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martedì 25 ottobre 2016

PARENT. Metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni. “PARENT” (genitore): Play (gioco), Authenticity (autenticità), Reframing (ristrutturazione degli aspetti negativi), Empathy (empatia), No ultimatum (nessun ultimatum), Togetherness (intimità).

IL METODO DANESE PER CRESCERE BAMBINI FELICI
Jessica Joelle Alexander, 40 anni, americana trapiantata a Roma,
sposata con un danese, qui con la figlia di 7 (l'autrice ha anche un bambino di 4).

MEGLIO FELICI CHE FURBI.
 I bambini più contenti del mondo, e anche educati, esistono.  Giocare con i Lego o al parchetto con i giochi Kompan (i più diffusi al mondo: avete presente le torrette con scivoli e ponti di corda dall'aria «intelligente»?). Leggere una fiaba crudele di Hans Christian Andersen, come La Sirenetta originale (niente nozze, lei torna in mare abbandonata da tutti), per abituarsi all'assenza del lieto fine. Scegliere dopo la scuola un pomeriggio dell'impronunciabile (ma educativo) skolefritidsordning, cioè gioco libero pochissimo sorvegliato, perché «fa sviluppare empatia, resilienza, coscienza dei propri limiti più di qualsiasi dei due o tre corsi di violino o tennis a cui iscriviamo i nostri figli». A partire da questi capisaldi - appresi dal marito danese, e messi in pratica sui loro due figli - Jessica Joelle Alexander, americana trapiantata a Roma, ha creato la risposta empatica, e (giura) praticabile anche nel Mediterraneo, alle varie pedagogie geo-specifiche nate dopo il boom della «Mamma tigre»: Il metodo danese per crescere bambini felici, già tradotto in 19 Paesi e scritto a quattro mani con la psicoterapeuta Iben Sandhal. «Dal 2006 viviamo a Roma, ma prima siamo stati in Danimarca quattro anni. I bambini che vedevo là erano non solo i più felici che avessi mai incontrato, ma anche i più educati. Un altro mondo rispetto agli Stati Uniti, dove pure la felicità è un'ossessione, e le fiabe hanno tutte il lieto fine! E rispetto anche alle spiagge italiane, con mamme che urlano e sculacciano e figli che comunque fanno come vogliono». A proposito di sculacciate: in Danimarca sono illegali. «Lo sono dal 1997. E in Svezia dal 1979. Io da piccola qualcuna l'ho presa , mio marit o lo trovaimpensabile. Io non capivo perché, e ho letto 80 studi accademici sul tema. Nessuno le trova utili. Quando partono, i primi a perdere siamo noi: i bambini ci obbediscono per paura, e perdiamo empatia». L'empatia, racconta lei, in Danimarca è materia scolastica. «Ci sono corsi per imparare a riconoscere le emozioni. Sto cercando di farne fare uno nella scuola di mia figlia a Roma. Ma so che anche l'educazione sessuale è molto osteggiata». E facile essere un «genitore danese» qui? «Una mamma italiana ha meno aiuti. Un esempio: la campagna sul Fertility Day è stata spesso paragonata a una danese, che per molti era migliore. Ma oltre allo spot migliore, la campagna danese offriva aiuti economici! Là il lavoro è più tutelato e ha orari più strutturati. E aiuta tanto: se sei una mamma stressatissima fatichi a seguire un progetto educativo». Il cliché della mamma italiana è un po' quello della «chioccia», lei teorizza la necessità di giochi avventurosi. «Le maestre dell'asilo un giorno ci hanno convocati per chiederci se era ok che i bambini andassero a giocare al parco anche d'inverno, cioè "prendessero freddo". Ma certo! E poi il vocabolario: voi per esempio non avete un verbo per dire "fare i genitori", che c'è in tutte le lingue del Nord (inglese compreso: to parent, ndr). E come "amare", un'azione, non uno stato. E poi c'è questa parola che io non voglio dire ai miei figli, "furbo": è a metà fra una critica e un complimento, in pratica vuol dire che uno non segue le regole ed è intelligente per questo. A scuola la sento spesso: non è un caso che nel vocabolario danese non ci sia».

Dopo «tigri», «maman» e «newyorkesi», ecco il METODO DANESE salva famiglia
di IRENE SOAVE
http://www.sonzognoeditori.it/media/rassegna_stampa/vfa16a124542551.pdf



Come finiscono le fiabe
Hans Christian Andersen è forse uno degli scrittori danesi più famosi di tutti i tempi. 
È l'autore e il padre di numerose fiabe come La sirenetta, Il brutto anatroccolo, e I vestiti nuovi dell'imperatore, solo per citarne alcune. 
Si tratta di favole che sono state raccontate ovunque nel mondo. Ma quel che la maggior parte della gente non sa è che molte fiabe originali di Andersen non finiscono affatto nel modo in cui pensiamo che una fiaba debba finire. Sono tragedie. 
