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mercoledì 5 ottobre 2016

Dostoevskij. Delitto e castigo. Alterità - Raskolnikov e la nullificazione dell'altro. si tratta di un ragazzo “buono”: non è una di quelle anime sfigurate e disgregate dalla dissoluzione ed ormai perdute irrimediabilmente, tipo Stavrogin o Versilov. Rodion è invece un dilaniato, un Ivan Karamazov più sano, meno colto, ancora salvabile; certamente corroso e fagocitato dai suoi pensieri superomistici, ma non ancora sdoppiato: non ha infatti “scimmia”, non ha Smerdjakov, né le conversazioni allucinatorie con il diavolo (l'ultimo stadio della rovina e del crollo spirituale in Dostoevskij, che raggiungono solo Ivan e Nikolaj Stavogin); al massimo un suo sosia terrificante può forse essere costituito da Svidrigajlov.

‎Così egli si torturava e s'irritava con queste domande, provandone perfino una certa voluttà.
Del resto tutte queste non erano domande nuove, improvvise, ma bensì antiche dolenti croniche.
Già da un pezzo esse avevan cominciato a tormentarlo e gli avevan straziato il cuore.
Da moltissimo tempo era germogliata in lui l'angoscia che adesso provava, era cresciuta, s'era accumulata e negli ultimi tempi era maturata, concentrandosi e prendendo la forma di un orrendo, selvaggio e fantastico problema che torturava il suo cuore e la sua mente esigendo ineluttabilmente una soluzione. E ora la lettera della madre lo aveva colpito come un fulmine.
Era chiaro che ora bisognava non crucciarsi, non soffrire passivamente, meditando soltanto sull'insolubilità del problema, ma fare assolutamente qualcosa, e subito, al più presto. 
A qualunque costo bisognava decidersi, a qualsiasi cosa oppure ...
Oppure rinunciare alla vita addirittura! - esclamò a un tratto nella sua esaltazione, - accettare docilmente il destino così com'è, una volta per sempre, e soffocare in se stesso tutto, rinunciare a ogni diritto di agire, di vivere e di amare!
"Lo capite, lo capite, egregio signore, che cosa vuol dire non sapere più dove andare
- gli venne ad un tratto in mente la domanda fattagli il giorno prima da Marmeladov ;
- bisogna pure che ogni uomo possa andar da qualcuno .... "
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo


Questo mi fa pensare alla più bella frase di Dostoevskij.
- Che frase è?
- Ti ricordi, in Delitto e Castigo, quando Dunya, la sorella di Raskolnikov, viene convinta con le lusinghe a entrare nell'appartamento di Svidrigailov? Lui si chiude dentro insieme a lei, mette la chiave in saccoccia e poi, come un serpente, si prepara a sedurla, se necessario con la forza. Ma con suo stupore, proprio quando l'ha messa con le spalle al muro, questa bella e beneducata Dunya estrae dalla borsetta una pistola e gliela punta al cuore. La più grande battuta di Dostoevskij arriva quando Svidrigailov vede l'arma.
- Dimmi.
Questo, - disse Svidrigailov, - cambia tutto.
Philip Roth, operazione Shylock




"All'inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l'incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un'alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio.
La padrona dell'appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d'incontrarla."
[Incipit di 'Delitto e castigo' di Fëdor Dostoevskij, nato il 30 ottobre 1821 (secondo il calendario giuliano all'epoca in vigore in Russia)]



«Eccoli gli uomini: vanno avanti e indietro per la strada: ognuno è un mascalzone e un delinquente per natura, un idiota. Ma se sapessero che io sono un omicida e ora cercassi di evitare la prigione, si infiammerebbero tutti di nobile sdegno».
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo


«Cupo, triste, arrogante e fiero; negli ultimi tempi e forse anche prima, facilmente impressionabile ed ipocondriaco. In fondo generoso e buono. Non ama esprimere le sue sensazioni. Terribilmente chiuso. Tutto lo annoia; rimane lungamente disteso senza nulla fare; non si interessa a nulla di ciò che interessa gli altri. ha un’alta opinione di sé stesso, ed apparentemente non senza ragione... »
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo


Han pianto un poco, poi si sono abituati.
A tutto si abitua quel vigliacco ch'è l'uomo
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo



Dove mai ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo cosí stretto da poterci posare soltanto i due piedi, – avendo intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene cosí, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità –, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l'uomo!... Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo



«Pensava a lei. Si ricordò di come l’aveva sempre tormentata e di come le aveva straziato il cuore; si ricordò del suo povero, smunto visino, ma quei ricordi ormai non lo facevano quasi più soffrire: sapeva con quale immenso amore avrebbe riscattato adesso tutte le sofferenze di lei».
Fëdor Dostoevskij, “Delitto e castigo”


«Li aveva risuscitati l'amore, il cuore dell'uno racchiudeva infinite fonti di vita per l'altro.
Si prefissero di aspettare e di aver pazienza. Restavan loro ancora sette anni di attesa; e nel frattempo quanto intollerabile dolore e quanta felicità sconfinata! Ma egli era risuscitato, e lo sapeva, lo sentiva pienamente con tutto il suo essere rinnovato, e lei, lei non viveva che della vita di lui!».
Fëdor Dostoevskij, “Delitto e castigo” (Epilogo, II; 1993, p. 653)



