Pagine

lunedì 27 marzo 2017

La schiavitù era considerata normale come la nascita, il matrimonio, la morte. Il cambiamento della coscienza collettiva iniziò a piccoli passi, impiegando non poco tempo a maturare. I quaccheri furono la prima comunità cristiana a contrastare la schiavitù. In Pennsylvania si erano pronunciati chiaramente in tal senso fin dagli anni Ottanta del XVII secolo, sostenendo che lo schiavismo violava il comandamento evangelico “fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi” (Matteo 7,12).

INGHILTERRA 1807: L’ABOLIZIONE DELLA TRATTA DEGLI SCHIAVI
di Massimo Ragazzini - 9 luglio 2016


Tra le principali nazioni schiaviste del mondo, l’Inghilterra si trasforma nella principale nazione emancipatrice grazie a un profondo cambiamento collettivo delle coscienze. Per abolire il traffico degli schiavi, residuo di un ancien régime agonizzante ma duro a morire, furono  necessari anche pragmatismo, pressioni politiche e l’impiego della forza militare.

Il 23 febbraio 1807 il Parlamento inglese approvò a larga maggioranza l’abolizione della tratta  degli schiavi: cento voti contro trentasei alla camera dei Lord e duecentottantatré contro sei a quella dei Comuni. Successivamente, a partire dal 1811, la tratta fu considerata un reato e i condannati per commercio di schiavi rischiarono la deportazione nella colonia penale britannica in Australia

L’Inghilterra, che probabilmente era stata la principale nazione schiavista del mondo, si era così trasformata nella principale nazione emancipatrice grazie a un profondo cambiamento collettivo delle coscienze [1]. 

L’abolizionismo francese, infatti, fu più debole e incerto di quello inglese. 
Nella Francia rivoluzionaria un decreto per l’abolizione della schiavitù nelle colonie era stato approvato all’unanimità dalla Convenzione già il 4 febbraio 1794, ma la sua applicazione fu fortemente osteggiata e, nel 1802, il primo console Napoleone Bonaparte ripristinò la tratta e la schiavitù [2].

Il ruolo preminente dell’Inghilterra del XVIII secolo non deve però farci trascurare che le lontane radici del movimento abolizionista, come ha documentato la storiografia, vanno cercate in un insieme di dati culturali propri di buona parte dell’Occidente. 

Lo storico americano David Eltis ci ricorda che la schiavitù è presente in gran parte della storia umana, anche se con notevoli differenze a seconda delle epoche e delle zone geografiche; e si possono tra l’altro distinguere società schiavistiche in senso proprio da altre nelle quali la schiavitù ha rivestito un ruolo marginale [3]. 

L’abolizionismo, scrive un altro storico americano, David Brion Davis, può essere collocato nella lunga storia delle idee dall’antichità classica in poi [4]. Già Ulpiano aveva definito la schiavitù una creazione dello jus gentium contraria allo jus naturalis (Digesto, 1. L., 17,32) [5].

La ricerca delle origini del movimento abolizionista conduce, come afferma lo storico francese Olivier Pétré-Grenouilleau, al concetto di umanesimo, un’idea che, sotto forme e gradi diversi, può essere trovata in numerose società e in differenti epoche [6]. 

Nel mondo occidentale essa ha rapporti sia con il corpo d’idee derivate dalla tradizione cristiana, sia con l’affermazione di una concezione laica della libertà individuale nel quadro degli stati nazione. 

Dall’antichità al Rinascimento, passando per il Medioevo, ogni epoca ha dato un suo contributo alla costruzione delle lontane origini ideologiche del movimento abolizionista. Non erano, tuttavia, basi definitive e con forti radici e, a partire dal XVII secolo, furono in pratica negate. Il peggioramento della congiuntura economica in Europa con il manifestarsi di fasi di depressione, e la guerra dei Trent’anni (1618- 1648), sintomo di quella che lo storico francese Paul Hazard chiama “la crisi della coscienza europea” [7], testimoniano di un tempo di grandi cambiamenti, ma anche di grandi disorientamenti e deviazioni. 

