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domenica 26 marzo 2017

Saint-Just. Io dico che il re deve essere giudicato come un nemico, che dobbiamo combatterlo piuttosto che giudicarlo e che, non rientrando egli nel contratto che unisce i francesi, le forme della procedura non si trovano nella legge civile, ma nella legge del diritto dei popoli [...]. Gli uomini che stanno per giudicare Luigi hanno una repubblica da fondare: ma coloro che attribuiscono una qualche importanza alla giusta punizione di un re, non fonderanno mai una repubblica [...]. Cosa non temeranno da noi i buoni cittadini, vedendo la scure tremare nelle nostre mani e vedendo un popolo che fin dal primo giorno della sua libertà rispetta il ricordo delle sue catene?

Saint-Just, ANGELO E DEMONE DELLA RIVOLUZIONE
di Giancarlo Ferraris.

Fece sentire la sua voce in tutte le questioni in cui la Francia rivoluzionaria si dibatté, dando prova di entusiasmo, lucidità e durezza. Collaboratore di Robespierre, entrò nel Comitato di Salute Pubblica dimostrandosi strenuo difensore dell’unità rivoluzionaria e nemico di tutte le fazioni. Da qui la legge dei sospetti del 1793 che stabilì la sospensione dei diritti civili per gli oppositori e il via all’eliminazione fisica di Danton, Desmoulins, girondini e vandeani… Ma è sui campi di battaglia che l’ideologo rivoluzionario si fuse con l’uomo d’azione, dando il meglio di sé.

Gli anni prima della Rivoluzione.
Talvolta accade che il giudizio espresso su una persona si riveli, con il passare del tempo, una vera e propria profezia. Azzeccata, s’intende! È il caso di Louis Antoine Saint-Just, uno dei più giovani, anzi il più giovane, protagonista della Rivoluzione francese, vera e propria summa di tutte le virtù e di tutti i peccati di cui può fregiarsi e macchiarsi un rivoluzionario. Disse di lui, negli anni della scuola, un suo insegnante: «Questo ragazzo diventerà un grande uomo o uno scellerato». 
In realtà Saint-Just fu l’una e l’altra cosa. Ma procediamo per gradi.

Louis Antoine Léon de Richebourg de Saint-Just, più noto come Louis Antoine Saint-Just, nacque il 25 agosto 1767 a Decize, un piccolo centro della Borgogna, nella Francia centrale. Apparteneva a una famiglia della piccola borghesia. Il padre, cinquantaduenne, era un ex-gendarme nonché cavaliere del Reale e Militare Ordine di San Luigi, la madre, la trentenne Marie Anne Robinot, era figlia di un notaio. Nel 1768 la famiglia Saint-Just si trasferì in Piccardia, dapprima a Nampcel, nell’Oise, e otto anni dopo a Blérancourt, nell’Aisne. Nel 1777, alla morte del padre, il giovane Louis Antoine venne mandato nel Collegio di Saint-Nicolas a Soissons diretto dai padri oratoriani, dove si dimostrò uno studente eccezionale che divorava nottetempo i classici greci e latini, ma anche un allievo indisciplinato e turbolento. Nel 1785 si diplomò, senza lode e senza infamia, e l’anno successivo iniziò una relazione con Thérese Sigrade-Gellé, figlia del notaio di Blérancourt. Sembra che la naturale esuberanza e la giovanile spregiudicatezza dei due quasi ventenni fosse stata fonte di scandalo tanto che il loro matrimonio sfumò perché le rispettive famiglie non riuscirono a mettersi d’accordo e Thérese finì per essere impalmata, suo malgrado, da uno scrivano al servizio del padre il quale aveva rifiutato il giovane di Decize. Per Saint-Just fu un brutto colpo: fuggì da casa, portando con sé l’argenteria della madre, raggiunse Parigi e qui fu arrestato su denuncia della madre stessa. Dopo un periodo di rieducazione fu riammesso in famiglia. Tra il 1786 e il 1788 s’impegnò come praticante presso uno studio legale di Soissons e si laureò in diritto all’Università di Reims, conducendo una noiosa vita di provincia. In questo periodo, tuttavia, incominciò a manifestare sentimenti antimonarchici, antiaristocratici e anticattolici che gli ispirarono, nel solco della tradizione libertina, la composizione dell’Organt, un poema in venti canti privo di valore letterario, il quale fu pubblicato a Parigi nel 1789, l’anno dello scoppio della Rivoluzione, ritirato quasi subito dalle librerie per poi essere ripubblicato due anni dopo.

