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giovedì 7 giugno 2018

C’è una parola che percorre un certo filone della filosofia europea, da Kierkegaard in poi, sino ad Heidegger, ed è “autenticità”, ossia essere se stessi, liberarsi dai ruoli imposti dalla società, andare alla radice di un pensiero e di un comportamento che ci appartengono e ci identificano cercando di evitare ogni sovrastruttura e ogni maschera.

C’è una parola che percorre un certo filone della filosofia europea, da Kierkegaard in poi, sino ad Heidegger, ed è “autenticità”, ossia essere se stessi, liberarsi dai ruoli imposti dalla società, andare alla radice di un pensiero e di un comportamento che ci appartengono e ci identificano cercando di evitare ogni sovrastruttura e ogni maschera.
Giancarlo Cavicchi


Paolo Porcina
Impossibile (autenticità).
Anche i più grandi filosofi, allora, non sapevano come funzionasse la mente da un punto di vista neurologico. E per questo li assolvo.


Il cervello di ognuno di noi si sviluppa in accoppiamento strutturale con l'ambiente circostante, che non significa essere determinati da esso, ma che, inevitabilmente, non possiamo non subirne i condizionamenti. Del resto la parola "persona" significa maschera.

Paolo Porcina
E dunque? Si parla di "essere autentici"

Bruna Valotta
E dunque non penso si possa prescindere dai ruoli sociali.

Paolo Porcina
E dunque: è possibile "essere autentici"?

Bruna Valotta
Bruna Valotta Ho già risposto, mi pare. Dal mio punto di vista, non del tutto. 
È Il processo di civilizzazione a impedircelo. Come affermava qualcuno 
"L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza."

Laura Simi Zen
Bruna Valotta concordo.
Aggiungo anche che non succede solo con gli esseri umani ma succede con tutti gli esseri viventi che sono comunque condizionati dall'ambiente che li circonda


Patrizia Puddu
Essere autentici significa essere fedeli al proprio essere.
Seguire quello che si sente. Non mentire a se stessi. Non "raccontarsela" quando le cose non sono come vorremmo che fossero, saper vedere senza filtri e avere il coraggio di essere quello che si è, senza maschere, condizionamenti e pregiudizi.

Gabriella Vidi
Certo per liberarsi dagli orpelli di ruoli imposti dalla società bisogna frequentarla poco!
🤔Penso io.......

Patrizia Puddu
O perlomeno non farsi condizionare da pseudo mode-tendenze di massa, di qualsiasi tipo 😉


Giancarlo Cavicchi
Ognuno si può sbizzarrire come vuole utilizzando il linguaggio per interpretare un filone filosofico. Nella fattispecie sono d'accordissimo con Kierkegaard! È ovvio che per realizzarne il contenuto bisogna fare i conti con la componente genetica, ambientale (pedagogica) e culturale, le cui reciproche interrelazioni che governano il nostro comportamento sono estremamente complesse.

Lorenza Valdemarca
Secondo me le persone autentiche fanno un po'paura 🙂

Lea Russo
E' una parola che adoro, ma perchè risponde ad un significato che metto al primo posto della mia persona e che adoro negli altri...


Sabrina Panini
Non mi fido di chi non riesce ad essere se stesso... Solo chi non si piace abbastanza o non può andar fiero di ciò che fa ha bisogno di maschere. E perché mai dovrei fidarmi di chi mente per vigliaccheria od opportunismo?


Heidegger
BY GABRIELLA
Martin Heidegger (1889 - 1976)

La noia profonda che si insinua serpeggiando nelle profondità della nostra esistenza come nebbia silenziosa, stringe insieme tutte le cose, gli uomini  e l’individuo stesso con esse, in una singolare indifferenza. Questa è la noia che rivela l’essente nella sua totalità.

Che cos’è la metafisica?, pp. 16-17; 1929; 1943





Il senso dell’essere e il problema dell’esistenza
Dalla metà dell’ottocento, con la fenomenologia e lo sviluppo delle scuole neokantiane, il dibattito filosofico si era concentrato sulla teoria della conoscenza. La riflessione di Martin Heidegger si propone di oltrepassare questo orizzonte e di richiamare la filosofia al senso dell’essere. Il primo problema che emerge da questa interrogazione è quello dell’esistenza individuale, quell’essere «gettati nel mondo» che richiede di progettare il senso del proprio «esserci», prospettiva che lega la prima produzione di Heidegger alle filosofie esistenzialiste del novecento. Presto, però, la riflessione del filosofo si concentra sulla differenza ontologica tra l’essere e l’esserci, tema che diviene suo specifico interesse, come lo stesso filosofo precisa nella polemica Lettera sull’umanismo rivolta a Sartre (1947) – il destinatario era, in realtà, Jean Beauffret – che l’anno prima aveva pubblicato il testo della conferenza L’esistenzialismo è un umanismo.



La nascita dell’esistenzialismo
Qui voglio ricordare la mia definizione dell’etica: essa è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa.

S. Kierkegaard, Aut-aut

Più che una corrente di pensiero, l’esistenzialismo è una vera e propria temperie culturale che si impone a cavallo tra le due guerre mondiali (1930-1960), come interrogazione specifica sulla condizione umana. L’esistenza, vale a dire il rapporto tra l’essere umano e il mondo, è vista come un evento essenzialmente tragico e assurdo, intessuto d’angoscia.

grande guerra
La Grande Guerra: la trincea, l’assalto alla baionetta, i gas

La natura insensatamente tragica dell’esistenza, si impose allo sguardo degli intellettuali europei – che pure avevano salutato favorevolmente lo scoppio del conflitto – con gli eventi traumatici della prima guerra mondiale: una strage senza gloria e senza onore fatta di massacri epocali negli assalti alla baionetta e nelle linee di combattimento invase dai gas. Ciò che morì definitivamente nelle trincee del Carso e della Marna fu, in questo modo, la fede nel progresso, nella scienza e nell’essere umano.

Diventò allora particolarmente attuale il pensiero di Søren Kierkegaard che non aveva ancora avuto un’adeguata ricezione. Tra i primi a portare l’attenzione sul suo pensiero, il teologo protestante Karl Barth avviò la Kierkegaard Renaissance degli anni ‘20 con un importante commento alla Lettera ai Romani di San Paolo:

«In tutte la epoche affamate e assetate di giustizia è sembra­to naturale prendere posizio­ne al fianco di Paolo»,

Dietrich Bonhoeffer (1906 - 1945)
Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945)

scriveva Barth nel 1919. Davanti alla scienza e alla fabbrica che si erano posti al servizio dello sterminio e alla politica che aveva progettato il massacro a tavolino usando i propri cittadini come carne da cannone, il mondo contemporaneo appa­riva al teologo affamato e assetato di senso più che di giustizia, come se davanti all’orrendo massacro l’idea stessa di giustizia avessere perso il suo significato.

«Ho ancora una copia del mio taccuino di aiutante maggiore» – scriveva Emilio Lussu nei suoi appunti per la stesura di Un anno sull’altipiano – «in cui è l’ordine di attaccare anche con i reticolati intatti. In questa scelleratezza, generalizzata nell’esercito di Cadorna, causa della morte di migliaia di sardi, è la mia primissima rivolta morale alla guerra e alla classe dirigente che la provoca».

Il rinnovamento della teologia protestante si chiuse idealmente con il luterano Dietrich Bonnhoeffer, protagonista di una vita nella quale il convincimento religioso fu messo in pratica fino alle conseguenze estreme. Dopo aver preso pericolosamente posizione contro lo sterminio degli ebrei – contro l’ambigua posizione della chiesa cattolica -, Bonhoeffer partecipò, infatti, ad una congiura per uccidere Hitler; fatto prigioniero, fu impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg all’alba del 9 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.