La sirenetta, per esempio, non corona il suo sogno con il principe ma ritorna triste tra le onde del mare. Molte storie di Andersen sono state semplicemente adattate per conformarsi al nostro ideale culturale di come le cose dovrebbero essere.
Nelle traduzioni inglesi delle fiabe di Andersen, gli adulti hanno fatto molta attenzione a ciò che pensano debba essere risparmiato agli orecchi dei bambini. In Danimarca e nelle versioni più antiche, dipende più dai lettori giungere alle proprie conclusioni e dare giudizi. I danesi credono che le tragedie e gli eventi  sconvolgenti  siano anch'essi  argomenti  di  cui  si dovrebbe parlare. 
Impariamo di più, riguardo al nostro carattere, dalle sofferenze che dai successi; perciò è importante esaminare tutti gli aspetti della vita. È una cosa più autentica, e crea empatia e un rispetto più profondo verso il genere umano. Inoltre ci aiuta a provare gratitudine per le piccole cose della vita che a volte diamo per scontate, concentrandoci invece troppo su quel che avviene nelle fiabe.
Per i danesi, l'autenticità inizia con la comprensione delle nostre emozioni.  [...]


PARENT” (genitore): Play (gioco), Authenticity (autenticità), Reframing (ristrutturazione degli aspetti negativi), Empathy (empatia), No ultimatum (nessun ultimatum), Togetherness (intimità). 

Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni, sta facendo il giro del mondo e arriva anche da noi.

Tutto nasce due anni fa quando le due autrici - Jessica Joelle Alexander e Iben Dissing Sandahl si chiesero come mai tutte le ricerche sociali convergessero nel designare la Danimarca come il paese più in grado di rendere felici genitori e figli.
Da quel quesito nacque un percorso di ricerca e poi l’originale manuale sul metodo danese. Che si basa su sei semplici principi, le cui iniziali formano la parola “PARENT” (genitore). Abbiamo intervistato Jessica per chiederle quali consigli darebbe a chi vive in paesi radicalmente diversi, come il nostro
Il metodo danese che rende felici genitori e figli «Le faccio un esempio: quando un bambino dipinge un disegno non occorre dirgli “Wow: sei un artista veramente straordinario!”. Molto meglio invece domandargli: “Cosa hai pensato mentre lo dipingevi?”, o “perché hai scelto questi colori?” o, semplicemente, “grazie”».
Focalizzarsi sul processo, usando un linguaggio valutativo ed emozionale, e relativizzare l’esito di un gioco o un compito: è uno dei punti de Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni, che sta facendo il giro del mondo (in Italia è pubblicato da Newton Compton).
Tutto nasce due anni fa quando le due autrici - Jessica Joelle Alexander, una mamma americana sposata con un danese e Iben Dissing Sandahl, una psicoterapeuta danese, anche lei con figli da crescere - si chiesero come mai tutte le ricerche sociali convergessero nel designare la Danimarca come il paese più in grado di rendere felici genitori e figli. Da quel quesito nacque un percorso di ricerca e poi l’originale manuale sul metodo danese. Che si basa su sei semplici principi, le cui iniziali formano la parola “PARENT” (genitore): Play (gioco), Authenticity (autenticità), Reframing (ristrutturazione degli aspetti negativi), Empathy (empatia), No ultimatum (nessun ultimatum), Togetherness (intimità).
Ma in cosa consiste, più, in dettaglio, l’approccio del paese scandinavo alla felicità? Abbiamo intervistato Jessica Joelle Alexander, anche per chiederle quali consigli darebbe a chi vive in paesi radicalmente diversi, come il nostro.
Lei suggerisce ai genitori di aumentare le ore di gioco libero: anche a scapito dei numerosi impegni sportivi e di altro tipo? E come fare nelle nostre congestionate città?
Sì, assolutamente consiglierei ai genitori di lasciare più tempo per il gioco libero. I bambini possono comunque fare sport, ma è una buona idea cercare di portarli (magari nei weekend se durante la settimana non si riesce) al parco, o sulla spiaggia o in un bosco e lasciarli liberi di giocare con altri bambini.
I genitori devono o no intervenire nei giochi dei loro figli? No, i genitori dovrebbero cercare di non intervenire molto, perché i bambini imparano tantissimo proprio dall’inventare strategie giocando insieme e risolvendo da soli i propri problemi. In questo modo imparano anche a governare lo stress, cosa che poi li aiuterà molto più avanti nella vita.
Una scuola che faccia didattica fino alle quattro è troppo impegnativa ai suoi occhi? I bambini italiani sono poi spesso oberati dai compiti.