Nella tempesta della Rivoluzione.
Lo scoppio della Rivoluzione scosse profondamente Saint-Just dal torpore della vita di provincia. Iniziò allora ad interessarsi e ad occuparsi attivamente di politica. Nel 1790 venne nominato ufficiale della Guardia Nazionale e partecipò alla Festa della Federazione che si tenne a Parigi il 14 luglio, primo anniversario della presa della Bastiglia. Nello stesso anno scrisse Arlecchino-Diogene, una commedia in versi che non venne mai rappresentata e, cosa infinitamente più importante, prese contatto con Maximilien Robespierre al quale inviò una petizione locale con cui chiedeva che il mercato del bestiame rimanesse a Blérancourt e non venisse trasferito a Cocy, petizione che conteneva anche parole di elogio nei confronti dell’Incorruttibile: «A voi che difendete la patria ancora incerta di fronte alle forze del dispotismo [...] sostenete, per favore, la petizione [...]. Non vi conosco di persona, ma so che siete un grande uomo. Infatti, voi non siete soltanto il deputato di una provincia, ma quello dell’umanità intera e della Repubblica [...]».

Nel settembre del 1790 Saint-Just iniziò a scrivere Lo Spirito della Rivoluzione e della Costituzione della Francia, che venne pubblicato verso la fine dell’anno successivo. Si tratta di un piccolo saggio in cui Saint-Just manifesta la sua adesione più ai principi di Montesquieu che a quelli di Jean-Jacques Rousseau, contrariamente a quanto egli disse e fece nei momenti più drammatici della Rivoluzione: «Per quanta venerazione m’imponga l’autorità di J. J. Rousseau, non ti perdono, o grand’uomo, di aver giustificato il diritto di morte; se il popolo non può trasmettere il diritto di sovranità, come potrà trasmettere i diritti sulla sua vita?».

Relativamente alle questioni sociali ed economiche Saint-Just nel suo saggio appare favorevole al controllo delle attività produttive e soprattutto a una tassazione su redditi generati dalla grande proprietà, considerata frutto della cupidigia e dell’avarizia dell’uomo e incompatibile con il principio dell’uguaglianza fondamento di un regime repubblicano e democratico: «L’eguaglianza dipenderà soprattutto dalle imposte. Se saranno tali da ottenere che il ricco indolente abbandoni la sua vita oziosa per navigare o fondare un’industria, egli perderà di colpo l’alterigia che lo contraddistingue».

Nell’agosto 1791 Saint-Just si candidò alle elezioni dell’Assemblea Nazionale Legislativa, ma non riuscì nel suo intento poiché si scoprì che non aveva ancora l’età legale per poter essere eletto. Si rifece, però, alla grande l’anno successivo: nel settembre del 1792 fu infatti eletto deputato alla Convenzione Nazionale, che era succeduta all’Assemblea Legislativa, per il dipartimento dell’Aisne, trasferendosi immediatamente a Parigi. 

Il 13 novembre fece il suo esordio come oratore pronunciando un discorso memorabile contro re Luigi XVI, che la Convenzione aveva destituito alcuni mesi prima proclamando nel contempo la repubblica. Saint-Just respinse sia la tesi dell’inviolabilità del sovrano, che era sostenuta dai girondini timidi fautori del nuovo regime repubblicano, sia la tesi secondo cui Luigi XVI doveva essere processato come un comune cittadino, e spostò abilmente la questione dal piano giuridico a quello politico giungendo ad affermare che il re doveva essere processato e immancabilmente condannato solo per il fatto di essere stato re

