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martedì 26 gennaio 2016

I giapponesi chiedono sempre SCUSA, anche quando sanno di non avere torto. E' parte del concetto di 謙遜 (kenson), ovvero della modestia, la capacita' di abbassare il capo per domandare perdono. Lo scopo, spesso, e' solo quello di calmare l'interlocutore in modo tale da impostare successivamente una comunicazione piu' serena durante la quale spiegare con garbo le proprie ragioni o investigare, senza animosita', il punto di vista dell'altro. Si tratta di una tecnica che i giapponesi hanno sviluppato nei secoli per rendere piu' armonioso il loro rapporto interpersonale.

Federico Ceccacci (utente fb):
Sono stanco di ripetere sempre le stesse cose, se vi interessa andate a Tokyo, posate i vostri smartphone (non sono solo loro che li usano) e parlate con le persone. Facile parlare da straniero, imparate il Giapponese e fermatevi a parlare con la gente. Non sono così alienati come li descriviamo, sono socievoli e sociali, è bellissimo vivere a Tokyo, e non solamente per la città, ma per la gente. Io sono stato accolto da tutti e ripeto tutta gente che parlava, pochissimi persone sono chiuse nei loro psicosi, probabilmente le stesse persone in tutto il mondo. Ho parlato e riso con tutti dai bambini che vanno a scuola da soli la mattina (dai 3 anni già si possono permettere di andare a scuola soli, proprio perché tutti sono disposti ad aiutare il prossimo e i bambini possono fare affidamento sulla collettività) ai giovani nei locali notturni o ristoranti, o semplicemente per strada (i giovani escono molto a Tokyo e nonostante il problema dei palpeggiamenti in metro, risolto con vagoni per sole donne ad una certa ora, molte ragazze si possono permettere di andare in giro sole, con minigonne e tacchi alti) agli anziani, simpaticissimi e gentili, sempre pronti a parlati inglese poiché con la guerra mondiale sono stati costretti ad impararlo dopo l'invasione americana. Detto questo non dico che nn ci sono problemi, non sto parlando del paradiso in terra, dico semplicemente che guardiamo e parliamo troppo del Giappone come una Nazione dove le persone sono problematiche; purtroppo a mio avviso è demonizzare un paese troppo diverso dal nostro culturalmente e così lontano da non poter essere confutate le voci che ne parlano male. Guardiamo bene prima di tutto il nostro di paese, da noi i bambini ancora vengono accompagnati a scuola a 18 anni, da genitori con SUV da 50.000€ nonostante la crisi e l'inquinamento. i giovani sono chiusi nei loro telefonini, ignoranti fino all'osso e quasi tutti incivili nei confronti della collettività. I vecchi invece sono emarginati dallo stato (che li insulta con pensioni da 300€) e dalla popolazione che molto spesso li considera un peso, non considerando il patrimonio culturale con portano con se. Non ho parlato ovviamente delle Tasse e Crisi (che stanno portando a suicidi di padri di famiglia) e dell'immigrazione che ha portato una delinquenza a livelli allarmanti. chi ha il coraggio di girare solo di notte? Buona notte e vi lascio con una preghiera di visitare Tokyo, ma senza guida, da viaggiatori con la mente aperta.



Perché in Giappone i bambini vanno a scuola a piedi da soli

https://youtu.be/e5k5XTZy0rA




In Giappone, sui mezzi di trasporto si vedono spesso bambini che si spostano tra i vagoni, da soli o in piccoli gruppi, in cerca di un posto a sedere. Indossano calzettoni al ginocchio, scarpe di vernice e pullover a quadri, hanno cappelli a tesa larga legati sotto il mento e l’abbonamento della metropolitana attaccato allo zainetto. Bambini di sei o sette anni che vanno da casa a scuola, o viceversa, senza il controllo di un adulto.