Le filosofie dell’esistenza
[…] l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e […] si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo.

J.-P- Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo

Jean-Paul Sartre (1905-1980)
Jean-Paul Sartre (1905-1980)

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Albert Camus (1913 – 1960)

In ambito propriamente filosofico, è il filosofo e psichiatra Karl Jaspers ad avviare, con Psicologia delle visioni del mondo (1919), il dibattito esistenzialista europeo. Il movimento dilaga e si afferma, però, soprattutto in Francia con le opere di Jean-Paul Sartre (La nausea, 1938; La morte dell’anima, 1949; Le mosche, 1943; Il diavolo e il buon Dio, 1951), Albert Camus (Il mito di Sisifo, 1942 e L’uomo in rivolta, 1951), Maurice Merleau-Ponty ed altri.

In generale, in questi autori l’esistenza è identificata come il modo di essere proprio dell’uomo, un modo specifico, diverso da quello di tutti gli altri enti del mondo. Tale modo di essere viene descritto innanzitutto come un rapporto con l’essere, rapporto che viene inteso come qualcosa in cui «ne va» dell’uomo e che richiede all’individuo una qualche «scelta» o progetto esposti al «rischio», aspetto che colloca strutturalmente l’uomo nella dimensione temporale del futuro. Gli esistenzialisti ritengono, dunque, che l’uomo non sia una realtà sostanziale già data, ma un ente che ha di fronte diverse possibilità di realizzazione che impegnano la sua libertà e che si collocano ai due estremi dell’autenticità e dell’inautenticità. L’uomo è insomma una struttura problematica che, non possedendo l’essere, è permanente calata in  situazione, segnata dalla finitezza e dal limite. Nei concetti di possibilità, singolarità, finitezza, scelta, rischio, angoscia, non è difficile vedere il riferimento a Kierkegaard.


Jaspers scrive, in proposito:

«La situazione [è] una realtà a cui un soggetto è, col suo esserci, interessato, e per il quale la situazione è limite e campo d’azione. [Essa] è una realtà che ha un senso, e che non è né fisica, né psichica, ma l’una e l’altra cosa insieme, una realtà che, nella sua concretezza, significa, per il mio esserci, vantaggio 0 danno, opportunità 0 limite. […] Situazioni come quella di dover esser sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire, sono situazioni-limite. Esse non mutano in sé, ma solo nel loro apparire; nei confronti del nostro esserci hanno un carattere di definitività.

Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo limitarci a considerarle con estrema chiarezza, senza poterle spiegare 0 giustificare in base a qualcosa. Esse sussistono con lesserei stesso. Limite significa che c’è qualcos’altro che però sfugge alla coscienza del nostro esserci. […] Sperimentare situazioni-limite ed esistere è la stessa cosa. […] Come esserci possiamo evitare le situazioni-limite solo chiudendo gli occhi […], per cui non resta che arrenderci. Non possiamo quindi reagire sensatamente alle situazioni-limite elaborando piani, o facendo calcoli per evitarle, ma dobbiamo affrontarle con un’attività di tutt’altro genere, e precisamente, realizzando in noi l’esistenza possibile […]. Il limite svolge così la sua autentica funzione, e cioè quella di essere nell’immanenza un rinvio alla trascendenza» [K. Jaspers, Filosofìa, 1938].



Così Sartre:

Robert Doiusenau, Le basier de l'Hotel de Ville, 9 mars 1950
Robert Doiusenau, Le basier de l’Hotel de Ville, 9 mars 1950

«[Tutti gli esistenzialisti] hanno in comune soltanto questo: ritengono che l’esistenza preceda l’essenza. [Ora, la] connessione tra la trascendenza costitutiva dell’umo – non nel senso che si dà alla parola quando si dice che Dio è trascendente, ma nel senso dell’oltrepassamento – e la soggettività […] è quello che noi chiamiamo umanismo esistenzialista. Umanismo, perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui […] e perché noi mostriamo che, non nel rivolgersi verso se stesso, ma sempre cercando fuori di sé uno scopo, che è quella liberazione, quell’attuazione particolare, l’uomo si realizzerà precisamente come umano» [J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo].

A questo punto di vista è ispirata la celebre Le Déserteur, registrata da Boris Vian il giorno della sconfitta francese di Dien Bien Phu (7 maggio 1954) e subito bandita dalla radio come prosa antipatriotica [sotto nella memorabile interpretazione di Serge Reggiani]:




Heidegger e il senso dell’essere
sartre
Sartre

Nella conferenza del 1945 L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre definì la propria posizione filosofica un esistenzialismo «ateo» e «umanistico» che, negando la determinazione divina dell’uomo, lo poneva al centro in quanto unico ente nel quale l’esistenza precede l’essenza – «esiste [cioè] prima di poter essere definito da un concetto». Poiché, di conseguenza, l’uomo è solo «quale si sarà fatto» in virtù di una scelta che coinvolge non solo chi la opera, ma tutti, la sua responsabilità implicava, per il filosofo, l’impegno etico-politico, l’engagement, la prassi.

«Quando diciamo che l’uomo si sceglie, intendiamo che ciascuno di noi si sceglie ma, con questo, vogliamo dire che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti, non c’è uno solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei allo stesso tempo un’immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere» [J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, 1945].

Heidegger reagì – indirettamente – a L’esistenzialismo è un umanismo (1946) con la Lettera sull’umanismo (1947) nella quale sostenne che noi non pensiamo ancora adeguatamente l’essenza dell’agire, concependo la prassi semplicemente come qualcosa che produce un effetto e la cui realtà è valutata in base all’utilità che se ne ricava. L’essenza dell’agire, invece, è portare a compimento, dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, dunque far essere ciò che già è. L’uomo – l’esserci (dasein) nel lessico heideggeriano – porta a compimento l’essere.

Con questo secco chiarimento, Heidegger prende definitivamente le distanze dall’interpretazione esistenzialistica del suo pensiero che tendeva ad isolare l’analitica dell’esistenza presente in Essere e tempo – Sein und Zeit, il suo capolavoro, pubblicato nel 1927 – e comincia, contemporaneamente, a produrre una serie di saggi e conferenze che delineano la «svolta» (kehre) intellettuale nella quale i temi esistenziali sono progressivamente abbandonati a vantaggio di una riflessione specifica sul senso dell’essere.

Rudolf Carnap (Circolo di Vienna): una proposizione ha senso solo se verificabile. La metafisica, in quanto inverificabile, non ha alcun valore di verità
Rudolf Carnap (Circolo di Vienna): una proposizione ha senso solo se verificabile. La metafisica, in quanto inverificabile, non ha alcun valore di verità

Poteva sembrare un paradosso, nell’epoca della tecnica dispiegata a livello planetario, riesumare un problema che aveva impegnato i grandi metafisici greci da Parmenide ad Aristotele, ma si era eclissato completamente nel mondo contemporaneo. Heidegger, però, rovescia completamente l’ingenua prospettiva storica di un’epoca che, a suo avviso, ritiene di aver chiuso i conti con la metafisica, mentre ne è l’estrema, inconsapevole, manifestazione. La tanto screditata metafisica – i primi anni del secolo erano stati anche gli anni del Circolo di Vienna,  del positivismo logico e del loro radicale empirismo antimetafisico – non coincide infatti più con il senso dell’essere, ma con il suo oblio.

Heidegger si propone dunque di ripensare la domanda ontologica fondamentale – che cos’è l’essere? -, a partire dall’ente in cui il senso dell’essere si manifesta: l’esserci. 

Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: rendere trasparente un ente – colui che domanda – nel suo essere. La posizione di questo problema, in quando modo di essere di un ente, è essa stessa determinata in linea essenziale da ciò che in esso viene domandato: dall’essere. Questo ente che noi stessi sempre siamo e che tra l’altro ha quella possibilità di essere che consiste nel domandare,. lo designamo col termine di esserci. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede l’adeguata esposizione prelimare di un ente (l’esserci) nei riguardi del suo essere [Essere e tempo, §2].

La questione dell’essere non è dunque un problema tra i tanti della riflessione filosofica, ma una condizione strutturale dell’uomo, quale ente che ha la capacità di domandare. L’esserci è  infatti l’ente a cui,

«nel suo essere ne va di questo essere stesso» [Essere e tempo, 4].

Essere e tempo avrebbe dovuto essere composta di due parti: nella prima l’autore avrebbe svolto l’analisi dell’esserci come preparazione alla comprensione del senso dell’essere in base al tempo; nella seconda, avrebbe portato a termine la definitiva «distruzione fenomenologica» di tutta l’ontologia precedente. Difficoltà insormontabili, legate all’incapacità del linguaggio di emanciparsi dal senso dell’essere edificato dalla millenaria metafisica occidentale, gli impedirono di stendere la seconda parte.



L’esserci e il mondo
temporalità dell'esserci
La temporalità dell’esserci

L’analitica esistenziale sviluppata in Essere e tempo ha per oggetto il rapporto tra l’esserci (dasein) e il mondo. L’esserci non è la coscienza, la mente, il corpo, o l’unione di anima e corpo ma, più originariamente, colui che si pone la domanda sull’essere in quanto, strutturalmente, «ci è». Esserci significa essere coinvolti in una serie di quotidiani rapporti pratici con gli enti che ci circondano e che, nella comprensione «media e vaga» del mondo sono in base all’uso che possiamo farne. Il fatto che il mondo si sveli innanzitutto alle attività e ai bisogni pratici dell’esserci ne mostra la natura progettante, cioè rivolta all’avvenire. Il mondo e l’esserci, struttura unitaria che Heidegger chiama essere-nel-mondo, hanno pertanto in comune la natura temporale. In particolare, l’esserci è costituzionalmente aperto alla relazione col mondo in cui è gettato nella dimensione della cura.

L’essere-nel-mondo è caratterizzato, infatti, dall’apertura, nel senso che l’esserci apre la possibilità del mondo con tutti suoi molteplici significati; non apre dunque a qualcos’altro da sé, ma è esso stesso questa apertura. Il «ci» – dell’esserci – non lo è mai infatti una volta per tutte, come una struttura naturale innata, ma ha sempre da-esserlo: l’esistenza è sempre un portare all’essere della possibilità, un progetto gettato.

chiacchiera
Inautenticità: o si chiacchiera o si pensa

Il riconoscimento della temporalità dell’esserci è la condizione prima della vita autentica, cioè della singolarità della propria esistenza e della responsabilità di progettarla. Viceversa, la quotidianità è immersa nell’inautenticità della chiacchiera e del comportamento impersonale, fatto di atti vuoti e di un presente senza tempo. Ciò in quanto il discorso trasformato in chiacchiera cerca di coprire la finitezza dell‘esserci e il suo essere-per-la-morte, morte che non è la conclusione biologica dell’esistenza, ma la cifra esistenziale del nostro essere finiti e temporali, impossibilitati ad essere, continuamente ripetuta in ogni nostro atto, pensiero, discorso.

chiacchiera1
Inautenticità: la distrazione e dispersione nel presente di chi non pensa

La morte, in quanto possibilità, non offre niente da “realizzare” all’esserci e niente che esso steso possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni comportamento verso [….] ogni esistere [Essere e tempo, 53].

Rifiutare la morte è tutt’uno col rifiutare la propria temporalità e dimenticare che l’essere è tempo. L’individuo allora si distrae pascalianamente nel e col presente, chiacchiera di ciò che lo incuriosisce nel presente come se solo il presente esistesse, e poiché il pensiero della morte è troppo incalzante per essere soppresso del tutto, lo riduce a un generico e anonimo «si muore»  in un tempo che è «ora non ancora».

Conquistare l’autenticità della propria esistenza significa strapparsi all’inautenticità di questi tentativi di occultamento e riconoscere che l’essere-per-la-morte è una struttura esistenziale ineliminabile.

Riconoscere il nostro essere-per-la-morte significa anche capire che non «si» muore mai, ma che c’è sempre qualcuno e non altri che muore – di qui il sottile senso di rassicurazione prodotto dalle esequie di qualcun’altro. Abbandonando la chiacchiera per il silenzio e la distrazione per l’angoscia – non quale sentimento, ma come determinazione esistenziale – si compie una «decisione anticipatrice» della morte, che non significa suicidarsi, ma assumere in certi momenti la finitezza della nostra esistenza, viverla pienamente nei nostri rapporti con il mondo e con gli altri, rompendo il vacuo e anonimo scorrere del tempo quotidiano. L’angoscia ci pone infatti davanti al nulla del nostro esserci e del mondo e rimuove tutta la rete di abitudini e chiacchiere che rendono inautentico l’esserci, distraendolo dalla sua responsabilità più grande, quella di diventare un sé autentico.

«Nell’anticipazione, questa possibilità [della morte] si rivela come la possibilità dell’incommensurabile impossibilità dell’esistenza […]. L’anticiparsi si rivela come la possibilità del poter-essere più proprio ed estremo, cioè come la possibilità dell’esistenza autentica» [Essere e tempo, 53].



Dall’analitica esistenziale alla differenza ontologica
Martin-heidegger in giacca tirolese
Heidegger in una delle sue celebri giacche tirolesi

In alcuni scritti e conferenze degli anni ’30, il pensiero di Martin Heidegger matura la cosiddetta svolta (kehre) con la quale evidenzia la natura preparatoria e inseparabile dalla ricerca sul senso dell’essere dell’analitica dell’esistenza. Il carattere temporale dell’essere e la sua alterità assoluta dall’ente sono ora approfonditi da Heidegger con il concetto di differenza ontologica.

A partire da Platone, ogni metafisica ha pensato la differenza tra essere ed ente come differenza tra qualcosa che è e non diviene e qualcosa che diviene dunque non è, ponendo l’essere a fondamento dell’ente. Le idee, la sostanza, Dio, la res cogitans, lo spirito assoluto, la volontà di potenza sono altrettanti paradigmi ontologici, cioè modelli di riferimento assoluto delle cose esistenti, che hanno segnato le tappe fondamentali della storia della metafisica. In questi modelli però, secondo Heidegger, la metafisca non ha pensato la differenza fondamentale tra l’essere e gli enti. Essi infatti identificano l’essere dell’ente con delle super-cose o enti speciali che non pensano l’essere come tale e ne consegnano il senso all’oblio. La metafisica occidentale non ha quindi mai pensato la differenza ontologica e la verità come aletheia, cioè il disvelarsi e ritrarsi al tempo stesso del senso dell’essere.

Questa dimenticanza del senso dell’essere culmina nell’attuale epoca della tecnica, la quale viene ingenuamente pensata come la liquidazione definitiva della metafisica, resa possibile dall’efficienza produttiva e dal dominio scientifico sulla natura. Ma per Heidegger si tratta di un abbaglio fatale: i paradigmo ontologici che hanno costituito ogni epoca hanno assolto all’esigenza umana di controllare il divenire, rendendolo calcolabile e pianificabile. La tecnica quindi non fa altro che portare a compimento l’oblio del senso dell’essere come differenza, completando il suo progetto nichilista di dominio totale sulla natura e di sfruttamento incondizionato della totalità degli enti. In quanto compimento, essa è a tal punto metafisica che nessuna ulteriore metafisica è pensabile dopo di essa.