«Io dico che il re deve essere giudicato come un nemico, che dobbiamo combatterlo piuttosto che giudicarlo e che, non rientrando egli nel contratto che unisce i francesi, le forme della procedura non si trovano nella legge civile, ma nella legge del diritto dei popoli [...]. Gli uomini che stanno per giudicare Luigi hanno una repubblica da fondare: ma coloro che attribuiscono una qualche importanza alla giusta punizione di un re, non fonderanno mai una repubblica [...]. Cosa non temeranno da noi i buoni cittadini, vedendo la scure tremare nelle nostre mani e vedendo un popolo che fin dal primo giorno della sua libertà rispetta il ricordo delle sue catene? Luigi XVI non può essere giudicato secondo le leggi in vigore, perché i cittadini si legano fra di loro col contratto; il sovrano non si lega affatto [...]. Il patto è un contratto fra i cittadini, non con il governo; non si può rientrare in un contratto nel quale non ci si è impegnati. Di conseguenza Luigi, che non si era impegnato, non può essere giudicato come cittadino [...]. Quest’uomo deve regnare o morire [...]. Processare il re come cittadino! Un’idea simile strabilierà la fredda posterità. Giudicare significa applicare la legge; una legge è un rapporto di giustizia; e che rapporto di giustizia ci può mai essere tra l’umanità e i re? Che cosa c’è in comune tra Luigi e il popolo francese, perché gli si usino dei riguardi dopo il suo tradimento? [...] Non si può regnare senza colpa. Ogni re è un ribelle e un usurpatore. Gli stessi re tratterebbero diversamente i loro pretesi usurpatori? [...] Cittadini, il tribunale che deve giudicare Luigi non è un tribunale giudiziario: è un consesso, è il popolo, siete voi: e le leggi che dobbiamo seguire sono quelle del diritto dei popoli [...]. Luigi è uno straniero fra noi: non era cittadino prima del suo delitto, non poteva votare, non poteva portare le armi; lo è ancor meno dopo il suo delitto [...]. Luigi ha combattuto il suo popolo ed è stato vinto. È un barbaro, uno straniero prigioniero di guerra [...]. È l’assassino della Bastiglia, di Nancy, del Campo di Marte, di Tournay, delle Tuileries: quale nemico, quale straniero ci ha fatto più male di lui? Deve essere processato rapidamente: lo consigliano la saggezza e la sana politica; egli è una specie di ostaggio che i furfanti ci conservano. Si cerca di muovere a pietà, presto si compreranno le lacrime; si farà di tutto per renderci interessati, per corromperci, anche. Popolo, se il re sarà assolto, ricordati che noi non saremo più degni della tua fiducia e tu potrai accusarci di perfidia».

Il discorso di Saint-Just suscitò una profondissima emozione in tutta la Convenzione Nazionale: un folto gruppo di deputati si strinse attorno a questo giovane tribuno che, come appare in un disegno conservato al Museo Carnavalet di Parigi, aveva un profilo severo, portava capelli piuttosto lunghi e sfoggiava all’orecchio sinistro un grosso anello alla moda dei sanculotti. A molti dei presenti apparve veramente come un angelo e un demone di cui la Rivoluzione aveva bisogno per sconfiggere tutti i nemici e per trionfare. Maximilien Robespierre lo volle subito con sé nel Club dei Giacobini. Nel dicembre ebbe inizio il processo a Luigi XVI il quale, com’è noto, venne condannato a morte e ghigliottinato.

Poco più di due settimane dopo, il 29 novembre, Saint-Just tornò alla ribalta nella Convenzione Nazionale pronunciando un altro discorso, questa volta sulle condizioni dell’economia della Francia, benché il suo intento fosse più che altro di natura politica: mettere sotto accusa la gestione della finanza pubblica esercitata dal governo girondino che per far fronte alla crisi economica era ricorso alla continua emissione di moneta cartacea, i cosiddetti assegnati, i quali si erano svalutati anche di oltre la metà del loro valore iniziale. Così si espresse alla tribuna: «La libertà nel commercio è madre dell’abbondanza, ma da dove vengono gli ostacoli a questa libertà? [...] Ciò che ha sconvolto in Francia il sistema del commercio dei grani dopo la rivoluzione è stata la sregolata emissione dei simboli monetari [...]. Noi abbiamo molti simboli monetari, ma pochissime cose [...]. Un tempo il denaro era meno abbondante; ce n’era sempre una buona parte tesaurizzata e ciò diminuiva ancora il prezzo delle cose [...]. Oggi non si tesaurizza più, non abbiamo più oro, ma per uno Stato esso è necessario, altrimenti si ammassano o si accaparrano le derrate e il denaro perde sempre più valore. La penuria dei grani non deriva da altro. L’agricoltore che non vuole riempirsi di cartamoneta vende malvolentieri il suo grano».