In una famosa trasmissione televisiva intitolata Hajimete no otsukai (La mia prima commissione), si vedono bambini di due o tre anni che vengono mandati fuori casa per sbrigare delle commissioni per la famiglia. Mentre provano a raggiungere il fruttivendolo o il panettiere, i loro progressi sono filmati di nascosto da una troupe televisiva. La trasmissione va in onda da più di 25 anni.

Kaito, un dodicenne di Tokyo, da quando ha nove anni prende il treno da solo per andare da una casa all’altra dei suoi genitori, che hanno l’affido condiviso. “All’inizio ero un po’ preoccupato”, ammette, “mi chiedevo se sarei riuscito a prendere il treno da solo. Ma solo un po’”.

Adesso è facile, dice. Anche i suoi genitori all’inizio erano in apprensione, ma non hanno cambiato idea perché secondo loro il figlio era grande abbastanza e molti altri bambini lo facevano già senza correre alcun rischio.

“A dire il vero, all’epoca ricordo di aver pensato che i treni fossero sicuri, arrivavano in orario ed erano facili da prendere, e che lui è un bambino intelligente”, dice la nuova moglie del padre di Kaito. “Quando ho cominciato a prendere il treno da sola ero più piccola di lui”, ricorda la donna. “Ai miei tempi non avevamo il cellulare, ma riuscivo comunque ad andare dal punto A al punto B con il treno. Se si dovesse perdere può sempre chiamarci”.

Da cosa dipende questo insolito livello di indipendenza? In realtà non si tratta di autonomia, ma di “dipendenza dal gruppo”. È questa l’opinione di Dwayne Dixon, antropologo culturale che ha scritto la sua tesi di dottorato sui giovani giapponesi. “I bambini giapponesi imparano presto che, in teoria, ci si può rivolgere a qualsiasi persona della comunità per chiedere aiuto”, dice.

Questo presupposto è rafforzato a scuola, dove i bambini a turno puliscono e servono il pranzo. Così “la fatica è ripartita tra diverse persone e le aspettative ruotano, e al tempo stesso tutti quanti sanno, per esempio, cosa significa pulire un gabinetto”, afferma Dixon.

La donna non permetterebbe mai a un bambino di nove anni di prendere da solo la metropolitana a Londra o New York. A Tokyo invece sì

Assumendosi la responsabilità degli spazi condivisi, i bambini sviluppano l’orgoglio di esserne responsabili e capiscono in modo concreto quali sono le conseguenze se fanno disordine, poiché dovranno pulire da soli. Questa etica si estende in senso lato agli spazi pubblici (ecco perché le strade giapponesi di solito sono così pulite). Un bambino in giro per la città sa di poter contare sul gruppo in caso di emergenza.

I pedoni hanno la precedenza
Il Giappone ha un tasso di criminalità molto basso, e questo di sicuro contribuisce a spiegare perché i genitori si sentono tranquilli a mandare fuori casa i bambini da soli. Tuttavia, spazi urbani di dimensioni proporzionate e una propensione culturale agli spostamenti a piedi e con i mezzi pubblici sono anche fattori determinanti nel favorire la sicurezza e, cosa forse altrettanto importante, la percezione della sicurezza.

“Gli spazi pubblici sono decisamente migliori. Spazi a misura d’uomo, che contribuiscono anche a tenere sotto controllo il flusso e la velocità”, sottolinea Dixon. Nelle città giapponesi la gente è abituata ad andare a piedi e i trasporti pubblici hanno la meglio sulla cultura dell’automobile: a Tokyo la metà degli spostamenti avviene su rotaia o in autobus, un quarto a piedi. Gli automobilisti sono abituati a condividere la strada e a dare la precedenza a pedoni e ciclisti.

La nuova moglie del padre di Kaito dice che non permetterebbe mai a un bambino di nove anni di prendere da solo la metropolitana a Londra o New York, a Tokyo invece sì. Questo non significa che nella metropolitana di Tokyo non si corra alcun rischio. Il problema dei palpeggiamenti ai danni di donne e ragazzine, per esempio, dal 2000 ha contribuito all’introduzione di carrozze solo per donne su alcune tratte della metropolitana. Eppure molti bambini in città continuano a prendere la metro per andare a scuola e a sbrigare commissioni nel quartiere senza essere sorvegliati.