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A partire da Platone, la metafisica lega l’essere al proprio vedere (idein). L’oblio dell’essere è contenuto nella deriva soggettivista dell’ontologia occidentale

L’epoca presente è quindi la notte dell’umanità, la crisi di un mondo senza più dèi e senza più valori. L’ultimo a pensare nel solco nichilista della metafisica occidentale è Nietzsche il quale fonda la trasvalutazione di tutti i valori su una volontà di potenza che è espressione della stesso potenza nientificante dell’incomprensione soggettivista della differenza ontologica.

In relazione al nichilismo, Heidegger si distacca però da tutte le altre concezioni che lo legano alla crisi, alla perdita, alla negatività o alla distruzione e dafferma che il nichilismo autentico permette di pensare ciò che fino ad oggi non si è potuto pensare: cioè la storia dell’assenza, della mancanza dell’essere stesso, del suo sottrarsi:

Heidegger a Todtnaumberg
Holzwege, sentieri nel bosco

«Anziché affrettarsi in un superamento sempre troppo carente del nichilismo, il pensiero, colpito dall’essenza dl nichilismo, si sofferma nell’avvento del rimanere assente e lo attende per imparare a pensare il rimanere assente dell’essere […] come ciò che è essenzialmente presente dell’essere stesso» [Nietzsche, II, cap. 7].

Caratteristica dell’essere è insomma il presentarsi come assenza. L’esserci non può dunque che essere il luogo della rivelazione della verità come nascondimento: l’alienazione è, per Heidegger, la condizione in cui siamo da sempre in quanto uomini.

Per questo, l’ultima fase del pensiero di Heidegger è dedicata al lavoro silenzioso e paziente di un «pensiero rammemorante» che attinga il senso dell’essere alle fonti dimenticate dalla metafisica che il linguaggio cerca di recuperare. La filosofia si congiunge così con il «pensiero poetante» nel suo continuo sforzo di esprimere l’essere.

«Hölderlin piuttosto, istituendo di nuovo l’essenza della poesia, determina per primo un tempo nuovo. E’ il tempo degli dèi fuggito e del Dio che viene. E’ il tempo di privazione perché esso di trova in una doppia mancanza e in un doppio non: nel “non più” degli dei fuggiti e nel “non ancora” del Dio che viene. […] Ma egli tiene fermo il nulla di questa notte. Il poeta, persistendo così, da solo, nel supremo isolamento della propria destinazione, consegue la verità per il suo popolo, del quale è rappresentante, e per questo la consegue in verità [Hölderlin e l’essenza della poesia].

Nelle ultime opere, Heidegger tenderà a intendere il senso dell’essere come luogo, la «località» in cui da sempre abitiamo. Non un luogo chiuso e definito, ma una via, un sentiero lungo il quale avviene da sempre un incontro. Il pensiero scopre che il suo cercare contiene già sempre la cosa cercata e lo stesso domandare si trasforma nell’unica risposta possibile.



Heidegger e il nazismo
Heidegger, il settimo da sinistra, tra i gerarchi nazisti
11 novembre 1933, il rettore dell’Università di Friburgo (settimo da sinistra) ad una riunione del partito nazionalsocialista

La compromissione di Heidegger con il nazismo si consuma con il rettorato dell’Università di Friburgo assunto dal filosofo nel 1933 e durato meno di un anno. Come rettore, Heidegger fu interprete della nazistizzazione dell’Università, allontanando i professori ebrei, ma anche resistendo in parte alle richieste più estreme delle camicie brune. Il 27 maggio – poco più di due settimane dopo il rogo di Berlino (10 maggio1933) in cui i nazisti avevano bruciato in piazza libri e opere «d’arte degenerata» – Heidegger pronunciò la prolusione L’autoaffermazione dell’Università tedesca, nella quale manifestava la propria adesione agli obiettivi e ai valori del nazionalsocialismo. Il 3 novembre dello stesso anno, nell’Appello agli studenti tedeschi, si spinse a dichiarare il Führer il presente, il futuro e la legge della Germania. Entrato in contrasto con il regime, nel 1934 lasciò l’incarico di rettore.

I rapporti con Husserl, suo maestro, a cui nel 1927 Heidegger aveva dedicato Essere e tempo – dedica soppressa nella quinta edizione del 1942, quando il maestro era ormai morto – e che, nel frattempo era stato costretto a ritirarsi dall’insegnamento, in quanto ebreo, si incrinarono irrimediabilmente. Il fondatore della fenomenologia che pensava il filosofo come un «funzionario dell’umanità», non poteva infatti concepire maggiore lontananza da questo ideale del tradimento heideggeriano dei valori di libertà e giustizia connaturati all’esercizio del pensiero.

Nel 1945, quando l’esercito francese entrò a Friburgo, ad Heidegger venne sequestrata la casa e rischiò di perdere la biblioteca, anche su intervento di Jaspers che, sposato con una donna ebrea, aveva dovuto vivere nascosto in patria durante la guerra. Allontanato dall’insegnamento e riammessovi gradualmente a partire dal 1949, Heidegger non prese mai le distanze dal nazismo e ritenne di non condannare la persecuzione degli ebrei, nonostante non fosse antisemita – lo era invece sua moglie Elfride – e malgrado l’importanza nella sua vita di Husserl ed Hannah Arendt – allieva, quindi amante – entrambi ebrei. Nel 1966, il filosofo rilasciò un’importante intervista su questi aspetti della sua biografia al settimanale Der Spiegel, impegnandolo a pubblicarla solo dopo la sua morte. Il testo, uscito pochi giorni dopo la scomparsa di Heidegger, avvenuta il 26 maggio 1976, fu intitolato, secondo un’affermazione del filosofo contenuta nell’intervista, Ormai solo un Dio ci può salvare.
http://gabriellagiudici.it/heidegger/



Martin Heidegger: La libertà come scelta tra vita inautentica e vita autentica
Il seguente contributo propone, in forma sintetica, parte del seminario tenuto dal Prof. Roberto Garaventa sul tema La libertà in Kierkegaard, Heidegger, Schopenhauer e Nietzsche per un gruppo di studenti di “quinta” del «Liceo Scientifico G. Galilei» di Pescara, il 20.5.2015 nell'ambito delle attività di orientamento.
HeideggerSecondo quanto Heidegger afferma in Essere e tempo (1927), l’Esserci (cioè il singolo individuo) non è una realtà predeterminata o precostituita, ma è una realtà che si fa in base alle sue scelte e alle sue decisioni. A differenza delle cose (degli enti) che sono delle “semplici-presenze”, che sono cioè soltanto ciò che sono e non possono essere diversamente, l’uomo è una realtà non-definita, non-determinata, che «ha da essere», in quanto ha da scegliere tra infinite possibilità. Nelle cose, quindi, l’essenza precede l’esistenza, mentre nell’uomo l’esistenza precede l’essenza.

Già sempre e per lo più, però, il singolo «Esserci» si comprende in base a ciò che pensano gli altri individui, ovvero vive in maniera “inautentica” conformemente a scelte e decisioni che “non” gli sono “proprie”. “Autentica” (termine che traduce il tedesco eigentlich, che significa “proprio”), è infatti quell’esistenza in cui viviamo in base alle nostre “proprie” scelte e alle nostre “proprie” decisioni. “Inautentica” (termine che traduce il tedesco “uneigentlich”, che significa “non-proprio”) è invece l’esistenza in cui viviamo non in base alle nostre “proprie” scelte e decisioni, ma in base a scelte e decisioni altrui. L’esistenza inautentica è l’esistenza anonima, quella di tutti e di nessuno, è l’esistenza sotto il dominio del “si” (das Man), cioè di quel che “si” dice, “si” pensa e “si” fa, è l’esistenza in cui a dettare legge è l’opinione pubblica, il parere della maggioranza. In essa tutto è livellato, convenzionale, insignificante. In essa l’uomo è tutti e nessuno, perché è ciò che sono tutti (che è un modo di essere impersonale e anonimo, dove nessuno è responsabile di quel dice, pensa e fa, perché non fa altro che dire, pensare e fare quel che tutti pensano, dicono e fanno). Questa condizione di inautenticità Heidegger la definisce anche deiezione (Verfallenheit), in quanto in essa l’uomo è “deietto”, decaduto, consegnato agli altri, ridotto a cosa fra le cose, senza alcuna personalità e originalità.

