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giovedì 5 febbraio 2015

Eugenio Borgna. Ecco perché il Dsm-5 sbaglia Bimbi irrequieti. Ansia sociale e da lutto. Teen timidi. Per un discusso manuale americano si tratta di malattie mentali. Come altre trecento. Ma è un errore, spiega un grande maestro. E può fare seri danni.

Elena Casagrande‎ a Filosofia e dintorni
Intervista a Eugenio Borgna: 
"tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande
Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, 
perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione."


INTERVISTA A EUGENIO BORGNA: TRA PSICHIATRIA E FILOSOFIA
Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).

[...] Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che 
«conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». 
Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. 
Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. 
Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. 
Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, 
senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. 
La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. 
Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. 

La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. 
Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. 
Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. 
Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. 
Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. 
Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. 
Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre
Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. 

Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

http://www.lachiavedisophia.com/blog/intervista-eugenio-borgna-psichiatria-filosofia/





SALUTE MENTALE

Giù le mani dalla psiche.
Ecco perché il Dsm-5 sbaglia: Bimbi irrequieti. Ansia sociale e da lutto. Teen timidi. 
Per un discusso manuale americano si tratta di malattie mentali. Come altre trecento. 
Ma è un errore, spiega un grande maestro. E può fare seri danni. 
Parla Eugenio Borgna

di Francesca Sironi


«La fame di ricette semplici trova nel Dsm-5 la sua epifania più sconvolgente». 
Così Eugenio Borgna, uno dei più grandi psichiatri italiani, studioso della “dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico”, come ricorda su di lui la Treccani, commenta la quinta edizione del manuale di riferimento per la salute mentale nel mondo: il cosiddetto “Dsm”. 
Firmato dall’American Psychiatric Association, il tomo che classifica l’animo umano in oltre 300 potenziali disturbi arriverà in Italia il 28 marzo, tradotto da Raffaello Cortina .

Dopo tredici anni di lavoro e decine di migliaia di esperti coinvolti in studi e conferenze, i guru statunitensi della mente hanno stabilito «un linguaggio comune» per definire i nuovi «standard» con cui «la vita di milioni di individui» può essere compresa nelle sue patologie (parole del presidente del progetto, David Kupfer) mettendo nero su bianco quali sofferenze possono essere chiamate «disturbi» e quali no, da quali avvisaglie possiamo capire se un bambino è iperattivo o un amico depresso, secondo quali test (sì, ci sono anche i questionari a crocette) la nostra ansia andrebbe curata con un blister oppure la timidezza che mostriamo in pubblico avrebbe bisogno di una terapia. Uno strumento apprezzato, utile, usato. Ma anche oggetto di profonde critiche.

«Come già aveva scritto Kafka, è più facile prescrivere delle ricette, fare delle diagnosi, che non invece ascoltare chi sta male, perché quest’ultima cosa esige tempo, esige attenzione, esige riflessione»: dal suo studio di Novara, Borgna commenta così queste «tavole della legge che presentano soltanto paradigmi esteriori», perché sconfessano in partenza, dice, quello che dovrebbe essere il fondamento della psichiatria.

Cosa c’è che non va nel manuale?
«Le premesse. Queste tavole chiedono che tutti guardino con gli stessi occhi gli stessi sintomi. Sintomi che si dovrebbero ripetere identici in ogni parte del mondo. Ma la tristezza, l’angoscia, la colpa, la volontà di morire, le esperienze dell’animo umano non possono essere classificate come se si trattasse di una pancreatite. Non basta riconoscere dei segni esteriori, dei comportamenti evidenti, per stabilire cosa sta succedendo in quell’interiorità. Queste tavole finiscono per escludere a priori l’unico elemento che conta davvero quando si tratta di fare una diagnosi psichiatrica: la soggettività».

Non è utile avere degli schemi che spieghino come riconoscere una malattia?
«Stiamo parlando di oltre 300 diagnosi. Ovvero di una furia classificatoria che ha perso ogni giustificazione. Il “Dsm” è uno strumento utile quando si tratta di circoscrivere e individuare i sintomi principali di malattie codificate come la schizofrenia. Ma i mille occhi dei medici che hanno redatto queste 947 pagine arrivano a micro-visioni analitiche che rischiano di rendere patologica ogni forma di sofferenza».

Pensa a disturbi come l’ansia sociale o al fatto che il lutto non sia più inserito tra le “giustificazioni” per escludere una diagnosi da depressione?
«Penso a tutte quelle descrizioni che sembrano suggerire l’idea per la quale ogni ostacolo ci impedisca di corrispondere a una vita che scorra senza problemi, senza cadute, senza dolore, senza tristezze, dev’essere etichettato come patologico. Il “Dsm” è un edificio costruito su parole aride. Uno sguardo rivolto ai segnali esteriori della malattia, che non considera l’interpretazione della soggettività che si ha di fronte. Eppure solo ascoltando l’altro potremo capire se la sua sofferenza è patologica oppure no».