Così, in America, si svilupparono le colonie e con esse il sistema schiavistico e la tratta degli africani. Se il mondo antico vacillava, quello destinato a sostituirlo faticava a trovare la propria strada. L’umanesimo, dunque, lasciò il passo a questi importanti mutamenti culturali. 

La schiavitù era considerata normale come la nascita, il matrimonio, la morte”, sottolinea lo scrittore americano Eric Metaxas, “e la stessa idea di civilizzazione senza la schiavitù era inimmaginabile”[8]. Nella letteratura occidentale l’immagine dell’uomo di colore iniziò a deteriorarsi e, in parallelo con lo sviluppo della tratta, furono progressivamente poste le basi di un vero e proprio razzismo nei confronti degli africani.

L’ora del risveglio suonò con l’illuminismo. 
Nell’epoca dei Lumi apparvero nuovi concetti, fra cui spiccava quello di libertà universale, che sostituì poco alla volta una concezione plurale di libertà che si realizzava nei privilegi concessi ai singoli, generalmente in deroga alla legge comune. L’uomo ‘illuminato’, tuttavia, non era esattamente un abolizionista. Era sì un critico del sistema schiavistico, ma ondeggiava fra la volontà di riformarlo per accrescerne l’efficienza, la compassione che poteva nutrire per la figura dello schiavo, la speranza che questi potesse migliorare la propria condizione e l’auspicio che, progressivamente, la schiavitù potesse essere abbandonata. Si era ancora all’interno di un modo di pensare nel quale convivevano la tolleranza del sistema e l’idea di una sua riforma: “il progetto grandioso e radicalmente nuovo chiamato ‘abolizionismo’ non esisteva affatto prima del 1770-1780” [9].

Il cambiamento della coscienza collettiva iniziò a piccoli passi, impiegando non poco tempo a maturare. I quaccheri furono la prima comunità cristiana a contrastare la schiavitù. In Pennsylvania si erano pronunciati chiaramente in tal senso fin dagli anni Ottanta del XVII secolo, sostenendo che lo schiavismo violava il comandamento evangelico “fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi” (Matteo 7,12). 

Negli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento il cosiddetto Grande Risveglio in America e l’ascesa del metodismo in Inghilterra contribuirono alla promozione di una nuova sensibilità morale
Nel 1770 il puritano Samuel Seward, giudice della Corte suprema del Massachusetts, sostenne, avvalendosi di citazioni bibliche, che la schiavitù era contro natura. La Costituzione federale degli Stati Uniti, adottata nel 1787, riconobbe implicitamente l’esistenza della servitù perpetua ed ereditaria sul territorio nazionale, ma ciò non impedì ad alcuni stati – Connecticut, New York, Massachusetts, Pennsylvania e Delaware – di legiferare contro la tratta negli anni immediatamente successivi. I quaccheri erano presenti sia nell’America del nord che in Inghilterra e le loro idee si diffusero anche in altre chiese protestanti. Si sviluppò così in Inghilterra un movimento di opinione sempre più consistente e in grado di coinvolgere la maggior parte degli strati sociali. Esso attingeva dall’illuminismo, ma s’ispirava anche all’evangelismo egualitario delle chiese protestanti non conformiste. Alcuni dei pensatori illuministi (Adam Smith, [10] Adam Ferguson [11]) erano giunti a considerare la schiavitù moralmente riprovevole ed economicamente inefficace, eredità di un barbaro passato. I pastori evangelici, e in particolare i metodisti, proclamavano nei loro sermoni che la tratta era orrenda e sostenevano che l’Inghilterra doveva essere la prima nazione ad abolirla e doveva anche operare per estinguerla nel mondo.

Negli anni Ottanta del Settecento la campagna contro lo schiavismo assunse un peso tale da acquistare vasti consensi e influire sulle decisioni dei legislatori. I suoi promotori fecero nascere un movimento di opinione pubblica come mai prima si era visto. Lo storico inglese Niall Ferguson evidenzia che venne realizzata “una politica di nuovo tipo, la politica dei gruppi di pressione ad opera di “zelanti attivisti armati soltanto di carta, penna e sdegno morale”[12]. 