«Il Chi non è sé stesso, gli altri lo hanno svuotato del suo essere». «Il Chi non è questo o quello, non è sé stesso, non è qualcuno». «In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua tipica dittatura. Ce la spassiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si giudica. Ci teniamo però anche lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani. Troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Esserci determinato ma tutti (non però come somma), decreta il modo di essere della quotidianità». «Ognuno è l’altro e nessuno è lui stesso».

Ora, l’esistenza inautentica è per Heidegger il regno della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco. In essa, infatti, a dominare è anzitutto la chiacchiera (Gerede) inconsistente. Non a caso, perché qualcosa venga accettato come ovvio, basta che venga detto, ripetuto, diffuso: le cose stanno cioè in un certo modo solo perché così “si dice”. Dato che però un’esistenza dominata dall’inconsistenza della chiacchiera è fondamentalmente vuota, essa non può che cercare continuamente di riempirsi. Per questo l’esistenza deietta appare dominata al contempo dalla curiosità (Neugier) che è «ovunque e in nessun luogo». Incapace di soffermarsi a riflettere seriamente su qualcosa, in preda a un’irrequietezza diffusa, essa è morbosamente protesa verso la novità e il cambiamento, ovvero è alla continua ricerca di distrazioni. Tutto questo, però, porta con sé l’equivoco (Zweideutigkeit): infatti l’esistenza deietta, dominata dalla chiacchiera e dalla curiosità, non sa neppure bene di che cosa “si” parli: «tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non è così».

Parlando di “inautenticità” a proposito di questo tipo di esistenza, Heidegger non vuole però esprimere un giudizio di valore: la sua analisi esistenziale si limita infatti a riconoscere che l’inautenticità (la deiezione) è una possibilità dell’esistenza (e quindi non è una sorta di peccato originale o, magari, di carenza culturale eliminabile col procedere della storia). Tuttavia è indubbio che, per Heidegger, l’esistenza autentica rappresenta una chiara alternativa all’esistenza inautentica e che la sua predilezione va decisamente alla prima.

Per passare dall’esistenza inautentica (anonima, deietta, quotidiana) a quella autentica, decisivo è il rapporto con la possibilità estrema dell’esistenza: la morte.

L’essere-per-la-morte (Sein–zum–Tode) – che non significa “essere a favore della morte”, ma “essere rivolti verso la morte”, “essere in direzione della morte” (zu è preposizione di “moto a luogo”) – è infatti una struttura fondamentale dell’esistenza. Nell’aprirsi alle sue possibilità, l’uomo non può infatti non aprirsi anche alla sua “fine” quale sua possibilità estrema. In questo senso, egli è già sempre rivolto verso la morte, è già sempre in rapporto alla sua fine quale sua possibilità estrema.

“L’essere-per-la-morte” è però essenzialmente angoscia. Ne consegue che l’uomo “innanzitutto e per lo più” si rapporta a questa sua possibilità estrema considerandola come una possibilità che non solo concerne sostanzialmente gli altri (e non lui in prima persona), ma che è comunque destinata a sopraggiungere solo in un futuro non meglio precisato – come suggerisce illusoriamente l’opinione pubblica quando afferma in maniera generica che nella vita “si muore”, senza specificare “chi” e “quando”. Nell’esistenza quotidiana, media, inautentica, deietta, l’individuo tende cioè a chiudere gli occhi di fronte alla sua “fine”, a questa sua possibilità estrema, a rimuoverla, a nasconderla. Tuttavia, anche laddove rimuove il pensiero della sua fine, l’uomo è in rapporto con la sua morte, è rivolto verso questa sua possibilità estrema. La morte infatti è un “modo di essere” che l’uomo fa proprio appena comincia a vivere: «L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire».

L’Esserci può passare dalla vita «inautentica» alla vita «autentica» solo anticipando o precorrendo la propria morte. Heidegger, quando parla di “anticipare la morte”, non intende però “suicidarsi”. Anticipare o precorrere la possibilità estrema dell’esistenza significa piuttosto considerare la morte non più come una possibilità che concerne fondamentalmente gli altri e che avverrà in un futuro non meglio precisato, ma considerarla per quello che veramente è: la possibilità più propria, più mia (perché, al momento della morte, nessuno può prendere il mio posto), più irrelata (perché, al momento della morte, si rompono tutte le relazioni e io resto irrimediabilmente solo), insuperabile (perché è l’ultima possibilità), più certa (perché alla morte non si può sfuggire: mors certa) e più indeterminata (perché non si sa come e quando avverrà: hora incerta).

Solo laddove anticipa (precorre) la possibilità della morte come quell’evento che riguarda lui in prima persona (e non gli altri) e che può avvenire già sempre (anche adesso), staccandosi dal modo quotidiano e deietto di rapportarsi alla propria “fine” e facendosi carico della propria finitudine senza tentare di rimuoverne l’evidenza, l’uomo può trovare la forza decisionale di progettarsi liberamente (pur essendo destinato a morire), cambiando modo di essere e di vedere le cose, e quindi di vivere non più come vogliono gli altri, ma nel modo deciso e scelto da lui stesso. L’anticipazione della morte infatti isola e singolarizza l’individuo rispetto alla massa anonima. In questo modo, però, essa induce l’uomo a liberarsi per le sue vere possibilità, affrancandosi da quelle non scelte da lui, e così passare dalla deiezione all’autenticità.

ROBERTO GARAVENTA

http://dia-logos.unich.it/discussionidibattiti/martin-heidegger-la-liberta-come-scelta-tra-vita-inautentica-e-vita-autentica/

Martin Heidegger: l'autenticità come precondizione della libertà del rapporto con la tecnica.
1) La tesi fondamentale dell'esistenzialismo è che l'oggetto più proprio della filosofia è la concretezza della condizione umana; appunto per questo Jean Paul Sartre, nell'opera del 1946 L'esistenzialismo è un umanismo, afferma che "siamo su di un piano dove ci sono soltanto uomini". Heidegger (1889-1976) – spesso accostato, erroneamente, al pensiero esistenzialista – nella sua Lettera sull'umanismo (1949), prende le distanze da quest'assunto, rivendicando la specificità della propria posizione filosofica, per la quale "siamo su di un piano dove c'è principalmente l'Essere"; e la questione che l'ha occupato per tutta la vita è appunto quella del significato fondamentale dell'essere, problematico nonostante il fatto che, come si legge nell'opera del 1927 Essere e tempo (la prima che rese note al grande pubblico le ricerche del filosofo), in qualche modo tutti credono di sapere cosa significhi "essere". Ciascuno di noi, infatti, comprende senza problemi il significato di espressioni quali "Il cielo è azzurro", "Sono contento", "Non c'è tempo", e così via.

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2) Ora, la storia della filosofia ne ha individuato vari significati, intendendolo, di volta in volta, come idea (Platone), come sostanza (Aristotele), come oggetto (Cartesio), come categoria (Kant), come Spirito (Hegel). E qui troviamo qualcosa di strano: la filosofia lo ha sempre inteso come una "cosa", come un ente, mentre il senso comune continua ad intenderlo come un verbo. Ed è appunto a questo significato verbale che Heidegger si richiama definendo la storia della filosofia, della metafisica, come storia dell' "oblio dell'essere", cioè dell'interpretazione dell'essere come ente.



