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lunedì 9 gennaio 2012

Dante Alighieri. Lasciate ogni speranza o voi che entrate.. Per me si va nella città dolente, per me si va nell'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente

Si racconta che Dante avesse una memoria eccezionale.
Un giorno fu fermato per strada da uno sconosciuto, il quale gli chiese:
Qual è l'alimento più buono del mondo?
L'ovo, rispose Dante.
L'anno successivo lo stesso uomo incontrò nuovamente Dante nella stessa strada e gli chiese:
Con che cosa?
Col sale, rispose subito Dante.


Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!
Tant’ è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i’ vi trovai, dirò de l'altre cose ch'i’ v'ho scorte.
Io non so ben ridir com’ i’ v'intrai, tant’ era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i’ fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.
Dante Alighieri




Le scritture si possono intendere e debbonsi esponere massimamente per quattro sensi
l'uno si chiama litterale [...], l'altro si chiama allegorico [...] sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera manusete le fiere. [...] Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente appostando. [...] In che [...] si può [...] intendere che a le secretissime cose noi dovremo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso e questo è quando spiritualmente si pone la scrittura [...] significa de le superne cose.
Convivio II,1


Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.
Dante - Vita Nova, sonetto



In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
PARADISO - Canto XXXI


« Lo 'mperador del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia. »
Dante, Inferno, canto 34
(Dante vede Lucifero come un imperatore decaduto, con una sua regalità, che sta conficcato nel ghiaccio fino al petto.)

Lasciate ogni speranza o voi che entrate..
Per me si va nella città dolente, per me si va
nell'etterno dolore, per me si va tra la perduta
gente
Dante Alighieri

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Dante Alighieri. Purgatorio VI, 76-78

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
Dante Alighieri. XXVI, 118-120

Che dentro a li occhi suoi ardeva un riso Tal, ch'io pensai di toccar cò miei lo fondo De la mia gloria e del mio paradiso.
Dante Alighieri

La stirpe non fa le singulari persone nobili,
ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.
Dante Alighieri


Dante nel Convivio dice chiaramente che:
- La Donna Gentile significa la Filosofia (II 15 12).
- Gli occhi della donna significano le dimostrazioni della Sapienza (III 15 12).
- Il riso della donna significa le persuasioni della Sapienza (id.).
- I drudi della donna significano i Filosofi (II 15 4).
- L'amore per la donna significa lo studio (III 12 2).


Non è mai troppo tardi per andare oltre...
Dante Alighieri

Non men che saver, dubbiar m'aggrata.
Dante Alighieri. Inferno XI

Dante Alighieri
Una lingua maldicente è indizio di mente malvagia


Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!
Inferno, Canto XXXIII


Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville che hanno i cuori accesi.
Dante, Inferno, Canto VI


"Come d'autunno si levan le foglie /
 l'una appresso de l'altra finché 'l ramo /
vede a la terra tutte le sue spoglie , /
similmente il mal seme d' Adammo /
gittansi di quel lito ad una ad una ..."
Dante: Inf. III, 113


"O tu che sè per questo ’nferno tratto",
mi disse, "riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto".
E io a lui: "L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente".
Ed elli a me: "La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa". E più non fé parola.
Inferno VI, 40-57
[Michele Sangiorgi, "Ciacco e i golosi", 1815]



Amor che nella mente mi ragiona cominciò egli a dir si dolcemente che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Dante Alighieri

«L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE»
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.
Paradiso XXXIII, vv. 133-145
[Moebius reinterpreta Gustave Doré, Paradiso XXXIII]


La bocca mi baciò tutto tremante
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse
quel giorno più non vi leggemmo avante.
Dante Alighieri, Paolo e Francesca, V canto Inferno!

L'amor che move il sole e l'altre stelle
Dante Alighieri

Amor ch'ha nullo amato amar perdona
Dante Alighieri


Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense!
Dante Alighieri. Inferno V, 100-108


Dante A.,Divina Commedia, Inferno V Canto:
...Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
E caddi come corpo morto cade.


Max Ventura:
perché poi una storia d'amore così bella debba stare nel girone dei lussuriosi Dante me lo deve ancora spiegare...