Ti dichiaro che voi tutti, fino all'ultimo, siete dei parolai e dei fanfaroni! Appena vi viene un doloruccio, ve lo covate come fa la gallina coll'uovo! Perfino in questo plagiate gli autori stranieri. Non c'è in voi nemmeno un briciolo di vita indipendente! Siete fatti di spermaceti e invece di sangue avete del latte annacquato! Io non credo a nessuno di voi! Il vostro primo pensiero, in tutte le circostanze, è quello di rassomigliare il meno possibile ad un uomo.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Delitto e castigo


Non c'è al mondo nulla di più difficile della franchezza e nulla di più facile dell'adulazione. Se nella franchezza anche solo una centesima parte suona falso, subito ne nasce una dissonanza, e poi uno scandalo. Se nell'adulazione invece è anche tutto falso fino all'ultima nota, anche allora essa è gradevole si ascolta non senza piacere; sarà un piacere grossolano ma pur sempre un piacere. E per quanto grossolana sia la lusinga, almeno metà di essa sembra assolutamente verità
Fedor Dostoevskij, Delitto e castigo


Era un membro di quella innumerevole e svariata legione di menti piatte, di aborti informi, di stravaganti, che non hanno completato nessuna specie di studi, che s’affrettano ad accodarsi all’idea più alla moda, per involgarirla, per farne immediatamente la caricatura di tutti gli ideali a cui essi si son talvolta dedicati con sincerissimo slancio.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo

Ti dichiaro che voi tutti, fino all'ultimo, siete dei parolai e dei fanfaroni! Appena vi viene un doloruccio, ve lo covate come fa la gallina coll'uovo! Perfino in questo plagiate gli autori stranieri. Non c'è in voi nemmeno un briciolo di vita indipendente! Siete fatti di spermaceti e invece di sangue avete del latte annacquato! Io non credo a nessuno di voi! Il vostro primo pensiero, in tutte le circostanze, è quello di rassomigliare il meno possibile ad un uomo.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, 11 novembre 1821 - 9 febbraio 1881 - Delitto e castigo



La sofferenza e il dolore sono sempre obbligatori per una coscienza ampia e per un cuore profondo. Ho l’impressione che le persone autenticamente grandi debbano provare al mondo una grande tristezza.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo


Incontriamo a volte persone che non conosciamo affatto, ma che destano in noi subito, fin dal primo sguardo e, per così dire, di colpo, un grande interessamento, sebbene non si sia scambiata ancora una sola parola.
Fedor Michailovic Dostoevskij, Delitto e castigo


Secondo me, se per un insieme di circostanze le scoperte di Keplero o di Newton non avessero potuto esser rese note agli uomini se non mediante il sacrificio della vita di una, dieci, cento o più persone, che a tali scoperte si fossero opposte o che, comunque, fossero state di ostacolo sul loro cammino, ebbene, essi avrebbero avuto il diritto, e perfino il dovere... di eliminare queste dieci o cento persone, per far conoscere le loro scoperte a tutta l’umanità. Da ciò, tuttavia, non deriva che Newton avesse il diritto di uccidere chiunque gli fosse saltato in mente di uccidere, a destra e a sinistra, o di rubare ogni giorno al mercato. Più avanti nel mio articolo, a quel che ricordo, io formulo l’idea che tutti... be’, diciamo, se non altro i legislatori e i fondatori della società umana, a partire dai più antichi sino ai vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e via discorrendo, tutti sino all'ultimo siano stati dei delinquenti, già per il semplice fatto che ponendo una nuova legge, per ciò stesso infrangevano la legge antica, venerata dalla società e trasmessa dai padri; inoltre, certamente non si arrestarono nemmeno dinanzi al sangue, quando il sangue (talora del tutto innocente, e valorosamente versato in difesa della legge antica) poté essere loro d’aiuto. Vale anzi la pena di osservare che la maggior parte di questi benefattori e fondatori della società umano furono dei terribili spargitori di sangue. Insomma, io dimostro che tutti gli uomini, e non solamente i grandi, ma anche quelli che escono sia pur di poco dalla comune carreggiata, che sono cioè, in qualche misura, capaci di dire qualcosa di nuovo, devono immancabilmente, per la loro stesso natura, essere (più o meno, s’intende) dei criminaliAltrimenti sarebbe loro difficile uscire dalla carreggiata, nella quale non possono acconsentire a rimanere non solo a causa della loro natura, ma anche, secondo me, per senso del dovere. In una parola, vedete da voi che sin qui non c’è davvero nulla di particolarmente nuovo. Tutte cose già stampate e lette infinite volte.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo ( I )