Il fatto che ci siano molte ricerche appena uscite su questo aspetto mostra che i compiti a casa non aiutano gli studenti. Su questo c’è un interessante articolo sul “Time” che suggerisco di leggere (leggi qui). In Finlandia, un paese leader in campo educativo, i bambini non hanno compiti finché non sono più grandi e lo stesso in Danimarca, paese leader sulla felicità. I bambini sono soprattutto incoraggiati a giocare. I compiti possono essere stressanti e, ripeto, la ricerca recente mostra che non funzionano affatto per i piccoli!
Come coltivare quella che lei chiama l’autenticità dei sentimenti o l’onestà emotiva? Si può coltivare l’empatia leggendo storie che inducano diversi tipi di emozioni (non solo felici). Questo insegna l’empatia e crea vicinanza con i bambini. La vita non sempre è allegra e per questo è bene essere onesti con loro sulle emozioni. Spesso sono gli adulti che hanno difficoltà a esprimere emozioni o concetti profondi. Per questo dovrebbero provare a sentirsi più a loro agio nel parlare di temi difficili: in questo modo potrebbero parlare con i propri figli in maniera facile e naturale.
Lei suggerisce di evitare eccessive lodi e complimenti ai bambini, o meglio di farli quando c’è stato un effettivo impegno, non “a prescindere”.
I danesi cercano di lodare i bambini, quando sono impegnati in attività, per gli sforzi, non per il risultato. Credono che sia meglio insegnare ai bambini ad apprezzare il processo, e che il giudizio sull’esito sia meno importante. Questo atteggiamento produce in loro una sorta di guida interna, autostima e gioia nel lavorare sulle cose.
Una qualità fondamentale che lei sottolinea nel suo libro è la capacità di “restrutturare” la realtà, fornire cioè un racconto positivo e incoraggiante di ciò che accade, riducendo la negatività. Può fare un esempio di “ottimismo realista”, come lei lo definisce?
Un ottimista realista è qualcuno che vede il mondo realisticamente. Non ignora che la negatività esista ma è capace di trovare i dettagli positivi in una situazione. “Ristrutturare” è un’abilità che può essere appresa e dunque anche insegnata ai bambini che crescono, in modo che lo facciano naturalmente. Le ricerche mostrano che il modo in cui noi scegliamo di interpretare o descrivere una situazione cambia radicalmente come noi la viviamo. Ci sono molti esempi nel libro. È un tema importante, ma può davvero cambiare la vita ed è una meravigliosa capacità che può essere trasmessa ai nostri figli.
A suo avviso, i danesi sono per natura empatici e questo diminuisce il grado di narcisismo nei bambini, narcisismo che si sta diffondendo sempre di più altrove. Come sviluppare questa qualità fondamentale?
Sì, l’empatia è assolutamente importante. La differenza risiede nel fatto che i danesi la insegnano attivamente. Capiscono che occorre insegnarla, perché riduce il narcisismo, il bullismo e aumenta la felicità. È una capacità che si può approfondire a qualunque età. I genitori sono gli esempi più evidenti, ecco perché dobbiamo lavorare su noi stessi. Provare a cercare il bene negli altri e non etichettarli negativamente. Provare a mettersi nei panni degli altri. Ci sono molte altre idee ed esempi nel libro su come coltivare l’empatia.
Lei scrive che famiglia protettive non favoriscono l’empatia. Perché? In Italia, ad esempio, i genitori sono estremamente protettivi.
Quando sei troppo protettivo automaticamente proteggi tuo figlio dal provare grandi emozioni: ma così non apprende a capire le altre emozioni. L’empatia inizia comprendendo e fidandosi delle proprie emozioni, così che possiamo imparare come capire gli altri.
Nel libro si mette sotto accusa qualsiasi forma di violenza fisica, anche la sculacciata, ma anche il metodo degli “ultimatum”. Ma cosa fare di fronte a un bambino che si ostina a non rispettare le regole? Assegnargli una punizione (no televisione, no Ipad, no calcetto) non può essere utile?
Ciò che io propongo è di non mettersi immediatamente in un braccio di ferro o conflitto con i bambini. Molti di noi usano immediatamente ricatti o ultimatum, mentre in Danimarca non usano affatto questo metodo. I danesi lavorano molto per spiegare le regole e le ragioni per le quali i bambini dovrebbero seguire le regole, sin da quando sono molto, molto piccoli (addirittura prima che parlino). È sorprendente: quando si spiegano costantemente le cose ai bambini per come stanno veramente e con rispetto, in modo che possano capire e fidarsi (invece di usare minacce e punizioni), le cose funzionano in maniera stupefacente. A volte non ascoltano ma moltissime volte lo fanno. Insegna il rispetto e sii rispettoso e sarai rispettato: questa è la filosofia. Un genitore che si controlla si sente anche molto meglio. La calma genera la calma.
