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martedì 24 marzo 2015

Damnatio Memoriae. Stefano VII istituì il cosiddetto Sinodo del cadavere, un vero e proprio processo a carico dell’ormai defunto Papa Formoso. Con la celebrazione di questo rito processuale a carico di Formoso, Stefano VII si riprometteva di cancellare il suo predecessore dalla storia, di estinguerne il ricordo (extiguere nomen). Questa operazione distruttiva era chiamata damnatio memoriae: a quei tempi, era considerata un’operazione indispensabile per distruggere anche l’entità che sopravviveva al morto, una persecuzione raffinata, insomma. La sopravvivenza dopo la morte era legata alla “memoria” dei vivi verso i defunti. Riuscire a sopravvivere nella memoria, grazie alle proprie azioni illustri, voleva dire anche continuare a vivere dopo la morte. Cancellare i segni visibili della vita terrena, cioè la lapide, il nome inciso sui monumenti, le figure affrescate sui muri, voleva dire per i defunti distruggere il legame con la vita e precipitare nel nulla. Il processo a Formoso fu dunque celebrato per questo motivo: la presenza del cadavere indiceva i presenti al rifiuto, alla ripulsa profonda verso quella che è da sempre l’immagine terrificante del disfacimento.

La Damnatio Memoriae.
Letteralmente condanna della memoria, la “Damnatio Memoriae” nel diritto latino consisteva nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione totale di qualsiasi traccia potesse tramandarla ai posteri.
Era una pena particolarmente dura, riservata a coloro che venivano considerati ostili o nemici agli interessi di Roma.
La Damnatio Memoriae, cancellava ogni traccia dell’esistenza di queste persone, salvaguardando in tal modo l’onore della città, la pena risultava ancora più aspra se si pensa quanto valore attribuiva la società dell’epoca all’orgoglio di essere cittadino romano. La scarsità di fonti storiche, specialmente in epoca più antica, favoriva in molte occasioni l’efficacia di questa punizione.
A Roma questa pena veniva generalmente decisa e applicata dal Senato, e faceva parte di quelle sanzioni che potevano essere attribuite a personalità di spicco dell’Urbe. In primo luogo la Damnatio Memoriae prevedeva la “abolitio nominis”, ovvero la cancellazione del “praenomen” da tutte le iscrizioni, la distruzione di tutte le sue raffigurazioni, come pitture o statue, e il divieto di tramandare il suo “praenomen” in seno alla propria famiglia di appartenenza.
In alcune circostanze, dopo che il Senato approvava la sanzione, veniva eseguita la “rescissio actorum”, la rescissione degli atti, che consisteva nella completa distruzione di tutte le opere realizzate dal condannato nell’esercizio della propria carica, in quanto ritenuto un pessimo cittadino. Se tale sanzione veniva applicata qual’ora il condannato fosse ancora in vita, essa rappresentava una vera e propria morte civile.
In età imperiale, tale punizione subì una degenerazione lenta ma inesorabile, che andò a colpire anche dopo la loro morte persino la memoria degli imperatori spodestati o uccisi. In questo caso la cancellazione delle effigi indesiderate poteva avvenire anche sulle monete già coniate e già in circolazione.

Vediamo ora alcuni tra i più illustri personaggi che nella storia di Roma subirono la “Damnatio Memoriae”.
Tra gli imperatori, rigorosamente non in ordine cronologico, vale la pena ricordare Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo, Massenzio, Treboniano Gallo, Didio Giuliano, vi furono poi altri uomini e donne di spicco che subirono tale pena, come il braccio destro dell’imperatore Tiberio, Seiano, oppure la madre di Nerone, Agrippina, o ancora Geta, fratello di Caracalla che non esitò a farlo assassinare e a far si che se ne perdesse ogni traccia.

Dopo aver fatto assassinare il fratello Geta, l'Imperatore Caracalla lo fece eliminare in tutti i luoghi in cui era rappresentato come si può vedere da questo rilievo.
Dopo aver fatto assassinare il fratello Geta, l’Imperatore Caracalla lo fece eliminare in tutti i luoghi in cui era rappresentato come si può vedere da questo rilievo.



