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sabato 17 giugno 2017

Dino Buzzati – Hieronymus Bosch, il maestro del Giudizio universale.

Dino Buzzati – Hieronymus Bosch, il maestro del Giudizio universale

"Il Giardino delle delizie" è un trittico a olio su tavola (220x389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.

Poiché mi ero sempre molto interessato del pittore Hieronymus Bosch, durante un viaggio in Olanda andai a visitare la sua città, cioè ‘s-Hertogenbosch, detta anche Bois-le-Duc, che noi chiamiamo Boscoducale.

E qui l’albergatore, persona abbastanza colta, mi disse:
”Se non altro per curiosità, signore, perché non va a trovare il vecchio Peter van Teller?
È un tipo un po’ strambo, un orologiaio che vive di una piccola rendita dopo avere ceduto la sua bottega al nipote. Credo sia il decano di ‘s-Hertogenbosch. Per tutta la vita si è occupato di Bosch, è convinto anzi che Bosch sia un suo antenato da parte di madre. Su Bosch ha scritto anche un libretto, tanti anni fa, che a quei tempi fece un certo scandalo. Ha certe sue idee curiose. Chissà, un incontro potrebbe esserle utile…”. Dicendo questo però sorrideva con una certa ironia, e io mi chiedevo se parlasse sul serio o invece intendesse prendermi benevolmente in giro.

All’indirizzo indicatomi, in una piccola strada die­tro il palazzo municipale, trovai una casetta a due piani, di classico stile vecchia Olanda, un minuscolo giardino dinanzi, un grazioso bovindo al pianterreno, le finestre a tanti piccoli riquadri rettangolari, il tetto spiovente di mattoni con due occhi d’abbaino, chiuso ai lati da muri sagomati a gradini con in cima un galletto di ferro; e in vetta a uno dei tre alti camini qualcosa che forse poteva essere un nido di cicogna.

Tirai, al cancello, la maniglia della campanella e dopo poco venne ad aprirmi una donnetta sui sessant’anni, straordinariamente linda, con una gentile cuffia bianca. Siccome parlava soltanto in olandese, non capii bene se fosse una donna di servizio oppure una parente del vecchio orologiaio.

Per fortuna inter­venne in aiuto un passante che conosceva il tedesco.
Seppi così che van Teller era uscito per la passeggiata pomeridiana e non sarebbe rientrato che fra un’ora. Però, se non volevo aspettarlo, potevo raggiungerlo al giardino pubblico; van Teller sedeva sempre sulla terza panchina a destra entrando. E non potevo sbagliare: era l’uomo più vecchio di ‘s-Hertogenbosch e portava un cappello d’altri tempi a tesa larghissima.

Un passante mi indicò la strada e dopo pochi mi­nuti vidi il curioso personaggio.
Seduto da solo sulla panchina, le mani riunite sopra il ricurvo manico di un bastoncello, osservava la gente che passava, i bam­bini che giocavano, le mamme che accanto alle car­rozzelle lavoravano a maglia o chiacchieravano, con espressione compiaciuta.

Quanti anni avrà avuto? Ottanta? novanta? due­cento? Impressionante il numero di rughe che solca­vano il volto scarno, eppure era ancora una fisiono­mia viva e in certo modo battagliera.

Come mi avvicinai e lui mi guardò, avvertii su­bito, vedendolo di faccia, una straordinaria rassomiglianza con l’unico sicuro ritratto di Hieronymus Bosch che si conosca, il disegno cioè che si conserva ad Arras; gli stessi occhi penetranti e maliziosi di falco, la stessa bocca perentoria che finisce in due pieghe alquanto beffarde. Il ritratto di Arras, che ci presenta il pittore già avanti negli anni, coincide perfettamente col volto dell’uomo che, sul fondo dell’Incoronazione di spine del Prado osserva con pietà e riprovazione la tortura di Cristo; solo che qui Bosch appare coi folti capelli neri, nel pieno della virilità. Ebbene, il vecchietto che mi trovavo davanti, rispetto ai due no­ti ritratti, poteva rappresentare la terza tappa, quella che Bosch non fece in tempo a raggiungere.
Era lo stesso uomo, pareva, arrivato alle soglie della decre­pitezza.