Anche rispetto al cibo, croce di ogni mamma italiana, lei suggerisce un atteggiamento morbido. Eppure spesso ci viene detto da pedagogisti e pediatri che il bambino che si alza da tavola magari per andare a vedere la tv poi non può tornare a mangiare e dovrebbe andare a letto senza aver mangiato. Perché questo sarebbe scorretto?
La cosa più importante è che il momento dei pasti sia un momento piacevole e non una battaglia. Naturalmente si possono incoraggiare i bambini a mangiare (per esempio una cosa che funziona è chiedere loro se vogliono diventare grandi e forti e quando mangiano toccare i loro muscoli e dire “Wow, posso già sentire le verdure che hai mangiato!”). È opportuno mettere di fronte a loro una scelta di cibi e se davvero non sono affamati non forzarli. Anche questo significa rispettarli. Non usare il braccio di ferro, provare invece a immaginare come ci sentiremmo se qualcuno ci obbligasse a mangiare quando non abbiamo fame. È importante che i bambini imparino a fidarsi di ciò che sentono circa il cibo (se sono affamati o no): anche questo significa manifestare empatia verso di loro. Se non mangiano spesso, si può provare ad eliminare gli snack nel pomeriggio o dopo cena (se mia figlia ha ancora fame dopo cena, può avere solo frutta). I bambini hanno poi spesso fasi in cui non mangiano. Se non ne fate un problema, non sarà un problema. Siate anche l’esempio di come si può apprezzare il cibo: impareranno ad apprezzarlo anche loro.
Lei introduce il concetto di “hygge” per indicare un’intimità tra i membri della famiglia, che raggiunge il suo massimo grado quando ci si riunisce insieme per mangiare e per cantare. Questa pratica è davvero tipica solo della Danimarca?
Nel libro si può trovare l’”hygge oath” o il “giuramento hygge”. È qualcosa di cui si può parlare in famiglia e che si può provare a mettere in pratica per un tempo limitato (una cena, un picnic, un pranzo). Hygge è uno spazio psicologico sicuro in cui si può stare con la famiglia senza alzare barriere. Quando entri nell’”hygge” lasci fuori dalla porta lo stress lavorativo, le lamentele, i pettegolezzi, la negatività. Per un periodo definito si cerca di stare insieme pensando a “noi”, non a “io”. I bambini soprattutto traggono benefici da questo tempo perché amano passare del tempo senza conflitti con le loro famiglie. Io l’ho provato con la mia famiglia americana e con i miei amici e davvero funziona. Molti dei nostri lettori l’hanno provato e amato. Credo che anche gli italiani potrebbero sentirsi molto bene perché amano parlare del cibo: qualcosa di molto “hyggelige”, perché è un esempio dello stare insieme senza barriere.
In conclusione, lei non ha il sospetto che la felicità dei danesi derivi dall’assenza della disoccupazione, da un welfare che li protegge nei momenti difficili della vita, da scuole di eccellenza e sussidi economici, tutto ciò che non esiste in Italia? Non pensa che questo incida notevolmente sulla felicità o infelicità di una famiglia?
Vivo in Italia e uso il metodo danese qui. Per me il metodo danese è una filosofia che possiamo assimilare e usare ovunque nel mondo. Io credo che il fatto che il libro sia stato pubblicato in paesi così diversi dipenda dal fatto che si tratta di idee che tutti possiamo apprendere per essere persone migliori e genitori migliori. Il sistema sociale in Danimarca aiuta molto, specialmente nel ridurre lo stress: questo è vero. La vita può essere molto dura in Italia e l’Italia non è un paese facile dove crescere i bambini. Ma io credo profondamente che se cominciamo ad usare comunque il metodo danese e la sua filosofia – insegnare l’empatia, dare più spazio al gioco libero, eliminare le punizioni corporali, provare a ristrutturare il modo di vedere la realtà, essere più autentici e praticare alcuni hygge – potremo vedere una enorme differenza. È molto positivo riflettere e cercare di essere una persona e un genitore migliore. Dalla grande saggezza educativa danese possiamo imparare moltissimo. Credo inoltre che se cresciamo i nostri figli con più empatia essi saranno capaci di cambiare il sistema in Italia, in modo che ci sia più supporto per le famiglie. Tutto dipende da come cresciamo i nostri figli. I genitori svolgono il più importante lavoro del mondo!
DI ELISABETTA AMBROSI

http://d.repubblica.it/lifestyle/2016/10/21/news/come_educare_i_figli_metodo_danese_consigli-3274388/


«All’asilo di mia figlia, facevano un falò ogni venerdì. Stavano fuori tutto il giorno. E mangiavano e cantavano intorno al fuoco. I maestri suonavano la chitarra. Anche sotto zero».
