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lunedì 15 giugno 2015

Natsume Soseki. Io sono un gatto. I funzionari pubblici sono al servizio della popolazione e possono venire considerati dei rappresentanti che hanno ricevuto un certo potere per risolvere una serie di problemi. Peccato che a forza di esercitare le loro funzioni al riparo della loro autorità, alla fine si montino la testa e credano di possederla definitivamente,questa autorità, senza che i cittadini abbiano diritto alcuno di interferire.

[,,,] come tutti i bravi studenti italiani si sciroppano I promessi sposi, cinque maggio e la colonna infame (o eventuali riassunti sparsi su internet), in Giappone da piccoli ti propinano wagahai wa neko de aru e bocchan, poi alle superiori kokoro diventa un passaggio obbligatorio. [,,,] Natsume Soseki incarna l’apertura del Giappone all’Occidente e al mondo, un cambiamento veloce ed estremamente traumatico. [,,,]  a sinistra i Giapponesi doc che si suicidano in coerenza con lo spirito delle cose (mononoke no aware, un concetto non solo prettamente intraducibile, ma anche solo parzialmente comprensibile a chi giapponese non è), a destra chi si suicida perchè il Giappone del bel tempo antico non c’è più, dopo avertelo fatto presente per 400 pagine e più. [,,,] Poi, nella contemporaneità, gli scrittori tendono ad occidentalizzare lo stile e i contenuti (quando proprio non si svendono) e di giapponese rimane solo questa spiccata tendenza ad essere malinconici SEMPRE, tristi spesso, suicidi quasi sicuramente. [,,,] Personalmente, consiglierei Il cuore delle cose / anima (in originale il titolo è kokoro) per approcciarsi a questo scrittore. Scritto in età più avanzata, Kokoro innanzitutto presenta una struttura e un tipo di narrazione più simili a quelli occidentali rispetto ad io sono un gatto (o a guanciale d’erba, che nella prima edizione Neri Pozza senza note di sorta è un SUICIDIO per chiunque non abbia una conoscenza più che approfondita dell’arte e la letteratura giapponese) e una storia vera e propria, o almeno storia come la intendiamo qui in Occidente, ovvero una serie di causa-effetto-causa-effetto-causa-effetto che portano allo sviluppo di una vicenda con un inizio e una fine. Concetti praticamente assenti nella letteratura antica giapponese, in cui si procedeva per palinsesti. [,,,] Il problema di Kokoro è che venne scritto da Soseki poco dopo la morte tragica della figlia, in un periodo in cui nelle sue opere la vicinanza con la morte è piuttosto intensa e percepibile. Nel romanzo, i protagonisti non hanno nome, la storia è quantomai vaga e priva di particolari, l’unica certezza che permea tutto è che qualcuno è morto e qualcuno morirà.  [,,,]

Wagahai wa neko de aru dei tre è sicuramente quello più lieve ed ironico (infatti lo fanno leggere agli alunni delle elementari/medie inferiori). Vi stoppo subito; la gattofilia è relativa, non è che il nostro Natsume è il gattaro antelitteram che fa le gif letterarie del suo micino. Il gatto fornisce al narratore un punto di vista (POV) che gli permette di essere anche abbastanza spietato con il vasto campionario di esseri umani che osserva e descrive. Suonerebbe anche un po’ pretesuoso, se non fosse che il più vessato, il protagonista, è la versione appena un po’ più caricaturale dell’autore stesso. Il problema è che le numerose visite che Kushami riceve tendono ad essere veramente lunghe e descritte minuziosamente. I suoi amici, il cacciaballe patentato Meitei in primis, conservano quel gusto tutto giapponese per il racconto di storielle piene di facezie e twist un po’ malinconici ma che si protraggono per pagine e pagine. Inoltre ci sono lunghe descrizioni di abitudini e oggetti occidentali che ai tempi poteva anche essere utili, ma per voi, adesso, costituirebbero quasi certamente motivo di sbadiglio.
https://gerundiopresente.wordpress.com/2012/06/06/approfondendo-natsume-soseki/


Natsume Sōseki (1867-1916) viene unanimemente considerato come il più grande scrittore del Giappone moderno, maestro riconosciuto di Tanizaki, Kawabata e Mishima. Tra le sue opere oltre a "guanciale d'erba" ricordiamo: Io sono un gatto, Il viandante, Erba lungo la via

"Guanciale d'erba" narra di un giovane artista, pittore e poeta, che si avventura per un ameno sentiero di montagna di un piccolo villaggio giapponese.
Lungo il cammino, in un'atmosfera incantata, incontra viandanti solitari, contadini, paesani, nobili a cavallo e ogni specie d'umanità, finché, sorpreso dalla pioggia, si rifugia in una piccola casa da tè tra i monti. Qui, dalla dolce voce della vecchia tenutaria, apprende la storia della fanciulla di Nakoi, che ebbe la sfortuna di essere desiderata da due uomini e andare in sposa a quello che lei non amava. Il giorno in cui partì, il suo cavallo si arrestò sotto il ciliegio davanti alla casa da tè, e dei fiori caddero qua e là, come macchie sul suo candido vestito…Come un viandante qualsiasi, col suo guanciale d'erba (insieme, il cuscino di chi va per il mondo e una grande metafora del viaggio di ogni uomo alla ricerca di se stesso), l'artista raccoglie questa e altre meravigliose storie lungo il suo peregrinare, semplicemente per ubbidire al suo modesto e sublime compito: "rasserenare il mondo e arricchire il cuore degli uomini".




Guanciale d'erba è un romanzo dello scrittore giapponese Sōseki Natsume.
Fu pubblicato per la prima volta nel 1906.

Guanciale d'erba narra di un giovane artista, pittore e poeta, che si avventura per un ameno sentiero di montagna di un piccolo villaggio giapponese. Lungo il cammino, in un'atmosfera incantata, incontra viandanti solitari, contadini, paesani, nobili a cavallo e ogni specie d'umanità, finché, sorpreso dalla pioggia, si rifugia in una piccola casa da tè tra i monti. Qui, dalla dolce voce della vecchia tenutaria, apprende la storia della fanciulla di Nakoi, che ebbe la sfortuna di essere desiderata da due uomini e andare in sposa a quello che lei non amava. Il giorno in cui partì, il suo cavallo si arrestò sotto il ciliegio davanti alla casa da tè, e dei fiori caddero qua e là, come macchie sul suo candido vestito…Come un viandante qualsiasi, col suo guanciale d'erba (insieme, il cuscino di chi va per il mondo e una grande metafora del viaggio di ogni uomo alla ricerca di sé stesso), l'artista raccoglie questa e altre meravigliose storie lungo il suo peregrinare, semplicemente per ubbidire al suo modesto e sublime compito: "rasserenare il mondo e arricchire il cuore degli uomini".
https://it.wikipedia.org/wiki/Guanciale_d%27erba





«Succeda quel che deve succedere», mi dico, e mi abbandono all'acqua, m'identifico con la calda sorgente. Lasciarsi trasportare dalla corrente è il modo meno penoso di vivere.