3) È importante notare che questo problema non consegue semplicemente dalla bizzarria di un filosofo che, non avendo di meglio da fare, si pone questioni astratte e irrilevanti: l'interpretazione dell'essere di una determinata epoca deve essere intesa come espressione dell'atteggiamento fondamentale che l'uomo ha nei confronti di sé stesso e del mondo; in gioco, allora, è sempre la situazione e il destino dell'uomo...

MARTIN HEIDEGGER 
1) La tesi fondamentale dell'esistenzialismo è che l'oggetto più proprio della filosofia è la concretezza della condizione umana; appunto per questo Jean Paul Sartre, nell'opera del 1946 L'esistenzialismo è un umanismo, afferma che "siamo su di un piano dove ci sono soltanto uomini". Heidegger (1889-1976) – spesso accostato, erroneamente, al pensiero esistenzialista – nella sua Lettera sull'umanismo (1949), prende le distanze da quest'assunto, rivendicando la specificità della propria posizione filosofica, per la quale "siamo su di un piano dove c'è principalmente l'Essere"; e la questione che l'ha occupato per tutta la vita è appunto quella del significato fondamentale dell'essere, problematico nonostante il fatto che, come si legge nell'opera del 1927 Essere e tempo (la prima che rese note al grande pubblico le ricerche del filosofo), in qualche modo tutti credono di sapere cosa significhi "essere". Ciascuno di noi, infatti, comprende senza problemi il significato di espressioni quali "Il cielo è azzurro", "Sono contento", "Non c'è tempo", e così via. 2) Ora, la storia della filosofia ne ha individuato vari significati, intendendolo, di volta in volta, come idea (Platone), come sostanza (Aristotele), come oggetto (Cartesio), come categoria (Kant), come Spirito (Hegel). E qui troviamo qualcosa di strano: la filosofia lo ha sempre inteso come una "cosa", come un ente, mentre il senso comune continua ad intenderlo come un verbo. Ed è appunto a questo significato verbale che Heidegger si richiama definendo la storia della filosofia, della metafisica, come storia dell' "oblio dell'essere", cioè dell'interpretazione dell'essere come ente. 3) È importante notare che questo problema non consegue semplicemente dalla bizzarria di un filosofo che, non avendo di meglio da fare, si pone questioni astratte e irrilevanti: l'interpretazione dell'essere di una determinata epoca deve essere intesa come espressione dell'atteggiamento fondamentale che l'uomo ha nei confronti di sé stesso e del mondo; in gioco, allora, è sempre la situazione e il destino dell'uomo. 4) Quest'ultimo, dunque, ha sempre teso ad interpretare il proprio essere come una cosa, come un ente: la metafisica ha, di volta in volta, pensato l'uomo come "animale razionale" (nella cultura greco-romana), come "creatura" di Dio (nella cultura giudaico-cristiana), come "soggetto" (nella cultura scientifica moderna e contemporanea); nello stesso modo ha interpretato l'essere del mondo come "natura", come "creato", come "oggetto". 5) Ora, per Heidegger, l'odierna conoscenza tecnico-scientifica si trova in assoluta continuità con la storia della metafisica, di cui costituisce il culmine: in essa, infatti, è portata a compimento l'interpretazione del mondo e dell'uomo come cose, determinate nelle loro caratteristiche materiali e spirituali, naturali e storiche, fisiche e psicologiche. 6) L'immensa mole di conoscenze scientifiche che è derivata da questo processo, ovviamente, non ha un significato meramente teoretico, avendo anzi consentito all'uomo di incrementare oltre ogni immaginazione il dominio di sé stesso e del mondo. Quest'ultimo, ridotto a oggetto di conoscenza e di conquista, è così diventato il luogo dell'autoaffermazione della "volontà di potenza" del soggetto umano. 7) Nel conferenza dedicata a La questione della tecnica, tenuta nel 1953, Heidegger illustra l'avvenuta trasformazione dell'ambiente naturale in un "fondo", un immenso deposito di risorse da sfruttare all'infinito: "una determinata regione viene provocata a fornire all'attività estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. L'opera del contadino non provoca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo. Intanto, però, anche la coltivazione dei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione che richiede la natura. Essa la richiede nel senso della provocazione. L'agricoltura è diventata industria meccanizzata dell'alimentazione. L'aria è richiesta per la fornitura di azoto, il suolo per la fornitura di minerali, il minerale ad esempio per la fornitura di uranio, l'uranio per l'energia atomica, la quale può essere utilizzata sia per la distruzione sia per usi di pace. […] La centrale elettrica è impiantata nelle acque del Reno. Questo è richiesto a fornire la pressione idrica che mette all'opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale ProfessionistiScuola.it a cura del prof. Vinicio D'Intino – per contatti viniciodintino@professionistiscuola.it di un certo distretto e la sua rete sono impiegati a produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell'ambito di questo successivo concatenarsi dell'impiego dell'energia elettrica anche il Reno appare come qualcosa di 'impiegato'. La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l'antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all'altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all'essere della centrale". 8) Solo un ingenuo, però, potrebbe credere che questo processo sia privo di inconvenienti: esso nasconde la persuasione umana di poter vivere e crescere indefinitamente a dispetto delle devastazioni inflitte al proprio ambiente, senza tener conto dei rischi che sono così posti per la stessa persistenza della vita sulla terra. In questo processo, però, "vittima" della manipolazione tecnico-scientifica è l'uomo stesso, che pure se ne crede l'autore: "se però l'uomo è in tal modo provocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancor più originario che la natura, del 'fondo'? Il parlare comune di 'materiale umano', di 'contingente di malati' di una clinica, lo fa pensare. La guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che apparentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri è oggi impiegata dall'industria del legname, che lo sappia o no. Egli è impiegato al fine di assicurare l'impiegabilità della cellulosa, la quale a sua volta è provocata dalla domanda di carta destinata ai giornali e alle riviste illustrate. Questi, a loro volta, spingono il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da divenire 'impiegabile' per la costruzione di una 'pubblica opinione' costruita su commissione" (La questione della tecnica); "noi, in un prossimo futuro, saremo in grado di fare l'uomo, cioè di costruirlo nel suo puro essere organico così come se ne avrà bisogno: abile o non abile, intelligente o stupido" (intervista televisiva del 1969); "se la vita come tale divenisse un artefatto producibile 'tecnicamente' […] in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né nascita e morte. Talvolta sembra che l'umanità corra all'impazzata verso questa meta: che l'uomo produca tecnicamente sé stesso. Se ciò riuscirà, l'uomo avrà fatto saltare in aria sé stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l'avrà fatta saltare in quell'aria dove l'assoluta assenza di senso vale come unico 'senso', e dove il mantenimento di questo valore appare come il 'dominio' umano sul globo terrestre". (Sull'essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, B, 1 – seminario del 1940). 9) Come si vede, per Heidegger, l'uomo mette in pericolo sé stesso in una duplice maniera: devastando il proprio ambiente e, nel tentativo di "autoprodursi" e "migliorarsi", arrivando a creare qualcosa di essenzialmente diverso da sé, perché frutto non del "caso" o dell' "amore", ma della programmazione consapevole e rispondente ad esigenze "industriali": si tratta delle problematiche dell'ecologia e della bioetica, sollevate quando erano ancora ben distanti dalla rilevanza odierna. Ma cosa c'entra tutto questo con il problema dell'essere? Perché mai, pensandoci su, le cose dovrebbero andare diversamente? 10) All'inizio abbiamo accennato al significato "verbale" dell'essere a cui Heidegger si richiamerebbe; pensare l'essere in tal modo significa "semplicemente" aprirsi alla meraviglia del "fatto" che qualcosa è, che noi stessi siamo: è una cosa che troppo spesso diamo per scontata, a beneficio della riflessione religiosa, metafisica o scientifica sulle "cose". 11) Infatti, per quanto, come abbiamo visto più sopra, l'autointerpretazione dell'uomo sia cambiata spesso, ciò che è tuttavia restato costante, è stato appunto il fatto che l'uomo non si è mai stupito dinanzi al suo trovarsi ad essere nel mondo, cioè al suo "esserci" – termine con cui Heidegger, in Essere e tempo, indica l'essere dell'uomo. 12) È da questo stato di cose che deriva la polemica heideggeriana con l'esistenzialismo e con l' "umanismo" in generale. Affermare che "siamo su di un piano dove ci sono soltanto uomini" significa avere la pretesa di spiegare l'uomo a partire da sé stesso, che coincide con quel fatale tentativo umano di autofondazione e autoproduzione che, come abbiamo visto, è il culmine di quel progetto tecnico-metafisico tendenzialmente autodistruttivo che segna la storia dell'umanità. Perciò "le supreme determinazioni umanistiche dell'essenza dell'uomo non esperiscono ancora l'autentica dignità dell'uomo. In questo senso, il pensiero di Essere e tempo è contro l'umanismo. Questa opposizione non significa che tale pensiero si schieri contro l'umano e propugni l'inumano, difenda l'inumanità e svaluti la dignità dell'uomo. Si pensa contro l'umanismo, perché non si pone l'humanitas dell'uomo a un livello abbastanza elevato" (Lettera sull'umanismo). 