Rita Romano:
Perchè Francesca era sposata con il fratello di Paolo, ed è un doppio tradimento, seppure nato dall'amore puro e dalla passione, è un "peccato" di incontinenza: la passione, infatti, impedisce all'uomo di ragionare e di frenare gli impulsi, e Dante, nella sua grandezza, ha posto i due amanti in un posto doloroso ma insieme. Come a dire...niente può impedire a due persone di amarsi. Nemmeno la morte o il dolore.
da: Antonio Centi Pizzutilli




Canto V inferno. Francesca da rimini narra del suo amore con paolo e della loro morte per mano del fratello di lui gianciotto malatesta che era suo marito. Quindi direi che gli infamoni erano loro due. Nonostante cio' Dante mette loro tra i lussuriosi e lui tra i traditori della caina.


Anna Sansone
mi prese del costui piacer sì forte che come vedi ancor non m'abbandona









Nadia Giuzio
Si riferiva a Paolo e Francesca, se non ricordo male, ed era coma una giustificazione.. significa che non puoi non amare chi non ti ama, ma io non la condivido




Nicoletta Erica Stagi: ‎
 Il 26° dell'Inferno è forse il canto più autobiografico di tutto il Poema; vi si legge tutto il timore del Poeta per l'impresa di cui si è fatto carico, scrivendo la "Comedìa".
Lo straordinario "folle volo" di Ulisse, l'"alto passo" di Dante che si avventura nell'inferno...
il Poeta giungerà alla visione di Dio perchè sostenuto dalle scienze e dalla grazia divine, mentre l'umanissima "arroganza" di Ulisse, che si affida solo al desiderio di conoscenza ed ignora i limiti imposti da Dio lo porterà alla morte...
"Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo..."


Dante Alighieri, nel Paradiso, terza cantica della Divina Commedia, descrive la visione del proprio viaggio nell'oltretomba; qui il Paradiso è diviso in cieli, che sono nove e ricalcano il sistema cosmologico aristotelico-tomistico: i primi sette infatti corrispondono ciascuno a un pianeta del Sistema solare. L'ottavo è il Cielo delle Stelle fisse: non si tratta più di un cielo dove si ripartiscono i vari beati, ma qui si trovano le anime trionfanti. l nono e ultimo cielo è il Cielo cristallino, chiamato anche Primo mobile in quanto è appunto il primo a muoversi, ricevendo tale movimento da Dio e trasmettendolo ai cieli concentrici sottostanti. Sopra al Primo mobile c'è solo l'Empireo, che è immobile in quanto perfetto (nella teologia medievale il movimento non era conciliabile con la perfezione, in quanto implica un cambiamento): la potenza divina che ha sede nell'Empireo, centro dell'universo, imprime ai cieli sottostanti un movimento rotatorio, rapidissimo nel Primo mobile e poi via via sempre più lento fino alla Terra. Qui risiedono le gerarchie angeliche, che appaiono distribuite in nove cerchi di fuoco giranti attorno a un punto piccolissimo ma luminosissimo, cioè Dio.
Gli Ignavi sono i primi peccatori che si incontrano nella Divina Commedia.
Questi sono descritti in maniera particolarmente spregevole, poiché in vita non agirono mai, né nel bene né nel male. Non osarono mai avere un’idea propria, e si adeguarono sempre alla legge del più forte. Per questi motivi Dante li disprezza enormemente. Essi sono talmente inutili che nemmeno l’Inferno li ha voluti. Gli ignavi sono condannati per l’eternità a seguire un’insegna che vortica velocissima per tutto l’Antinferno. Nel frattempo, sono punti da vespe e da mosconi, e il loro sangue, misto alle lacrime viene raccolto da fastidiosi vermi. Il contrappasso è chiaro: così come in vita non seguirono nessuna bandiera, essi sono adesso costretti a seguire un’inutile insegna. Inoltre, così come in vita non furono mai stimolati a prendere posizione, sono adesso continuamente stimolati da fastidiosi insetti. Dante definisce gli ignavi come coloro “che mai non fur vivi”.
Il grande disprezzo che Dante nutre nei confronti di questi peccatori si giustifica con l’impegno politico che egli profuse in vita, e che lo portò ad essere esiliato dalla sua amata e odiata Firenze. D’altra parte, Dante ricevette una forte influenza dal pensiero filosofico di Aristotele, il quale definiva l’essere umano come un “animale sociale”.
Dunque, coloro che in vita scelsero di non prendere partito soffrono adesso la pena peggiore di tutte, e sono disprezzati persino dall’Inferno.
Tra gli ignavi Dante vede tantissime anime, e tra queste gli sembra di scorgere l’anima di colui che “fece per viltade il gran rifiuto”. I commentatori hanno molto dibattuto sull’identità di questo personaggio misterioso. Probabilmente si tratta di Papa Celestino V, il quale rinunciò al Soglio Pontificio, che aveva raggiunto nel 1294, lasciando poi spazio all’ascesa al potere di Bonifacio VIII, il pontefice nei confronti del quale Dante provò odio profondo e disprezzo infinito. Questo papa infatti, oltre ad aver causato la cacciata dei Guelfi Bianchi (di cui Dante faceva parte) da Firenze, incarnava esattamente quell’ideale negativo dell'alto prelato che si intromette con forza nelle vicende politiche del suo tempo, esercitando, nei fatti, un potere temporale, piuttosto che un potere spirituale.
L’umanità, tuttavia, deve forse ringraziare Bonifacio VIII, poiché, se Dante avesse avuto un percorso di vita diverso, probabilmente oggi non avremmo la Divina Commedia così come la conosciamo.