Salivo per un sentiero di montagna e riflettevo.
Se si usa la ragione il carattere s'inasprisce,
se si immergono i remi nel sentimento si e' travolti.
Se s'impone il proprio valore ci si sente a disagio.
E' comunque difficile vivere nel mondo degli uomini.
Quando il malessere di abitarvi s'aggrava,
si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile.
Quando s'intuisce che abitare è arduo,
ovunque ci si trasferisca, inizia la poesia, nasce la pittura.
Natsume Soseki, Guanciale d'erba






“Ciò di cui abbiamo paura, se considerato solo nel suo aspetto terrificante, può trasformarsi in follia.
 Le atrocità, se percepite come qualcosa distante da noi, diventano soggetto per un dipinto.
E’ proprio così che anche una delusione amorosa può trasformarsi in un soggetto artistico.
Diventa materiale letterario e artistico perché, superando la sofferenza dell’amore infranto, possiamo rappresentarcene obiettivamente il lato gentile, commovente, colmo di tenerezza e perfino di pathos.
Al mondo c’è chi di proposito si crea un inesistente amore infranto e assaporta voluttuosamente il piacere di tormentarsi. La gente lo definirebbe uno stupido, un pazzo. Ma chi ha tracciato di sua volontà un cerchio di infelicità in cui vive con piacere la sua vita giornaliera, è, nella sua libertà d’artista, perfettamente identico a chi, dipingendo, dipingendo un paesaggio inesistente, vi si rinchiude e ne gioisce come se fosse il paradiso.”
Natsume Sōseki, Guanciale d’erba


Quando riusciamo a guardare con obiettività, dimenticando completamente il nostro io reale, solo allora possiamo, come figure in un dipinto, conservare un legame armonioso con il paesaggio naturale. Ma nell'attimo in cui ci preoccupiamo dei disagi che ci procura la pioggia scrosciante e della stanchezza delle nostre gambe, non siamo più personaggi di una poesia. Ritorniamo ad essere gli ottusi, comuni uomini di sempre. Non notiamo il fascino delle nuvole e delle nebbie fluttuanti. Non affiora nel nostro animo alcun sentimento per i fiori che appassiscono e per gli uccelli che cantano. E ancora di più non intuiamo quanto noi stessi siamo belli mentre camminiamo malinconicamente solitari sulle montagne in primavera.
Natsume Sōseki, Guanciale d’erba


”Di conseguenza, sia nella natura, sia nelle umane cose…l’artista scopre innumerevoli gemme, infiniti tesori. Comunemente è ciò che è chiamato abbellimento poetico. In realtà non è un abbellimento. Quei fulgidi colori esistono da sempre nel mondo reale. Solo che la nostra vista è offuscata..inoltre è difficile liberarsi dai legami che avvincono alla mediocrità, e poi si è sempre angustiati dal timore di perdere la propria reputazione.”
Natsume Sōseki, Guanciale d’erba


"Eppure ha un talento d’artista.. Il suo animo è aperto come un sacco senza fondo.
Non vi s’accumula niente. Si muove agevolmente qua e là, agisce con spontanenità e nn sembra che nel suo essere si depositi il minimo pulviscolo. Se la sua mente riuscisse a concepire una pur infinitesimale idea artistica, egli si identificherebbe con il luogo in cui è, e anche orinando e defecando, continuerebbe ad essere un artista perfetto.”
Natsume Sōseki, Guanciale d’erba


Se si usa la ragione il carattere s’inasprisce, se si immergono i remi nel sentimento si è travolti.
Se s’impone il proprio volere ci si sente a disagio. È comunque difficile vivere nel mondo degli uomini.
Natsume Soseki, Guanciale d'erba


Dopo vent'anni di vita ho capito che vale la pena di abitare sulla terra. A venticinque anni ho intuito che la luce e l'ombra sono i lati opposti della medesima cosa, che il luogo illuminato dal sole viene sempre raggiunto dall'ombra. Ecco ciò che penso ora, a trent'anni: più profonda è la gioia più intensa è la tristezza, più grande è il piacere più acuta è anche la sofferenza. Se si tenta di separarli si perde se stessi. Se si prova a disfarsene crolla il mondo.
Natsume Sōseki, Guanciale d’erba



In tutti i piaceri è insita la sofferenza, perché traggono la loro origine dall’attaccamento alle cose. Solo i poeti e i pittori conoscono e gustano l’essenza fragrante di questo mondo di contrasti e intuiscono la sua intrinseca purezza. Si nutrono di nebbia, bevono rugiada, valutano i viola, commentano i rossi e, giunti alla morte, non hanno rimpianti. Il loro piacere non dipende dalla materia, e una volta divenuti materia non trovano nell’immenso Universo l’ambito in cui essere costretti a porre in risalto il proprio io. Hanno spontaneamente abbandonato i limiti angusti e fangosi, nel loro copricapo squarciato penetra l’infinita, azzurra tempesta.
Natsume Soseki, Guanciale d'erba , trad. di Lydia Origlia, Neri Pozza, 2005, pp. 76-77


Ricorda, la solitudine è il prezzo che dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così traboccante di libertà, indipendenza ed egoismo.
Natsume Soseki



Kokoro "( "Il cuore delle cose" o "Anima e cuore") - Natsume Soseki.
"Se la mia vicenda aiuterà te e altri a capire anche solo una parte di ciò che noi siamo, mi riterrò soddisfatto".


Natsume Soseki, "Kokoro "( "Il cuore delle cose" o "Anima e cuore") 
Sentii parlare di questo libro per la prima volta da una commessa di una libreria.
Io stavo scartabellando tra gli autori giapponesi in cerca di qualcosa da leggere.
Quella volta comprai "Guanciale d'erba", sempre di Soseki, perchè già mi ero prefissata di leggerlo. Ricordo però che la commessa, felice che qualcun'altro si perdesse tra i meandri della letteratura giapponese, si dilungò a parlarmi, quasi in stato d'estasi, di "Kokoro". Ed in effetti di tutti i libri giapponesi che ho letto, ritengo che "Kokoro" sia il libro giapponese per eccellenza. Infatti nonostante non si venga inondati da innumerevoli termini giapponesi, anche se ovviamente presenti, o da magnificenti ciliegi in fiore, tuttavia, per tutta la durata del libro, ci si ritroverà avvolti nell'atmosfera più profonda del Giappone, respirabile ad esempio nella consuetudine di eleggere un Sensei, nella mentalità buddista di alcuni personaggi, nel cordoglio estremo- che supera persino le preoccupazioni per una grave malattia personale- per la morte dell'imperatore e infine nella gentilezza e riservatezza tipici di questa popolazione.