Mi presentai e fui lieto di constatare che anche van Teller conosceva abbastanza bene il tedesco; cosicché la conversazione era facile. In compenso bisognava quasi urlargli nelle orecchie, tanto era sordo.

“Chi le ha detto di rivolgersi a me?” domandò per prima cosa. E come lo ebbe saputo, fece un breve sogghigno, quasi che stimasse l’albergatore persona poco raccomandabile. Poi tacque e riprese a guardare la gente, come se io non esistessi.

Era un dolce pomeriggio d’autunno e gli alberi intorno, che già cominciavano a spogliarsi, portava­no i colori accesi e il patetico presentimento del tra­passo.

Van Teller era vestito all’antica: una lunga giac­ca-palandrana che gli arrivava fin quasi ai ginocchi, una camicia dall’alto collo inamidato, una vasta cra­vatta nera alla Robespierre. Si riscosse, mi guardò, sorrise (aveva ancora i suoi denti):
“Lei è venuto a cercarmi per il grande Hieronymus? Eh, eh. Innanzi tutto è mio dovere avvertirla, signore, che qui in cit­tà mi considerano un matto”. E fece una stridula ri­sata da cornacchia.

Intanto mi ero seduto al suo fianco. Con una mano scheletrica ma tutt’altro che tremante, strinse una delle mie. “Ma lei, signore, viene da lontano, lei non può sapere nulla di questi pettegolezzi di provincia, a lei non possono interessare, però lei mi è simpatico, si­gnore. A lei, se crede, posso dire alcune cose. Eh, eh. Avrà notato immagino, che io assomiglio a qualcu­no!”. “In modo sorprendente”, dissi: “Una coinciden­za quasi incredibile”. “Coincidenza, amico mio? Cre­de proprio si tratti di coincidenza?”. “Intende dire, signor van Teller, che si tratta di sangue?”. “Chissà, chissà”, fece lui enigmatico: “Certe cose noi non le potremo mai sapere”. Dopodiché non si fece pregare per raccontarmi la sua storia.

Figlio di un orologiaio, aveva seguito umilmente le orme paterne, occupandosi sempre del negozio ma, fin da ragazzo, una fortissima attrazione lo portava verso tutto ciò che riguardava il famoso pittore, ri­tenuto, in famiglia, un antenato di sua mamma, nata van Aken. Una tipica infatuazione di giovinezza, tuttavia abbastanza strana in lui, che aveva fatto solo le scuole commerciali.

Sull’argomento, ancora adole­scente, aveva letto tutto quello che gli era stato possi­bile; naturalmente alla biblioteca comunale di ‘s-Hertogenbosch i libri sul grande pittore non mancavano. Poi, fattosi uomo, era riuscito a vederli pressocché tutti, i celebri dipinti; era stato a Vienna, a Berlino, a Parigi, a Venezia, a Lisbona e più di una volta a Madrid.

Nel frattempo stava scendendo la sera, il giardino si era quasi vuotato del tutto, i viali assumevano quell’espressione enigmatica e circospetta della natura quando viene lasciata sola.
Mentre van Teller mi parlava, ebbi un piccolo soprassalto: con la coda dell’occhio mi era parso di vedere una cosa scura uscire da una siepe alle mie spalle e saltellare a scatti sull’erba; ma, come guardai, tutto era normale e tranquillo.

L’aria si era fatta piuttosto fresca, saliva l’umi­dità della notte, proposi a van Teller di accompa­gnarlo a casa. Egli tolse un antico orologio d’oro da un taschino del panciotto, esclamò :
”Che sbadato. So­no già quasi le sette. Chissà la Margareta che cosa sta immaginando”.

Ora il parco era diventato veramente deserto e poco rassicurante.
Ancora qualche sparso pigolio qua e là di invisibili uccelli. Fruscii, scricchiolare di rami secchi, lievi ansiti del vespero tra i mucchietti di foglie secche. Ma a van Teller, che probabilmente aveva stu­fato ad usura i concittadini con le sue vecchie storie. non sembrava vero di avere trovato un ascoltatore attento come me. E stava infervorandosi. Mi diceva co­me nessuno dei tanti critici che avevano scritto su Bosch, anche firme autorevoli e reputatissime, lo avesse persuaso.