"Ed elli avea del cul fatto trombetta"
Dante Alighieri

"i tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia"
Inferno, canto XXVIII




DANTE E L'AUTORITA'.
DANTE EBBE UN RAPPORTO PESSIMO CON LE AUTORITÀ DEI SUOI TEMPI, OSSIA I PAPI, GLI IMPERATORI E I SIGNORI, QUELLI CHE OGGI CHIAMIAMO COMUNEMENTE I POTERI FORTI. Non dobbiamo sorprenderci quindi se NESSUN UOMO PIÙ DI DANTE EBBE CONSAPEVOLEZZA DELLA PROPRIA GRANDEZZA, NESSUNO PIÙ DI LUI SPERÒ NEL RICONOSCIMENTO DEI PROPRI ALTI MERITI ARTISTICI: E NESSUNO NE OTTENNE MENO.

Per sincerarsene basti questa breve carrellata.
[Conv. I, VI, 2; 1303–’04 ca.] «[OGGIGIORNO VI] SONO SIGNORI DI COSÌ ASININA NATURA CHE COMANDANO IL CONTRARIO DI QUELLO CHE VOGLIONO, e ALTRI CHE SENZA DIRE VOGLIONO ESSERE INTESI, e altri che non vogliono che ’l servo si muova a fare quello che è necessario se non lo comandano. […] COSTORO SONO COME BESTIE, COI QUALI RAGIONARE SERVE A POCO».

[Inf. XIX, 90–114; 1314 ca.]
«[A Niccolò III Orsini]
Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Signore in prima da SAN PIETRO
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
NÉ PIETRO NÉ LI ALTRI TOLSERO A MATTIA
ORO OD ARGENTO […]. 
Però ti sta, ché tu se’ ben punito […].
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
 la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
CHÉ LA VOSTRA AVARIZIA IL MONDO ATTRISTA,
CALCANDO I BUONI E SOLLEVANDO I PRAVI.
DI VOI PASTOR S’ACCORSE IL VANGELISTA,
QUANDO COLEI CHE SIEDE SOPRA L’ACQUE
PUTTANEGGIAR COI REGI A LUI FU VISTA […].
FATTO V’AVETE DIO D’ORO E D’ARGENTO;
E CHE ALTRO È DA VOI A L’IDOLATRE […]?»;

[Purg. VI, 97–102; 1315 ca.]
«O ALBERTO TEDESCO [IMPERATORE] ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudizio da le stelle cada
sopra il tuo sangue […]
tal che ’l tuo successor timore ne abbia!».

[Epistola VII, 4; 17 aprile 1311]
 «Si vergogni [scil. l’Imperatore Arrigo VII]».



IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE
Questo sembra il compito precipuo degli uomini predisposti dalla natura superiore ad amare la verità: come hanno tratto vantaggio dalla fatica degli antichi, così debbono dedicare le loro energie ai posteri, affinché questi ultimi abbiano a loro volta di che arricchirsi. Pertanto non dubiti di essere molto lontano dal proprio dovere chi, istruito nelle dottrine di pubblico interesse, non si cura di dare il suo apporto alla comunità; egli non è infatti “l'albero che, piantato lungo il corso dell'acqua fruttifica nella stagione opportuna”, ma, piuttosto, una perniciosa voragine che inghiotte sempre e non restituisce mai quello che inghiotte.
[Omnium hominum quos ad amorem veritatis natura superior impressit hoc maxime interesse videtur: ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. Longe nanque ab offitio se esse non dubitet qui, publicis documentis imbutus, ad rem publicam aliquid afferre non curat; non enim est lignum, quod secus decursus aquarum fructificat in tempore suo, sed potius perniciosa vorago semper ingurgitans et nunquam ingurgitata refundens.]
Dante Alighieri, “Monarchia”, I, 1-2, tr. it. Rizzoli, p. 163