Il movimento abolizionista non intendeva dichiarare fuori legge solo la tratta, ma la stessa istituzione della schiavitù nelle colonie inglesi. L’idea pragmatica e vincente dei promotori di questa grande battaglia fu quella di non mirare direttamente all’abolizione della schiavitù, un obbiettivo che avrebbe causato la forte reazione dei proprietari delle piantagioni nelle colonie inglesi e della “potente consorteria delle Indie occidentali” [13], ma di procedere gradualmente e cioè di ottenere prima l’abolizione della tratta e successivamente quella della stessa schiavitù. Essi erano convinti che, se avessero tentato di ottenere subito entrambi gli obbiettivi, sarebbero andati incontro a una sicura sconfitta [14]. L’eliminazione della tratta avrebbe comunque contrastato indirettamente il funzionamento del sistema schiavistico, poiché l’esaurirsi dell’approvvigionamento di nuovi schiavi avrebbe avuto l’effetto di aumentare i problemi e i costi dell’economia di piantagione e, quindi, reso economicamente meno vantaggiosa la schiavitù.

La leadership del movimento abolizionista venne definita la ‘Setta di Clapham’, dal nome di una zona di Londra nella quale si trovava la Holy Trinity Church. I principali animatori del movimento erano infatti parrocchiani di quella chiesa. Fra questi c’erano Zachary Macaulay, già direttore di una piantagione schiavista in Giamaica, che a un certo punto non aveva più potuto conciliare quel ruolo con la fede cristiana; Henry Thornton, banchiere e membro del Parlamento; William Wilberforce, anch’egli membro del Parlamento; Granville Sharp, studioso di diritto, che nel 1772 era riuscito ad ottenere un importantissimo principio giurisprudenziale riguardante gli schiavi fuggiaschi [15]; Thomas Clarkson, autore di numerosi saggi contro la schiavitù. Essi fondarono la Society for the Abolition of the Slave Trade, alla cui guida vi erano anglicani come Sharp e Clarkson, mentre i soci erano in maggioranza quaccheri.

La società si allargò ben oltre la zona di Clapham. 
Vi aderirono anche i parlamentari Edmond Burke ed William Pitt il giovane, il poeta Samuel Taylor Coleridge e l’imprenditore della ceramica Josiah Wedgwood, della chiesa unitariana. Intellettuali e religiosi appartenenti a chiese diverse si batterono quindi concordemente, con passione e con abilità comunicativa, per conquistare il consenso dell’opinione pubblica all’abolizione della tratta

Wedgwood produsse migliaia di medaglioni antischiavisti che ritraevano la figura di un nero genuflesso in catene su uno sfondo bianco con la scritta: “Non sono anch’io un uomo e un fratello?”. I medaglioni ebbero una diffusione capillare. Macaulay aveva fatto una full immersion per apprendere il funzionamento di quel commercio che voleva eliminare e non esitò ad attraversare l’Atlantico su di una nave negriera per osservare personalmente le sofferenze degli schiavi a bordo. Quando tornò in Inghilterra egli era ormai diventato l’esperto per eccellenza del commercio degli schiavi [16]. 

Grazie a Macaulay gli abolizionisti poterono prendere di mira i modi inumani con i quali veniva realizzato il trasporto, mostrando in pubblico i disegni delle sovraffollate navi negriere. Fra il 1787 e il 1792 il movimento ottenne un ampio consenso anche nei ceti popolari e riuscì a darsi una struttura organizzativa articolata territorialmente e finanziata dagli aderenti. La stampa dette spazio al dibattito che si era sviluppato nel paese e, gradualmente, i risultati arrivarono. 