Quanto poi alla mia divisione degli uomini in ordinari e straordinari, devo ammettere che è un pò arbitraria: ma non è che io insista su una delimitazione precisa. Mi limito a credere nella mia idea fondamentale; cioè appunto che gli uomini, per legge di natura, generalmente si dividono in due categorie: una inferiore che è quella degli uomini ordinari, cioè, per così dire, materiali che serve unicamente a procreare altri individui simili, e un’altra che è quella degli uomini veri e propri, i quali, cioè, hanno il dono o il talento di dire, in seno al loro ambiente, una parola nuova. Esistono, si capisce, infinite sfumature, ma i tratti caratteristici delle due categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, vale a dire il ‘materiale’, è composta in linea di massima da persone per loro natura conservatrici e per bene, che vivono nell'obbedienza e amano obbedire. Secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questo è il loro compito e non v’è in esso assolutamente nulla di umiliante per loro. Quelli della seconda categoria, invece, violano tutti la legge, sono dei distruttori, o per lo meno sono portati ad esserlo, a seconda delle loro attitudini. I delitti di questi uomini, naturalmente, sono relativi e assai disparati: per lo più essi chiedono, con le formule più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di meglio. Ma se a uno di loro occorre, per realizzare la sua idea, passare anche sopra un cadavere, sopra il sangue, secondo me egli, nel suo intimo, in coscienza, può permettersi di farlo: ciò, notate bene, a seconda anche dell’idea e della sua importanza. Ed è soltanto in questo senso che nel mio articolo io parlo di un loro diritto a delinquere. (Se ben ricordate, eravamo partiti da una questione giuridica). Del resto, non è il caso di allarmarsi troppo: quasi mai la massa riconosce loro questo diritto, ma dal più al meno li fa giustiziare e impiccare, e con ciò assolve in modo perfettamente giusto la propria missione conservatrice. Senonché, poi, nelle generazioni seguenti questa stessa massa colloca i giustiziati sul piedistallo e, dal più al meno, si inchina davanti a loro. La prima categoria è signora del presente, la seconda dell’avvenireI primi conservano il mondo e lo moltiplicano numericamente, i secondi fanno avanzare il mondo e lo guidano verso la meta. Sia gli uni sia gli altri hanno uguale diritto ad esistere. Per farla breve, per me tutti hanno pari diritto... e vive la guerre éternelle – fino alla Nuova Gerusalemme, s’intende!
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo (II)


Avete inventato una teoria e ora vi vergognate perché è fallita, perché il risultato non è per nulla originale! Il risultato è schifoso, lo devo ammettere, tuttavia voi non siete irrimediabilmente un malfattore....vi considero uno che anche a strappargli le budella se ne sta lì a guardare i suoi carnefici, col sorriso sulle labbra, ma solo se trova una fede, se trova Dio...su, trovatela e vivrete...anche la sofferenza è una buona cosa, si capisce....abbandonatevi alla vita, senza ragionare, non preoccupatevi, vi porterà certamente sulla riva e vi rimetterà in piedi....abbiate cuore e un po’ meno paura. Si tratta ormai di giustizia. Quindi fate ciò che la giustizia esige. Lo so, lo so che non ci credete, ma, parola mia, la vita vi porterà in salvo. E finirà per piacervi, dopo.”
Fedor Dostoevskij, Delitto e castigo, Porfirij Petrovic con Raskolnikov


«Si dice: “Tu sei malato, dunque quel che t’appare non è che l’effetto del delirio".
Ma in quest’asserzione non c’è una logica rigorosa. Ammetto che i fantasmi appaiano soltanto ai malati; se alla gente sana non appaiono, non si può provare che essi non esistono per se stessi
«Non esistono!», insisté Raskòlnikov, irritato.
«No? Credete che non esistano?», seguitò Svidrigàjlov, dopo averlo guardato a lungo. «E se invece si ragionasse così: “I fantasmi sono, in un certo modo, dei frammenti, dei pezzi di altri mondi, un elemento di essi. L’uomo sano, s’intende, non ha nessuna ragione di vederli, dato che l’uomo sano è innanzitutto un uomo terreno, e quindi deve vivere unicamente la vita di quaggiù, affinché in lui ci sia ordine e armonia. Ma appena esso s’ammala, appena è sconvolto il normale ordine terreno del suo organismo, comincia a manifestarsi la possibilità di un altro mondo, e, quanto più la malattia è grave, tanto più frequenti sono i contatti con l'al di là, di modo che, quando la morte del corpo sarà completa, l'anima vi andrà direttamente". Da un pezzo sto meditando su questo mistero. Se credete nella vita futura, dovete credere anche a questo ragionamento.»
«Io non credo nella vita futura», disse Raskòlnikov.
Svidrigàjlov, seduto su una seggiola, era chiuso nei suoi pensieri. «E se laggiù non vi fossero che ragni, o qualcosa di simile?» disse ad un tratto.
«Quest'uomo è pazzo!», pensò Raskòlnikov.
«Noi ci rappresentiamo sempre l'eternità come un'idea che non possiamo comprendere, come una cosa immensa, immensa. Ma perché dovrebbe essere immensa? E se lassù non ci fosse altro che una stanzetta, simile ad una rustica stanza da bagno affumicata, e in tutti gli angoli ci fossero tanti ragni? Se l'eternità non fosse altro che questo! Io, sapete, a volte me la figuro così!»
«Ed è possibile, è mai possibile che non ve ne facciate un'idea più confortante e più giusta!», gridò Raskòlnikov con un senso di malessere.
«Più giusta? Chi sa? Può anche darsi che questa concezione sia giusta, e, sapete, io l'avrei fatta così di proposito!»
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo




Aveva sognato, durante la malattia, che tutto il mondo era condannato a rimanere vittima di una pestilenza terribile, mai sentita e mai vista, che dal fondo dell'Asia avanzava verso l'Europa... Tutti dovevano perire, all'infuori di pochissimi eletti. Erano comparse certe trichine sconosciute, esseri microscopici che si infiltravano nel corpo umano. Ma questi esseri erano spiriti, dotati di intelligenza e di volontà. Gli uomini che li lasciavano penetrare nel loro corpo, diventavano subito indemoniati e pazzi. Mai, mai, però, gli uomini si erano ritenuti così intelligenti e così sicuri della verità, come si ritenevano quegli appestati. Mai avevano ritenuto più sicuri i loro giudizi, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e credenze morali. Interi villaggi, intere città e popolazioni si infettavano e facevano pazzie. Tutti erano in agitazione, non si capivano più fra loro, ognuno pensava di essere il solo a possedere la verità e si tormentava, guardando gli altri, si batteva il petto, piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi e come giudicare, non riuscivano a mettersi d'accordo nel giudicare il male e il bene. Non sapevano chi condannare e chi assolvere. Gli uomini si uccidevano fra loro in una specie di furore insensato. Si preparavano a marciare gli uni contro gli altri con intere armate, ma queste armate, quando erano già in marcia, a un tratto cominciavano a dilaniarsi per conto loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l'uno contro l'altro, si infilzavano, si sgozzavano, si mordevano e si divoravano fra loro. Nelle città si sonava a martello tutto il giorno: tutti erano chiamati a raccolta, ma chi li chiamasse e perché, nessuno lo sapeva, e tutti erano in agitazione. Avevano abbandonato i mestieri più comuni, perché ognuno proponeva le proprie idee, le sue innovazioni, e non riuscivano mai a mettersi d'accordo; l'agricoltura era ferma. Qua e là gente si radunava a crocchi, si mettevano d'accordo su qualche cosa, giuravano di non separarsi più; ma subito cominciavano a fare una cosa completamente diversa da quella che loro stessi avevano proposto un momento prima, ricominciavano a incolparsi l'uno con l'altro, si azzuffavano e si scannavano. Cominciarono a scoppiare molti incendi, cominciò la carestia. Tutto e tutti perivano. La pestilenza aumentava e avanzava sempre più. In tutto il mondo potevano salvarsi solo pochi uomini, i puri e gli eletti che erano predestinati a iniziare una nuova razza umana e una vita nuova, a rinnovare, purificare la terra, ma nessuno aveva mai veduto questi uomini, nessuno aveva mai udito la loro voce e la loro parola.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo







Alterità  - Rodion Romanovic Raskolnikov e la nullificazione dell'altro. [...]

Rodion Romanovic Raskolnikov, il protagonista di “Delitto e Castigo”, è un simbolo della nullificazione dell'altro e dei suoi drammatici risultati: la linea principale del romanzo (cronologicamente il primo grande romanzo di Dostoevskij) riguarda proprio l'angosciosa ed enigmatica questione della privazione del senso e della strumentalizzazione.

[...] per ora mi limito a dire che si tratta di un ragazzo “buono”: non è una di quelle anime sfigurate e disgregate dalla dissoluzione ed ormai perdute irrimediabilmente, tipo Stavrogin o Versilov. Rodion è invece un dilaniato, un Ivan Karamazov più sano, meno colto, ancora salvabile; certamente corroso e fagocitato dai suoi pensieri superomistici, ma non ancora sdoppiato: non ha infatti “scimmia”, non ha Smerdjakov, né le conversazioni allucinatorie con il diavolo (l'ultimo stadio della rovina e del crollo spirituale in Dostoevskij, che raggiungono solo Ivan e Nikolaj Stavogin); al massimo un suo sosia terrificante può forse essere costituito da Svidrigajlov.
  
"Posso essere un Napoleone?", si chiede il giovane studente attanagliato dalla miseria nelle sue notti insonni, affamato, in una stanzetta claustrofobica.

Posso io ridurre l'altro a nulla, fosse anche l'altro più infimo - una vecchia odiosa e crudele vedova, usuraia, parassita sociale dannoso -, nullificarlo e strumentalizzarlo a mio piacimento?

Dostoevskij risponde di no!
Il volo ergo possum è infatti l'aberrazione ribaltante del superomismo che inevitabilmente trasfigura il volto umano della persona che lo vive. E' l'incubo collettivo della nostra società contemporanea (Dostoevskij molto spesso è profetico).

Nullificando l'altro da sé, si nullifica sé stessi
non contano le ragioni utilitaristiche, non conta il fatto che sopprimendo la vecchia si possano inverare i più magnifici sogni di progresso sociale umanitario e di solidarismo. Anche questo paradisiaco ideale, apparentemente splendido e giusto, impallidisce d'innanzi all'automostrificazione fatale di chi perpetra la riduzione dell'altro da sé. 

Pensieri apocalittici sciolti: forse vale la pena quindi di domandarsi se riducendo sistematicamente l'altro da noi che è l'animale, non commettiamo anche un Delitto esistenziale verso noi stessi... forse possiamo chiederci se il Castigo non sia in re ipsa... nel vuoto che si sta facendo largo nelle nostre personalità e nello sterile nichilismo che ci divora.
Chiara de Lucia 

http://www.chiaradelucia.it/gli-analfabeti/alterita-2-rodion-romanovic-raskolnikov-e-la-nullificazione-dell-altro-xii.html


Delitto e Castigo di F. Dostoevskij
A Pietroburgo in una estate molto calda, Rodion Romanovic Raskolnikov, studente di 23 anni povero e pigro negli studi che abbandona, compie un gesto efferato, inconsueto e solo in parte impulsivo che rappresenta il motore narrativo di tutto il romanzo.
Rodion è convinto che la giustizia dell'atto compiuto e le ragioni etiche gli permetteranno di sopportare le conseguenze di cio' che ha fatto.
Ma cosi non avviene.
I muri delle sue convinzioni si sgretolano e il protagonista diventa vittima di se stesso e somatizza in tutte le forme possibili il suo senso di colpa.
Giorno dopo giorno si rende conto di quanto il rimorso, la colpa lo logori e quindi da avvio a quella profonda analisi esistenziale dove il lettore diventa egli stesso partecipe e protagonista.
Si tratta di un Esistenzialismo Cristiano personificato in Sonia, una ragazza piena di fede e amore per Dio che consentirà  a Raskolnikov di trovare alla fine una sua "pace".
‎Maria Laura Labriola‎, Leggo i classici di letteratura