13) Si tratterà, allora, di pensare non a cosa l'uomo sia, ma a come è, cioè al suo modo di essere: è questo il ProfessionistiScuola.it a cura del prof. Vinicio D'Intino – per contatti viniciodintino@professionistiscuola.it senso del pensare l'essere in senso verbale. È il tentativo che Heidegger compie in Essere e tempo, dove, come abbiamo detto più sopra, l'essere dell'uomo è denominato "esserci", per indicare il suo essenziale trovarsi nel mondo, avente il significato della "cura", cioè dell'occuparsi, nelle sue svariate attività, delle cose e dell'avere a che fare con altre persone in molteplici tipologie di relazioni. 14) È importante notare la polemicità di questa descrizione del modo di essere dell'uomo nei confronti della tradizione filosofica che ha prima immaginato l'uomo come un "soggetto" privo di mondo, e poi ha cercato di ricostruire artificiosamente il modo in cui tale soggetto, col mondo, entrerebbe in contatto. È il caso di ogni teoria della conoscenza, da Cartesio e Leibniz fino a Kant, che non ha mai voluto partire dalla concretezza delle attività e delle relazioni umane, preferendo soffermarsi su un soggetto astratto che "coglie" degli "oggetti" in una riflessione teoretica. 15) In realtà, dice Heidegger, quando facciamo uso, ad esempio, di una scrivania (quando ce ne "prendiamo cura", per usare il suo linguaggio) essa non si manifesta a noi come un parallelepipedo di una determinata dimensione e di un determinato colore, ma come il mezzo che occorre per scrivere, per poggiare libri, etc. Quelli che la tradizionale riflessione filosofica considera come dei "semplici oggetti" sono, nella vita di ogni giorno, appunto dei mezzi che comprendiamo immediatamente nella loro funzione. 16) Il comprendere è uno dei due modi fondamentali con cui l'esserci umano è aperto al mondo, cioè immerso in una trama di relazioni con persone e cose; l'altro modo è ciò che Heidegger definisce sentirsi situato, espressione che indica il fondamento delle emozioni, degli "stati d'animo". 17) Ci si potrebbe interrogare sul motivo dell'utilizzo di un'espressione così strana; esso va individuato nella convinzione di Heidegger che l'uomo è aperto a sé stesso, e dunque al proprio mondo, in modo sempre diverso, sempre emotivamente connotato: è in virtù del sentirsi situato, allora, che l'Esserci si trova costantemente in un umore oppure in un altro. 18) Ora, bisogna notare che la riflessione filosofica, tradizionalmente, ha considerato i vari modi in cui l'uomo "si sente" come una caratteristica, tutto sommato, accessoria. Non si è trattato di un caso. Come abbiamo detto più sopra, l'uomo è per lo più stato astrattamente concepito come "animale razionale", come "soggetto"; e abbiamo anche visto che il significato ultimo di questa concezione è quello di fondare il dominio tecnico-scientifico del mondo da parte dell'uomo, la sua volontà di autofondarsi ed autoprodursi. 19) Il sentirsi situato mostra invece che l'uomo non può fondarsi, perché non è in potere di se stesso, proprio come non ha alcun controllo sul variare dei propri stati d'animo: nessuno può decidere, ad esempio, di essere allegro o triste; in questo senso Heidegger afferma che il sentirsi situato manifesta l'esserci come essere gettato. Un essenziale impotenza indicante altresì il fatto che l'uomo non si può porre in essere da solo: banalmente – ma è una banalità sulla quale la filosofia, paradossalmente, non ha mai riflettuto –, non si può decidere quando nascere o in quale contesto sociale o culturale. L'umanità non ha voluto sé stessa, ma si è trovata ad essere, ed è proprio questo che Heidegger intendeva affermando che "siamo su di un piano dove c'è principalmente l'Essere": in primo luogo c'è l'evento dell'essere nostro e del mondo, ed è su questo che deve concentrarsi la riflessione filosofica, senza darlo per scontato. 20) Ad ogni modo, l'essenziale relazione dell'esserci con il mondo si concretizza nel costante impegno di ciascuno in determinate attività, per mezzo delle quali realizza sé stesso. Quest'autorealizzazione, da Heidegger denominata progetto, può tuttavia avvenire autenticamente oppure no. 21) Per capire che cosa questo significhi bisogna esaminare un po' più da vicino il modo in cui, innanzitutto e per lo più, l'esserci ha a che fare con le altre persone. Heidegger afferma che la quotidianità dell'uomo è dominata dal "si", cioè dal fatto che nessuno è realmente sé stesso, in quanto ciascuno si comporta e agisce, pensa e parla come si fa: "ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla 'gran massa' come ci si tiene lontani, troviamo 'scandaloso' ciò che si trova scandaloso" (Essere e tempo). 22) In questo sostanziale anonimato l'esserci è inautentico, cioè non consegue un rapporto in prima per- ProfessionistiScuola.it a cura del prof. Vinicio D'Intino – per contatti viniciodintino@professionistiscuola.it sona né con l'essere delle cose né con il proprio, senza alcuna consapevolezza di sé e delle cose che davvero vuole, occupandosi di tutto in maniera superficiale e nel rifiuto di qualsiasi responsabilità. 23) In particolare, c'è una "cosa" di cui non ci si occupa mai, ed è la morte: innanzitutto e per lo più si cerca di non pensarci o, al più, ci si tranquillizza pensando che è qualcosa che accade agli altri, che cioè non ci riguarda direttamente. Il legame tra questa fuga dalla morte ed il non essere sé stessi è strettissimo: infatti, a ben vedere, nel mare di cose che ci possono capitare o che facciamo in maniera anonima ed inautentica, la morte è l'unica che ci riguarda sul serio, che viviamo in prima persona, a cui non possiamo sfuggire. 24) Di conseguenza per Heidegger l'autenticità consiste in quello che lui definisce essere per la morte: la quale espressione non indica certo lo stare a pensare alla morte di continuo, ma piuttosto l'assumersi in quella individualità a cui essa ci mette drammaticamente di fronte. In siffatta autenticità l'Esserci può essere davvero sé stesso, in virtù del suo sottrarsi alla "dispersione nel si", del rapportarsi alle cose e agli altri non in base al sentito dire ma ad un contatto personale, assumendosi dunque la responsabilità delle proprie scelte. 25) L'essere dell'uomo, gettato e mortale, emerge così, in questa riflessione attenta non alla "cosa" che l'uomo è, ma al modo in cui è, nella sua radicale finitezza, ed è proprio questa che è importante nel complesso del discorso heideggeriano: infatti, è proprio perché l'Esserci è finito che il suo progetto tecnicometafisico di autofondarsi ed autoprodursi è destinato al fallimento e allo scacco. 26) Ora, però, non bisogna credere che per Heidegger la necessità che si impone è quella di abbandonare la riflessione e la prassi tecnico-scientifica, a beneficio, magari, di un improbabile "ritorno alla natura": "Le organizzazioni, i dispositivi e le macchine del mondo tecnico sono oggi a tutti noi indispensabili, in una misura per gli uni più grande, per gli altri minore. Sarebbe insensato dare l'assalto alla cieca al mondo tecnico, e miope voler condannare questo mondo come opera del diavolo. Noi non possiamo fare a meno degli oggetti tecnici; essi esigono perfino da noi un loro sempre crescente perfezionamento. Il nostro legame agli oggetti tecnici, però, è così forte che inavvertitamente ci troviamo loro schiavi. Ma noi possiamo anche procedere altrimenti. Noi possiamo invero utilizzare gli oggetti tecnici e tuttavia allo stesso tempo tenerci liberi, pur nella loro normale utilizzazione, da essi in modo da distanziarcene in ogni momento. Noi possiamo fare uso degli oggetti tecnici così come essi esigono. Ma allo stesso tempo noi possiamo lasciare questi oggetti a se stessi come qualcosa che non ci impegna o concerne in ciò che abbiamo di più proprio ed intimo. Noi possiamo dire 'sì' all'inevitabile impiego degli oggetti tecnici, e possiamo dire allo stesso tempo 'no', nel senso che impediamo loro di pretenderci esclusivamente ad essi e così di deformare, confondere e infine devastare il nostro essere. Se però noi in questo modo diciamo contemporaneamente 'sì' e 'no' agli oggetti tecnici, non diviene il nostro rapporto al mondo tecnico ambiguo e incerto? Tutt'al contrario. Il nostro rapporto al mondo tecnico diviene meravigliosamente semplice e sereno. Noi ammettiamo gli oggetti tecnici nel nostro mondo di tutti i giorni e nello stesso tempo ve li teniamo fuori, cioè li lasciamo a se stessi come cose che non sono niente di assoluto, che anzi non possono fare a meno esse stesse di qualcosa di più alto". (L'abbandono, discorso del 1955). 27) Si tratterà, allora "soltanto" di non farsi dominare dalla tecnica nel modo più sopra ricordato, in cui l'apparente culmine della potenza umana, quello della sua raggiunta capacità di autoprodursi e controllare ogni cosa, coincide col momento della sua autodistruzione. È necessario che l'uomo, proprio perché essenzialmente finito, abbia cura di questa sua finitezza, senza ignorarla abbandonandosi al sogno di una potenza smisurata; e questo per poter continuare ad essere ciò che è, rinunciando alla presunzione di poter continuare a camminare anche dopo aver distrutto il luogo del proprio cammino.