Nel commentare questo libro vorrei soffermarmi innanzitutto sulla edizione a mia disposizione -Neri Pozza- perchè corredata, a mio avviso, da una magnifica prefazione - Soseki: la solitudine come arte - a cura di Gian Carlo Calza. Leggere questa accurata prefazione, che ha presentato in maniera approfondita ed umana la vita dell'autore,è stata un'esperienza straordinaria che mi ha aperto la mente riguardo all'esistenza e alle opere di Natsume.
Quella di Soseki è stata una vita segnata dalla solitudine fin dalla nascita. Soseki infatti era stato concepito ad Edo (precedente nome di Tokyo) nel 1867 da una coppia oltre i 40 anni. E fin qui, direte, nulla di strano. E invece, nel Giappone della seconda metà dell'800 avere figli oltre i 40 anni era considerato una grande vergogna. Per questo motivo Natsume fu allontanato e dato in adozione ad una coppia più giovane. Verrà poi riammesso in famiglia qualche anno dopo con la convinzione che a crescerlo fossero i suoi nonni e non i suoi "anziani" genitori. La vera identità dei suoi parenti gli sarà svelata in modo traumatico da una cameriera. Da quel momento in poi Natsume non avrà più nessuna fiducia nel genere umano. Ciononostante il suo atteggiamento non cadrà mai nell' autocommiserazione e sarà improntato invece all'ironia e alla più acuta osservazione del comportamento umano.

Soseki si laureò nel 1893 all'Università imperiale di Tokyo e successivamente passò alcuni anni di specializzazione in Inghilterra. Al suo ritorno in Giappone assunse la cattedra di letteratura inglese all'Università imperiale di Tokyo. Continuamente in lotta con la malattia (ulcera), lascerà la cattedra universitaria per dedicarsi a pieno alla scrittura e alla ricerca di se stesso. Mi piace il parallelismo che Calza ha voluto sottolineare per accostare Soseki, grande e celebrato scrittore della letteratura giapponese, ad un altro grande scrittore dell'800...
Dalla prefazione: "Gli parve che la sua malattia fosse la fonte del suo rinnovamento e prese ad amarla come veicolo della ritrovata serenità, un veicolo simile, riteneva, alle ricorrenti crisi di epilessia che Dostoevskij chiamava il "suo male sacro"... ".

Nonostante tutta la sua preparazione e i libri della sua produzione (Dalla prefazione: "La formazione fu lunghissima e la fioritura breve ma intensa come quella del ciliegio, simbolo del fascino e dell'impermanenza della beltà e della vita"), Natsume fu un uomo profondamente scosso dall'insicurezza e dalla paura di non riuscire a lasciare la sua impronta nella storia.

Ora, direte, perchè questo preambolo infinito sulla vita di Natsume?
Perchè senza conoscerne almeno parzialmente i fatti della vita, non si può comprendere a pieno la sua produzione letteraria né tanto meno quello che è considerato il suo capolavoro, "Kokoro" ossia proprio "Il cuore delle cose". Natsume forgerà infatti molti dei suoi personaggi proprio sulla sua persona. In "Il cuore delle cose", Natsume si rispecchia nel personaggio del riservato maestro cosi come già fece in "Io sono un gatto" dove la figura di Natsume si ritrova chiaramente nello sciatto e distratto professore che si è allontanato da ogni tipo di vita mondana.

Un altro tema caro allo scrittore, perchè evidentemente da lui vissuto, è il profondo senso di sconforto che colpì i giapponesi nel periodo successivo alla morte dell'imperatore Mutsuhito che ha segnato la fine del periodo Meji (in Giappone i periodi storici si basano sulla vita degli imperatori). Il successivo periodo, Taisho, fu caratterizzato infatti da una notevole apertura verso l'occidente. Molti giapponesi, Natsume compreso, soffrirono particolarmente il passaggio tra un periodo in cui le tradizioni hanno rappresentato il fulcro della società ed un periodo invece incentrato sulla modernità ed occidentalità. Sia in "Kokoro" che in "Io sono un gatto" sono frequenti i richiami alla morte dell'imperatore, al senso di profonda frustazione dei giapponesi ed ai numerosi "junshi" ossia ai suicidi di fedeltà con cui molti giapponesi decisero di seguire il proprio signore nella morte.

Dal romanzo: "Poi, nel pieno dell'estate, è morto l'imperatore Meji. Ebbi l'impressione che lo spirito dell'epoca Meji avesse avuto inizio con l'imperatore e fosse finito con lui. Fui sopraffatto dalla sensazione che io, come chiunque altro cresciuto in quell'epoca, fossi rimasto indietro, a vivere come un anacronismo."

E ancora:"Tu ed io apparteniamo ad epoche differenti, perciò la pensiamo in modo differente. E non possiamo fare niente, per gettare un ponte sul vuoto che ci separa."

Venendo più eplicitamente a "Il cuore delle cose".
(Prima di procedere nella lettura, avviso i lettori che ho spoilerato alcuni fatti del romanzo.)

Nel Giappone di un tempo era frequente che le persone scegliessero ed eleggessero "un maestro di vita" (Sensei) ovvero una persona dotata di autorità, esperienza e saggezza; non necessariamente un insegnante vero.. Ed è quello che fa il protagonista di questo romanzo. Egli riconosce il maestro al primo sguardo. Maestro che per altro non sarà particolarmente loquace e manterrà inizialmente un silenzio assoluto sulla sua storia personale e sulla sua vita. Il giovane discepolo riuscirà a strappare al maestro solo la promessa che un giorno lo metterà a conoscenza dei fatti della sua vita.
Tuttavia questo legame sarà forte, più forte forse proprio in virtù delle cose non dette. Si può amare/stimare una persona anche per le cose non dette? Evidentemente si.

"A me erano più utili i suoi discorsi che non le lezioni all'Università; ero più grato al suo pensiero che non alle idee dei miei insegnanti. Intendo dire che consideravo più importante il maestro, benchè per difendere la propria intimità non parlasse molto..."

La vita del maestro è costellata di tanti episodi negativi che l'hanno portato ad essere pessimista verso l'umanità in generale. Da ciò la sua riservatezza e l'alone di mistero che lo circonda.
Il protagonista tenterà diverse volte di dipanare la nebbia relativa al passato del suo maestro, ma lo stesso si opporrà in modo deciso alle sue domande fino al momento in cui con una lettera avviserà il discepolo dell'intento di morire. Il giovane, tanta era la stima per il Sensei, tenterà vanamente di raggiungerlo abbandonando addirittura il padre in punto di morte. Dalla lettera, quasi una confessione, si verrà a conoscenza del passato del maestro e si dipanerà il mistero che aleggiava sulla sua persona (di cui però non vi dirò nulla per non rovinarvi troppo la lettura!).