Dandogli questa libertà, i genitori ripongono una grande fiducia non solo nei figli, ma nell’intera comunità. “Tanti bambini in tutto il mondo sono autonomi”, osserva Dixon. “Ma secondo me la cosa che più affascina gli occidentali in Giappone è il senso di fiducia e cooperazione che esiste, spesso tacito e non richiesto”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su The Atlantic.

http://www.internazionale.it/notizie/selena-hoy/2016/10/06/giappone-bambini-scuola






I giapponesi chiedono sempre SCUSA, anche quando sanno di non avere torto. E' parte del concetto di 謙遜 (kenson), ovvero della modestia, la capacita' di abbassare il capo per domandare perdono. 
Lo scopo, spesso, e' solo quello di calmare l'interlocutore in modo tale da impostare successivamente una comunicazione piu' serena durante la quale spiegare con garbo le proprie ragioni o investigare, senza animosita', il punto di vista dell'altro. Si tratta di una tecnica che i giapponesi hanno sviluppato nei secoli per rendere piu' armonioso il loro rapporto interpersonale. 
E se si ha torto bisogna scusarsi chinando il capo profondamente, senza produrre 「言い訳」, inutili "scuse".
Qualcosa che, per ovvie ragioni, risulta di difficile comprensione agli occidentali. Una spiegazione piu' approfondita su 
http://www.lauraimaimessina.com/giapponemonamour/chiedere-scusa-o-della-forma-%EF%BC%88%E4%B8%8A%EF%BC%89-2/



L’estetica giapponese, di Bianca Trovò

Estratto dell’intervento Estetica giapponese (II parte), Un’analisi a partire dalla poesia haiku, pubblicato su L’Osservatore n. 9, Aprile 2013, (Osservatorio dell’Asia Orientale).

Nella lingua giapponese, a differenza dalle lingue indoeuropee soprattutto, viene valorizzato ciò che è secondario, marginale e periferico secondo i nostri parametri di sintassi: a precedere gli elementi principali della frase sono infatti i cosiddetti “modificatori del nome”, ovvero gli attributi, i complementi di specificazione, gli avverbi e le proposizioni relative. Per fare un esempio (tratto dalla Grammatica Giapponese Scalise-Mizuguchi) una frase come “stava piovendo quando arrivarono gli studenti” ha come costrutto giapponese “studenti (gli) arrivarono quando pioggia (la) cadendo”. Gli aggettivi, inoltre, sono solo qualificativi e labile è il loro confine con i verbi: possono essere coniugati nel presente/futuro “certo” o “incerto” e nel passato “certo”o “incerto”. Esistono aggettivi di sentimento che si comportano in modo diverso al presente quando il soggetto non è in prima persona (in tal modo si sottolinea la soggettività della proposizione). Il complemento oggetto ha sempre una posizione centrale nella frase. Tutte queste caratteristiche conferiscono ricchissime sfumature proprio a quegli aspetti degli enunciati che a noi risultano “scontati” nel linguaggio e che siamo vincolati a costruire componendo altre parti del discorso (basti pensare al fatto che il giapponese dispone di una forma suppositiva “con qualche fondamento”, “senza fondamento” o “basata su ciò che si vede”), oltre al fatto che la peculiare disposizione delle parole nella frase, con la sua rigidità strutturale, implica una diversa sequenza di immagini che si costituisce a livello rappresentativo. Come nelle stampe giapponesi dal taglio fortemente fotografico, che trascura la centralità prospettica di molta pittura accademica occidentale, anche nelle evocazioni imagistiche dell’haiku, lo “sguardo” è obbligato ad indugiare sul particolare impressionisticamente pennellato, l’attenzione sposta il fuoco sul dettaglio periferico che normalmente uscirebbe fuori dal riquadro dell’obiettivo o dalla dignità narrativa se non per esigenze puramente descrittive. Ma nella poesia haiku nulla è descrittivo: “il respiro del mondo” è colto in 17 sillabe di toccante bellezza, distillato di “eternità” le cui uniche coordinate spazio-temporali sono affidate al valore di un verso, di una parola, kijo, l’evento che dà il colore naturalistico del contesto. L’intuizione esteticasi produce come frutto di un’illuminazione dai tratti quasi religiosi, propri di quell’atteggiamento mistico del buddhismo Zen (satori) in cui il poeta-soggetto, ungarettianamente “docile fibra dell’universo”, riesce a scomparire lasciando lo spazio concettuale e visivo alla decantazione dell’oggetto. Alcuni esempi di haiku::