Francesca ha 42 anni e da 2 vive a Copenaghen. Nella capitale danese si è trasferita con il marito per crescere le sue due bambine, Maria, che oggi ha dieci anni, e Stella, di sette. Dall’Italia è scappata quando non bastava più spegnere la televisione per essere travolti da una cultura che rifiutava: «Io e mio marito, danese, non volevamo che le nostre bambine vedessero in continuazione donne seminude accanto a uomini forse più stupidi di loro ma con potere di parola», racconta. «Abbiamo tolto la tv ma non è bastato».
E allora Francesca ha trascinato tutti in Danimarca, una delle nazioni in cima alle classifiche che misurano la felicità dei bambini (come in questo rapporto Unicef). «Le mie figlie amano stare qui, perché vanno a scuola in bicicletta passando attraverso il bosco. Cinque minuti e sei arrivato, anche se abiti in centro. In classe la mattina - qui in inverno resta buio fino alle 8.30 - accendono le candele, spengono la luce e nelle aule i più piccoli cantano». A Roma la figlia maggiore di Francesca passava anche otto ore seduta in classe o a casa a fare i compiti. A Copenaghen trascorrere del tempo scolastico all’aria aperta è quasi un obbligo, «anche con la pioggia o la neve».
Ma questa, forse, non è nemmeno la parte migliore della storia. Dovremmo piuttosto iniziare dicendo che crescere un figlio in Danimarca è più equo, più economico, forse anche più soddisfacente che in Italia, visto che il sistema educativo punta a rendere autonomi il prima possibile i più piccoli.
Più equo. I papà fanno i papà. «Se tu fossi qui vedresti tantissimi papà con carrozzine per la strada, li vedresti cucinare, fare la spesa. Anzi, a dire la verità mio marito fa più di me, nonostante lui abbia un lavoro a tempo pieno e io no», racconta Francesca.
Se fossimo a Copenaghen una mattina come tante vedremmo passare per strada in compagnia di una bimba anche Francesco, 33 anni, una laurea in Scienze Politiche, qualche anno di lavoro per Slow Food e poi la decisione di partire. «Se siamo qui, io e mia moglie, è grazie alla piccola Eva». Francesco ha fatto l’Erasmus a Copenaghen nel 2007. E già allora era rimasto colpito dalla quantità di giovani papà che riempivano i parchi in compagnia dei figli. «A quell’età te li aspetti all’università o al lavoro», dice. «E invece qui i ragazzi condividono la maternità con le mogli. La legge prevede fino a un anno di congedo, con lo stipendio pagato al 100 per cento. Ma la maternità può essere divisa tra madri e padri, sei mesi a testa oppure tre e nove mesi. E i ragazzi danesi lo fanno quasi tutti.
«Prima di partire io e mia moglie abbiamo selezionato due o tre destinazioni, poi ha vinto quella che offriva l’ambiente più family friendly».
I bimbi danesi imparano la divisione dei compiti fin dalla scuola elementare. «Cucinare, ad esempio, fa parte del programma di studi, e viene insegnato sia ai bambini che alle bambine», racconta Francesca.
Più economico. Costa tutto più caro ma a fine mese hai più soldi in tasca. Prima ancora che Eva, due anni, avesse i documenti di residenza, l’asilo che si trova a 250 metri dalla sua casa di Copenaghen l’aveva già messa in lista di attesa. E dopo due mesi la piccola ha iniziato a frequentarlo.
Francesco, il padre, guadagna 24mila corone al mese (3200 euro lordi, cui va tolto il 35% circa di tasse) lavorando da artigiano in una ditta che tosta, vende e distribuisce caffè. È un lavoro simile a quello che faceva in Italia per Slow Food, con la differenza che in Danimarca, dopo un anno e mezzo gli hanno già offerto di acquisire il 35% della quota della società per cui lavora. «Le cose si stanno mettendo bene», dice contento.
Francesco lavora dalle 8 di mattina alle 4 del pomeriggio e ogni giorno ha tre ore abbondanti di tempo da trascorrere in famiglia. In Italia Eva poteva stare con il padre solo il week-end, perché la sera Francesco rientrava alle 8 e lei già dormiva.
Raffaella (il nome è di fantasia), 37 anni, vive a Copenaghen da due, quando ha deciso di raggiungere il marito trasferitosi per lavoro. È qui che ha partorito la sua prima figlia. «Difficile vedere persone lavorare in ufficio dopo le 17.30», racconta. «Io - lavoro per una agenzia internazionale - riesco ad uscire dall’ uffico verso le 15/15.30 cosi posso prendere la bimba all’asilo per le 15.45. Se necessario lavoro da casa nel tardo pomeriggio. Con questi orari riesco a stare con la piccola l’intero pomeriggio».
Tutto il sistema danese ruota intorno al concetto di famiglia, intesa come madre, padre e bambini, racconta ancora Raffaella. «Il lavoro, la scuola, il tempo libero e le infrastrutture sono pensate per aiutare gli adulti a crescere i propri piccoli senza stress. Ovviamente i piccoli disagi esistono anche qui...ma quello che il sistema fa è limitarne i danni!».