E così, se la prima e seconda parte del romanzo sono scritte in prima persona seguendo i pensieri del giovane discepolo, la terza è incentrata sulla lettera del maestro e quindi sul punto di vista del maestro stesso. Lo stacco tra i due punti di vista potrebbe, in un primo momento, sembrare eccessivo. Nella realtà è forse uno degli aspetti più belli dell'opera. Prima la presentazione del maestro e della sua riservatezza fatta con gli occhi del giovane che lo ama e poi la rivelazione del mistero che lo circonda fatta in prima persona in forma quasi testamentaria.
Un'altra particolarità di questo romanzo che salta subito all'occhio è che non compaiono nomi. I personaggi sono chiamati solo per appellativi, il maestro, la signora, la signorina; solo l'amico del maestro verrà appellato con un iniziale, K. Nonostante questo l'analisi psicologica dei personaggi è notevolmente accurata e profonda quindi posso solo supporre che il reale intento di Natsume fosse quello di trascurare volontariamente l'identità dei personaggi che vengono così a trasformarsi in archetipi.
Chiudo questa mia breve presentazione a "Kokoro", così come avevo fatto per aprirla, con un periodo pronunciato dal maestro. L'estremo periodo del libro che coincide con l'ultimo periodo della lettera del maestro al giovane discepolo.
"Vorrei che le cose del mio passato, sia quelle buone che quelle cattive, servano come esempio agli altri. Mia moglie è l'unica eccezione: desidero che non ne sappia niente. La mia prima volontà è che il ricordo di me rimanga, per quanto possibile, incontaminato nella sua mente. Fino a quando mia moglie vivrà, desidero che tu conservi come un segreto tutto quello che ti ho detto...perfino dopo la mia morte."
Quali siano le "cose del mio passato" e il "Tutto quello che ti ho detto" lo lascio ovviamente scoprire a voi! ;-)
http://doveosanolepoiane.blogspot.it/2015/11/kokoro-il-cuore-delle-cose-o-anima-e.html



"Nonostante il mio disprezzo per le donne, tuttavia, non riuscivo a rinvenire nel mio animo alcuna traccia, neppur minima, di dispregio verso la giovane fanciulla sotto il cui tetto abitavo. Sembrava che la ragione perdesse ogni dominio dinanzi a lei, e ogni logico favellare ammutolisse. Il mio amore per lei era prossimo alla devozione. Penserai che sia stravagante che io adoperi tale parola, avente una connotazione religiosa, per descrivere i miei sentimenti verso una donna. Tuttavia, anche ora, credo, e lo credo con assoluta fermezza, che il vero amore non sia poi così diverso dal trasporto religioso. Ogniqualvolta vedevo il viso della fanciulla, il tepore della sua bellezza pervadeva i miei sensi, trasfigurando in qualcosa di bello il mio stesso essere. Ogniqualvolta pensavo a lei, il contatto con la sua nobiltà elevava il mio spirito, conducendolo ad altezze per me inimmaginabili. Se questo indecifrabile fenomeno che noi chiamiamo amore può ritenersi costituito da due opposti poli, quello spirituale in grado di innalzare l’uomo alle celesti volte del divino, e quello materiale, che ne eccita unicamente la libidine dei corpi, allora il mio amore, senza dubbio alcuno, apparteneva al tipo più elevato. Non intendo dire che io non fossi come gli altri uomini. Anch’io ero assoggettato al dominio dei sensi. Eppure i miei occhi, nel mirarne la bellezza, e la mia mente, nel carezzare il pensiero di lei, erano puri da qualsiasi basso desiderio materiale".
Natsume Soseki, Kokoro


bunny chan said...
Io l'ho letto e devo dire che non mi è piaciuto poi molto, anche se rimane un libro molto poetico. Di Soseki il mio preferito è "kokoro" (in italiano "Il cuore delle cose" o "Anima" a seconda delle edizioni).



Io sono un gatto è un romanzo del 1905, il primo dello scrittore giapponese Natsume Sōseki, pseudonimo di Kinnosuke Natsume. In Italia ha avuto la sua prima edizione per Neri Pozza nel 2006.



"Preoccuparsi e farsi cruccio per la sorte di un perfetto estraneo non è nella natura umana. E'difficile pensare che gli uomini siano dotati di tanta comprensione e sollecitudine. Di quando in quando versano qualche lacrima e si mostrano addolorati per rispetto delle relazioni sociali,un tributo da pagare per essere nati nel consesso umano.In realta'e'tutta una finzione,una manifestazione di ipocrisia,arte che richiede un notevole impegno.
Ai simulatori piu'abili viene attribuita una forte coscienza artistica,e tutti li tengono in grande considerazione.
Ne consegue che coloro che godono di alta stima sono umanamente i piu'sospetti."
da "Io sono un gatto",Natsume Soseki,1905


Trama.
Un gatto abbandonato da cucciolo, si è introdotto in casa di Kushami, dove non è stato accolto con grande entusiasmo, al punto da non aver mai ricevuto un nome. La famiglia, composta da padre, madre, tre figlie ed una serva, non è affettuosa con lui, ma lo nutre e qualche volta il padrone lo accarezza, e questo gli basta per sentirsi "Il gatto" padrone di casa. Parla qualche volta con i suoi simili, come il Nero del vetturino e Micetta, che presto gli viene a mancare. Ma il suo passatempo preferito è quello di ascoltare i discorsi del suo padrone quando gli amici vanno a fargli visita.

Diventa così un gatto tuttologo, analizza il comportamento umano, si intende di storia, Grecia antica in particolare, letteratura, medicina e altro ancora.

La trama si snoda attraverso i problemi di Kangetsu, laureato in fisica, ex studente di Kushami che è un professore di inglese al liceo. Il giovane dovrebbe sposare Tomiko, figlia viziata dei coniugi Kaneda, i vicini di casa arroganti, ignoranti ma ricchi. Le visite di Kangetsu si alternano a quelle di altri amici, tra cui il burlone Meitei, l'uomo d'affari Sanpei, il poeta Tōfū e personaggi minori. Per difendere il giovane amico dalle mire della famiglia Kaneda il padrone del gatto subisce diverse angherie, che pesano molto al suo spirito poco accomodante e poco intraprendente, dagli insulti di sconosciuti alle molestie degli studenti del vicino liceo Le Nuvole Calanti.