Oltre a difendere la libertà di commercio Saint-Just propose la vendita dei beni degli emigrati, degli aristocratici e dei militari di estrazione nobiliare fuggiti all’estero subito dopo lo scoppio della Rivoluzione, il pagamento in natura delle imposte fondiarie, la libera circolazione del grano sul territorio francese e il divieto di esportarlo. La Convezione Nazionale approvò tutto ciò, ma la crisi economica continuò ad aggravarsi.

Louis Antoine Saint-Just fece sentire la sua voce in molte altre occasioni, si può dire su tutte le più drammatiche questioni politiche, sociali, economiche e militari in cui la Francia rivoluzionaria si dibatté, dimostrandosi sempre estremamente entusiasta, lucido, duro e deciso. Sempre un angelo e un demone.

Il 30 maggio 1793 entrò a far parte del Comitato di Salute Pubblica, l’organo che insieme al Comitato di Sicurezza Generale costituiva il governo della Francia rivoluzionaria. Divenne subito il più stretto collaboratore di Maximilien Robespierre, ponendosi come uno dei più strenui difensori dell’unità rivoluzionaria e nello stesso tempo come implacabile nemico di tutte le fazioni – i girondini, i cordiglieri arrabbiati di Jacques-René Hébert e i cordiglieri indulgenti di Georges Jacques Danton e Camille Desmoulins – in cui si era frantumata la spinta rivoluzionaria: «Ogni fazione – affermò – è criminale poiché tende a dividere i cittadini, neutralizza la potenza della Virtù pubblica, è un attentato alla sovranità». Al pari di Robespierre Saint-Just non aveva chiaro il legame esistente tra democrazia politica e democrazia sociale, ma rispetto all’Incorruttibile aveva, comunque, maggiore attenzione per gli umori del popolo.

Appena diventato membro del Comitato di Salute Pubblica, in meno di una settimana, redasse i centoventiquattro articoli della Costituzione del 1793, riscrivendo in questo modo la precedente Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 con l’introduzione di novità rilevanti quali il suffragio universale, il diritto al lavoro e all’istruzione nonché quello all’insurrezione nel caso in cui il governo violasse la libertà e i diritti del popolo. La creatura giuridica di Saint-Just, tuttavia, non vide mai la luce poiché la Francia stava vivendo momenti a dirpoco drammatici: gli eserciti delle monarchie europee premevano sui confini nazionali; la regione della Vandea si era ribellata al governo rivoluzionario e aveva scatenato una vera e propria guerra civile; la controrivoluzione avanzava senza sosta e spesso trionfava. Saint-Just, al pari e forse anche più dello stesso Robespierre, dagli avvenimenti trasse la conferma che la Repubblica di Francia fosse esposta a gravissimi pericoli e che occorresse reagire e agire senza indugi e senza nessuna pietà verso coloro che la minacciavano. Fu in questo momento che Saint-Just, più che mai angelo e demone della Rivoluzione, si sentì, superbamente, ma anche, forse o di certo, giustamente, interprete della virtù repubblicana e della volontà popolare al punto da dichiarare davanti alla stessa Convenzione Nazionale: «La forza delle cose mi sta spingendo lontano dalle mie intenzioni».

Da qui la preparazione della legge dei sospetti del 17 settembre 1793, che stabiliva la sospensione dei diritti civili per un’ampia fascia di cittadini: i nobili, gli emigrati, i cosiddetti preti refrattari vale a dire i religiosi che non avevano aderito alla Rivoluzione, i funzionari pubblici sospesi o destituiti, coloro i quali non avevano ottenuto il certificato di civismo e in generale coloro che o per la loro condotta o per le loro relazioni o per i loro propositi o i loro scritti, si siano mostrati favorevoli alla tirannide o al federalismo e nemici della libertà; da qui i processi di natura eminentemente politica contro i girondini, che finirono sul patibolo alla fine di ottobre, contro gli arrabbiati di Hébert, che furono spazzati via nel marzo 1794 e contro gli indulgenti di Danton e Desmoulins, ghigliottinati ai primi di aprile dello stesso anno; da qui la terrificante repressione della rivolta vandeana, da taluni storici considerata come un vero e proprio sterminio in stile prenazista; da qui la poderosa riorganizzazione dell’esercito rivoluzionario, che fu in gran parte opera proprio di Saint-Just, per fronteggiare le armate europee.

