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venerdì 14 ottobre 2016

Nietzsche. Aurora. Non per nulla si è stati filologi, e forse lo siamo ancora: la qual cosa vuol dire, maestri della lettura lenta; e si finisce anche per scrivere lentamente. Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa anche parte del mio gusto – un gusto malizioso forse? – non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente «frettolosa». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del «lavoro», intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol «sbrigare» immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati…




Non per nulla si è stati filologi, e forse lo siamo ancora: 
la qual cosa vuol dire, maestri della lettura lenta; e si finisce anche per scrivere lentamente. Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa anche parte del mio gusto – un gusto malizioso forse? – non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente «frettolosa». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del «lavoro», intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol «sbrigare» immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati…
F. Nietzsche, “Prefazione” ad Aurora


"Si comincia col disimparare ad amare gli altri e si finisce col non trovare più niente in noi stessi degno d'essere amato."
F. Nietzsche, "Aurora", Fr. 401

«“Non egoistico!” — Quello è vuoto e vuol colmarsi, questo è stracolmo e vuol farsi vuoto — c’è in entrambi l’urgenza di cercarsi un individuo che serva loro allo scopo. E questo modo di procedere, inteso nel suo più alto senso, lo si chiama in tutt’e due i casi con una sola parola: amore. Come? L’amore dovrebbe essere qualcosa di non egoistico?»
F. Nietzsche, Aurora


"L'educazione è un proseguimento della generazione e spesso una specie di successivo inorpellamento di quest'ultima. Dato il modo in cui oggi veniamo educati, noi riceviamo in primo luogo una "seconda natura"; e quando il mondo ci dice maturi, maggiori d'età, utilizzabili, noi la possediamo. Pochi sono abbastanza serpenti da staccarsi un bel giorno questa pelle di dosso, allorquando, sotto il guscio, è maturata la loro "prima" natura. Nei più, avvizzisce il seme di essa. [...] Questi giovani non difettano nè di carattere, nè di buone attitudini, nè diligenza: ma non si è lasciato loro il tempo di darsi una direzione, piuttosto son stati abituati, fin dall'infanzia, a ricevere una direzione. Allorquando furono abbastanza maturi per "essere inviati nel deserto", venne fatto invece qualcos'altro - li utilizzarono, li alienarono da se stessi, li educarono all'essere quotidianamente usati, di tutto questo crearono per loro una teoria di doveri - e ora non possono farne a meno e non vogliono altro.
Alla vista del lavoro - e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera - si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d'indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d'energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all'amare, all'odiare; esso si pone sempre sott'occhio un piccolo obiettivo e procura lievi e regolari appagamenti. Resta il fatto che a questi poveri animali da tiro non si possano rifiutare le "ferie" - come viene chiamato questo ideale d'ozio di un secolo stremato dal troppo lavoro: in cui è concesso una volta tanto abbandonarsi alla pigrizia e rincretinirsi e bambineggiare a proprio piacimento.
Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggior sicurezza, e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma. I vostri affari, è questo il vostro grandissimo pregiudizio che vi incatena al vostro luogo, alla vostra società, alle vostre inclinazioni. Diligenti negli affari, ma pigri di spirito, contenti delle vostre ristrettezze e col grembiule del dovere appeso a questa contentezza: così vivete voi, così li volete, i vostri figliuoli!"
Friedrich Nietzsche, Aurora



"Il singolo si nasconde sotto la generalità del concetto "uomo" o nella società, ovvero si adatta a principi, classi, partiti, opinioni del tempo o dell'ambiente. Il singolo deve sacrificarsi, questo esige l'eticità del costumeEticità non è nient'altro che obbedienza ai costumi, di qualunque specie essi possano essere. I costumi peraltro sono il modo tradizionale di agire e di valutare. In cose dove nessuna tradizione comanda, non esiste eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccolo diventa il circolo dell'eticità. L'uomo libero è privo di eticità, poichè egli vuole dipendere in tutto da sè e non da una tradizione. Che cos'è la tradizione? Un'autorità superiore, alla quale si presta obbedienza non perchè comanda quel che ci è utile, ma soltanto perchè ce lo comanda. [...] Tutti gli apprezzamenti di valore sono o propri oppure accettati; questi ultimi sono di gran lunga in maggior numero. Perchè li accettiamo? Per paura, vale a dire riteniamo più conveniente fingere che essi siano stati anche i nostri, e ci abituiamo a questa finzione in tal guisa che essa finisce per essere la nostra natura. Per lo più, siamo per tutta la vita i giullari di giudizi infantili incarnati nell'abitudine."
Friedrich Nietzsche, Aurora