Ma è una necessità medica quella di dare delle regole scientifiche alla disciplina.
«Dipende da cosa consideriamo scientifico. Se pensiamo che la psichiatria sia una scienza naturalistica, che si occupa di problemi riconducibili a disfunzioni biologiche, allora sì. Non è così però. La depressione non è l’appendicite. Le forme che può assumere il dolore cambiano a seconda del contesto sociale e ambientale di quella persona. Cambiano a seconda delle origini di quella sofferenza. Cambiano addirittura a seconda di come noi stessi ci relazioniamo con il paziente. E se non indaghiamo le cause profonde, interiori, da cui scaturisce la tristezza, non saremo mai in grado di fare una buona diagnosi. Questo sguardo però è escluso dal manuale di cui stiamo parlando».

Non sono più solide le diagnosi che si effettuano seguendo quelle linee guida?
«La scientificità del “Dsm” è provata dalle ricerche su cui gli autori affermano di essersi basati. E cosa sono le mie vaghe parole pseudo-mediche, così fragili, evanescenti, di fronte alle certezze che regnano nel manuale? Potrebbero essere considerate chiacchiere. Ma il fatto è che in Italia questa psichiatria “non-scientifica”, ovvero relazionale, dialettica, che il manuale rifiuta, ha portato alla chiusura dei manicomi. Abbiamo dimostrato, con l’esperienza concreta, che le cure sono più efficaci non se diventano più gelide, più cliniche, non se prescrivono più farmaci, ma al contrario se i farmaci li sottraggono, e se al loro posto si danno parole, ascolto, si danno pazienza e silenzio. Loro saranno anche scientifici. Ma noi curiamo le persone».

Però se il volume viene tradotto in tutto il mondo significa che a qualcuno quelle diagnosi piacciono.
«Certo, a chi non vuole perdere tempo».

Si spieghi meglio.
«Il successo del manuale è dato dalla sua capacità di uniformarsi alla tendenza oggi dominante: quella di escludere l’interiorità dalle scelte che facciamo, di proporre modelli che consentano la realizzazione automatica delle cose, di trovare soluzioni prefabbricate, senza che la ricerca dei significati ci faccia perdere tempo. È ovvio che è più faticoso fare una diagnosi che prescinda dai criteri semplici e lapalissiani proposti dal “Dsm”. Ma il tempo che si perde per capire un paziente ha un significato. È testimone di quella solidarietà umana che dovrebbe essere alla base del rapporto con l’altro».

Gli autori giustificano questa semplicità come un tentativo di rendere il manuale comprensibile a tutti.
«Ovvero a chi?».

Ai medici generici, per esempio.
«Ecco: una prospettiva inquietante».

Perché?
«Gli psichiatri hanno a che fare soprattutto con schizofrenie o depressioni psicotiche, che sono poche: la schizofrenia è un caso su cento, la depressione psicotica 0,6. Invece con le sindromi ansiose, la tristezza, l’ipocondria, arriviamo a quanto? Al 20 per cento, al 25, secondo alcuni. E si tratta di pazienti che si rivolgono nella stragrande maggioranza dei casi ai medici di base, i quali ora hanno sul tavolo un testo che consente loro di applicare protocolli sovrapponibili a quelli con cui diagnosticano i mal di stomaco».

Dà loro più strumenti, no?
«No. Li mette in una difficile condizione. Non sono psichiatri: hanno una specializzazione importante ma non sono psichiatri. Ma quando vedono in un paziente i sintomi esteriori descritti nel manuale, sentono la responsabilità di agire. Perché il testo sul quale si fonda la psichiatria internazionale dà loro criteri tali per decidere quali psicofarmaci somministrare dinanzi a qualunque forma di ansia, di sofferenza psichica, di quelle che riempiono, riempivano e riempiranno gli studi dei medici di base».

Qual è il rischio?
«Ci sono sofferenze che ai nostri occhi possono sembrare laceranti e invece agli occhi di chi le vive sono dotate di senso. Il problema della psichiatria è valutare se questo senso corrisponde ai valori comunitari oppure se è un senso soltanto individuale, narcisistico; allora sì che interviene il giudizio del medico. Ma è una valutazione complessa. Soprattutto se prevede terapie farmacologiche che agiscono su equilibri delicatissimi. E che se mal prescritte possono avere conseguenze disastrose, fino al suicidio».