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L’ANGOSCIA ESISTENZIALE E LA FILOSOFIA
Kierkegaard ha fatto dell’angoscia esistenziale il baluardo della sua dottrina filosofica. Heidegger ha proseguito il suo pensiero sul filone dell’angoscia di Kierkegaard. Sartre l’ha relazionata alla percezione della solitudine. L’angoscia esistenziale è insita nell’uomo, è il fine ultimo di un’esistenza o un mero concetto filosofico? Andiamo a conoscere meglio l’angoscia esistenziale
Di Marica Fattiroso  2625
Angoscia, da angere, termine latino che si può tradurre con stringere, soffocare.

L’angoscia esistenziale è al centro del dilemma natura-cultura: nasciamo predisposti all’angoscia e quindi impossibilitati a non vivere questa condizione, o siamo vittime inconsapevoli di una cultura castrante e coercitiva che innesta in noi questa condizione?

La filosofia è stata la prima ad occuparsi dell’angoscia esistenziale dividendo, in seguito, il terreno di indagine con le discipline medico-psichiatriche e con la psicologia. Ma in qualunque salsa si presenti, l’angoscia esistenziale non può non suscitare l’interesse dell’uomo, soprattutto di quell’uomo che dedica la sua vita all’indagine della ψυχή (psiche).



Angoscia esistenziale: Kierkegaard e l’angoscia esistenziale come vertigine della libertà
Secondo Kierkegaard l’esistenza è il modo di essere dell’uomo nel mondo e viene definito dai concetti interdipendenti di singolarità, possibilità, scelta, angoscia, disperazione e fede. L’angoscia, per Kierkegaard, è il sentimento del possibile e la possibilità è la più pesante di tutte le categorie in quanto prospetta l’impossibilità, ovvero l’impotenza dell’uomo nel realizzare a pieno la sua vita.

L’angoscia esistenziale è lo stato d’animo che sorge dinanzi alla vertigine della libertà. L’angoscia esistenziale nasce dalla percezione del vuoto rispetto alla propria esistenza: quando l’uomo si rende conto che la libertà che crede di vivere è una non libertà in cui ogni scelta etica e sociale è fatta in funzione di altri e non per seguire un reale desiderio, allora avverte il peso della sua vita e della percezione di non essere libero. L’unico modo di sconfiggere l’angoscia esistenziale dell’uomo è la sua fede.

L’angoscia esistenziale è diversa dalla paura, perché solo l’uomo che possiede un grande spirito è in grado di entrare in contatto con questa sensazione. Più grande è l’uomo, diceva Kierkegaard, più profonda diventa l’angoscia.



Angoscia esistenziale: Heidegger e l’annientamento
Heidegger riprende Kierkegaard e il tema dell’angoscia esistenziale è centrale nel suo pensiero. A differenza della paura che ha un oggetto di riferimento ben preciso, l’angoscia esistenziale nasce quando l’uomo si trova di fronte al nulla, dinanzi all’annientamento dell’esistenza: la morte.

Nei vari modi di Essere nella vita e nel mondo, secondo Heidegger l’uomo può comprendere l’esistenza solo con l’Essere per la morte, ovvero quando viene posto dinanzi al limite della fine della vita. Il limite dà una scansione temporale, un prima, un ora e un poi, al suo Essere nella vita. L’angoscia esistenziale nasce quando l’uomo scopre nella morte la possibilità decisiva dell’esistenza

. Le altre emozioni sono poca cosa di fronte all’angoscia esistenziale: solo in questa l’uomo diventa consapevolmente autentico.



Angoscia esistenziale: Sartre e l’angoscia di scegliere.
L’ateo Jean Paul Sartre riteneva che l’esistenza precedesse l’essenza, questo perché l’uomo prima nasce, quindi esiste, e poi si definisce, quindi è. L’angoscia nasce quando l’uomo si trova dinanzi ad una scelta.

Quando l’uomo deve scegliere è solo: niente e nessuno può realmente guidarlo e si ritrova in solitario confronto con le sue responsabilità.

Insomma, l’angoscia esistenziale emerge non appena l’uomo si accorge di essere solo. Angoscia esistenziale: vertigine della libertà, autenticità quando si incontra il limite, solitudine. La filosofia ha indagato l’angoscia in tutti i suoi meandri. Ma l’angoscia continua ad incuriosire gli animi e le menti del mondo psicologico e medico-psichiatrico, prendendo un’altra connotazione.

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