“Parlano dell’inferno, parlano della dan­nazione eterna, parlano di sant’Agostino, delle eresie, della riforma di Luterò, vanno a frugare nella vita privata di Hieronymus, che nessuno di loro può cono­scere, riempiono centinaia di pagine con interpretazioni gigantesche.
E la psicanalisi!
E l’angoscia esistenziale con quattro secoli di anticipo!
E il surrealismo con quattro secoli di anticipo!…
C’è stato uno, perfi­no, che ha registrato uno per uno i mostri – eh, eh. li chiamano mostri – e li ha classificati come fossero tanti coleotteri, e per ciascuno ha trovato il tipo di nevrosi corrispondente.
E poi il manicheismo imman­cabile. E i refoulements sessuali… i complessi aberran­ti… la componente sodomitica… l’esoterismo negro­mantico… Quanta fatica inutile!”.

Si era fermato, ora batteva per terra con rabbia la punta del sottile ba­stone:
“Ma se è così semplice; così limpido! Se non è mai esistito un pittore più realista e chiaro di lui!… Altro che fantasie, altro che incubi, altro che magia nera…
La realtà nuda e cruda che gli stava davanti… Solo che lui era un genio che vedeva quello che nessuno, prima di lui e dopo di lui, è stato capace di ve­dere. Tutto qui il suo segreto:
era uno che vedeva e ha dipinto quello che vedeva…”.

Io dissi: “Capisco. Certo, in sede letteraria. non si può negare…
Però lei intende alludere, vero. a una realtà fantastica, a una realtà trasposta? alla realtà dei sogni, delle paure, dei rimorsi? Tornerà sempre a suo merito, di Bosch, l’aver dato una forma concreta a questi fantasmi… .Però lei non mi dirà che quegli esseri orrendi, rettili antropomorfi, osceni mec­canismi, utensili trasformati in membra, gnomi e insetti abominevoli, lui li vedesse veramente, che quat­tro secoli fa girassero per le strade dell’Olanda”.

“Non li vedeva?” fece lui, arrogante: “Non giravano per le nostre strade? Oh, non mi faccia par­lare!”. A questo punto non ebbe più riserve. Confessò che pure lui, non tutti i giorni ma abbastanza spesso, ‘ vedeva ‘ il mondo come Bosch: quel pomeriggio, per esempio.

Parecchie di quelle amorevoli mam­mine venute con la carrozzella del neonato non erano – mi garantì – che laidi uccelli dal becco adunco, lucertoloni neri gonfi d’odio, avidi cercopitechi sden­tati, vesciche infami con gambe di ragno. Tra i bam­bini stessi aveva visto qualche ributtante esemplare di ornitorinco e di gnomo, armato di uncini sangui­nolenti.

Ecco il motivo, spiegò, delle sue tribolazioni a ‘s-Hertogenbosch.
Più di trent’anni prima aveva esposto questa sua teoria in un libretto, portando am­pie esemplificazioni. Benché non venissero fatti espli­citamente i nomi, risultava evidente, per esempio, l’i­dentificazione dell’allora vice-sindaco con l’atroce pro­filo di sadico filisteo nel Portacroce di Gand e del pre­side del liceo musicale col paggio dalla testa suina nel Sant’Antonio di Lisbona.

Cominciavo a capire perché l’albergatore, dando­mi l’indirizzo di van Teller, sorridesse in modo insinuante. E perché lui stesso mi avesse detto che gli altri lo prendevano per matto.
Un povero vecchietto senza più i suoi venerdì, che pretendeva di essere la reincarnazione di un genio.

“Ma a lei”, domandai, “non è mai venuta la vo­glia di dipingere?”.
“Aspetti”, disse van Teller con aria di complicità: “Aspetti. Le farò vedere”.

La notte arrivava. Sotto le scure falde del cap­pello, l’antica faccia fosforesceva e gli occhi di falco erano bianchi e secchissimi. Alzò la destra a fare segno.

Mi accorsi che eravamo giunti alla sua casa. La quale, per i due culmini dei muri laterali e le fine­stre accese, assomigliava nel buio a un enorme gufo accovacciato. Prima ancora che van Teller avesse suo­nato il campanello, la sua donna arrivata trafelata:
“Così tardi, signore?” diceva, o qualcosa del genere.