Il costo della vita in Danimarca è più alto che in Italia, «una volta e mezza circa» ma «a fine mese ti ritrovi più soldi in tasca», spiega Francesco.
L’asilo di Eva costa 1000 corone al mese, 130 euro circa. È una struttura pubblica e la rata viene calcolata in base al reddito dei genitori. Ma a Copenaghen l’autobus è gratuito fino ai 14 anni. E i minorenni non pagano l’ingresso ai musei e molte attività organizzate per il tempo libero. Ogni mamma riceve un sussidio pubblico per ciascun figlio minore di 18 anni che vive nella sua stessa casa (qui i dettagli).
Francesca, la mamma di 42 anni di cui abbiamo parlato poco fa, riceve 500 euro ogni tre mesi, che usa per pagare il doposcuola delle sue due bimbe. «Ma nulla mi vieterebbe di usare quei soldi anche per lo shopping», spiega. «Ogni mamma è libera di spenderli come crede».
La scuola offre alcuni servizi gratuiti, «il dentista, ad esempio, non si paga fino ai 18 anni», racconta.
Il corso di danese che Francesco frequenta a Copenaghen è completamente gratuito. Dura tre anni e punta a dare una conoscenza soddisfacente della lingua locale. «Ho trovato un accordo con i miei datori di lavoro. Posso frequentare il corso due mattine a settimana su tre previste, tre ore ogni volta. Il giorno in cui ho scuola, esco un po’ più tardi dalla ditta. Ma a loro va bene che dedichi tempo alla lingua, perché sanno che se imparo il danese ho più chance di restare qui a lungo. Sono lungimiranti».
Più soddisfacente. L’autonomia insegnata ai piccoli. Qualche anno fa una giornalista del Guardian, Lucy McDonald, aveva fatto questo esperimento: per una settimana si era trasferita con l’intera famiglia a Copenaghen, nella casa di Nina Kragh, reporter della rivista danese Politiken, che a sua volta aveva lasciato la Danimarca per vivere una settimana a Londra, nella villetta a due piani di Lucy. L’obiettivo era testare il sistema educativo danese. Appena arrivata a Copenaghen, Lucy era rimasta colpita dalla quantità di bambini che giocavano senza controllo nelle strade. Alzando gli occhi, aveva notato fuori dalle abitazioni alcune carrozzine coperte da teli bianchi e, stupita, aveva scoperto che lì dentro dormivano - indisturbati e senza mamme in vista - i neonati (qui il suo racconto).
In Danimarca i bambini crescono in fretta. L’autonomia è l’obiettivo principale dell’insegnamento scolastico. «A sette anni gli alunni prendono l’autobus da soli», spiega Francesca. La scuola è affare dei bambini – racconta - e gli insegnanti non si aspettano che i genitori controllino il diario dei figli. «I compiti sono molto pochi rispetto a quelli assegnati in Italia, a volte proprio non ne hanno. Sono sempre spalmati su più giorni. Maria ad esempio ha tre-quattro pagine di esercizi di matematica a settimana che deve consegnare compilate sette giorni dopo. Ma sta a lei decidere quando farlo», racconta Francesca. «E se i compiti non vengono svolti non succede nulla», dice questa mamma che fa ancora un po’ fatica ad accettare tutta questa libertà.
«Qui non vogliono mai costringere i bambini, spiega, e tutto mi sembra un po’ all’acqua di rose. Cercavo un’attività sportiva per le bambine e l’unica che fosse per più di una volta a settimana è un corso di capoeira organizzato da brasiliani. Il nuoto, ad esempio, è solo mezzora a settimana. Nemmeno il tempo di entrare in acqua e già i bimbi devono uscire. Maria ha imparato a nuotare benissimo e in poco tempo. Solo che a volte mi sembra che ci sia poco rispetto per le potenzialità del bambino e di quel che potrebbe riuscire a fare», dice. «Della cultura danese nel crescere i bambini mi piace moltissimo il fatto che si insegni al bambino ad essere “indipendente” e “libero”», racconta Raffaella.
«Il concetto della mamma chioccia non esiste, nel bene e nel male». Ai bambini di 18 mesi all’asilo viene insegnato a vestirsi e svestirsi da soli, dall’intimo alle scarpe. Imparano a mangiare da soli, apparecchiare, sparecchiare. A sedersi a tavola senza seggiolone. «Forse a volte è anche un eccesso di indipendenza, spiega Raffaella, non è che non mi piaccia, ma devo ancora abituarmi all'idea che bambini di sette anni prendano la metro da soli e i neonati vengano lasciati a dormire soli fuori dalle case o dai negozi. Ho la sensazione che si viva sottovalutando un po’ i pericoli».