E se lo legge una mamma, il manuale?
«È un precipizio. La percezione soggettiva di una madre e di un padre della sofferenza del proprio bambino, se letta attraverso una di queste descrizioni, li porta a deformare la loro visione. E conduce poi il medico, che fatalmente deve fondarsi su quello che i genitori e gli insegnanti dicono del bambino, a formulare diagnosi già belle confezionate. Magari senza mandarlo nemmeno da uno psicologo che potrebbe essere sicuramente più utile dell’uso di farmaci».

Ma le persone chiedono di dare un nome al malessere, di guarire dalla sofferenza.
«Certo. Sarebbe infinitamente più comodo se un antidepressivo mi risolvesse l’angoscia per la morte di una persona cara, ad esempio, senza farmi perdere tempo ad andare da uno psichiatra che ascolta e chiede. Ma è il dolore a distinguerci dalle pietre. Rainer Maria Rilke aveva scritto che il dolore è quella prova che trasforma l’esperienza esteriore che abbiamo del mondo in esperienza interiore. E cosa c’è oggi di più sacrificato, di più negato, di più disprezzato, di più deriso, di una tesi come questa?».
27 marzo 2014

http://espresso.repubblica.it/visioni/scienze/2014/03/21/news/giu-le-mani-dalla-psiche-il-dsm-5-tutto-sbagliato-1.158037




"Come diceva il Dottor Knock: «I sani sono dei malati senza saperlo».
Il personaggio del testo teatrale di Jules Romains, pubblicato nel 1923, riusciva a convincere un intero villaggio di epidemie immaginarie. La sua teoria potrebbe tornare utile ora che sta per uscire la quinta edizione del Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ovvero la “Bibbia della psichiatria”. Utilizzato da più di mezzo secolo per la diagnosi nella pratica clinica quotidiana, il Dsm-V cataloga adesso oltre 400 disturbi psichici più o meno gravi. Non è solo la quantità che scatena polemica, ma alcune delle nuove patologie descritte con sintomi che molti di noi potrebbero riconoscere.
«Metà dei francesi scopriranno di avere turbe psichiche», ironizza Patrick Landman, autore di Tristesse Business, saggio per denunciare il “disease mongering”, l’incremento di malattie mentali attraverso il Dsm con lo scopo di favorire l’industria farmaceutica. Lo psicanalista e psichiatra francese guida in patria la protesta degli esperti, sintetizzata con una domanda in prima pagina del Parisien qualche giorno fa: «Siamo tutti pazzi?».

Nel Dsm aggiornato, in uscita il 20 maggio, compare ad esempio il disturbo di “iperfagia incontrollata” per chi mangia troppo spesso un alimento come la cioccolata.
Le donne che hanno sbalzi d’umore una volta al mese potrebbero essere affette da “disturbo disforico premestruale” mentre quelle che curano ossessivamente la propria pelle soffrono di “skinpicking”.
Dal lutto agli accessi di collera, sono molte le emozioni della vita normale trasformate in nuove, presunte patologie.

Al di là delle ironie, il dibattito aperto è serio e tocca l’eterna rivalità tra un approccio comportamentalista, prediletto dall’Associazione americana di psichiatria che cura il Dsm, e quello ispirato alla terapia psicanalitica, seguito per esempio in Francia. Molti esperti riconoscono l’utilità del manuale che è stato pubblicato la prima volta nel 1952 (allora c’erano solo 60 patologie) e nei decenni successivi ha avuto il merito di coniare una terminologia condivisa, seguendo le evoluzioni della società: nel 1973 fu finalmente eliminato il riferimento all’omosessualità come patologia psichica.

L’elaborazione della quinta edizione è il frutto di un lungo scambio di opinioni nella comunità scientifica. È stata introdotta la dipendenza psicologica non legata a sostanze, come il gioco d’azzardo. Durante la stesura del manuale si è discusso anche della dipendenza da sesso e Internet, citati però solo in appendice. Sono stati scelti criteri più selettivi per il disturbo bipolare mentre è stato inserito il “disturbo narcisistico di personalità”, escluso dalla precedente edizione. «È un manuale che permette a un medico di diagnosticare in sette minuti una sedicente depressione», commenta Maurice Corcos, autore di L’Homme selon le Dsm. Le nouvel ordre psychiatrique.

I nemici francesi del manuale statunitense denunciano l’eccessiva semplificazione delle diagnosi, e quindi anche delle terapie. Anche negli Stati Uniti ci sono voci critiche. Lo psichiatra newyorchese Allen Frances ha contribuito alla precedente edizione del manuale per poi dissociarsi. Dopo la pubblicazione del Dsm-IV, nel 1994, sostiene infatti Frances, i casi di disturbi bipolari sono raddoppiati, mentre quelli di autismo sono stati moltiplicati per venti. In realtà, osserva lo psichiatra americano, non sono i casi ad aumentare ma le diagnosi, proprio a causa dell’ampiezza del sistema di catalogazione. Un altro “pentito” è il francese Boris Cyrulnik, che aveva partecipato alla terza edizione. Studioso del concetto di “resilienza”, lo psichiatra ora sostiene: «Non possiamo pensare di curarci solo perché qualcosa nella nostra vita va storto». (Anaïs Ginori, la Repubblica, 8 maggio 2013) Purtroppo «I sani sono dei malati senza saperlo", ma i più ingenui tra loro, finiranno per convincersi di esserlo.