192 d.C.:  Terza congiura e assassinio dell'imperatore Commodo.
Commodo sopravvisse a ben due congiure. La prima (132 d.C.) nacque in ambito familiare falli per l'incapacità dell'esecutore che prima ancora di colpirlo disse "Qui c'è il pugnale che ti spedisce il Senato": le guardie personali dell'imperatore prontamente lo disarmarono, hi seguito mandanti ed esecutori furono messi a morte, mentre le personalità indirettamente coinvolte esiliate ) e poi fatte assassinare ). Anche la seconda falli in misero modo. Quella che riusci, la terza, vide il coinvolgimento diretto del Senato. I senatori avevano dalla loro parte la concubina preferita dell'imperatore, che lo avvelenò a cena. Commodo però si senti appesantito dalla cena e vomitò quanto ingerito, veleno compreso. La sera stessa si provvide a corrompere Xarcisso, maestro dei gladiatori, che strangolò l'imperatore. Il giorno seguente fu messa in giro la voce della morte improvvisa, e il Senato proclamò la damnatio memorine.

«Che il ricordo dell'assassino e del gladiatore sia cancellato del tutto. Lasciate che le statue dell'assassino e del gladiatore siano rovesciate. Lasciate die la memoria dell'osceno gladiatore sia completamente cancellata. Gettate il gladiatore nell'ossario. Ascolta o Cesare: lascia die l'onddda sia trasdnato con un gando. alla maniera dd ìiostri padri, lasda die l'assassino del Senato sia trasdnato con il gando. Più feroce di Domiziano, più turpe di Nerone, Ciò che ìia fatto agli altri, sia fatto a lui stesso. Sia da salvare invece il ricordo di dà è senza colpa. Si ripiistino gli onori degli innocenti, vi prego.» [Historia Augusta]

I congiurati trovarlo modo di nascondere abilmente l'omicidio facendo spargere la voce che l'imperatore fosse morto per un sopraggiunto ictus: la morte aveva pertanto evitato l'assassinio dei consoli designati progettato dall'imperatore che a sua volta, sempre a detta dei congiurati, avrebbe voluto assumere anche il consolato da solo. Viene offerta la porpora imperiale al Prefectus Urbi Publio Elvio Pertinace, che accetta solo quando vede il cadavere di Commodo. Ironia della sorte, due armi dopo l'imperatore Settimio Severo riabilitò la figura di Commodo, che passò dalla condizione di hoitis a quella di dimis (con tanto di di viniz zazione ).
http://storiaromanaebizantina.altervista.org/accadde-oggi-31-dicembre-406-d-c-attraversamento-del-reno-e-crollo-del-limes-renano/




La pena si protrasse anche in epoca medievale, particolare è il caso di Papa Formoso (816 circa – Roma, 4 aprile 896). Egli di fatto subì un processo post mortem, conosciuto come il Sinodo del Cadavere, con l’accusa di sacrilegio e abuso di potere, il suo cadavere fu riesumato, vestito con abiti pontifici e posizionato sul trono della sala del concilio, dove il suo successore (anche se il vero successore di Papa Formoso fu Papa Bonifacio che guidò la chiesa per soli 15 giorni), Papa Stefano VI l’avrebbe processato. A rispondere alle domande poste venne nominato un diacono. Al termine di questa farsa, il defunto Papa venne riconosciuto colpevole, e dopo il taglio delle tre dita usate per impartire le benedizioni venne trascinato e gettato nelle acque del Tevere.
http://romaeredidiunimpero.altervista.org/la-damnatio-memoriae/







Sinodo del cadavere – il processo più osceno, surreale e macabro della storia.

Il processo fu fatto al corpo in putrefazione di un Papa morto da mesi, estratto dalla tomba, rivestito, sistemato, fissato con i lacci a una poltrona, accusato, interrogato, condannato a morte, destituito, amputato e dato in pasto alla folla perché lo scaraventasse nel Tevere.
Il cadavere è quello di Papa Formoso ed il processo avvenne nella Basilica di San Giovanni in Laterano nel lontano gennaio 897.