Nel 1788 venne applicato il Dolben Act, in base al quale veniva aumentato lo spazio a disposizione di ciascun prigioniero a bordo delle navi negriere

Nel 1791 una proposta di abolizione della tratta fu respinta da centosessantatré voti contro ottantotto. 

Nel 1792 una proposta di abolizione graduale, sull’esempio di quanto in quell’anno aveva deciso la Danimarca, fu approvata dalla Camera dei Comuni, ma fu respinta dai Lord. Nei medesimi anni fu promossa una petizione per la fine del commercio degli schiavi che raccolse 400.000 firme, delle quali 11.000 nella sola Manchester, due terzi della popolazione maschile della città. 

Il Parlamento non poté non ascoltare un appello con tale consenso popolare. 
Nel 1805 venne proibita l’introduzione di schiavi nei territori recentemente acquisiti della Guyana britannica e di Trinidad e nel 1806 fu interdetta ai cittadini inglesi la possibilità di tratta con le colonie straniere. Nel 1807 il commercio degli schiavi venne abolito e, dal 1811, sanzionato penalmente. I riformatori non si fermarono a questa prima vittoria e nel 1814 almeno 750.00 firme vennero apposte a petizioni che chiedevano l’abolizione dello schiavismo in quanto tale. L’obbiettivo venne raggiunto nel 1833, quando le ultime resistenze furono vinte e lo schiavismo diventò illegale in tutti i territori britannici. Gli schiavi delle colonie dei Caraibi vennero emancipati e i loro ex proprietari indennizzati.

Quanto avvenuto in Inghilterra non pose fine al commercio degli schiavi sull’Atlantico e allo schiavismo nelle Americhe, che continuò nel Sud degli Stati Uniti e in Brasile. Dai primi decenni dell’Ottocento Londra divenne tuttavia la più decisa oppositrice del traffico che, con la successiva cooperazione della Francia, fu perseguito attraverso operazioni internazionali di polizia oceanica. 

Anche i governi spagnolo, portoghese, svedese e olandese, e quelli delle nuove nazioni sudamericane in cambio del riconoscimento ufficiale della loro sovranità, accettarono gradualmente la proibizione del commercio, permettendo alla marina da guerra britannica di procedere contro i loro cittadini e accettando l’istituzione di corti internazionali di arbitrato. 

Nonostante ciò, i trasporti di schiavi si protrassero a lungo, spesso in condizioni crudeli, principalmente verso Brasile, Cuba e Stati Uniti. L’abolizione della tratta non cambiava radicalmente la domanda di schiavi finché la schiavitù continuava a essere legale. 

Dopo l’abolizione da parte dell’Inghilterra, alla quale fece seguito quella da parte della Francia nel 1848, la schiavitù venne abolita nelle colonie olandesi nel 1860. Negli Stati Uniti il presidente Lincoln emanò, nel corso della guerra di Secessione, il decreto di emancipazione degli schiavi, entrato in vigore nel 1863 e ribadito nel 1865, alla fine del conflitto, nel XIII emendamento della Costituzione. La Spagna vietò la schiavitù a Porto Rico nel 1872 e a Cuba nel 1885. Il Brasile l’abolì solo nel 1888 [17]. La tratta attraverso l’oceano atlantico cessò quindi definitivamente negli anni Ottanta dell’Ottocento.

L’abolizionismo fu una tappa fondamentale nella progressiva affermazione dei diritti universali dell’uomo. L’obbiettivo fu raggiunto grazie alla pressione di movimenti a forte componente morale e idealista che si trovarono ad agire in una situazione di evoluzione dei costumi e di cambiamenti economici e sociali. Per abolire il traffico degli schiavi, residuo di un ancien regime agonizzante ma duro a morire, furono anche necessari, come si è visto, il pragmatismo, le pressioni politiche e l’impiego della forza militare.