Attraverso episodi che si intrecciano con la banale vita del suo padrone, il gatto esprime il suo pensiero in modo addirittura filosofico (ma dal punto di vista di un gatto, s'intende!), arricchendo il discorso con vere o presunte massime zen.
https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fit.wikipedia.org%2Fwiki%2FIo_sono_un_gatto&h=PAQH28ewY


Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l'ho.
Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo disperatamente in un posto umido e oscuro. È lì che per la prima volta ho visto un essere umano. Si trattava di uno di quegli studenti che vivono a pensione presso un professore - mi hanno poi detto - e che fra tutti gli uomini sono la specie più perversa. Si racconta che costoro ogni tanto acchiappino uno di noi, lo mettano in pentola e se lo mangino. Però in quel momento, non sapendolo, non ebbi paura. Provai soltanto un senso di vertigine quando lo studente mi mise sul palmo della mano e di colpo mi sollevò per aria. Appena ritrovai una certa stabilità lo guardai in faccia, era il primo individuo appartenente alla specie umana che vedevo in vita mia. Che creatura curiosa, pensai, e quest'impressione di stranezza la conservo tuttora. Tanto per cominciare il viso, invece di essere coperto di peli, era liscio come una teiera. In nessuno degli innumerevoli gatti che ho conosciuto in seguito ho mai riscontrato una tale deformità. Come se non bastasse, nel bel mezzo della faccia aveva una protuberanza esagerata. Con due buchi dai quali ogni tanto uscivano sbuffi di fumo. Mi sentii soffocare, stavo per svenire. Solo di recente ho saputo che era tabacco, una cosa che agli uomini piace fumare.

Me ne stavo comodamente seduto nel palmo della mano di questo studente, quando a un certo punto cominciai a spostarmi a una velocità incredibile. Non capivo se a muovermi fossi io o lui, fatto sta che mi girava la testa. Mi venne la nausea. Già pensavo che fosse giunta la mia ora, quando sentii un botto tremendo e vidi miriadi di stelle. I miei ricordi arrivano fin là, oltre quel momento, per quanto mi sforzi di rammentare, è il nulla. Quando tornai in me lo studente era scomparso. Dei miei numerosi fratelli non ne vedevo nemmeno uno. Anche della mia preziosa madre non c’era più traccia. Inoltre, cosa nuova per me che ero sempre stato al buio, c’era una luce accecante. Al punto che non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Dicendomi che tutto sembrava orribilmente strano, piano piano provai a strisciare in avanti, ma sentii un dolore terribile. Dalla paglia dove avevovissuto fino ad allora, all’improvviso ero stato preso e gettato in un boschetto di bambù. Quando con molta difficoltà riuscii a sgusciarne fuori, mi trovai di fronte a un grande stagno. Mi sedetti sul bordo e cercai di riflettere: cosa dovevo fare? Non mi veniva in mente nulla. Dopo un po’ebbi un’idea: forse se avessi pianto, lo studente sarebbe tornato a prendermi. Provai a miagolare un po’, ma non arrivò nessuno. Intanto una lieve brezza si era levata sullo stagno e il sole stava tramontando. Mi era venuta unafame tremenda. Volevo piangere, ma la voce non mi usciva. Non mi restava che mettermi alla ricerca di cibo, così cominciai a girare intorno allo stagno sul lato sinistro,deciso a camminare finché avessi trovato qualcosa da mettere sotto i denti. Il dolore era atroce. Tenni duro, e a fatica, strisciando, finalmente arrivai in un posto dove fiutai odore di esseri umani. Qui dentro qualcosa lo trovo, mi dissi, e da uno squarcio in una staccionata di bambù mi infilai nel giardino di una casa. Com’è strano il destino. Se quella staccionata non fosse stata rotta, è molto probabile che sarei morto di fame sul bordo della strada. Tutto, anche un incontro all’ombra di un albero, dipende dalla vita precedente, dice una massima molto giusta. Ancora oggi passo di là quando vado a trovare Micetta, la gatta di tre colori che abita nella stradina qui dietro.