Le missioni militari.
Nonostante la sua vigorosissima appartenenza al Comitato di Salute Pubblica e benché avesse ricoperto, tra il febbraio e il marzo del 1794, anche la carica di presidente della Convenzione, Saint-Just dette il meglio di sé nelle missioni che compì presso l’esercito della Repubblica francese tra l’autunno del 1793 e la primavera del 1794: fu proprio in questo contesto che l’ideologo rivoluzionario si fuse con l’uomo d’azione. L’interesse e la sensibilità di Saint-Just per le questioni militari probabilmente derivarono dal padre, ex gendarme e cavaliere del Reale e Militare Ordine di San Luigi. Nel corso delle sue missioni sul fronte del Reno, che era il teatro principale della guerra contro l’Europa monarchica, egli si distinse per coraggio, fierezza, dignità oltre che per competenza in materia, attuando una vera e propria riforma, in termini sia morali che tecnici, dell’esercito rivoluzionario: si preoccupò che tutti gli ufficiali inferiori, superiori e generali godessero della fiducia della truppa operando in molti casi trasferimenti, degradazioni e destituzioni mentre soldati e sottufficiali che “venivano dalla gavetta” si trovarono all’improvviso elevati a gradi importanti; volle che i soldati e i sanculotti fossero meglio armati ed equipaggiati incoraggiando le manifatture nazionali ad aumentare la produzione di armi leggere e pesanti, attuando confische di beni (viveri, vestiti, calzature, letti, quadrupedi, carri e quant’altro) e imponendo dure tasse ai possidenti borghesi di Strasburgo, Metz, Nancy e Lilla dove, fra l’altro, la ghigliottina, per suo stesso ordine, fece piazza pulita di veri o presunti speculatori; si preoccupò che la carne venisse distribuita alla truppa almeno due volte alla settimana e che venissero decretate provvidenze e assistenze per i familiari dei caduti in battaglia e disposizioni per aiutare nei raccolti le famiglie di contadini che avevano uomini sotto le armi. Saint-Just seppe altresì conquistarsi la simpatia dei soldati con una serie di episodi di sicuro impatto emotivo e psicologico, dimostrandosi angelo e demone anche in questi casi: guidò personalmente all’attacco una colonna di soldati nel corso di alcuni combattimenti; respinse una lettera, senza neppure averla letta, che un ufficiale prussiano gli aveva inviato accompagnando il rifiuto con un laconico biglietto su cui era scritto: «La Repubblica francese non accetta nulla dai suoi nemici e non manda loro nulla se non del piombo». Alla fine del 1793 l’esercito rivoluzionario così rinnovato sconfisse duramente i prussiani e gli austriaci liberando l’Alsazia, mentre nei primi mesi del 1794 difese strenuamente le città di Guise, Cambrai e Charleroi preparandosi per la successiva vittoria di Fleurus.


Una fine anonima.
Ai primi di giugno del 1794 Saint-Just fece ritorno a Parigi, dove Robespierre gli chiese di tenere alla Convenzione Nazionale una delle sue implacabili requisitorie, questa volta contro il nuovo nemico della Rivoluzione: la borghesia. Saint-Just si sottrasse al compito – accontentò l’Incorruttibile partecipando soltanto alla festa dell’Essere Supremo – per ripartire subito per il fronte, convinto com’era che il vero pericolo per la Francia fossero gli eserciti delle potenze europee coalizzate contro la Repubblica. Il 26 giugno l’esercito rivoluzionario ottenne una grande vittoria nella pianura di Fleurus, in Belgio, sconfiggendo un’armata inglese, austriaca e tedesca. Subito dopo Saint-Just ritornò a Parigi che trovò in preda al Grande Terrore, iniziato con la terribile legge del 22 pratile (10 giugno) la quale accentuava enormemente la riduzione delle libertà individuali stabilita dalla legge dei sospetti del settembre 1793 e privava gli accusati del diritto di difesa e del ricorso in appello. Saint-Just, probabilmente, intuì che era necessario un cambiamento – La Rivoluzione è congelata, disse con tragica freddezza – e che era giunto il momento di sostituire l’uso disinvolto della ghigliottina con nuove leggi sicuramente severe, ma non più ferali, nonostante egli stesso fosse, accanto a l’Incorruttibile, sostenitore del binomio Terrore-Virtù. Nell’ultimo discorso tenuto al Comitato di Salute Pubblica i suoi dubbi furono palesi: «Cittadini, vedo dei sinistri presagi, tutto si maschera davanti ai miei occhi, ma studierò ciò che sta accadendo, mi dirò ciò che la probità consiglia per il bene della patria, cercherò di tracciare l’immagine dell’uomo onesto e di ciò che la virtù prescrive in questo momento e tutto quello che non assomiglierà a un puro amore del popolo e della libertà avrà il mio odio».