Delitto e castigo
Posted by Alessandra in Narrativa Straniera
Al pensiero di scrivere qualcosa su questo grande classico della letteratura mondiale mi tremano un po’ le mani. La sensazione che provo è come quella di girare attorno ad una boccia di cristallo senza saper bene in quale punto fermarmi per osservarla meglio, tanto ricco e complesso è il contenuto che mi traspare dai suoi riflessi. Tutta la gamma dei nostri difetti umani è infatti racchiusa nelle pagine di questo poderoso romanzo, inclusi gli autoinganni, i rimorsi e i sensi di colpa con cui siamo soliti complicarci l’esistenza. Non per niente Dostoevskij è stato definito più volte un abile scrutatore dell’animo umano, un esploratore ante litteram di quel famoso sottosuolo (l’inconscio) che poi la psicoanalisi freudiana, a distanza di pochi anni dalla sua morte, ha saputo descrivere così bene al mondo. [...]
Avendo letto a ruota, subito dopo il romanzo, il bellissimo saggio elaborato da Pietro Citati incluso nel libro Il male assoluto (Adelphi edizioni, 2013), che vi consiglio caldamente di leggere, ho deciso di integrare ogni tanto nella mia analisi il pensiero illuminato di questo grande studioso. Citati ha centrato così bene i motivi biografici e psicologici che stanno alla base di quest’opera dostoevskiana, che per rendergli veramente onore dovrei fare una recensione della sua recensione. [...]
Prima di entrare nel vivo del romanzo, forse conviene fermarsi un attimo a riflettere sul titolo dello stesso. Eh sì, perché quello originario sarebbe Il delitto e la pena”, non “Delitto e castigo, e tale differenza non è da poco visto che il primo titolo contiene già in sé il significato essenziale dell’opera. Perché in queste pagine, più che di castigo, si parla proprio del tormento continuo e pressoché infinito che vive il protagonista dentro di sé dopo aver commesso un terribile omicidio. Attenzione: ho scritto “tormento”, non rimorso. Ed è questa la parte più agghiacciante del romanzo, quella che probabilmente ha fatto presa sull’inconscio collettivo di milioni di persone decretandone un successo di portata mondiale.

In sostanza Dostoevskij è riuscito, con grande anticipo sulle speculazioni freudiane e junghiane, a scendere nelle zone più oscure e nascoste della coscienza dell’uomo, quelle dove albergano demoni, mostri ed ogni altro tipo di creature metaforiche rappresentative del male. Nel leggere il romanzo, più che dall’evento criminoso si rimane infatti colpiti da tutto ciò che lo motiva e lo accompagna. E fin dall’inizio l’autore ci introduce con grande perizia nella mente tormentata del protagonista, dove delle argomentazioni di stampo idealistico stanno lottando per prendere il sopravvento, cercando nel frattempo di mettere a tacere incertezze e scrupoli. Il terreno per la coltura di queste idee è abbastanza fertile, visto che Rodiòn Romànovič Raskòlnikov è un ex studente solitario, orgoglioso e introverso, insoddisfatto della propria vita e del mondo che lo circonda. Da tempo cerca di campare, di tirare avanti nella miseria in cui si trova, senza peraltro trovare la forza di cercarsi un lavoro, di cambiare in modo attivo la propria vita. Si sforza ogni tanto di interagire con gli altri, in particolare con familiari e amici, ma in realtà è distante da tutti e da tutto, come se abitasse su un altro pianeta. Spesso prova un senso di disgusto per la gente, le persone, l’umanità intera, che si manifesta con sorrisetti sarcastici e maligni, con atteggiamenti irritati e indisponenti. Si sente vuoto, arido, incapace di provare amore. Solo un sentimento sporadico di pietà per le creature “vittime” del mondo sembra ogni tanto risvegliarlo da tanta freddezza, ma come velocemente arriva altrettanto velocemente sparisce, facendolo affondare ancora di più nel pantano dell’insofferenza. Raskòlnikov trascina avanti in questo modo le sue giornate, fino a quando inizia ad avvertire dentro di sé un bisogno disperato e inappellabile di credere in qualcosa, di coltivare nella mente un’idea ardita, in modo da potersi affrancare dall’insopportabile stato di catatonia in cui è caduto. Ed ecco che comincia a farsi spazio nei suoi pensieri l’idea di compiere un delitto, che affonda le sue radici nella convinzione filosofica, ogni giorno sempre più forte e tenace, che al mondo esistano due categorie di uomini, quelli ordinari e quelli straordinari, dove i secondi hanno il diritto di autorizzare la propria coscienza a scavalcare la Legge, a compiere dei misfatti. Perché tutti gli uomini che sono riusciti a distinguersi nel corso della Storia – riflette Rodiòn – che sono arrivati a conquistare delle posizioni di grande prestigio e potere, come ad esempio Napoleone, hanno anche commesso dei massacri orrendi, hanno sacrificato migliaia di vite umane. E a questi assassini, una volta morti, gli hanno addirittura tributato degli onori, gli hanno eretto dei monumenti.