Quale luogo spaventevole ha saputo fare della terra il cristianesimo, già per il solo fatto di aver collocato ovunque il crocifisso, e per aver in tal modo designato la terra come il luogo in cui «il giusto viene martirizzato a morte»!
Friedrich Nietzsche, Aurora, 77


“In questo libro troviamo all’opera un “essere sotterraneo”, uno che perfora, scava, scalza di sottoterra… Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuol forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?… Certamente tornerà indietro: non chiedetegli che cosa cerca la sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente Trofonio ed essere sotterraneo, quando sarà “ridiventato uomo”. Si disimpara completamente a tacere, quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa…”. 
Friedrich Wilhelm Nietzsche,  Aurora

Per comprendere l'altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere, fa sgorgare dei sentimenti in noi analoghi, in virtù di un'antica associazione tra movimento e sensazione.
Nietzsche in Aurora (1881)

Il serpente che non può cambiar pelle muore.
Lo stesso accade agli spiriti ai quali s’impedisce di cambiare opinione: cessano di essere spiriti.
Friedrich Wilhelm Nietzsche, “Aurora”

Niente è più vostro dei vostri sogni! Niente è più opera vostra!
Contenuto, forma, durata, attore, spettatore – in queste commedie siete sempre e solo voi stessi!
Friedrich Nietzsche, Aurora


Chi è mai il prossimo? — Che cosa mai comprendiamo, del nostro prossimo, per quanto riguarda le sue delimitazioni, voglio dire ciò con cui esso si delinea e s’imprime su di noi e in noi? Di esso non comprendiamo se non le trasformazioni che ad opera sua si producono in noi, — quel che sappiamo di lui assomiglia ad uno spazio cui è stata data una forma vuota. Gli attribuiamo le sensazioni che i suoi atti evocano in noi e gli conferiamo così una falsa positività inversa. Lo plasmiamo secondo la conoscenza che abbiamo di noi, facendone un satellite del nostro stesso sistema: e se esso ci fa luce o si ottenebra, e noi siamo la causa ultima di questi due fatti, — siamo pur sempre indotti a credere il contrario! Un mondo di fantasmi è quello in cui viviamo, un mondo stravolto, capovolto, vuoto e tuttavia sognato come pieno e diritto!
Friedrich Nietzsche, (1844 – 1900), Aurora, 118 (traduzione di Sossio Giametta).


(E. W. Fritzsch, Leipzig 1887), in “Opere di Friedrich Nietzsche“, ed. it. condotta sul testo critico stabilito da diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari., vol. V., t. I, trad. it. F. Masini, libro primo, p. 89.



Una volta si cercava di giungere al sentimento della magnificenza e signoria dell’uomo, additando alla sua origine divina: questa adesso è divenuta una via proibita, poiché alla sua porta, insieme ad altre orribili bestie, sta la scimmia e piena di comprensione digrigna i denti come a dire: non oltre in questa direzione! Cosí ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui si dirige l’umanità deve servire a dimostrare la sua magnificenza e signoria e la sua affinità con Dio. Ah! anche cosí non serve a niente. Alla fine di questa strada sta l’urna funeraria dell’ultimo uomo e dell’ultimo becchino (con l’iscrizione: « nihil humani a me alienum puto »).
Friedrich Nietzsche, da Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali


Homo sum, humani nihil a me alienum puto
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto: 
frase in lingua latina che significa letteralmente: 
«sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano» 
(in parole più semplici: «Nulla che sia umano mi è estraneo»).


