarà spazio per qualcosa da fare oggi e rinviato a domani, e rischi di perderlo. Ma il bello il buono l’utile l’importante, come i loro contrari, presuppongono una fase di ricerca e costruzione, per definirli e stabilire che cosa essi siano: lavori che richiedono tempo, e mal si combinano con “vivi alla giornata”. Le opportunità non vanno rimandate, ancor meno per chiedersi su cosa sarà domani, perché può darsi che il domani non ci sarà (facciamo pure gli scongiuri, ma…), o forse le condizioni favorevoli di oggi non ci saranno domani, o forse noi saremo distratti da altro, e addio opportunità di oggi, te ne vai via, e per sempre!
In questo quadro d’assieme è implicita una conclusione: la morte, questo lo si sa, verrà inesorabilmente, e insieme alla vita ci porterà via tutto. Tutto, tranne QUELLO CHE AVREMO VISSUTO, se non avremo sprecato il diem in cose inutili o irraggiungibili. Sempre su indicazione di Epicuro si può fare un elenco delle cose inutili, appresso alle quali noi dilapidiamo il tempo, anche oggi, ma ve ne faccio grazia. Solo una ne indico, la più perniciosa, perché si tira dietro molte altre: il denaro. E la filosofia epicurea è una filosofia ascetica, con i beni ridotti all’essenziale.
La morte , dunque, ci toglie la vita, ma nulla può contro quello che avremo vissuto. Quello resta, da qualche parte nell’esistente, chissà dove. Ma come si fa ad annullarlo? Neanche la morte può tanto.
A metà dell’ultima strofa c’è una straordinaria e modernissima intuizione poetica: “Noi parliamo, ed intanto il tempo SARA’ ANDATO via.”. SARA’ ANDATO, un futuro anteriore. Un futuro semplice sarebbe stato più tranquillizzante (una cosa che è di là da venire, preoccupa un po’ meno), mentre il futuro anteriore costringe a riflettere sul tempo, e a non sprecarlo con gli oroscopi (o con il Grande Fratello, le isole dei famosi, il calcio calcio calcio, soprattutto parlato, la comparsata in TV, e poi ‘a machina, er tabblett eccetera eccetera eccetera). Così è, se vi pare.
Va da sé che questa è una mia personale interpretazione del carme, sulla scorta della mia sensibilità personale e della conoscenza abbastanza ampia che mi attribuisco su Orazio. Ma la poesia ha di bello anche questo, che non v’è da stupirsi, se le chiavi di lettura sono le più varie.
Nelle foto ci sono una statua di Orazio (a Venosa, sua patria), l’ara pacis augustae, la villa di Orazio a Licenza, e l’auditorium di Mecenate. Era, Mecenate, di origine etrusca, di antica famiglia nobile, un re (lucumone) sarebbe stato, senza la conquista romana. Ma fu il consigliere numero uno di Augusto, e per lui fece della sua casa il punto di riferimento dei migliori intellettuali del tempo (Virgilio, Orazio, Livio, per dire i più noti), perché con le loro opere contribuissero all’affermazione dell’ideologia del principato. Va detto subito che non furono dei venduti (Livio, addirittura, era indicato come “pompeiano”, cioè nostalgico della repubblica, proprio in casa di colui che la stava abolendo a vantaggio della monarchia imperiale). C’erano, invece, delle corpose corrispondenze tra il pensiero di questi poeti ed il progetto di Ottaviano. Adesione quindi sincera e spontanea. Orazio in particolare suscitava simpatie da parte del principe, che gli consentì una vita agiata. Mecenate stesso gli regalò una villa signorile (a Licenza? A Vocone?). ma, quando Ottaviano iniziò a fare pressioni sul poeta perché scrivesse il Poema Epico Nazionale Romano, Orazio, che non si sentiva idoneo all’epica, oppose un rifiuto garbato, ma netto (haud mollia iussa = pressioni non proprio tènere, dirà Virgilio allinizio del libro III delle Georgiche). Potevano anche riprendersi tutto, sembrava dire il poeta, perché la sua corda preferita non era l’epica, ma la lirica. Scrisse quattro libri di liriche, le Odi, e da questi componimenti si aspettava quella gloria, che gli avrebbe consentito di sconfiggere la morte. Il tema del tempo è un chiodo fisso per lui, e torna di continuo, segno che è un pensiero difficile da risolvere se non esorcizzare. Ma per lungo tempo l’approccio è equilibrato e sereno. Il progetto iniziale per le odi era di tre libri: la prima ode del primo libro, quella di apertura dell’intero ciclo lirico, contempla la dedica a Mecenate, della cui amicizia Orazio si sente entusiasta, per una evidente empatia, e l’ultima del terzo libro è quella di congedo dalle odi. Ma poi aggiunse il quarto libro, e qui il tema del tempo si fa angosciante, qui veramente, mentre negli altri tre, pur ritornando di continuo, appare sotto controllo. Dice infatti nella VII ode (versi 7-12):
Non sperare l’immortalità, ti ammonisce l’anno
e l’ora che trascina via il giorno vitale.
Si stempera il freddo per il soffio di Zefiro, 
ma subito la primavera è incalzata dall’estate,
a sua volta destinata a tramontare ,non appena
l’autunno che porta frutti avrà dato i raccolti, 
e subito torna inerte la bruma.
Pochi tratti di pennello, e l’anno appena iniziato è di nuovo alla fine. Rapido, rapinoso, sfrenato..
Arrivederci a domenica prossima. Tratterò della fondazione di Roma, sulla scorta dei dati storici. E anticipo che non l’ha fondata Romolo, e che il suo nome non viene dal primo re, ma chissà mai da cosa! Neanche Cicerone lo sapeva. Se per le prossime volte vi interessa qualche argomento, comunicatemelo, vedrò se potrò accontentarvi (garantisco l’anonimato!!!). MI RIVOLGO A CHI LEGGERA’ QUESTO SCRITTO E NON E’ ISCRITTO AL GRUPPO: ISCRIVETEVI, E’ GRATIS, E PER SEMPRE, SE VI INTERESSA AVERE DI SICURO ANCHE GLI ALTRI POST.
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Fulvio Marino
Il pifferaio tragico (romanzo lungo un giorno)
Prenotabile presso tutte le librerie Feltrinelli (specificare che rientra nel progetto ilmiolibro.it)

Una scorribanda nella nostra allucinata realtà, con recuperi della memoria di una generazione, ed un’ipotesi per uscire dall’attuale stallo generale. Si legge d’un fiato, ma poi ci si ritorna su.



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