Mi fece strada. Entrammo. Era una casa densa di antiche intimità e segreti di famiglia.
Rivestimenti di vecchio legno, scale di vecchio legno, statue in le­gno di vecchi santi tetri e scarsamente convinti. Le luci erano elettriche, ma civilmente disposte e limi­tate.
Margareta chiuse la porta alle nostre spalle con un catenaccio nero che mandò un tonfo cavernoso.

Era per van Teller l’ora di cena?
Margareta guardava interrogativamente il padrone, il quale con un piccolo cenno di mano fece capire che non era il caso e quindi zampettò adagio su per la scala. Non si fermò al primo piano dove era presumibile fos­sero le stanze da letto. Angoli in ombra, nicchie, an­gusti corridoi e scalette laterali che si perdevano nel buio.

Si uscì nell’androne sommitale ricavato dallo scri­molo del tetto spiovente.
Egli accese. Un getto di vivida luce cadde su una grande tavola poggiata a un cavalletto e dipinta per metà. Sotto, su un ta­volo, pennelli, colori e tavolozza.

Era, per quello che se ne poteva capire, un qua­dro incompiuto di Bosch.
In alto, a sinistra, lo splen­dore di un ciclo puro e intenso nel quale naviga­vano due angeli bellissimi, e le loro trombe si divin­colavano in ricci trionfali espandentisi in estasiati cartigli pieni di vento.
A destra degli angeli, Lui. il Signore, il Dio, l’Onnipotente, il Creatore, assise sul culmine di un arcobaleno, la testa irraggiante. l’espressione potente e stupita. Nudo. Il braccio de­stro, ad ansa di anfora, reggeva un lungo stelo di fiori paradisiaci. I piedi, intrecciati, poggiavano sulla sfera del mondo. Ma era dipinto per metà. Il rima­nente del corpo era tracciato con un segno filifor­me. La forza era però nel paesaggio di sotto. Rupi spoglie e corrose, nelle cui crepe e pieghe si divincola­vano orridi coacervi di corpi umani e disumani, in mezzo a sozze scaturigini di vapori gialli. Angeli con grandi ali lottavano per estirpare dall’obbrobrio le anime ancora titubanti, contrastati ferocemente da forme immonde. Ed era chiaro che la loro causa era perduta in partenza. I demoni, con teste maialesche e ferine, con bocche da rospo, con ventri squamosi di aracnide, con mastodontiche teste dalle cui orecchie uscivano le gambe rachitiche, con corpi da lu­certola e da scolopendra, erano mucose, erano ven­tri, erano sessi, erano ludibrio di membra viscide e sconciamente dilatate alle vergogne più turpi. Sul fondo della scabra sassaia, quei corpi tepidi e pal­pitanti di sozze voglie, per lo più rosei, spiccavano con una violenza ancora più selvaggia che non le meravigliose cortigiane adolescenti nel Giardino delle delizie al Prado.

Io rimasi là, di pietra. Era uno dei più crudeli e disperati Bosch che avessi mai visto. Eppure mai. in nessun libro o raccolta, lo avevo riscontrato. “Ma è un Bosch autentico, questo, no? È suo? Dove l’ha tro­vato? E perché è dipinto solo a metà?”
Van Teller mi guardò sorridendo: “No, no, una semplice imitazione…”.
“Eppure, eppure mi ricorda…”. Van Teller sembrò felice:
L’ha riconosciuto? Il Giudizio universale che andò distrutto nell’incendio del Prado? 
Lei ricorda la relativa stampa di Hameel, vero?

Sì, ora ricordavo perfettamente. Di quel prezioso dipinto, incenerito dalle fiamme, restava una sola testimonianza: una copia in formato ridottissimo, incisa in rame da un contemporaneo.
Ma ora qui, dinanzi a me, il capolavoro era per metà risuscitato. “E come è possibile?” feci io.

Allora lui, van Teller, si fece oltremodo circospetto e misterioso, e cominciò – come dirlo altri­menti? – cominciò a vibrare sottilmente, quasi una forza superiore stesse entrando in lui per possederlo. Alzò un dito ammonitore: “Qualche volta”, disse, “mi viene a trovare”. “Chi?”. “Lui, il grande Hieronymus”. “E come?”.