Raskòlnikov arriva quindi a convincersi che la sua impresa sarà proprio di questo tipo, ossia poggerà su tali motivazioni idealistiche, fino a quando il destino gli darà l’occasione di agire, di entrare in azione. E l’occasione si presenta ben presto nelle sembianze di una vecchia usuraia, uno dei tanti pidocchi che inquinano la società con la loro dannosa presenza. Ma sempre lo stesso destino gli pone di fronte un imprevisto nel giorno scelto per l’assassinio, facendogli trovare nell’appartamento della vecchiaccia anche la sorella della stessa. L’ex-studente si trova così costretto a compiere un duplice delitto, ma da quel momento ogni cosa precipita perché il suo cuore non riesce a trovare più pace. Quando guarda dentro di sé vede infatti solo i cocci di un sogno infranto: invece di un’azione napoleonica, atroce e grandiosa, si rende conto di aver commesso un crimine sordido e meschino. E quindi prende consapevolezza di essere lui stesso un pidocchio, ancora più immondo e schifoso della vecchia che ha ucciso. Nel suo cuore scende così un gelo profondo che lo isola ancora di più dagli altri, dal resto del mondo. Febbri ricorrenti, deliri onirici e un’insostenibile spossatezza lo stressano fino allo sfinimento, e a nulla serve l’affetto dell’amico Razumichin, che rappresenta la sua controparte onesta e sensata, o quello di Sonja, la giovinetta dal cuore pietoso e immenso, costretta a prostituirsi per aiutare la numerosa famiglia indigente. E sarà proprio Sonja la prima ad accogliere la sua confessione dell’assassinio, indicandogli da subito la via dell’unico e possibile riscatto. Sonja è la sola che lo può salvare, perché con tutto quello che ha patito è diventata agli occhi di Rodja il simbolo delle vittime del mondo, e oltretutto gli ricorda anche la figura della mite e innocente sorella dell’usuraia, che forse più di ogni altra cosa continua a pesargli sulla coscienza.

Ma quello di Raskòlnikov non è vero rimorso. L’unico rimpianto che sente è quello di aver fallito la prova, di aver ceduto alla debolezza, di non essere stato all’altezza di un vero Napoleone. Anche se si dispera, anche se ha il timore di essere scoperto e mente in continuazione, anche se delira e perde quasi la ragione, non prova comunque rimorso dentro di sé. Quando alla fine si costituisce alle autorità è solo perché è diventato conscio del proprio fallimento: se avesse davvero creduto a quella teoria, all’idea che lo aveva inizialmente spinto ad uccidere, non avrebbe poi sofferto così tanto e non si sarebbe comportato in modo da destare sospetti. Alla sua confessione finale contribuisce anche la spinta amorevole di Sonja, che con la sua presenza misericordiosa gli appare come un ultimo appiglio per non affondare completamente nel baratro. Rodiòn vive un fugace istante di pentimento solo quando si inginocchia, piangendo, per baciare la terra, ma una redenzione vera e propria non c’è. E questo, spiega Citati, è l’unico finale possibile, perché nel romanzo non c’è segno della presenza divina o della provvidenza. Nessuno protegge i miserandi, gli infelici e gli afflitti, nessuno cerca di fare qualcosa per alleviarne le sofferenze. Il mondo di Dostoevskij è vuoto, cupo, misero, dolorante, senza alcuna speranza. Il lieto fine viene assicurato, in minima parte e in modo paradossale, dal malvagio Svidrigajlov, che compie inaspettatamente un’azione buona. Quasi a compensare, seguendo il percorso opposto, la caduta rovinosa di Raskòlnikov nel male più assoluto. Mentre la fede sostenuta da Sonja, che è l’unica a crederci fino in fondo, appare come un puntino luminoso e lontano, raggiungibile solo attraverso delle enormi sofferenze.
Non c’è quindi speranza di riscatto in Raskòlnikov, ma solo la consapevolezza della propria debolezza e quindi la convinzione, alla fine, di non dover meritare la libertà. Una consapevolezza suggerita anche dall’immagine della steppa deserta e sconfinata di un freddo mattino siberiano, che però con la sua luminosità sembra annunciare la possibilità di una rinascita, di una nuova vita. La quale, grazie al finale che rimane aperto, si intuisce possibile sebbene ancora lontana.

Straordinarie le pagine in cui Raskòlnikov, ancor prima della confessione definitiva, viene interrogato a più riprese dal giudice Porfirij Petrovič, perché sono stracolme di un’ambiguità deliziosa. Qui Dostoevskij si è proprio divertito, visto che sembra di assistere alla messinscena di una commedia tragicomica. All’inizio la figura di questo giudice ci viene dipinta in modo buffo, quasi grottesco: un ometto tondo come una palla che rimbalza da un lato all’altro della stanza, che parla e parla in continuazione saltando da un argomento all’altro, spesso strizzando gli occhi e ammiccando o lasciandosi andare a delle sonore risate… Ma poi, procedendo nella lettura, ci rendiamo conto che Petrovič non è per nulla un buffone e che sotto tale maschera cela già delle convinzioni molto gravi e penose sul conto di Raskòlnikov. Semplicemente attende, come il gatto col topo, il momento propizio per farlo uscire allo scoperto. Tra i due si instaura una vera e propria partita a scacchi, dove le mosse difensive di uno si sforzano di mantenere un freddo controllo di fronte ai sospetti sempre più assodati e palesi dell’altro. E’ un vero e proprio balletto danzante, godibilissimo a leggersi, che procede fino alla sfinimento e che riserva delle sorprese anche nell’ultimo istante. I ruoli dei due personaggi ad un certo punto infatti si ribalteranno, spingendo Raskòlnikov a prendere una decisione definitiva.