Sembra impossibile, ma se provi a chiedere a questi genitori italiani il lato negativo del crescere un figlio in Danimarca, l’elenco, rispetto a quello dei lati positivi, si accorcia immediatamante. C’è la difficoltà di fare i conti con l’eccesso di indipendenza dei bambini, come spiegano qui sopra Francesca e Raffaella.
Francesco dice che un po’ gli spiace che la scuola elementare non abbia una mensa e i piccoli siano costretti a portarsi il pranzo da casa nel tupperware. Ma poi basta. Tutto qui.
Non è un problema nemmeno il fatto che alle cinque di sera sia già buio. Quando i bambini figli di stranieri iniziano la scuola, in Danimarca, vengono inseriti in classi speciali, formate solo da non danesi. Gli insegnanti in questo modo si concentrano sull’insegnamento della lingua, e quando gli alunni sono pronti, possono unirsi agli altri nelle classi regolari.
«Maria, figlia di un papà danese, è rimasta nella classe speciale solo un mese. Gli altri restano per un anno», chiude Francesca. Da noi un esperimento simile fatto qualche anno fa in una scuola del nord venne ribattezzato «classe ghetto», in Danimarca è la norma e non fa scalpore, nemmeno tra gli expat italiani.
http://www.linkiesta.it/it/article/2014/11/14/danimarca-il-posto-ideale-dove-crescere-i-nostri-figli/23484/



Diventare mamma in Norvegia. A casa, si può contare su un’‘helsesøster’, una ‘sorella della salute’.
In più, esiste anche un Fondo per le generazioni future, che sempre lo Stato sta accantonando, per garantire ai nuovi nati una qualità della vita come quella dei genitori. Come se non bastasse, lo Stato norvegese versa duecento euro al mese su un conto corrente aperto dai genitori fino ai diciotto anni di vita del bambino: soldi che non possono essere spesi e che andranno direttamente a lui quando è maggiorenne. [...] Ma non è tutto: oltre ad avere congedi parentali di dodici mesi pienamente retribuiti sia per la madre che per il padre, “che tutti qui prendono perché il controllo sociale è inverso, sembra strano che un padre non si occupi di suo figlio appena nato”; oltre ad avere gli assegni familiari sullo stipendio, anche se sei un lavoratore autonomo (è il caso del marito di Ludovica, geologo con un’azienda di ristrutturazioni edilizie con materiali di qualità), ogni neomamma che non lavora riceve 6.000 euro in un’unica soluzione per i bisogni dei primi mesi.
Successivamente, nel caso non abbia un lavoro e stia aspettando un posto al nido pubblico (dove agli insegnanti veri e propri si affiancano assistenti di gioco, anche loro stipendiati, perché “qui il lavoro non retribuito è un concetto inesistente”), dai 13 ai 23 mesi può usufruire di un assegno chiamato, ‘kontantstøtte’, di settecentocinquanta euro al mese. [...]
“Non è difficile capire perché ho deciso di far nascere Francesca qui”, racconta Ludovica, che sta studiando intensivamente il norvegese, anche per ottenere la cittadinanza, “e se farò o meno un secondo figlio sarà solo una scelta mia, non dovuta a circostanze sociali che oggi altrove ti impediscono questa scelta ”. [...]
"Qui la conciliazione è facilissima: non esistono gli straordinari e rientrare al lavoro dopo la gravidanza è semplice". Ludovica spiega i vantaggi di fare un figlio in Norvegia, dal congedo parentale all'assistenza post parto, ai sussidi per i figli. [...] DI ELISABETTA AMBROSI
“Congratulazioni e auguri, siamo molto felici per lei. Questo è il calendario di tutti i suoi dati clinici. Qualora data e orari non andassero bene ci chiami e provvederemo a spostare gli appuntamenti”.
La lettera dell’ospedale pubblico è arrivata a casa di Ludovica proprio pochi giorni dopo che aveva comunicato al suo medico di famiglia di essere incinta.
Qui ti scrivono tutto, dicendoti anche ciò che tu non richiedi ma che loro presumono possa esserti utile. Un’esperienza che ti lascia di stucco per chi, come me, sa cosa significhi la burocrazia in Italia”.
Ludovica è un avvocato, ha 39 anni, vive a Oslo da due e ha una bimba di quattordici mesi, Francesca. Ha deciso di lasciare l’Italia abbastanza tardi (“ma lo sai che di recente un grafico italiano di 56 anni ha vinto un concorso pubblico? Qui è normale” mi racconta) anche se non avrebbe mai creduto che la sua meta sarebbe stata questa.
“La Norvegia mi sembrava uno di questi posti immaginifici, delle favole, io pensavo più ad altri paesi europei. Ma dopo l’ennesimo assegno di ricerca scaduto per l’Università dove insegnavo, ho capito che se volevo che alcuni miei progetti si realizzassero sarei dovuta partire”.