Incapaci d’amare: l’alessitimia
Filed under (psicologia) by Enrico Maria Secci on 12-01-2015


Ci sono persone incapaci di distinguere le proprie emozioni, di riconoscerle e di comunicarle, persone che sembrano vivere in un limbo psicologico caratterizzato da apatia, da rigidità, da inibizione, da isolamento sociale e da disturbi psicosomatici come emicrania, disfunzioni dell’apparato digerente e/o respiratorio, sintomi dermatologici, problemi a livello degli organi genitali e altro. 
Gli abitanti di questa nebulosa impenetrabile appaiono generalmente ben adattati al contesto sociale, ma si muovono nella propria e nell’altrui esistenza come ombre sbiadite a causa dell’incapacità emozionale che li opprime.

L’alessitimia. 
Gli psichiatri John Nemiah e Peter Sifneos negli anni ’70 hanno individuato per primi un tratto della personalità che descrive e aggrega, sotto il termine alessitimia (o alexitimia) almeno tre peculiarità:
-    un deficit della consapevolezza di se stessi, psichica e corporea;
-    l’alterazione delle funzioni empatiche e interpersonali della comunicazione;
-    la sofferenza fisica data da corteo di disturbi psicosomatici.

Alessitimiadal greco “a-” mancanza, “lexis” parola e “thymos” emozione, significa letteralmente «non avere le parole per le emozioni». Infatti, chi soffre di alessitimia esprime in modo vago e limitato le proprie emozioni, ha un vocabolario emotivo povero e stereotipato con tendenza alla ripetizione di espressioni, mostra una certa rigidità nella postura e nell’espressività facciale e, benché conduca un’esistenza solitamente ben adattata, ha pochi relazioni sociali significative. Ciò accade perché l’alessitimia consiste allo stesso tempo nella carenza dell’auto-percezione emozionale e nella speculare difficoltà a identificare e interpretare correttamente le manifestazioni affettive degli altri.

Una metafora cromatica. 
È difficile rappresentare il mondo interno dell’alessitimia. 
Si pensi alle diverse emozioni come i colori di una tavolozza
Una personalità non alessitimica può riconoscere il blu della calma, il verde della fiducia, il rosa della tenerezza, il giallo della contententezza e distinguerli con sufficiente accuratezza dal nero della tristezza, dal grigio dell’inquietudine e dal rosso dell’amore. 
Invece, una personalità alessitimica può essere raffigurata come una tavolozza dove tutti i colori sono stati mischiati alla rinfusa e si addensano in un unico grumo di marrone, grigio e petrolio.
Chi presenta un elevato grado di alessitimia non riesce dunque a colorare il proprio mondo perché ogni emozione, di qualunque colore sia, finisce neutralizzata sulla metaforica tavolozza caotica della sua mente.

L’alessitima e la dipendenza affettiva. 
ll disorientamento prodotto dal tratto alessitimico della personalità è tale da produrre stati di profonda infelicità, indecifrabili per chi ne soffre, che possono portare a esplosioni emotive incontrollate e comportamenti imprevedibili. Alcune persone alessitimiche reagisco all’appiattimento emotivo che le avviluppa attraverso la ricerca di esperienze che possano  temporaneamente perturbare l’iceberg della loro coscienza, come l’utilizzo e l’abuso di alcol e droghe, la guida spericolata, gli sport estremi o pratiche sessuali compulsive e promiscue. È stata evidenziata una correlazione tra il tratto alessitimico e molti disturbi: la depressione, l’ansia, il panico, la dipendenza da sostanze e le dipendenza senza droghe, da sesso, da chat e da gioco, sino alla dipendenza affettiva.

Tra dipendenza ed evitamento. 
La vita di relazione della persona alessitimica si svolge tra evitamento e dipendenza senza soluzione di continuità. Nella fatica di snodare il groviglio insondabile delle emozioni, l’alessitimico può sviluppare una stile interpersonale rigidamente conformista e affrontare l’amore con piglio recitativo, inconsapevole dell’autentico valore dei sentimenti e delle parole. Così, può dire “Ti amo” e “Ti odio” indifferentemente, senza comprendere il significato e le conseguenze di queste espressioni; può sommariamente sembrare partecipe alla relazione, salvo poi rifiutarla senza riuscire a spigare i motivi della sua condotta, spesso nascosti nelle intense reazioni psicosomatiche che si manifestano nel rapporto con l’altro.