Espressioni inventate da Dante che usi senza saperlo
La Divina Commedia ha lasciato una grande impronta nella lingua italiana. Anche nei proverbi
Come dicono gli inglesi (quando sono in buona), “gli italiani quando parlano dicono poesie”. Esagerano, ma non troppo: il linguaggio comune che si usa tutti i giorni è pieno di modi di dire, frasi fatte che sono, in realtà, citazioni e versicoli rubati alla Divina Commedia. Poesia pura. Mentre si parla, non sempre ci si accorge di usare parole ed espressioni inventate o diffuse da Dante. Un po’ per abitudine, un po’ per ignoranza. E un po’ perché sono insospettabili. Eccone alcune:

Stai fresco
Più o meno viene usata per dire: “Allora finisce male”. E con questo significato non poteva che provenire dalla parte più profonda dell’Inferno, il lago di Cocito, la peggiore. Lì “i peccatori stanno freschi” (Inferno, XXXIII, 117), perché immersi del tutto o quasi (a seconda della gravità del peccato) nel ghiaccio. Da lì in poi si è usato per indicare, per fortuna, situazioni un po’ meno tragiche.

Inurbarsi
Ormai è quasi vocabolo tecnico per urbanisti, storici e architetti, tanto da passare del tutto inosservato. E invece fa parte di quella schiera infinita di neologismi danteschi fatti con prefisso in- e poi -tutto quello che gli passava per la testa. Come “indiarsi”, cioè “diventare dio”; o “inmillarsi”, che significa “moltiplicarsi per migliaia”; e ancora: “ingemmarsi” = “adornarsi luminosamente”; “imparadisare”= “innalzare al Paradiso”. Non vale per “internarsi”, che non c’entra nulla con l’ingresso nei manicomi ma con il “diventare una terna”, cioè una forma di trinità.

Galeotto fu.. [inserire elemento a piacere]
Si è del tutto persa la percezione che “galeotto” in origine fosse un nome proprio, per cui si dovrebbe scrivere Galeotto, con la maiuscola. Era la trascrizione dell’originale Galehault (o Galehaut), personaggio che favorì l’amore tra Lancillotto e Ginevra. “Galeotto fu il libro”, (Inferno, V 136), vuol dire che il libro ebbe la stessa funzione di Galeotto: cioè spinse i due amanti, Paolo e Francesca, l’uno nelle braccia dell’altro. Sarebbe anche uno slogan efficace per qualche campagna a favore della lettura, non fosse che, da quel giorno, i due smisero di leggere.

Il gran rifiuto
Se ne è riparlato quando Ratzinger ha deciso di dimettersi da Papa: un nuovo “gran rifiuto”. L’aveva coniata Dante per riferirsi al rifiuto di Celestino V di continuare a fare il Papa dopo solo qualche mese (Inferno, III, 60). Lo fece “per viltà”. Dante era abbastanza arrabbiato con lui: la rinuncia di Celestino V aprì la strada al suo successore, il cardinale Benedetto Caetani, ossia il famigerato Bonifacio VIII. Questo Papa fu il responsabile dell’esilio di Dante da Firenze. Per vendicarsi Dante lo colloca all’inferno addirittura in anticipo rispetto alla morte. L’espressione “gran rifiuto” è entrata nell’uso comune.

Il bel Paese
È l’Italia il “bel Paese là dove il sì suona”, cioè dove si dice “sì” (Inferno, XXXIII, 80). È un passaggio importante: Dante sta maledicendo Pisa, il “vituperio de le genti”, per l’abominevole sorte riservata al conte Ugolino. Invoca allora le isole di Capraia e Gorgona chiedendo di spostarsi verso la costa, chiudere la foce dell’Arno e annegare tutta la città. Bel Paese, sì, ma un filo violento.