春雨や降るとも知らず牛の目に
harusame ya furu to mo shirazu ushi no me ni

pioggia di primavera:
riflessa negli occhi bovini
che non la vedono

青し青し若菜は青し雪の原
aoshi aoshi wakana wa aoshi yuki no hara

nei campi di neve
verdissimo il verde
delle erbe nuove

(Konishi Raizan,1650-1722)

行く春や鳥泣魚の目は泪
yuku haru ya tori naki uo no me wa namida

la primavera parte:
pianto tra gli uccelli e lacrime
negli occhi dei pesci

(Matsuo Bashō, 1644-1694)

Ulteriori effetti di senso sono dovuti alla struttura fonetica della lingua giapponese, che permette alliterazioni, assonanze, onomatopee o sillabe tagliate unicamente fini a sé stesse, come il kireji 切れ字, una sorta di pausa fonica (ad es. ya e kana, rispettivamente a fine del primo e dell’ultimo verso) che determina una “cesura del senso”, costituendo quel “vuoto nella percezione estetica” mirabilmente ricercato dalle poetiche ermetiste del primo Novecento:

あさましや蟲鳴く中に尼ひとり
asamashi ya mushi naku naka ni ama hitori

tristezza:
tra le voci degli insetti
una monaca sola

(Ikenishi Gonsui 1650-1722)

鐘消えて花の香は撞く夕哉
kane kiete hana no ka wa tsuju yube kana

sera:
tra i fiori si spengono
i rintocchi di campana

(Matsuo Bashō, 1644-1694)

Un altro aspetto fondamentale, oltre alla frammentarietà discorsiva, è l’incredibile indeterminatezza dei componimenti accompagnata all’ambiguità di una lingua che non possiede genere e numero, né l’infinito ma ha un unico tempo per il passato e che si apre talvolta a molteplici interpretazioni, a letture fluide e mai cristallizzate. La poesia haiku (“poesia di cose e non di idee”) si presta dunque ad incarnare le fondamentali categorie estetiche tradizionali della cultura giapponese i cui presupposti concettuali sono già linguisticamente adombrati: il mono no aware (“pathos delle cose” 物の哀れ derivante dalla percezione della loro transitorietà) che denuncia una profonda sensibilità per la dimensione emotiva ed affettiva della vita anche nelle sue piccole manifestazioni. La realtà nello Zen è percepita come un flusso continuo senza dicotomie tra vero/apparente: la sola realtà è l’“impermanenza” (mujo 無常), a cui si può avere accesso coltivando con l’immaginazione il fascino misterioso della profondità allusiva del mondo, che rimanda sempre a dimensioni di naturalità superiore (lo yūgen, la grazia profonda) o accettando con “serena malinconia a ardore spirituale” la semplice, austera bellezza (wabi-sabi 侘寂) delle imperfezioni, della non integrità e non finitezza delle cose. “Nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto” o per dirlo con uno slogan: “il perfetto è ripetibile, ma l’imperfetto è perfetto”. Un esempio di yūgen nell’haiku:

春なれや名もなき山の薄霞
haru nare ya na mo naki yama no asagasumi

È primavera:
una collina che non ha nome
velata nel mattino

(Matsuo Bashō, 1644-1694)

http://cinquesettecinque.com/2016/01/27/estetica-giapponese-di-bianca-trovo/

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