Le cause e la terapia dell’alessitimia. 
Un elemento centrale del tratto alessitimico della personalità consiste nello spostamento delle emozioni sul corpo in forma di sintomi, talvolta acuti e senza apparente. Ciò fa sì che gli eventi o le persone che suscitano un emozione si ritraducono in disturbi somatici che ostacolano l’esperienza affettiva, o la complicano sino a renderla impossibile.

L’alessitimia sembra riguardare il 10% della popolazione e avere radici molteplici: basi temperamentali o genetiche, condizionamento culturale, educazione severa e intransigente nell’infanzia, traumi nei primi anni di vita dati dalla trascuratezza o dall’abuso fisico e/o psicologico da parte di adulti significativi.
[...]
Enrico Maria Secci, Blog Therapy


La psichiatria, questa scienza di confine fra scienze naturali e scienze umane (( ... ))
Eugenio Borgna, Noi siamo un colloquio, 1999 Feltrinelli, pag. 29.


Gli italiani sono, in pratica, analfabeti. È un analfabetismo emozionale, che ci impedisce di capire gli altri.
Eugenio Borgna, nato il 22 luglio 1930




si chiama "alessitimia" e purtroppo colpisce sempre di più i giovani in età scolare...



Nel discorso delle neuroscienze non c'è traccia di una riflessione e, tanto meno, di una spiegazione del miracolo attraverso cui l'"oggettivo" diventa "soggettivo", attraverso cui l'insieme dei "fatti", accertabili neuroscientificamente, si "trasformi" nei "significati" che esse dovrebbero spiegare, chiarire, indicare nel loro fondamento.
Eugenio Borgna, Le intermittenze del cuore, 2003 Feltrinelli, pag. 22.


Non c'è fine alla tentazione di estendere la somministrazione dei farmaci antidepressivi ad ogni forma di vita che NON sia quella della gaiezza e della euforia: le sole emozioni tollerate nella vita adulta e, ora, nella vita dela infanzia. Non si tollera che ci siano bambini seri, attenti e riflessivi, ma si vogliono solo bambini espansivi e allegri."
Eugenio Borgna, Le intermittenze del cuore, 2003 Feltrinelli, pagg. 28-29.