Il periodo buio del papato.
Formoso fu eletto pontefice il 6 ottobre 891 e morì il 4 aprile 896. 
In questo periodo, definito il più “buio” della storia del papato, la Chiesa viveva un momento di debolezza e di impotenza nei confronti delle nobili famiglie romane e ducali della penisola. La continua ingerenza di queste casate influenzò per più di un secolo la salita dei pontefici come mai accadde nella storia. Ogni Papa di quest’epoca era, indissolubilmente, legato ai poteri locali italiani e stranieri che andavano sempre più accrescendo la propria influenza su Roma e sull’elezione stessa del successore di Pietro.

Prima dell’elezione di Formoso le due figure più potenti nella penisola erano quelle di Guido da Spoleto e Berengario del Friuli. Nello stesso periodo era sceso in Italia un altro pretendente al trono imperiale, il re dei Franchi, Arnolfo di Corinzia, al quale Berengario aveva giurato fedeltà. L’anno seguente il titolo reale italiano passò a Guido di Spoleto, avversario acerrimo sia di Arnolfo che ovviamente di Berengario, grazie all’appoggio di Papa Stefano VI.

Poche settimane dopo la solenne investitura di Guido, Formoso diventò vescovo di Roma. 
I rapporti fra Guido e Formoso non erano dei migliori, anzi, entrambi nutrivano astio l’uno nei confronti dell’altro. Formoso persuase Arnolfo a scendere nell’894 in Italia per liberarla dall’egemonia di Guido offrendogli la corona imperiale.

Quando Guido morì, lasciò contro il nemico il figlio Lamberto e la moglie Ageltrude. 
Nell’896 Arnolfo portò a compimento la sua campagna militare italiana e si fece incoronare imperatore da Formoso, il quale morì qualche settimana dopo. Gli successero Papa Bonifacio VI, che morì dopo sole due settimane (il secondo pontificato più breve della storia), e, infine, Papa Stefano VII.

Quest’ultimo fece riconoscere Lamberto imperatore visto la grande influenza che la famiglia degli Spoleto aveva presso il nuovo Papa e molte famiglie romane.
Sotto la pressione di Lamberto e Ageltrude, Stefano VII istituì il cosiddetto Sinodo del cadavere, un vero e proprio processo a carico dell’ormai defunto Papa Formoso.
Con la celebrazione di questo rito processuale a carico di Formoso, Stefano VII si riprometteva di cancellare il suo predecessore dalla storia, di estinguerne il ricordo (extiguere nomen).
Questa operazione distruttiva era chiamata damnatio memoriae
a quei tempi, era considerata un’operazione indispensabile per distruggere anche l’entità che sopravviveva al morto, una persecuzione raffinata, insomma. La sopravvivenza dopo la morte era legata alla “memoria” dei vivi verso i defunti. Riuscire a sopravvivere nella memoria, grazie alle proprie azioni illustri, voleva dire anche continuare a vivere dopo la morte. Cancellare i segni visibili della vita terrena, cioè la lapide, il nome inciso sui monumenti, le figure affrescate sui muri, voleva dire per i defunti distruggere il legame con la vita e precipitare nel nulla.
Il processo a Formoso fu dunque celebrato per questo motivo: la presenza del cadavere indiceva i presenti al rifiuto, alla ripulsa profonda verso quella che è da sempre l’immagine terrificante del disfacimento.

Il Concilio Cadaverico
Per l’occasione fu allestito un apposito trono. 
Una sorta di tribunale d’inquisizione ante litteram di fronte all’altare e dietro ai lunghi banchi coperti da un tessuto rosso che suonava sinistro. Affinché Formoso potesse discolparsi durante il processo e rispondere alle domande dei giudici, gli fu posto accanto un diacono perché parlasse in sua vece.
Quando veniva data la parola al cadavere, il diacono, assistente a latere, rispondeva, dicono i cronisti, in modo strano, con una voce rauca e profonda.