Ma non sono solo i protagonisti principali a colpire l’immaginario del lettore. Ci sono dei personaggi di contorno descritti in modo talmente spettacolare che non possono fare a meno di imprimersi nella memoria. Come ad esempio il ritratto caricaturale di Katerina Ivànovna, la moglie tisica dell’ubriacone Marmeladov, che si lamenta continuamente della sua vita ingrata torcendosi le mani dalla disperazione. E che nonostante la miseria in cui versa con la sua famiglia, cerca spesso di darsi un tono decoroso davanti alla gente, magari vantandosi di aver ballato da giovane davanti al governatore o distribuendo elogi eccessivi a chi le appare degno di rispettabilità. Ma il senso del grottesco di Dostoevskij raggiunge il culmine quando ci descrive il comportamento di questa donna durante il pranzo funebre del marito, dove prima si butta in una serie di monologhi vantandosi di questo e di quello e poi inizia a sbeffeggiare la sua padrona di casa fino a litigarci. Tremenda anche la scena dove l’autore ce la mostra in giro per le strade di Pietroburgo, mentre costringe i figlioletti piagnucolanti e tremanti a cantare e recitare davanti ai passanti per muoverli a pietà e carità, sempre pronta a batterli se non fanno quello che lei ordina… Una messa in scena del vittimismo talmente ridicola e pittoresca, oltre che dolorosa e straziante, che alla fine non si sa bene se ridacchiare o provare sgomento. Provate a leggere queste pagine, poi mi direte l’impressione che vi hanno fatto.

Altrettanto scenografico il ritratto mefistofelico di Svidrigajlov, che fin dalla sua prima comparsa ci appare come il non plus ultra della turpitudine umana. Grande peccatore, reo di colpe gravissime, non può comunque fare a meno di affascinare per quel suo modo di fare scaltro e disinvolto, per l’intelligenza penetrante e arguta, per l’eloquenza sinuosa e intrigante. Con lui l’immoralità sembra quasi un pregio, la volgarità trova uno stile, la corruzione dell’animo appare quasi un vizio attraente, anche se in realtà tutto questo nasconde una perdizione ben più grave e totale che non offre scampo. “Se Raskol’nikov fa il male per un partito preso ideologico, Svidrigajlov lo fa per sadismo”, spiega Citati, perché “egli vive nella terra ghiacciata del Male Assoluto: ne è un abitatore consueto, un signore, un principe; e il male riempie fino all’orlo la sua forma interiore.” Ed è straordinaria la capacità di Dostoevskij di introdurci in queste zone così oscure e inquietanti, che poi in fondo sono anche le nostre, quelle dell’umanità intera, anche se con gradi e tonalità diverse. Il fatto paradossale è che questo contorto personaggio è anche l’unico che compie, come già anticipato, un atto buono. Lasciandoci in questo modo storditi e perplessi, ancora più attratti dalla sua complessa personalità. Ma perché lo fa? Certamente non per bontà, visto che è un sentimento di cui non sospetta neppure l’esistenza, e neppure per un pentimento improvviso, per un’insolita presa di coscienza. Forse lo fa – spiega di nuovo Citati – perché nemmeno il male, in fondo, riesce a soddisfarlo; “né il libertinaggio, né il gioco, né la trivialità quotidiana, né i più atroci delitti possono colmare il suo animo. Dietro i gesti gratuiti, dietro le parole eleganti e volgari, egli è un uomo totalmente e disperatamente vuoto, che cerca invano degli stimoli per sentirsi vivo.” E non trovandoli, questi stimoli, né quando si rivolta nel sudiciume più totale né quando tenta di affacciarsi al primo spiraglio di luce, l’unica soluzione che alla fine gli resta è quella dell’annientamento definitivo.

Che altro dire di quest’opera meravigliosa? Se non l’avete ancora letta, leggetela.
Non importa se ne conoscete già la trama per sentito dire o perché avete appena letto la mia analisi, visto che le emozioni sono in ogni caso garantite. E poi merita anche per il fatto che, pur calandosi nel buio dell’animo umano, l’autore non si pone l’obiettivo di fare appello alla morale comune, di formulare dei giudizi o di tracciare la via giusta. Perché le cose, nel modo in cui ce le presenta ed espone, alla fine si giudicano da sé, o meglio spetta a noi lettori farcene un’opinione, un’idea personale. Dostoevskij preferisce limitarsi, come un astuto e invisibile burattinaio, a muovere solo i fili dei personaggi sulla scena: li fa esultare, soffrire e scontrare fra loro, li fa prevaricare sugli altri o subire delle angherie, ma non prende mai partito per uno o l’altro. A lui interessa farci vedere com’è fatto l’Uomo in generale – ossia “come siamo fatti” – con tutto il relativo corredo di qualità, difetti e contraddizioni. Nella loro globalità, chi in un modo o nell’altro, tutti i suoi personaggi infatti ci rappresentano, non solo per il fatto che passano con facilità dall’esaltazione all’abbattimento, dalla sicurezza alla paura, dalla fede al dubbio, ma anche perché a volte nascondono sotto un’apparenza bonaria delle mostruosità, e altre volte invece celano dietro una condotta intrigante degli sprazzi di impensabile bontà. Perché questa, in fondo, è la reale natura dell’animo umano, sempre impegnata in una lotta perenne tra tendenze opposte e diverse, sempre arrabattata su quel confine così sottile che divide il bianco dal nero, il positivo dal negativo, la luce dal buio. Ed è veramente un attimo, ne converrete anche voi, scivolare da una parte all’altra.