Per saperne di più
[1] Niall Ferguson, Impero, come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Mondadori, Milano, 2008.
[2] Carminella Biondi, Ces esclaves sont des hommes. Lotta abolizionista e letteratura negrofila nella Francia del Settecento, La Goliardica, Pisa, 1979.
[3] David Eltis, The Rise of African Slavery in the Americas, Cambridge University Press, 2000.
[4] David Brion Davis, Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, SEI, Torino, 1971.
[5] Toni Honoré, Ulpian pioneer of human rights, Oxford University Press, 2002.
[6] Olivier Pétré-Grenouilleau, La tratta degli schiavi, Il Mulino, Bologna, 2006.
[7] Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, Il Saggiatore, Milano, 1983.
[8] Eric Metaxas, Amazing grace: William Wilberforce and the heroic campaign to end slavery, Harper, San Francisco, 2007.
[9] Olivier Pétré-Grenouilleau, cit.
[10] Adam Smith, Ricerche sulla natura e le cagioni della ricchezza delle nazioni, Libro aperto, Ravenna, 2006.
[11] Adam Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, Laterza, Bari, 1999.
[12] Niall Ferguson, cit.
[13] Olivier Pétré-Grenouilleau, cit.
[14] Renato Mazzolini, Darwin: schiavismo e razze umane, Scienza & Politica, vol. 21, n. 40, 2009.
[15] Nel caso dello schiavo fuggiasco James Somersett, il magistrato Lord Mansfield così decise: “Lo stato di schiavitù è tanto odioso che solo una legge positiva potrebbe sostenerlo; in assenza di tale legge in Inghilterra gli schiavi fuggiaschi, sul suolo dell’isola, non possono più ritornare schiavi del loro padrone”.
[16] Niall Ferguson, cit.
[17] Olivier Pétré-Grenouilleau, cit.

http://www.storiain.net/storia/inghilterra-1807-labolizione-della-tratta-degli-schiavi/



Quando gli schiavi eravamo noi.
Per secoli i cacciatori di schiavi nordafricani hanno seminato terrore in Italia. Ecco la loro storia.

Il mercato degli schiavi ad Algeri in un disegno europeo del 1700. 
I prigionieri europei vengono portati in catene, spogliati, esaminati con cura, talvolta picchiati e poi comprati da mercanti che li rivendevano, da privati, o presi come rematori.

Due navi slanciate si avvicinano da poppa alla Francis. 
Emergono dai flutti con una virata ardita. Gli uomini a bordo della Francis, una piccola nave da carico che nel 1716 è sulla via del ritorno da Genova verso l’Inghilterra, sono impietriti dalla paura: quelle navi sono sciabecchi, le navi dei cacciatori di uomini nordafricani. E i marinai sanno fin troppo bene quale destino incomba su di loro: la schiavitù.

ARREMBAGGIO. 
Perderanno la libertà e molti anche la vita. Verranno stipati in segrete putride, saranno torturati e umiliati, maltrattati fino alla morte. Solo pochi di loro rivedranno la patria.
Ma ecco accadere il miracolo: un’altra nave inglese, la Southwark, li incrocia. 
È più grande delle 4 imbarcazioni e fornita di 16 bocche da fuoco. Ma con abili manovre, gli agili sciabecchi raggiungono la fiancata della Southwark, fuori dal tiro dei cannoni sulla murata. I nordafricani gettano i rampini d’arrembaggio e, con grida infernali, saltano a bordo. I corsari trionfano e fanno bottino di 2 navi e tonnellate di carico: tessuti e vino, coralli e porcellane. Ma il vero tesoro sono i 52 uomini caduti nelle loro mani: merce fresca per i mercati di schiavi del Nord Africa.

ORO BIANCO. 
Schiavi europei, padroni africani: una situazione insolita, che solo di recente è diventata oggetto d’indagine. Il quadro che abbiamo di quell’epoca, nella quale i cristiani erano “oro bianco” sui mercati del Maghreb, è ancora ricoperto da una patina di descrizioni folkloristiche.

Nel XIX secolo, il bisogno di esotismo orientale (e di erotismo: “la donna bianca rapita e portata negli harem” era un filone venduto in molte varianti fantasiose) trovò risposta in un genere letterario. Gli storici invece non hanno mai preso sul serio il fenomeno. Oggi però un libro dello storico statunitense Robert Davis  traccia un quadro radicalmente diverso.