La curia giudiziaria si era sistemata ai lati del papa, dall’una e dall’altra parte, l’alto clero era fatto di teologi, cardinali, i prelati più importanti della curia ed i vescovi venuti da quasi tutta l’Italia. Tutti seduti in appositi stalli, ai lati, lungo la navata. Il banco dei giudici e quello dei prelati occupavano tre lati dello spazio. Al quarto lato c’era il popolo in piedi e ammassato. Nella fila davanti c’erano i più solleciti e i più curiosi che si erano presi il posto buono.

Il cadavere di Formoso era collocato in posizione seduta in mezzo al riquadro, legato su un trono nella sala del concilio, perché citato a comparire personalmente, ricoperto con sacre vesti pulite (sacratis vestimentis), dopo essere stato denudato.

Sul corpo nudo si era scoperto il cilicio ancora conficcato nelle carni. 
Il dorso ne portava le tracce simili ad una flagellazione. 
Un taglio più profondo all’emitorace sinistro tra la quinta e la sesta costola pareva procurato da una lancia. Il capo era ripiegato sulla clavicola, la fronte libera dalla mitria pontificia, aveva dei segni come di rami spinosi dell’acantus orientalis. Il corpo irrigidito sullo scanno pendeva da una parte come se l’opprimesse il braccio trasversale di un’invisibile croce. Il lezzo del cadavere rendeva irrespirabile l’aria dolciastra, invano contrastata dalle fumigazioni dell’incenso sui bracieri.
Era impossibile distogliere lo sguardo da quel volto, da quel corpo.

Di fronte a lui, un uguale seggio ospitava Stefano VII attorniato dai cardinali e dai vescovi, costretti dal papa a fungere da giuria per questa grottesca farsa. Il processo fu interamente dominato da Stefano VII, che, in preda a un furore isterico, si lanciò in una delirante filippica contro la salma, mentre il clero spaventato assisteva con orrore, lui gridava insulti e maledizioni contro il cadavere.
Di fianco ai resti di Formoso stava in piedi un giovane e terrorizzato diacono: il suo ingrato compito era quello di difendere il morto, ovviamente impossibilitato a controbattere. Di fronte alla furia del pontefice, il povero ragazzo restava ammutolito e tremante, e nei rari momenti di silenzio cercava di balbettare qualche debole parola, negando le accuse.

Formoso venne giudicato colpevole di tutti i capi contestatigli: 
il verdetto stabilì che egli era stato indegno d’essere nominato papa, che vi era riuscito soltanto grazie alla sua smodata ambizione, e che tutti i suoi atti sarebbero stati immediatamente annullati.
E così cominciò la carneficina: le tre dita della mano destra con cui Formoso aveva dato la benedizione vennero amputate e il cadavere fu trascinato per le strade di Roma e gettato nel Tevere. Il corpo percorse, per tre giorni, venti miglia trascinato dalla corrente del fiume, fino ad arenarsi su una sponda presso Ostia, dove, fu riconosciuto da un monaco e nascosto dai suoi fedeli finché fu vivo Stefano VII. Dopo la morte di questo, finalmente il povero Formoso venne inumato, per la seconda volta, nella Basilica di San Pietro, per volere di papa Teodoro II, che lo pose tra le tombe degli apostoli con una pomposa cerimonia e riabilitato fino quasi alla beatificazione.
Ulteriori processi contro persone decedute vennero vietati.

“Posso misurare il moto dei corpi, ma non l’umana follia.”
(I. Newton)

Pubblicato: 24 marzo 2015 in *Sangue e Calamaio* 

Di Michela Donvito

Le pape Formose et Etienne VII, dipinto di Jean-Paul Laurens, 1870.
Le pape Formose et Etienne VII, dipinto di Jean-Paul Laurens, 1870.


http://scenacriminis.com/2015/03/24/sinodo-del-cadavere-il-processo-piu-osceno-surreale-e-macabro-della-storia/

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