Corse a un tavolo pieno di carte e vi sedette.
Prese una matita, poggiò la punta della matita su un foglio di carta, la matita si muoveva da sola.
“È qui, è qui. Stasera è venuto”, annunciò con voce spi­ritata: “Lei è fortunato, signore”.

Dunque il vecchio orologiaio era un medium?
E adesso mi proponeva le liturgie del caso?
“Si sieda là nell’angolo. E non parli, per carità, signore”, disse van Teller.
Mi sedetti. E lui comin­ciò ad aggirarsi per la mansarda come un’anima in pena.
Mugolava. Si torceva come se qualcuno gli stes­se attanagliando le reni. Supplicava:
Non così forte, maestro Hieronymus, non così forte per misericordia di Dio!”.
Poi si mise a gemere in olandese e non capii più niente.

Nello stesso tempo, e la luce era tale che non po­teva esserci trucco, due pennelli, da soli, si levarono lievitando dal tavolo, come due addomesticate bestioline tuffarono il ciuffo nella tavolozza, quindi punta­rono verso il quadro e adagio adagio, con minuziosa applicazione, cominciarono ad effigiare una sorta di schifosa forma vivente metà salamandra e metà uc­cello che protendeva il becco verso una ragazza nuda già traforata da uno spiedo. L’invisibile spirito del grande Hieronymus tornava dunque alla sua città per ridipingere il quadro distrutto?

La scena era piuttosto allucinante.
Van Teller, per quanto rapito in quella specie di trance, potè dirmi: “Guardi, guardi dalla finestra”. Guardai dalla finestra. E capii ciò che il vecchio orologiaio aveva prima cercato di spiegarmi.
Sì, Hieronymus Bosch non aveva inventato nulla, aveva dipinto tale e quale lo spettacolo offerto quotidianamente ai suoi occhi.

Di lassù non potevo scorgere che la casa di fronte e una fetta di quelle adiacenti.
Ma, per l’incantesimo di quella notte, esse apparivano come scoperchiate e nell’interno si distingueva la gente che mangiava, dor­miva, litigava, lavorava, faceva l’amore, odiava, invi­diava, sperava, desiderava, come tutti noi. Erano uomi­ni e donne e bambini, tali e quali il nostro consueto prossimo quotidiano, ma frammisti a loro, con supre­mazia di maggioranza, si agitavano brulicando innumerevoli cose viventi simili a celenterati, a ostriche, a ranocchie, a pesci ansiosi, a gechi iracondi, simili ai cosidetti mostri di Hieronymus Bosch; e che non erano altro che creature umane, la vera essenza dell’uma­nità che ci circonda. Latravano, vomitavano, adden­tavano, sbavavano, infilzavano, dilaniavano, succhia­vano, sbranavano. Così come noi ci sbraniamo giorno e notte, a vicenda, magari senza saperlo.

Poi di colpo la rivelazione cessò.
Non vidi più che la casa di fronte, chiusa e immota, le case adiacenti, pure esse spente e addormentate. Tutto era tornato all’apparenza banale e tranquillizzante della realtà quotidiana, a cui siamo abituati. Mi voltai. Il vec­chio orologiaio, ansimante, si era abbandonato su un divano. Sembrava esausto.

Il silenzio della notte, l’immobilità delle cose. Tut­to come quando ero entrato: tranne quella schifosa forma metà salamandra e metà uccello dipinta sulla tavola, che quando io ero entrato non c’era.

Sul divano il vecchio era triste:
”Non arriverò mai a finirlo, questo quadro.
Sono stanco. Sono vec­chio.
E lui viene sempre più di raro… “.

Guardai attentamente il dipinto. Era eseguito con la perfezione dell’antico maestro, si notavano perfino le screpolature del colore che soltanto i secoli sanno dare. “Nessuno l’ha visto?”, chiesi. “Nessuno”. “E dopo?”. “Dopo la mia morte, lei intende dire? No, si­gnore, nessuno mai lo vedrà. Io sono un matto, un povero matto. Questo dipinto è il mio segreto. Ho dato disposizioni. Con me scomparirà”.

"Il Giardino delle delizie" è un trittico a olio su tavola (220x389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.
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Pubblicato il 6 ottobre 2015 di carusopascoski

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