Dopo il parto? Tutti in residence.
Proprio in quel periodo, Ludovica reincontra, a Maratea, il suo futuro marito, “sfidanzato” come lei dopo una relazione. Si sono sposati al Comune di Oslo due anni fa solo con due testimoni – “siamo andati e tornati in tram” – e subito è arrivata Francesca.
“Avevo due possibilità”, racconta Ludovica. “Cominciare e studiare intensivamente il norvegese e cercare di rimettermi in gioco sul lavoro, oppure prendermi una pausa per avere un figlio e godermelo”.
Ludovica sceglie la seconda ipotesi, aiutata da un welfare che è davvero come lo raccontano gli articoli e le statistiche sulla qualità della vita di donne e famiglie.
Viene affidata subito a un centro che segue le donne in gravidanza, dove può fare tutti gli screening ordinari. Va in ospedale solo per l’amniocentesi, tutto gratuitamente, anche se il sesso del bambino le viene comunicato solo all’ultimo, come stabilito da una norma volta a contrastare gli aborti di genere tra alcune comunità di immigrati.
Il parto avviene nel modo più naturale possibile: “Le ostetriche mi hanno aiutato a non fare l’epidurale e a tre ore dal parto, senza neanche un punto, ero già in piedi. Qui c’è una cultura del parto naturale che all’inizio mi spaventava, ma che poi ho potuto veramente apprezzare: il battito del bambino viene ascoltato addirittura con una sorta di trombettina di legno, se fossi stata in Uganda mi sarei spaventata!”.
Dopo il parto (in stanza singola e con il papà), i genitori e il bebè vengono accolti in una struttura residenziale: un appartamentino tutto per loro, ma con tutta l’assistenza medica che necessitano.
Tornati a casa, la mamma può contare su un’assistenza pratica e psicologica: “È venuta quella che qui chiamano ‘helsesøster’, una ‘sorella della salute’ a consigliarci persino di spostare la stufa e utilizzare una coperta di cotone: è la stessa che segue i bambini da zero fino a diciotto anni per i controlli ordinari e la prevenzione, mandando i bambini da un medico vero e proprio solo quando davvero occorra”. [...]
Il gender gap? Qui è all'incontrario
Quando deciderà di rientrare nel mercato del lavoro, Ludovica troverà un ambiente dove il gender gap rischia di essere quasi a sfavore degli uomini e dove la conciliazione è facilissima, perché in Norvegia non esistono gli straordinari – alle cinque sono tutti a casa - ed efficienti banche del tempo consentono alle madri e ai padri di gestire i bambini nel modo più consono ai bisogni di tutti.
“Qui alla mia età le donne fanno i primari negli ospedali. E tutti hanno dai due ai quattro figli, molto presto perché il passaggio dall’Università al lavoro è molto semplice”.
Meglio non sapere troppo di ciò che accade in Norvegia: una piccola società modello, una sorta di sogno per le mamme italiane. Da chiamare però in ballo quando ci si sente stanche e magari abbattute, per liberarci almeno dei sensi di colpa e dalla paura di non essere adeguate. Che vivendo a Oslo, probabilmente, improvvisamente sparirebbero.
http://d.repubblica.it/attualita/2014/12/11/news/maternit_norvegia_storie_assistenza_medica_confonto_italia-2404088/?ref=fbpr

Filippo Dodero Paese con pochi abitanti e molta ricchezza, è vero, ma vi siete mai chiesti come ci si arriva a questo? forse ci si arriva con tassazioni adeguate, con una cultura del bene comune che qui da noi non esiste, una cultura fatta di poche regole che tutti, incredibilmente, rispettano, a partire dalle alte cariche dello stato fino al cittadino più umile.
Walter De Martino Le cose funzionano perché la politica là funziona. E funziona perché i cittadini pretendono che funzioni. Da noi invece ognuno pensa a se. Non esiste l'idea di ''Stato''.
Anna Maria Barbarito paese civile dove tutti pagano le imposte che si trasformano in servizi per la collettività
Marisa Christillin Non esistono ruberie, truffe, e tutti pagano le tasse, questo è' il segreto
Riccardo Russo Cinque milioni di abitanti con un PIL pro capite di quasi centomila dollari
Marco Podda se calcoli il nostro sommerso e ricchezza illecita secondo me siamo piu' ricchi di loro, proporzionalmente visto che siamo più di 10 volte tanti. Manca la cultura e la mentalità non nascondiamoci sempre dietro ai soldi.
Riccardo Russo Facciamo il paragone tra la Norvegia e un Paese affine, la Svezia. Nella prima il PIL pro capite è di centomila dollari, nella seconda di 55.000 dollari. Come si spiega questa differenza? Io ho una risposta: petrolio

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