La frase è di Publio Terenzio Afro che la usò nella sua commedia Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso, v. 77) del 165 a.C..
Uno dei personaggi, Cremète, viene invitato a non impicciarsi in affari che non lo riguardano da Menedemo, e risponde con questa frase, che nel contesto della commedia si può tradurre come "sono un essere umano, e ritengo che tutte le cose umane siano affari miei".

Esistono varie versioni della frase: spesso viene omessa la parte iniziale Homo sum, e a volte anche il verbo puto, che anzi viene spesso omesso anche nelle traduzioni. Inoltre esiste la variante arcaica nil al posto di nihil.

Nei contesti moderni, la frase aggiunge al suo significato originale quello di "non voglio lasciare da parte nulla, tutto quello che riguarda l'umanità e le sue realizzazioni è in grado di destare interesse in me". [...]

Una celebre parafrasi del motto è stata adottata dal linguista Roman Jakobson, dai molteplici interessi in ogni disciplina collegata con la linguistica: Linguista sum; linguistici nihil a me alienum putosono un linguista, non considero a me estraneo nulla di linguistico»).[1] 
[1] Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 6, ISBN 8807816938.

Una parafrasi compare nei "fratelli Karamazov" di Dostoevskij: 
" satana sum, et nihil humani a me alienum puto..."
https://it.wikipedia.org/wiki/Homo_sum,_humani_nihil_a_me_alienum_puto


Friedrich W. Nietzsche. L’io -
“ ‘Il cosiddetto <io>’. Il linguaggio e i pregiudizi, su cui è edificato il linguaggio stesso, ci sono, in molteplici modi, di impedimento alla penetrazione di intimi processi ed istinti; per il fatto, ad esempio, che propriamente esistono parole soltanto per i gradi ‘superlativi’ di questi processi ed istinti: ma noi ora abbiamo preso l’abitudine, laddove ci fanno difetto le parole, a non dirigervi più la nostra minuziosa osservazione, giacché è penoso spingere ancora fino a quel punto il nostro preciso pensiero; anzi, un tempo, si concludeva automaticamente, che laddove cessa il regno delle parole cessa anche il regno dell’esistenza. Ira, odio, amore, compassione, bramosia, conoscimento, gioia, dolore – sono tutti nomi che indicano stati ‘estremi’; i gradi intermedi più temperati e perfino quelli inferiori, che sono continuamente in giuoco, ci sfuggono, e tuttavia sono proprio questi ad intessere la tela del nostro carattere e del nostro destino. Quelle manifestazioni estreme – ed anche il più moderato cosciente compiacimento o scontento, nel mangiare un cibo, nell’udire un suono, è forse ancor sempre, se valutato giustamente, una manifestazione estrema – molto spesso lacerano la trama e sono allora brutali eccezioni, dovute il più delle volte, a stati di accumulo. E quanto possono, come tali, ingannare l’osservatore! Non certo meno di quanto ingannino l’uomo che agisce. Ciò che sembriamo essere, secondo gli stati per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole, - e quindi lode e biasimo, - ‘nessuno di noi lo è’; stando a queste grossolane manifestazioni, che sono le sole a farsi conoscere, noi ‘mal ci conosciamo’, ricaviamo una conclusione da un materiale in cui le eccezioni prevalgono sulla regola, erriamo nel leggere questa scrittura alfabetica del nostro sé apparentemente chiarissima. È però ‘la nostra opinione su noi stessi’, che abbiamo trovato per questa via sbagliata, il cosiddetto <io>, a lavorare d’ora in poi sul nostro carattere e sul nostro destino.”

FRIEDRICH W. NIETZSCHE (1844 – 1900), “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali”, versione di Ferruccio Masini, in “Opere di Friedrich Nietzsche”, ed. it. diratta da G.Colli e M. montinari, vol. V, tomo I, testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari con la collaborazione di Sossio Giametta e Maria L. Pampaloni, Libro secondo, 115. ‘Il cosiddetto <io>’, p. 86.




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