Secondo Davis ci sono stati non meno di un milione di schiavi europei asserviti a padroni africani. Tra il 1580 e il 1680 ad Algeri, Tunisi, Tripoli e in una manciata di località affacciate sulle coste maghrebine, vivevano stabilmente ben 35.000 schiavi. 

FINO IN ISLANDA. 
Cercando di calcolare quanti uomini dovessero essere catturati per mantenere stabile questo numero, tenendo conto di fughe (meno dell’1%), riscatti (4%), morti per la peste che in Africa dilagava con spaventosa regolarità, Davis ha stimato che ogni anno bisognasse catturare almeno 8.500 persone, cioè 850.000 nel periodo compreso tra il 1580 del 1680.

Per tutta l’epoca della schiavitù, dal 1500 fino al 1800, Davis stima così «con buona approssimazione» 1,25 milioni di europei ridotti in schiavitù. E si riferisce soltanto alle roccaforti dei cacciatori di schiavi nel Mediterraneo occidentale: Algeri, Tunisi e Tripoli. Ma anche in Marocco o in Egitto decine di migliaia di europei vivevano in schiavitù, e anche nell’Impero ottomano: a Costantinopoli, tra il 1500 e il 1800, c’era una presenza stabile di 30.000 schiavi.

1, 25 MILIONI Gli europei deportati in Nord Africa tra il 1500 e il 1800.
Gli africani deportati in America dagli europei tra il 1451 e il 1870 furono
12 MILIONI

I cacciatori di schiavi del Nord Africa arrivavano fino in Gran Bretagna, dove facevano irruzione nelle taverne e nelle chiese, vestendo abiti lunghi e con la testa completamente rasata, sguainando le scimitarre e portando via avventori al bancone o fedeli che assistevano alla Messa. Nel 1627 un gruppo algerino di cacciatori di uomini arrivò fino in Islanda, dove rapì centinaia di uomini, donne e bambini.

TERRORE IN ITALIA. 
Ma soprattutto i corsari imperversavano nel Sud Italia. Nel 1543 sbarcarono sulla penisola circa 12.000 corsari, un esercito che si spinse nell’entroterra anche per 30 km. Un’altra volta arrivarono a 20 chilometri dal Vaticano. Le milizie locali non osavano attaccare gli invasori, nettamente superiori. E il potere centrale era distante oppure, come nel caso dei piccoli Stati in cui era frammentata l’Italia, non esisteva affatto. 

Nel 1544, i cacciatori di uomini fecero prigioniere 7.000 persone nel golfo di Napoli, nel 1554 deportarono 6.000 persone da Vieste, in Puglia. Quando le navi tornavano a casa dopo queste scorrerie, nei mercati del Maghreb i testimoni dell’epoca raccontavano che “un europeo vale solo una cipolla”.

Qualche volta le spedizioni avevano un tale successo che le navi corsare non riuscivano a trasportare tutti i prigionieri. Allora questi erano rivenduti sul posto ai loro congiunti a prezzo scontato. In questi casi comparivano immediatamente usurai locali che facevano prestiti a chi non era in grado di pagare il riscatto dei parenti schiavi e, come avvoltoi, traevano profitto dalla sventura dei loro conterranei. I parenti del prigioniero davano loro in pegno la casa e il podere; nel giro di un paio d’ore, potevano riabbracciare i loro cari, ma non avevano più di che vivere.

La schiavitù fu usata ovunque nel mondo fin dalle prime grandi civiltà: 
Egitto e Grecia. A Roma gli schiavi erano così disperati che, guidati da Spartaco, osarono la rivolta. Con il cristianesimo ai cristiani fu proibito di comprare altri cristiani. E la schiavitù in Europa ebbe una battuta di arresto. Ma in epoca coloniale furono deportati 12 milioni di africani in America.