Comunque sia, una volta intrufolatomi in quel giardino non sapevo più in che direzione avanzare. Ben presto calò il buio. Avevo fame, faceva freddo e alla fine si mise anche a piovere:   non   potevo   più   aspettare   nemmeno   un   secondo.   Mi   feci   coraggio   e   presi a camminare verso quello che sembrava un posto luminoso e caldo, avanti, sempre più avanti... Adesso so che a quel punto mi trovavo già all’interno della casa. E fu là che ebbi un’altra occasione di incontrare, dopo lo studente, delle creature appartenenti alla razza umana. La prima fu O-san, la serva, che appena mi vide mi afferrò per la collottola, in modo ben più brutale dello studente, e mi buttò fuori. Sono spacciato, pensai, e chiusi forte gli occhi affidandomi al Cielo. Ma resistere oltre alla fame e al freddo era impensabile, aspettai che O-san si distraesse e per la seconda volta mi intrufolai in cucina. Dopo pochi minuti eccomi di nuovo buttato fuori. Ogni volta che venivo cacciato, tornavo a infilarmi dentro casa e viceversa, ricordo una sequela di quattro o cinque tentativi falliti. A quel punto questa O-san mi era diventata antipaticissima. Poco tempo fa mi sono vendicato rubandole un luccio, e finalmente mi sono tolto un peso dallo stomaco. L’ultima volta che stava per prendermi e buttarmi fuori comparve il padrone di casa, che veniva a chiedere il perché di tutto quel baccano. O-san si voltò verso di lui tenendomi per la collottola.«È questo gattino randagio che mi fa disperare», rispose, «ogni volta che lo caccio via, torna a infilarsi in cucina». Il padrone, arricciandosi i peli neri che aveva sotto il naso, indugiò qualche secondo a guardarmi.«Allora lascialo stare qui», disse poi, e se ne tornò da dove era venuto. Sembrava un uomo di poche parole. La serva, offesa, mi posò sul pavimento della cucina. Ed è così che alla fine decisi che quella sarebbe stata la mia casa. Il padrone non lo incontro spesso. Pare che sia un professore. Quando torna a casa da scuola si chiude nello studio fino a sera e ne esce raramente. I suoi familiari sono convinti che sia un grande studioso. Lui stesso si atteggia a grande studioso. In realtà lo è molto meno di quanto i suoi credano. Ogni volta che vado a passi felpati a sbirciare, per lo più lo vedo dormire. Di tanto in tanto una bava gli cola sul libro che tiene davanti a sé. È debole di stomaco e presenta i sintomi tipici della dispepsia: colorito giallognolo, pelle spenta,poco   elastica...   Ciononostante   mangia   enormi   quantità   di   cibo.   E   dopo   aver mangiato enormi quantità di cibo prende il takadiastase per lo stomaco. Poi apre un libro.Ne legge due o tre pagine e gli viene sonno. Gli colano bave sul volume aperto. Questa è la sua routine quotidiana. Io sono soltanto un gatto, però ogni tanto rifletto. Non c’è niente di più comodo che fare il professore. Se mai rinasco uomo, diventerò professore, è deciso. Un lavoro che permette di dedicare tanto tempo al sonno, chiunque è in grado di svolgerlo,anche un gatto. Eppure a sentire lui pare che non ci sia mestiere più duro al mondo e non fa che lamentarsi con gli amici che vengono a trovarlo.Quando sono venuto a vivere in questa casa, a parte lui, tutti erano molto scontenti della mia presenza. Dovunque andassi, venivo scacciato e nessuno si occupava mai di me. Il fatto che ancor oggi non abbia un nome mostra quanto poco sia apprezzato. Non potendo porre rimedio a questa triste situazione, cercavo di tenermi il più vicino possibile al mio padrone, che mi aveva permesso di restare nella sua casa. Il mattino, quando leggeva il giornale,   mi   mettevo   sempre sulle   sue   ginocchia,   e   quando   faceva   il   sonnellino pomeridiano, gli salivo sulla schiena. Questo non perché provassi una particolare simpatia per lui, ma non avendo altri protettori non potevo fare diversamente. Ora l’esperienza mi ha insegnato a stare il mattino sopra il contenitore del riso, la sera sotto il kotatsu, e nelle belle giornate nella veranda. Però la cosa che più mi piace, quando si fa notte, è infilarmi nel futon delle bambine più grandi e dormire con loro. Hanno rispettivamente cinque e tre
anni,   e   la   sera   dormono   in   due   nello   stesso  futon.   In   mezzo   a   loro   trovo   sempre un posticino dove sistemarmi, ma se per disgrazia una delle due si sveglia, sono guai. Foss’anche in piena notte, si mettono subito a strillare - «c’è il gatto, c’è il gatto!» - e la più piccola è la più cattiva. Svegliano quell’isterico malato di stomaco del mio padrone, che dalla stanza accanto si precipita dalle figlie. Solo pochi giorni fa mi ha picchiato fortissimo sul sedere con un righello.Vivendo con gli esseri umani, più li osservo più mi sento di poter affermare che sono degli egoisti. Mi riferisco soprattutto alle bambine con le quali a volte dormo: sono inqualificabili. Quando gli salta il ticchio mi fanno stare a testa in giù, mi infilano il muso in una busta di carta, mi lanciano per aria, mi chiudono nel forno. In compenso, al minimo sgarro da parte mia, tutta la famiglia unisce le forze per darmi la caccia e infliggermi qualche castigo. L’altro giorno, soltanto perché mi sono affilato un po’ le unghie sui tatami, la padrona è andata su tutte le furie e ora non mi lascia più entrare nelle stanze. Lo vede bene che sul pavimento di legno della cucina tremo di freddo, ma se ne infischia. La gatta che vive nella casa di fronte, Bianca, per la quale ho il massimo rispetto, ogni volta che ci incontriamo mi dice che gli uomini sono le creature più perfide che esistano. Poco tempo fa ha messo al mondo quattro perle di gattini. Il terzo giorno il suo padrone li ha presi tutti e quattro ed è andato a buttarli nello stagno dietro casa. Questa storia Bianca me l’ha raccontata fra le lacrime, e quando ha smesso di piangere ha detto che noi gatti, per poter avere una bella vita di famiglia e allevare con amore i nostri figli, dovremmo dichiarare guerra al genere umano e sterminarlo. Penso che abbia davvero ragione. Inoltre Micetta, la gatta di tre colori, sostiene indignata che gli uomini non hanno il senso della proprietà. Da sempre fra noi gatti vige un patto: chi trova per primo una cosa, che sia la testa di una sardina essiccata o le interiora di una triglia, ha il diritto di mangiarla. E se qualcuno non rispetta questa regola, la parte lesa è autorizzata a ricorrere alla violenza. Loro invece, gli umani, pare che questo principio non lo conoscano, perché ci portano via sistematicamente ogni cosa buona che troviamo. Avvalendosi della loro forza, non si fanno scrupoli a rubarci il cibo che ci appartiene di diritto. Bianca vive in casa di un militare, mentre Micetta ha un padrone   avvocato.   Io,   che   abito   presso   un   professore,   su   questo   argomento   sono più ottimista di loro due. Finché riesco a tirare avanti giorno per giorno, mi accontento. Gli umani,   per quanto   forti,   non   saranno   in   auge   per   sempre.   Meglio   attendere tranquillamente l’ora dei gatti. A proposito di prepotenza, vorrei raccontarvi della figuraccia che ha fatto il mio padrone proprio  a causa del suo carattere egoista. Sostanzialmente non è mai riuscito a eccellere in nulla, eppure prova sempre a cimentarsi in tutto. Compone haiku (1) e li manda alla rivista Hototogisu(2), invia poesie in stile moderno a Myojo (3), scrive prosa inglese infarcita di errori, a volte si esercita nel tiro con l’arco, o nella recitazione di canti no (4), o ancora prende il violino e ne cava suoni stridenti, ma purtroppo non ottiene risultati decenti in nessuna di queste attività. Ciononostante, con tutto il suo mal di stomaco, ogni volta che si applica a qualcosa si infervora oltre misura. Declama i canti no nel gabinetto, tanto che i vicini lo
http://docplayer.it/8957914-Natsume-soseki-io-sono-un-gatto.html



Tanto tempo fa c'era tra i suoi parenti un uomo molto vecchio; quando è morto, al mio padrone è stato chiesto di trasferirsi per qualche tempo nella sua abitazione per tenerla d'occhio.
In seguito, quando ha messo su casa per conto proprio e ha lasciato quella del vecchio, probabilmente ha portato con sè, senza riflettere, quel braciere cui era tanto abituato da considerarlo proprio.
Non è stata un'azione del tutto corretta.
Tuttavia questo genere di cose al limite della correttezza avviene di frequente nella nostra società.
Le banche ad esempio, a forza di prendere ogni giorno in consegna il denaro dei clienti, a poco a poco finiscono per considerarlo proprio.
I funzionari pubblici sono al servizio della popolazione e possono venire considerati dei rappresentanti che hanno ricevuto un certo potere per risolvere una serie di problemi.
Peccato che a forza di esercitare le loro funzioni al riparo della loro autorità, alla fine si montino la testa e credano di possederla definitivamente,questa autorità, senza che i cittadini abbiano diritto alcuno di interferire.
Dal momento che la società è piena di persone di tal fatta, non c'e'ragione di giudicare il mio padrone un ladro solo perché si è tenuto il braciere.
Se lui ha disposizione al furto, ogni uomo al mondo ce l'ha.
Natsume Soseki, Io sono un gatto, 1905