L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra
Eugenio Borgna

[...] al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto (La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.
Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
"Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita". [...]
Essere autentici è un dovere?
"Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".
Mi faccia capire.
"Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".
Perché?
"Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".
Non le bastava la verità clinica?
"No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".
E invece?
"Decisi - tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici - di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".
Una scena irreale?
"Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".
Come reagì?
"Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".
Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
"Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".
Non è facile trovare un varco per la comprensione.
"Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".
Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
"La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".
Si insinua nel mutamento degli orizzonti di vita?
"Esattamente. E può essere vista come un'anarchica e totale perdita di senso, oppure essere riconosciuta, compresa e utilizzata solo se si riesce a guardarla con un forte atteggiamento interiore".
Intende dire che ci si deve porre alla stessa altezza della malattia?
"Intendo dire che le radici della malattia sono esistenziali e non cliniche. E questa convinzione fa venir meno il rapporto asimmetrico tra medico e paziente".
Ma è pur sempre il medico che decide per l'eguaglianza.
"È vero. Ma con quella decisione è il medico a mettersi in discussione. Negli anni della mia professione ho capito che o si tenta di rivivere le cause del dolore e dell'angoscia degli altri, con tutte le risonanze e i rischi personali, oppure si è destinati al fallimento".
C'è un modo certo per registrare questo fallimento?
"La nostra maschera portata davanti a chi vive immerso in una condizione schizofrenica è immediatamente percepita nella sua insopportabile finzione e lontananza ".
Cos'è per lei la guarigione?
"Parlando di guarigione in psichiatria c'è il rischio di sconfinare in una segreta violenza".
Cioè?
"Intesa in senso dogmatico la guarigione vorrebbe sanare tutto; risolvere ogni problema legato alla malattia ".
E invece?
"La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L'altra faccia, se vuole, del modo in cui la scienza dell'anima si è lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest'ombra ".
Non ha mai temuto di essere lei stesso avvolto o sfiorato da quell'ombra?
"Mi sta chiedendo se il peso di ciò che ho sostenuto in questi lunghi anni mi abbia in qualche modo coinvolto più del dovuto?".
Sì. Nel senso che se si fa propria la sofferenza del paziente cade ogni distinzione.
"Viene meno la distanza e con essa ci si apre alla sofferenza dell'altro. Penso anche che la sofferenza sia una condizione necessaria alla via della conoscenza" .
Ma è una domanda più diretta che vorrei farle e che spieghi la sua "posizione scomoda": ha mai sofferto di depressione?
"Sì, è un universo che in alcune fasi della mia vita mi ha inghiottito".
E cosa si prova?
"Nella depressione si vive come sprofondati nel passato. Non si vede più il futuro né la speranza. Si blocca la percezione del cambiamento; si sprofonda nelle cose avvenute che non mutano mai. E poi affiora l'esperienza fiammeggiante della colpa: una delle ragioni del nostro strazio. Ma nei miei quarant'anni di manicomio ho imparato che ci sono tante forme di depressione a seconda dei nostri caratteri e delle nostre emozioni. Teresa di Lisieux vedeva nella malinconia il sentiero per conoscere Dio".
C'è un nesso tra psichiatria e misticismo?
"Ovviamente no se si considera la psichiatria solo una scienza positiva. Ma le esperienze mistiche ci inducono a riflettere sugli abissi dell'anima, sulle sue lacerazioni. E non può immaginare quante volte mi sia trovato davanti alle oscure notti dell'anima".
Si nota quasi un desiderio di ricorrere alla religione.
"Non alla religione in quanto tale. Ma a certe sue pratiche: voler camminare con l'altro, immedesimarsi nell'altro. Si parla tanto di etica. Dove pensa debba stare tra il cuore di ghiaccio e il cuore segnato dal dolore? Dalla sofferenza occorre uscire. Ma guai non averla mai provata in vita".
Crede in Dio?
"Credo in senso pascaliano all'idea del mistero. Non credo a un Dio razionale che ordina il mondo. Oltretutto, visti i risultati, sarebbe stato un pessimo architetto. Ciascuno deve fare bene il proprio lavoro".
E il suo, ora che non ha più l'ospedale?
"Continuo a dedicare parte del mio tempo ai pazienti. Senza di loro mi sarei trasformato in un piccolo funzionario. Decida lei se del bene o del male".
E il resto della giornata che fa?
"Leggo e scrivo i miei libri. È un'altra maniera di raccontare il dolore e le fragilità umane. A volte per mesi non riesco a scrivere. È come se il buio calasse in me. Durò a lungo dopo la scomparsa di mia moglie".
Cosa accadde?
"Soffriva di una malattia autoimmune. Se la trascinò per buona parte della vita. E provai spesso dolore e disperazione. Morì 14 anni fa. Era una psichiatra infantile. Con un carattere molto dolce. Ancora oggi ne avverto il vuoto".
Cos'è la mancanza?
"Qualcosa che ci accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra parentesi. Ma si può ingabbiare ciò che non avremo mai più?".
Le cose passano. Destinate come sono a finire. Soprattutto nell'orizzonte della vecchiaia.
"Muta la luce, non necessariamente la materia".
E la vecchiaia di uno psichiatra?
"Perché dovrebbe essere diversa da quella di un fabbro o di un insegnante di matematica? Conta molto il destino di come è stata la propria vita".
Destino è una parola impalpabile.
"Sono le migliori. Le meno usurate. Il destino non lo intendo come la macchina inesorabile del fato. È sapere ancora una volta leggere dentro di sé. Riconoscersi. Freud lo fece da giovane e da vecchio. Fino a quando le forze lo sorressero continuò a lavorare. L'importante è non farsi divorare dall'homo faber. Solo così si ha più tempo per ascoltare".
Non teme il tempo della clessidra?
"Lo temo oggi come lo temevo da giovane. Ho sempre avuto la percezione acutissima dell'imprevedibile. Il morire era per me una possibilità immanente a trent'anni e adesso".
Citava Freud. Che rapporto ha con la psicoanalisi?
"Nessuno in particolare. È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la schizofrenia".
Perché?
"Gli schizofrenici non possono raccontare i loro sogni perché non sognano. Servono altre strade. Altre parole. Starei per dire altri dolori. Sa una cosa che vorrei?".
Dica.
"Vorrei che non ci fossero più giorni muti e senza parole. Vorrei che anche quando il silenzio avvolgesse le nostre vite esso avesse la forma della dignità e non dell'indifferenza ".
Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina
di ANTONIO GNOLI