TRAVESTITI. 
Solo a partire dal 1600 circa, la portata di questo fenomeno si ridimensionò. 
La sorveglianza delle coste migliorò grazie alle torri di avvistamento e di difesa, le unità di cavalleria sbarravano la strada ai corsari mentre tornavano alle loro navi. Piccole, innumerevoli scorrerie presero il posto delle grandi battute di caccia. Il numero delle vittime di questi cosiddetti “furti di cristiani” si sommava a quello di persone catturate nel corso di grandi operazioni spettacolari. 

Le popolazioni cercarono riparo nell’entroterra, in paesi fortificati cinti da mura, sulle colline. Le zone costiere si spopolarono, le isole furono abbandonate. 
Poi iniziarono gli attacchi alle navi mercantili. Spesso i corsari si avvicinavano alle loro vittime a bordo di navi già conquistate, sotto falsa bandiera e travestiti con le uniformi di nazioni amiche. Tra il 1613 e il 1621 furono sequestrate e portate in Algeria 1.000 navi provenienti dall’Inghilterra e dalla Francia, dai Paesi Bassi e dalla Spagna. 

Gli europei catturati erano portati nelle città del Nord Africa, trascinati per le strade come appestati, percossi e coperti di sputi da una folla urlante. 
Quindi condotti nelle carceri sotterranee. Lì, ammassati in grandi celle sovrappopolate, vivevano in mezzo a escrementi e parassiti. 
La luce penetrava da una grata sul soffitto. Per abbandonare la prigione, gli schiavi dovevano arrampicarsi su una scala di corda che veniva calata dall’alto. 

IL MERCATO. 
Questo fino al giorno dell’asta al mercato degli schiavi. 
Qui i prigionieri erano tirati di qua e di là, dovevano saltellare e muoversi ballando: i clienti volevano essere sicuri che la merce fosse in buono stato. 
I potenziali acquirenti valutavano la muscolatura, esaminavano le mani, osservavano scrupolosi i denti. Al mercato si decideva la partita tra la vita o la morte. L’acquirente aveva bisogno di un animale da lavoro o puntava a una speculazione? Soltanto se il nuovo padrone poteva sperare di ricavare un compenso elevato dal riscatto del proprio prigioniero, avrebbe evitato di maltrattarlo fino alla morte. 

Varie torture fatte agli schiavi: 
impalati, squartati da 2 navi, bruciati vivi, crocefissi, bruciati con candele, murati vivi, fatti a pezzi, trascinati da cavalli.

VESCOVI “JACKPOT”. 
Per questo i ricchi passeggeri a bordo delle navi catturate erano un bottino di cui i corsari andavano sempre a caccia: commercianti, con familiari disposti a pagare somme elevate per il loro riscatto, o, ancor meglio, vescovi, che in questo gioco valevano un jackpot: si era sparsa la voce che, per i suoi dignitari, la Chiesa pagasse velocemente, senza fare chiasso e profumatamente. 

Il destino più benevolo toccava di solito a chi entrava in servizio in case private: svuotare le latrine, condurre cammelli, magari solo fare musica in giardino e servire il caffè. Agli schiavi da lavoro di Stato, invece, era riservato un trattamento duro e spietato. Ad Algeri dovevano trascinare per chilometri blocchi di pietra di 20-40 tonnellate, dalla cava di estrazione al cantiere del molo al porto. E poteva andar peggio: la forma più brutale di sfruttamento toccava ai rematori di galea.

NEL FETORE. 
A bordo di una galea  l’acqua da bere era centellinata. 
Chi non resisteva, veniva buttato in mare. Gli uomini erano incatenati ai remi. Non potevano né spostarsi né alzarsi in piedi e dovevano dormire seduti in file di 3-4 persone. Per fare i loro bisogni, si arrampicavano sui vicini e li scavalcavano fino ad arrivare alla murata. Molti di loro, esausti, rinunciavano persino a spostarsi; non a caso, le galee erano circondate da un fetore bestiale. 
Sulle galee da guerra ottomane, i rematori rimanevano incatenati anche quando la nave restava in porto durante l’inverno. 
E quando la nave affondava in battaglia.