...non capisco, nonostante il mio acume, a cosa serva tutto ciò. Se lo sapessi potrei reagire in qualche modo, ma prendere botte così, senza un motivo, mette in difficoltà sia la padrona che me le dà, sia me che le prendo. Non avendo ottenuto per due volte il risultato desiderato, il mio padrone, un po' irritato, insiste: "Dagli una botta che lo faccia miagolare, ti dico!" "E cosa ci guadagni, dopo averlo fatto miagolare?" chiede la moglie con aria annoiata, dandomi un colpo un po' più forte. Benché non sappia quale sia lo scopo del padrone, se basta che pianga per farlo contento, posso anche piangere. La sua stupidità è davvero perniciosa, se voleva farmi miagolare, bastava che lo dicesse, non aveva bisogno di ricorrere a sistemi tanto brutali. Né io ho bisogno che mi si ripetano le cose due o tre volte. Perché dare l'ordine di colpirmi, se lo scopo era un altro? L'atto di picchiare dipende da lui, ma la decisione di miagolare dipende da me. È stato molto scorretto da parte sua includere nel suo ordine qualcosa che esula dai suoi poteri, dando per scontato che io obbedissi.
Gli umani per quanto forti non saranno in auge per sempre. Meglio attendere tranquillamente l'ora dei gatti.
Natsume Soseki, Io sono un gatto, 1905