"La disperata esigenza di colloquio in Franz Kafka
L’esigenza disperata di un colloquio si delinea, radente e incendiaria, in uno dei racconti più belli e strazianti di Franz Kafka (Un medico condotto) splendidamente tradotto da Anita Rho.
La solitudine del medico e la sua angoscia lacerante: l’ambiente familiare che nonne riconosce il senso e che accresce lo scacco, la non-utilità, del medico: fino all’oblio e alla inconcludenza dell’azione medica.
L’arte del medico come gioco frantumato e doloroso di equilibri spezzati in abissi che si spalancano intorno terrificanti e silenziosi, imprevedibili e agghiaccianti .Vorrei rileggere qualche frammento del racconto: nell’orizzonte, certo, di una riflessione che dalla letteratura si proponga di raccogliere elementi utili alla comprensione del s e n s o, talora nascosto e inafferrabile, dell’essere-medici e di fare-psichiatria. La sfolgorante intuizione kafkiana smaschera ogni convenzione e ogni diserzione nel quotidiano e nel banale: recuperando strutture di significato profonde e abbaglianti.
La incalcolabilità e la imprevedibilità della vita segnano le linee tematiche del racconto che ci allontana radicalmente dalla realtà (dalla opaca realtà) e ci immette in una realtà altra abitata da figure umane che sentiamo estranee e nondimeno capaci di ridestare emozioni e angosce umanissime.Dal testo del racconto scaturisce una straordinaria descrizione del modo con cui, una volta (certo), ma ancora oggi in aree non metropolitane, un medico si poteva vedere accogliere in una casa.
«Ma anche questo non dura che un istante perché, come se la cascina del mio paziente sorgesse immediatamente di fronte al mio portone, ecccomi già arrivato; i cavalli si sono fermati, ha smesso di nevicare; chiaro di luna tutt’intorno; i genitori del malato si precipitano fuori della casa, seguiti dalla sorella; mi tolgono quasi di peso dalla carrozza; non capisco nulla dai loro discorsi confusi; nella stanza del malato l’aria è quasi irrespirabile; la stufa, di cui nessuno si prende cura, fuma, spalancherò la finestra, ma prima voglio vedere il malato».
Come appare il malato agli occhi sbigottiti del medico? «Magro, senza febbre, né freddo né caldo, con gli occhi vuoti, il giovane si solleva senza camicia di sotto ai piumini, mi s’attacca al collo, mi sussurra all’orecchio: “Dottore, lasciami morire”. Mi guardo intorno, nessuno ha udito; i genitori stanno lì protesi, e aspettano il mio responso; la sorella ha portato una sedia per la mia borsa; apro la borsa e frugo fra i miei strumenti; il giovane dal letto, non smette di allungar le mani verso di me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la esamino alla luce della candela e la depongo di nuovo». Il medico non constata nulla nel paziente: «la miglior cosa sarebbe di buttarlo giù dal letto con uno scappellotto»; aggiungendo: «Ma io non sono un riformatore del mondo e lo lascio a letto. Sono un impiegato del comune e faccio il mio dovere fino in fondo, fino quasi all’eccesso. Benché mal retribuito, sono generoso e soccorrevole verso i poveri». In connessione tematica con queste cose si ha, fulminea e lacerante, la affermazione emblematica per ogni psichiatria e per ogni medicina: «Scriver ricette è facile, ma intendersi con la gente è difficile».
Cambiano poi gli scenari clinici: il medico si avvede che, nonostante tutto, il giovane è malato. È un passaggio misterioso e oscuro, questo, da una apparenza di benessere ad una condizione di malattia: il segno cifrato dell’invisibile e della oltre-realtà si intravede, del resto, in ogni testo kafkiano.
«Al lato destro, nella regione dell’anca si è aperta una ferita grande come il palmo della mano. Rosea, tutta sfumata, più scura dov’è più profonda, impallidisce agli orli,leggermente granulosa, il sangue qua e là variamente coagulato, aperta in mezzo come una miniera. Così di lontano. Da vicino appare ancora più grave».
La ferita non c’era, o non era stata osservata dal medico: gli era sfuggita? Domande senza risposta; ma la sola cosa, che conta, è questa: scoperta, o rivelatasi, la ferita, l’ambiente familiare inizialmente si placa: la presenza della malattia dà un senso al medico e motiva il suo agire: al di là di ogni possibile (dolorosa) conseguenza della ferita: della malattia. Così continua il racconto kafkiano con questa svolta attonita e dilemmatica.
«Povero ragazzo, non c’è niente da fare. Ho scoperto la tua orrenda ferita: questo fiore nel tuo fianco ti porta alla morte. La famiglia è felice perché mi vede agire; la sorella lo dice alla madre, la madre al padre, il padre ad alcuni visitatori che in punta di piedi, bilanciandosi con le braccia allargate, entrano col chiaro di luna dalla porta aperta.
“Mi salverai?” mormora singhiozzando il fanciullo, abbagliato dalla vita che è nella sua ferita».La conclusione del racconto sigilla modi di essere emblematici di ogni situazione e di ogni epoca: «Così è la gente del mio paese. Pretende sempre l’impossibile dal medico.
Hanno perduto la vecchia fede; il parroco se ne resta a casa a sfilacciare una dopo l’altra le sue pianete ma il medico deve saper fare di tutto con la sua mano leggera di chirurgo. Bene, come volete». Ma non serve a nulla l’agire del medico condotto quando la malattia, la ferita, è così grave; e le ultime righe del racconto lo dicono con il linguaggio radicale ed essenziale di ogni testo kafkiano: parabola del destino e del naufragio
possibile di ogni arte medica. Vorrei fare questa ultima citazione dal racconto così realistico e così magico, così oscuro e così splendente.
«Nudo, esposto al gelo di questo secolo sciagurato, su una carrozza reale, con cavalli irreali, vado vagando per mondo, io povero vecchio. La mia pelliccia si trascina dietro la vettura, ma io non la posso prendere, e nessuno fra la plebaglia irrequieta dei pazienti, muove un dito in mio aiuto. Sono stato ingannato! Ingannato! Se hai seguito una volta solo il suono illusorio del campanello notturno, non c’è più rimedio per te».
Le luci e le ombre, le antinomie e le contraddizioni, le speranze e la disperazione, le possibilità e le impossibilità, i naufragi fatali e i labili trionfi, che contraddistinguono l’essere-medici (l’arte medica), riemergono dal discorso elusivo e implacabile, realistico e magico, di Franz Kafka. Ma non solo questo: dal suo discorso scaturisce anche l’insieme vertiginoso delle cose, concrete e utopiche, reali e dereistiche, possibili e impossibili,
che vengono richieste ai medici: ai medici di ogni tempo e di ogni luogo: ieri e oggi.
Certo, la radente immaginazione kafkiana brucia ogni incrostazione di convenzionalità e di abitudine, e coglie l’essenza (il nocciolo eidetico) di ogni arte medica nel suo essere indirizzata alla cura del corpo ma anche a quella dell’anima: l’una legata inesorabilmente all’altra."
(Brano tratto da Eugenio Borgna, L’arte della medicina nella letteratura)