Molti finivano per convertirsi all’Islam. 
Per i padroni, la conversione degli schiavi era un evento contraddittorio: 
utile per compiacere Allah, ma negativo per gli affari. I convertiti, infatti, non potevano più essere sfruttati in modo disumano. Per chi invece si allontanava dal cristianesimo, il passaggio all’Islam era un patto con il diavolo: per il governo inglese diveniva un traditore e non poteva più sperare nel riscatto. Spesso gli ex cristiani si distinguevano per il particolare zelo come collaboratori del regime: «Superano anche i barbari per crudeltà e picchiano i loro fratelli senza pietà» racconta un testimone oculare. 

Per l’harem. 
SCHIAVO NEL LUSSO. 
Ma si poteva anche fare carriera. 
Il veneziano Giacomo Colombin, catturato in mare nel 1602, fu corteggiato dal capitano dei corsari per la sua arte ingegneristica, che gli portò grandi ricchezze: era uno schiavo, ma abitava in un villa di lusso sulle colline di Algeri. Dopo 30 anni, usando una delle navi da lui stesso progettate, fuggì insieme ad altri 22 prigionieri.

Già esempi di questo tipo mostrano che le società schiavistiche del Nord Africa erano molto più complesse di quanto si sia immaginato finora. Nuove fonti permettono anche di gettare uno sguardo alla vita sociale che si svolgeva nei cosiddetti “bagni” di Algeri. Già dal 1700, questi labirintici quartieri-prigione, dove vivevano molti schiavi, furono dotati di una cappella per il culto cattolico, gestita da monaci accreditati nelle metropoli dei corsari. I musulmani ne apprezzavano l’aiuto in campo pastorale e medico. I religiosi, nel frattempo, acquistarono un ruolo sempre più importante come agenti nelle trattative per il riscatto che, con il passare del tempo, si trasformarono da “vendite al dettaglio” a commercio all’ingrosso di uomini-merce.

ARMATI DAI DANESI. 
Il riscatto era costoso: nel 1646 un emissario inglese pagò 38 sterline per schiavo, il guadagno annuale di un commerciante inglese benestante. 
La politica europea nei confronti dei pirati, in particolare quella francese, rimase a lungo caratterizzata da titubanze e tatticismi: era più importante un accordo commerciale del destino degli schiavi. 

Alla fine del XVIII secolo, il re di Danimarca inviava ogni anno ai cacciatori di uomini un tributo di armi purché lasciassero in pace le sue navi. Ma con la fine delle guerre napoleoniche i rapporti cambiarono. Durante il congresso di Vienna nel 1814-1815, su pressioni del governo inglese, fu messo al bando il commercio transatlantico di schiavi. Contemporaneamente, l’ammiraglio inglese Sir Sidney Smith lanciò con la sua “Società dei Cavalieri Liberatori degli uomini Bianchi che gemono schiavi in Africa” un intervento umanitario in Nord Africa.

ASSALTO FINALE. 
Nel­l’agosto del 1816 una flotta composta da 18 navi da guerra inglesi, alcune delle quali dotate di oltre 100 cannoni, e con l’appoggio di navi olandesi, si ancorò nella baia di Algeri. Scaduto un ultimatum, tutte le navi aprirono il fuoco. Le bordate si conficcarono una dopo l’altra nei bastioni fino a quando, verso sera, su Algeri piovvero 50.000 palle di cannone. La flotta dei corsari, con le navi ormeggiate nel porto, bruciò. Il fuoco si propagò alle strutture del porto e all’arsenale e in poco tempo si estese alla città. Il comandante in capo dei corsari si arrese e rimise in libertà tutti gli schiavi. Anche Tunisi, Tripoli e il Marocco si affrettarono a dichiarare che la schiavitù era abolita. 

18 AGOSTO 2017
http://www.focus.it/cultura/storia/quando-gli-schiavi-eravamo-noi

Nessun commento:

Posta un commento