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sabato 7 marzo 2015

Ravel. Un banale incidente d’auto. Da quel momento qualcosa nella testa di Maurice comincia lentamente a scomparire, a svanire con sempre maggiore rapidità. Quel qualcosa è la memoria. Ravel inizia a perdere, a smarrire, a smarrirsi. Le prime cose che se ne vanno sono le parole. Non tanto le parole che cerca di leggere, ma quelle che cerca di scrivere: di alcune dimentica completamente il significato, tanto da doverlo cercare nel Larousse, altre diventano ideogrammi astratti, pure decorazioni grafiche prive di alcuna relazione con gli oggetti, i concetti, i sentimenti. Poi cominciano a fuggire via anche i suoni: Ravel li percepisce distintamente con l’udito, riconosce una nota sbagliata, una dissonanza, una stonatura, ma non riesce più ad associare un segno grafico ad un segno sonoro.


Joseph-Maurice Ravel (Ciboure, 7 marzo 1875)
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Tutto comincia con un incidente. Un banale incidente d’auto che non provoca morti e feriti, ma che crea nella mente di Ravel una sorta di abrasione, una cancellatura apparentemente invisibile. L’8 ottobre del 1932 [...] il taxi che sta portando il compositore al suo hotel di rue d’Athènes si scontra all’improvviso con un altro taxi. In apparenza niente di serio: “una contusione al torace, un paio di denti rotti, qualche taglio sul viso”.
Ma le ferite del corpo non sono niente di fronte alle ferite della mente. 
Da quel momento qualcosa nella testa di Maurice comincia lentamente a scomparire, a svanire con sempre maggiore rapidità. Quel qualcosa è la memoria. Ravel inizia a perdere, a smarrire, a smarrirsi. Le prime cose che se ne vanno sono le parole.
Non tanto le parole che cerca di leggere, ma quelle che cerca di scrivere
di alcune dimentica completamente il significato, tanto da doverlo cercare nel Larousse, altre diventano ideogrammi astratti, pure decorazioni grafiche prive di alcuna relazione con gli oggetti, i concetti, i sentimenti.
Poi cominciano a fuggire via anche i suoni
Ravel li percepisce distintamente con l’udito, riconosce una nota sbagliata, una dissonanza, una stonatura, ma non riesce più ad associare un segno grafico ad un segno sonoro
Come le parole anche le note scritte assomigliano sempre di più a grappoli di inchiostro, ad arabeschi armoniosi, ma inerti. Nella mente di Ravel si crea, nel giro di pochi anni, l’abisso della mancanza, una geografia fatti di vuoti, una storia popolata di assenze.
È in questa dimensione, la dimensione della mancanza, che sono nate del resto, le opere composte negli anni immediatamente precedenti l’incidente di rue d’Athènes: l’Alborada del gracioso, la Rapsodie espagnole, La valse e soprattutto il Concerto per la mano sinistra, vera e propria epitome realizzata del concetto di mancanza. La “radioscopia” di quest’opera, chiesta quasi rabbiosamente a Ravel da Paul Wittgenstein, il pianista austriaco al quale durante la guerra era stato amputato il braccio destro, rivela infatti un singolare rapporto con la dimensione della memoria. Come Restagno ha chiarito nella sua preziosa “anamnesi” la sostanza tematica del Concerto è costituita da una serie di “reperti” (citazioni, reminiscenze, evocazioni) che il compositore dispone in una sorta di museo privato della propria memoria smarrita. Come tutti i ricordi, anche questi sono incompleti, parziali, offuscati dalla nebbia, sommersi a metà nell’oblio. Insomma: mancanti.
Nelle pieghe di questa “scrittura dell’assenza” emerge così un dubbio radicale. E cioè che il Concerto per la mano sinistra non sia affatto un concerto “per”, bensì un concerto “senza”. Non cioè un concerto per la mano sinistra presente, ma un concerto per la mano destra mancante. E questa “mancanza” è, sic et simplicter, con un processo di identificazione brutale, la mancanza della memoria, la progressiva abrasione della facoltà di scrivere, di leggere, di ricordare.
Una lettura, questa, singolarmente vicina alle riflessioni sulla mancanza che si ritrovano negli scritti linguistici del fratello di Paul, Ludwig Wittgenstein. Nelle sue considerazioni sulla Grammatica dei giudizi di valore l’autore del Tractatus sostiene che la relazione tra il pensiero e il linguaggio sia fondata per l’appunto sulla regola della mancanza: la parola non è mai in grado di tradurre il pensiero nella sua completezza, anzi, è condannata a rendere l’incompletezza del pensiero. Questa “mancanza” non è per Wittgenstein di tipo difettivo, ma anzi rappresenta per l’appunto lo statuto che differenzia il linguaggio dal pensiero: “la mancanza – sintetizza il filosofo – è il senso del linguaggio nel suo tradurre il pensiero”. Una condizione, insomma, di carattere genetico che rappresenta la faccia linguistica di quella mancanza oscura, patologica, inquieta e sofferente di cui Ravel ha sofferto fino alla fine dei suoi giorni.
[…]

Guido Barbieri


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