Era però troppo tardi. Il 27 luglio scattò la congiura del Termidoro che vide l’intera Convenzione Nazionale ribellarsi contro Robespierre, Saint-Just e gli altri giacobini. Di fronte agli avvenimenti che lo sovrastavano e lo travolgevano Saint-Just si chiuse in un silenzio sdegnoso, colmo di disprezzo, ma inefficace sul piano pratico, per gli avversari politici, moderati ed estremisti tutti coalizzati contro il governo giacobino, ai quali egli non riconosceva né fermezza, né virtù repubblicane. Così non reagì quando i deputati della Convenzione gli impedirono di parlare, come non oppose nessuna resistenza quando il 28 luglio venne arrestato all’Hotel-de-Ville di Parigi: l’angelo e il demone della Rivoluzione non disse nulla nemmeno sulla carretta dei condannati a morte, neppure sul palco della ghigliottina.

Il personaggio.
Louis Antoine Saint-Just fu anche (e soprattutto) un personaggio, come d’altra parte – lo abbiamo detto all’inizio – aveva profetizzato un suo insegnante negli anni della scuola: 
«Questo ragazzo diventerà un grande uomo o uno scellerato».
Gli storici contemporanei gli affibbiarono, dopo la scomparsa, diversi appellativi: Arcangelo della morte, Giovane atroce e teatrale, Mostro, Tigre. Appunto, un angelo e un demone. Qualcuno di questi studiosi, con un vivo gusto per il macabro, giunse ad affermare che il più giovane protagonista della Rivoluzione francese amasse indossare un paio di pantaloni confezionati con la pelle di una fanciulla che si era dimostrata insensibile al suo fascino. Di certo Saint-Just condusse una vita privata esattamente agli antipodi di quella di Maximilien Robespierre, al quale lo legava una forte affinità politico-ideologica: egli si fece notare nei salotti della borghesia radicale; si procurò la fama di dongiovanni impenitente; si prese anche una rivincita tardiva sul notaio Sigrade-Gellé di Blérancourt, che anni prima lo aveva rifiutato come marito della figlia Thérese: quest’ultima rispose prontamente all’invito della sua antica fiamma, divorziando dal marito e raggiungendo a Parigi il suo Louis Antoine, il quale però, nel frattempo, aveva iniziato una piccola storia d’amore con Henriette Lebas, sorella di un giacobino molto vicino all’Incorruttibile. Alla Convezione Nazionale il nostro angelo e demone fece, talvolta, alcune proposte bizzarre: obbligare tutti i fanciulli a un regime vegetariano; bandire dalla Francia tutti coloro i quali non avevano amici; proibire alla fanciulle vergini di camminare sole per strada; sciogliere d’ufficio tutti i matrimoni che dopo sette anni non avevano generato figli. Quindici anni dopo la morte furono pubblicati i suoi Frammenti sulle istituzioni repubblicane dove, tra l’altro, si legge: «Io disprezzo la polvere di cui sono fatto e che vi parla; si potrà perseguitare e far morire questa polvere, ma sfido a strapparmi la libertà e la vita indipendente che mi sono dato nei secoli e nei cieli».

Per saperne di più
F. Furet, D. Richet, La Rivoluzione francese, trad. it., Bari, 1974
N. Hampson, Saint-Just, Oxford, 1991
S. Loomis, Paris in the Terror, 1964
B. Vinot, Saint-Just, Paris, 1985

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