Senza infamia e senza lode
Bravo, ma non bravissimo. Bene, ma non benissimo. Non male, ma nemmeno bene. Senza infamia, insomma, ma anche senza lode. L’originale, per la precisione, vuole “senza infamia e senza lodo”, che rima con “odo” e “modo” (Inferno, III, 36). L’espressione, oggi, ha un valore neutro. Per Dante, invece, era una cosa gravissima. Descriveva in questo modo gli ignavi, ossia coloro che avevano vissuto la propria vita senza commettere gravi peccati, ma anche senza schierarsi dalla parte della fede. Li disprezza, tanto che non vuole nemmeno prenderli in considerazione, e a Virgilio fa dire...

...Non ragioniam di loro, ma guarda e passa
Altra espressione idiomatica: gli ignavi proprio non gli piacevano. Guarda, e passa. Una riga e li lasciamo da parte anche noi.

Fa tremar le vene e i polsi
Si usa per indicare qualcosa di molto spaventoso, spesso riferito a compiti molto gravosi e difficili. Siamo all’inizio del poema (Inferno, I, 90) e Dante, dopo aver ritrovato la strada fuori dalla “selva oscura”, incontra nuovi ostacoli. Tre bestie feroci gli si parano davanti impedendogli il cammino. In particolare una lupa, molto pericolosa, che lo spaventa a morte. Per fortuna a salvarlo arriva Virgilio (in sintesi, Dante scappa da una lupa per seguire un fantasma: vabbe'). A lui spiega le ragioni del suo spavento, “la bestia per cu’ io mi volsi”, che gli “fa tremar le vene e i polsi”. Ma non c’è soluzione. La lupa sarebbe rimasta lì fino a quando – dice la profezia – non sarebbe arrivato un veltro, cioè un cane da caccia, ad allontanarla. Anche Berlusconi, nel 2008, la ripeté. Non c’entrava nessuna lupa, ma solo un Veltroni.

Non mi tange
Non mi importa, non mi interessa. Si usa in frasi scherzose. Come al solito, in origine, di scherzoso non c’era niente: “Io son fatta da Dio, sua mercé, tale / che la vostra miseria non mi tange” (Inferno, II, 92): è Beatrice che parla. È appena scesa dal Paradiso (dove si trova vicina a Dio) nel Limbo, per ordinare a Virgilio di andare a salvare Dante. Il poeta latino è incuriosito dalla visita insolita e ne approfitta per farle qualche domanda. Come fa, una come lei, a venire fin quasi all’Inferno e non soffrirne? Semplice: è “resa in modo tale da Dio da non sentire la miseria (cioè la condizione del peccatore)”. Il male non la tocca, o meglio, non la “tange”.

Cosa fatta capo ha
In Dante si trova l’inverso: “Capo ha cosa fatta” (Inferno, XXVIII, 107). Lo pronuncia un povero dannato, Mosca dei Lamberti, che gira per l’inferno con le mani tagliate e il sangue che gli zampilla sulla faccia. Che c’entra l’espressione proverbiale con questa scena alla Tarantino? Secondo la leggenda dell’epoca di Dante, la frase venne pronunciata da Mosca dei Lamberti per indurre la famiglia degli Amidei a vendicarsi di Buondelmonte per un affronto di tipo matrimoniale. Basta titubanze, disse. Lo scontro fu molto grave perché portò, secondo la leggenda, alla sanguinosissima divisione, nella città, tra Guelfi e Ghibellini. E Mosca, causa della divisione, porterà per l’eterntà sulle mani i segni della violenza.


http://www.linkiesta.it/it/article/2014/12/07/espressioni-inventate-da-dante-che-usi-senza-saperlo/23769/










15° FRAMMENTO: LA COMMEDIA COME «INSTANT-BOOK»

La Commedia è un poema bifronte: parla dei destini dell’umanità in una prospettiva escatologica e, nello stesso tempo, compie una lettura puntuale e insistita della più stretta attualità. È un’opera di finzione, ma in età medievale non esistono altre opere di finzione che registrino in modo così sistematico, tempestivo e quasi puntiglioso fatti della storia, della cronaca politica, della vita intellettuale e sociale contemporanei. E, per di più, senza temere di addentrarsi in retroscena noti solo per sentito dire o in quello che oggi chiameremmo gossip politico e di costume.  Per molti aspetti, assomiglia agli odierni instant-book. 





Chi dice che Dante è scultoreo resta schiavo delle definizioni appioppate al grande europeo. Sono proprie della poesia di Dante tutte le forme di energia note alla scienza modernaL'unità di luce suono e materia costituisce la sua intrinseca natura. Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta.... (OSIP MANDEL'STAM)


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