Nota: nell’edizione esaminata la traduzione è di Alfredo Polledro e la prefazione è di Natalia Ginzburg. Le foto inserite nell’articolo sono state tratte dal film “Crime et châtiment” (titolo originale: Prestuplenie i nakazanie), di Lev Kulidzhanov (1969).



francescofeola ha detto:
6 luglio 2015 alle 10:23
Sulla morale…
Ho letto ‘Delitto e castigo’ diversi anni fa, ma ricordo ancora distintamente la fortissima identificazione emotiva che si instaurò tra me e il giovane studente universitario Raskol’nikov.
Grazie alla straordinaria capacità di Dostoevskij nel descrivere il travaglio interiore (nel quale certo consiste il vero ‘castigo’) del suo protagonista dopo il ‘delitto’ (per riuscirci altrettanto bene o devi aver ucciso o devi essere Dostoevskij!) ho potuto provare sulla mia pelle cosa si prova a uccidere, per di più a sangue freddo e per di più una vittima così inerme e vulnerabile, così sola. Ho vissuto gli stessi struggenti sensi di colpa di Rodja, lo stesso orribile travaglio interiore mi attanagliava l’animo nei momenti che subito seguivano la lettura, appena chiudevo il libro e tornavo alla mia quotidianità. E, in un certo senso, ho provato anche il bisogno di espiare questa colpa, di purificarmi per un delitto che non avevo commesso, ma che in qualche modo avevo vissuto attraverso il mio avatar di carta.
Ecco: credo che proprio in questo risieda l’insegnamento morale di un’opera letteraria il cui protagonista non è certo un santo, anzi – come in questo caso – è un brutale assassino. Ma che è pur sempre, suo malgrado, un essere umano.



gabrilu

Il mondo (anche quello dei lettori) è vario. 
Delitto e Castigo è il mio romanzo di D. preferito, seguito a ruota da “I demoni”. 
(Su I Karamazov e L’Idiota preferisco non pronunciarmi).
D&C: letto due volte (forse tre?), ad anni di distanza, prima o poi lo rileggerò.
Mi è sempre piaciuto perché ha una struttura interna di un equilibrio perfetto a differenza, mi permetto sommessamente di dire, di altre opere di D., magari anche più apprezzate.
In D&C non c’è niente di superfluo, tutto quello che è scritto ha proprio da esserci (e non sempre, con D., le cose vanno in questo modo…).
E poi la storia mi piace perché Raskolnikov è un essere umano, anche troppo umano, perché la partita con Porfirij Petrovič è assolutamente strepitosa. Perché in questo romanzo effettivamente e per fortuna di misticismo c’è ben poco 🙂, perché la descrizione della Pietroburgo estiva non solo è formidabile, ma è anche assolutamente funzionale alla storia di Raskolnikov… Insomma, per me D&C è un romanzo perfetto [...]. 
Io ho sempre pensato [...] non solo che D. aveva un grandissimo talento teatrale, ma che sarebbe stato un grandissimo autore di teatro. Anche di teatro lirico: certe sequenze dei suoi grandi romanzi sembrano aspettare solo la musica del melodramma.
Ha preferito la narrativa, e dunque io mi devo accontentare di godermi le “scene madri” teatrali che, comunque, in tutti i suoi romanzi per fortuna non mancano mai.


Alessandra

[...] la sfida tra Raskolnikov e Porfirij Petrovič, giocata su una tensione psicologica che non ha eguali, o alla platealità di certe sceneggiate, che in effetti sarebbero perfette per dei melodrammi teatrali. 




Nessuno

Ciao Alessandra, ti consiglio di leggere il saggio di Pasolini, oltre a quello di Citati; potresti trovare ulteriori spunti di riflessione, in particolare sul rapporto duale che vi è tra la madre di Raskol’nikov e l’usuraia. A mio giudizio si tratta del motore silenzioso dell’intero romanzo che, non a caso, si apre con la morte della strozzina e si chiude con la morte della madre. La cosa che amo di più di Fëdor è proprio la sua capacità di nascondersi tra le pagine e, a volte, di comunicare emozioni e pensieri non solo con quello che scrive, ma anche e soprattutto con quello che non scrive. Una qualità rarissima che impreziosisce i suoi libri e che fa sì che essi chiedano di essere riletti ogni volta che lo sguardo si posa su di essi.




Alessandra
Allora, se non ho capito male, Pasolini tendeva ad interpretare l’intera vicenda alla luce del complesso edipico freudiano: proverò a cercare il suo saggio in rete, sperando sia reperibile





Renza
Non ho dimenticato- come dice francescofeola- l’ orrore sulla pelle dei delitti.
Anch’io considero questo romanzo compatto e compiuto, ma non saprei scegliere tra questo e i Karamazov, fluviale e terribile, che non lascia scampo e che richiama sempre. Diversamente da Dragoval, non ho apprezzato ” L’ idiota” , la cui struttura mi è parsa divagante e a volte oziosa. In ogni caso, davanto al Nostro alzo le mani…





Alessandra
Il fatto è che esistono per nostra fortuna degli scrittori straordinari, che al di là della trama, che in se stessa può essere anche banale, sono in grado di risucchiarti nell’essenza stessa dell’opera narrativa, quasi da farti provare le stesse emozioni dei protagonisti. E per me Dostoevskij è proprio uno di questi.  [...] Di Citati intendo leggere altro e di più, e ti dirò che avevo già adocchiato La colomba pugnalata, prima però attendo l’ispirazione per iniziare la Recherche. Che per ora, ahimè, non arriva.









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