Natsume Sōseki, Io sono un gatto.
Il padrone, che non fiatava da qualche minuto, non volendo essere da meno a quel punto interviene:
«Anche a me è successo qualcosa», dichiara.
«A te? Cosa è successo a te?» fa Meitei, che non tiene il mio padrone in alcun conto.
«E anche a me alla fine dell'anno».
«Strano che a tutti sia successo qualcosa alla fine dell'anno», ride Kangetsu. Sul dente davanti rotto gli è rimasto attaccato un pezzo di mochi.
«E nello stesso giorno alla stessa ora, scommetto», incalza Meitei.
«No, il giorno non credo che fosse lo stesso. Credo che fosse il ventidue. Mia moglie mi aveva chiesto, come regalo di Capodanno, di portarla a sentire Settsu Daijō. Non avendo motivo di rifiutare, le ho chiesto cosa recitasse quel giorno e lei, consultato il giornale, ha risposto: "Unagidani". Poiché Unagidani non mi piace, ho deciso che ci saremmo andati un'altra volta. Il giorno dopo mia moglie porta di nuovo il giornale e mi fa: "Oggi danno Horikawa, ci andiamo?" Ho rifiutato un'altra volta: Horikawa è tutto basato sul suono dello shamisen, è troppo frivolo, non ha sostanza. Lei s'è allontanata delusa. Il terzo giorno mi ha annunciato che davano Sanjūsangendō. "Voglio assolutamente sentire Sanjūsangendō recitato da Settsu. A te può anche non piacere, ma visto che è un regalo per me, per favore accompagnami", ha insistito per l'ultima volta. "Se ci tieni tanto, andiamo pure", le ho detto, "ma ci sarà una gran folla perché hanno annunciato che è l'ultima recita di Settsu, e presentandoci così senza prenotazione non riusciremo a trovare posto. Per entrare l'unico modo è andare nella casa da tè adiacente e da lì negoziare per ottenere dei posti convenienti. Senza rispettare questa prassi e ignorando le regole, non si riesce a entrare, quindi mi dispiace, ma oggi non se ne fa nulla". A quel punto mia moglie si è arrabbiata: "Io sono una donna e queste cose difficili non le capisco, ma la madre del signor Ōhara e Kimiyo, la figlia dei Suzuki, sono andate e hanno avuto degli ottimi posti, anche senza fare tutta questa trafila. Stai veramente esagerando, non hai alcun bisogno di fare tante storie, anche se sei un professore" e aveva già il pianto nella voce. "Allora andiamo", ho detto, "anche se rischiamo di non trovare posto. Prima ceniamo, poi raggiungiamo il teatro con il tram". "No, dobbiamo essere lì per le quattro, quindi non c'è tempo da perdere". Improvvisamente era piena di energia. Quando le ho chiesto perché bisognava essere lì così presto, mi ha ripetuto quello che le aveva detto Kimiyo, che se non si arrivava con molto anticipo non si poteva entrare. "Allora dobbiamo assolutamente essere lì per le quattro?" ho insistito. "Sì, esatto", mi ha risposto lei. In quel momento è successa una cosa strana: sono cominciati i tremori».
«Tua moglie si è messa a tremare?»
«Mia moglie? No, io. Mia moglie era in perfetta forma. Tutt'a un tratto ho avuto l'impressione di sgonfiarmi di colpo come un palloncino bucato, ho visto tutto nero e non riuscivo più a muovermi».
«Un malore repentino», commenta Meitei.
«Sì, una cosa tremenda. Per una volta all'anno che mia moglie mi chiedeva qualcosa, volevo a tutti i costi accontentarla. Non faccio che sgridarla o non risponderle, o criticarla per come amministra le nostre finanze. Lascio che si occupi sempre lei delle bambine e non l'ho mai ricompensata, nemmeno una volta, per tutta la pena che si dà. Quel giorno per fortuna avevo un po' di tempo, e quattro o cinque banconote nel borsellino. Potevo portarla da qualche parte. Lei voleva uscire, e io ci tenevo a farla contenta. Davvero. Ma come potevo salire su un tram con quei brividi, e senza vedere nulla? Non riuscivo nemmeno a infilarmi le scarpe... Più continuavo a dirmi "quanto mi dispiace, quanto mi dispiace", più i tremori aumentavano e meno ci vedevo. Ho pensato che se avessi consultato subito il medico e mi fossi fatto prescrivere un farmaco, forse ce l'avrei fatta a guarire per le quattro, così mi sono consigliato con mia moglie e ho mandato a chiamare il dottor Amaki. Ma il dottore era di guardia all'ospedale universitario dalla sera prima e sarebbe tornato solo alle due, ci è stato detto, appena fosse rincasato sarebbe subito corso da noi. Un bel guaio. Se avessi potuto prendere un infuso di noccioli d'albicocca sarei sicuramente guarito per le quattro, ma quando la sfortuna ci si mette tutto va storto, la mia gioia al pensiero di vedere una volta tanto il sorriso sul viso di mia moglie sembrava destinata a svanire. Mi ha chiesto risentita se veramente non me la sentivo di andare. "Ci andiamo, stai tranquilla, ci andiamo", le ho detto. "Per le quattro vedrai che starò bene, quindi non ti preoccupare. Vai pure a lavarti la faccia e a cambiare kimono, poi aspettami". Dentro di me però ero in preda a una profonda agitazione. I tremori andavano aumentando e il senso di vertigine era sempre più forte. Se per le quattro non fossi stato meglio e non avessi potuto mantenere la promessa, mia moglie, che è una donna piuttosto meschina, chi sa che reazione avrebbe potuto avere! Ero in una situazione terribile. Non sapevo cosa fare. Poi mi è venuto in mente che in quanto marito, finché ero ancora nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, era mio dovere spiegare a mia moglie le leggi e le vie dell'incostanza e della caducità delle cose umane. L'ho fatta venire nel mio studio. Quando è arrivata le ho detto: "Benché tu sia una donna, penso che tu sia a conoscenza di quel proverbio inglese che dice: many a slip, twixt the cup and the lip", ma lei è andata su tutte le furie. "Cosa vuoi che ne sappia di quella roba lì, di quelle frasi scritte in orizzontale! Lo fai apposta a usare l'inglese anche se sai benissimo che non lo capisco, per prendermi in giro. Bravo! Se ti piace tanto l'inglese, perché non ti sei sposato una di quelle ragazze che hanno studiato alla scuola cristiana? Non ho mai conosciuto una persona senza cuore come te!" Così mi è passata la voglia di mettere in atto i miei buoni propositi. Come voi comprenderete, non avevo usato l'inglese con intenzione malevola. Era stato il sincero amore per mia moglie a farmi uscire di bocca quella frase, perciò la sua interpretazione distorta mi ha disorientato. Inoltre la mia mente cominciava a offuscarsi a causa dei tremiti e delle vertigini, e nella fretta di spiegarle in blocco le ragioni dell'incostanza e della caducità delle cose umane provavo un forte affanno. Per questo mi era venuto spontaneo parlarle in inglese, dimenticando che lei non lo capisce. Ora mi rendo conto che ho fatto male, che è stato uno sbaglio in conseguenza del quale i tremiti sono aumentati e le vertigini pure. Mia moglie ha fatto come le avevo ordinato: è andata in bagno, si è svestita a metà, si è lavata e incipriata le spalle, poi ha tirato fuori dal cassettone un altro kimono e si è cambiata. Dopodiché si è messa in attesa, come chi è pronto a uscire in qualunque momento. Io ero sempre più nervoso. Ho guardato l'orologio nella speranza che arrivasse Amaki. Erano già le tre, mancava solo un'ora alle quattro. "Cominciamo ad avviarci?" ha chiesto mia moglie aprendo la porta dello studio e sporgendo dentro la testa. So che non si deve lodare la propria moglie, ma non mi è mai parsa così bella come in quel momento. La sua pelle, lavata accuratamente con il sapone, messa in risalto dall'haori di seta nera, splendeva. Sembrava brillare per ragioni sia materiali che spirituali, sia per il sapone che per il desiderio di ascoltare Settsu Daijō. Mi sono detto che dovevo assolutamente soddisfare quel desiderio e darle la gioia di portarla fuori. Rinvigorito da quella decisione stavo fumando, quando finalmente è arrivato il dottor Amaki. Proprio al momento giusto, come speravo. Gli ho descritto le mie condizioni e Amaki mi ha osservato la lingua, mi ha stretto le mani, mi ha dato qualche colpetto sul petto, qualche pacca sulla schiena, sollevato le palpebre, tastato la testa, poi per un po' ha riflettuto. "Dottore, sono in pericolo?" ho iniziato a dire, al che lui con molta calma fa: "No, no, non e niente di grave". "Uscire un po' non gli nuocerà certo, vero?" ha chiesto mia moglie. "Mah", ha risposto il dottore riflettendo di nuovo, "se non si sente troppo male..." "Sì che mi sento male", ho detto io. "Allora a ogni buon conto è meglio che le prescriva un tranquillante e una medicina da bere". "Qual è la sua impressione, dottore, può essere pericoloso?" ho chiesto. "No, non c'è assolutamente da preoccuparsi, non si deve innervosire", ha risposto Amaki, poi se n'è andato. Erano già le tre e mezzo passate. La serva è stata spedita a comprare le medicine. Si è precipitata fuori di corsa su ordine di mia moglie, e di corsa è ritornata. Mancava un quarto d'ora alle quattro. Ancora quindici minuti. E proprio in quel momento mi è venuta la nausea, che prima non avevo. Mia moglie ha versato la medicina in una tazza e l'ha posata davanti a me: l'ho presa in mano e ho fatto per bere, quando dal mio stomaco è uscito un rutto che pareva un grido di battaglia. Ho dovuto posare di nuovo la tazza. "Perché non bevi in fretta?" mi ha incalzato mia moglie. Già, dovevo bere in fretta e uscire in fretta per mantenere la promessa. Ho afferrato di slancio la tazza e stavo per portarla alle labbra, quando un altro rutto insopprimibile me l'ha impedito. E avanti così, ogni volta che volevo bere dovevo posare la tazza, finché a un certo punto la pendola del soggiorno ha suonato le quattro. Erano già le quattro. Bando agli indugi, mi dico, afferro ancora una volta la tazza ed ecco che succede una cosa strana. Una cosa davvero strana, sapete? Appena sono suonate le quattro, la nausea è sparita e sono riuscito a bere la medicina senza problemi. E verso le quattro e dieci ho capito che l'ottima reputazione del dottor Amaki è pienamente meritata: sia i tremiti alla schiena che il senso di vertigine si erano dileguati come per incanto, con mia grande gioia quel malore che credevo mi avrebbe costretto a letto era passato del tutto».
«Allora ci siete andati a teatro?» chiede Meitei con la faccia di chi non ha colto il punto essenziale della storia.
«Ci volevo andare, ma ormai erano le quattro passate, anche mia moglie pensava che non avremmo trovato posto, così abbiamo rinunciato. Se il dottor Amaki fosse arrivato un quarto d'ora prima, avrei potuto mantenere la promessa e lei sarebbe stata contenta, ma per una differenza di quindici piccoli minuti... che peccato! A ripensarci adesso, mi rendo conto che ho corso un grosso rischio».
Finito il racconto, il mio padrone per un po' assume l'atteggiamento di chi ha fatto il proprio dovere. Forse pensa di essere ormai in pari con i suoi amici.
«Sì, un vero peccato», commenta Kangetsu con il solito sorriso che mette in mostra il dente rotto.
È proprio fortunata, tua moglie, ad avere un marito premuroso come te», fa Meitei con finta innocenza, come parlando fra sé. Al di là degli shōji si sente la padrona schiarirsi la gola.
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