Il prof Eugenio Borgna, oggi ottantenne, é un esponente di spicco della psichiatria fenomenologica che affonda le sue radici nella filosofia di Edmund Husserl e di Martin Heidegger per poi portare alla costituzione della "scuola" psichiatrica di Ludwig Binswanger e di Eugène Minkowski, che significativamente diceva per far comprendere il mutamento di prospettiva rispetto all'approccio alle malattie mentali“. Se finora la psicologia si è svolta in prima persona o in terza persona, è tempo che essa diventi una psicologia in seconda persona, perché il tu ci mette in presenza dell’umanamente comune”.
Ecco cosa dice in un 'intervista su Repubblica del 27 settembre 2012, il prof Borgna rispetto all'argomento di un suo libro come al solito contrassegnato da una prosa poetica e struggente , dal titolo, ripreso da una citazione molto evocativa rispetto al tema di che trattasi, del poeta austriaco Georg Trakl, "Di armonia risuona e di follia". Quì la follia é intesa come grande metafora della condizione umana insieme premio e condanna nel suo rappresentare nel primo caso momento epifanico di grande creatività, oppure momento distruttivo di grande sofferenza .
“È la vita di ciascuno di noi, quando sia ferita dal dolore, a risuonare di armonia e di follia. La fulminante intuizione di Trakl racchiude il senso del libro, la diversa fondazione conoscitiva, descrittiva, interpretativa della sofferenza. Il mio è un tentativo di cogliere le radici umane della follia, che rifiuta le razionalizzazioni spietate per cui solo la cruda calcolante ragione cartesiana può confrontarsi con il senso della vita e tiene invece conto della crepuscolare legge pascaliana che allude alla presenza del dolore come una fatale compagna del nostro cammino… È una tesi assolutamente insostenibile dire – come ha fatto, ad esempio, Ronald Laing – che solo nella follia c’è vita. Guardarla invece come uno specchio che rimanda anche una faccia diversa del nostro stare al mondo, non presentarla solo come una cascata di sintomi uniformi, automatici, stereotipici che dicono molto in ordine alla diagnosi ma nulla sulle sue sorgenti interiori, è una riflessione che va aldilà di ogni ideologia. Il mio viaggio nell’interiorità respinge radicalmente quella dicotomia che vuole la follia come nonsenso globale, completo, sistematico e la normalità come epifania assoluta di valori e significati”.
Brano dell'intervista al prof.Eugenio Borgna, pubblicata su Repubblica del 27 settembre 2012




[...] era sbagliato, ai miei tempi d'infanzia, reputare che un bambino gaio, espansivo, allegro fosse un bambino superficiale, quindi non abbastanza serio, attento e riflessivo e marchiarlo con quell'aggettivo così mortificante! Io, quella parola, me la sono portata talmente addosso che ho finito per crederci per un bel pezzo! Naturalmente ora il ricorso ai farmaci antidepressivi per bambini mi sembra un mostruoso delitto e ciò che ho esperito io nell'infanzia è una vera inezia al confronto.





Alla base c'è sempre la stessa mania di giudicare e di classificare [...]



















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