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giovedì 22 novembre 2012

Emil Cioran. Poco prima di morire a Parigi, nel giugno del 1995, il filosofo rumeno Emile Michel Cioran lasciò questa intervista allo scrittore tedesco Heinz-Norbert Jocks





Bussy: "Si sente vicino a Dostoevskij?"
Cioran: "Sì, ho sempre letto Dostoevskij e credo che sia lo scrittore che amo di più. 
Di tutti i suoi personaggi, di tutti i suoi eroi dei romanzi, quelli che amo di più sono Ivan Karamazov e Stavrogin. C’è una frase di Stavrogin che mi ha ossessionato per tutta la vita. “Quando crede… non crede…” non è di Stavrogin stesso. “Quando crede, non crede di credere. Quando non crede, non crede di non credere”. Mi sono veramente riconosciuto in questa frase. La ragione profonda per cui prediligo il mondo di Dostoevskij è quel miscuglio… di distruzione, quella passione della distruzione che sfocia in qualcos’altro. Non necessariamente nella fede. Preferisco naturalmente gli eroi negativi di Dostoevskij, ma negativi non è il termine esatto, è solo per semplificare."
Bussy: "Che sfociano in cosa?"
Cioran: "Che si distruggono, che si distruggono perché vanno troppo lontano. Trovo che Dostoevskij si è spinto realmente al limite, tutti i suoi personaggi oltrepassano un limite. Ogni essere ha una sorta di limite che non deve superare. Ebbene, i personaggi di Dostoevskij lo superano. [...] credo che se c’è qualcuno che comprendo intimamente è, diciamo, Stavrogin e Ivan Karamazov ed anche l’uomo del “sottosuolo”."
Bussy: "Vivere è questo?"
Cioran: "Vivere è distruggersi, non tanto per una carenza, ma per una sorta di pienezza pericolosaIn Dostoevskij non sono gli omuncoli, vero, che si distruggono, non sono i debolucci, gli anemici, sono individui che esplodono, che giungono al limite estremo di se stessi e oltrepassano quel limite."

Intervista di Christian Bussy, 1973




https://www.youtube.com/watch?v=LhR536ao_cg
Cioran - Intervista letteraria con Christian Bussy, 1973





Bussy: In generale avete il sentimento della responsabilità, in particolare della vostra responsabilità verso gli altri?

Cioran: Assolutamente no. Non l'ho mai avuto. E quando scrivo, per esempio, non penso mai che quanto scrivo potrebbe far del male a qualcuno.

Bussy: Si dice che Gide abbia causato la perdita di una generazione...

Cioran: No, per quanto mi riguarda un tale problema non esiste perché ad ogni modo non ho lettori, ho il vantaggi d'essere, nevvero, senza lettori, dunque non devo avere quel sentimento di responsabilità, ma ad ogni modo non l'avrei. Ritengo che si scriva per far del male, nel senso "superiore" del termine, per sconcertare, poiché io stesso, tutto quanto ho letto nella mia vita, l'ho letto per turbarmi. Uno scrittore che, in un modo o nell'altro, non vi martirizza, non mi interessa. Occorre che qualcuno vi faccia soffrire, altrimenti non vedo la necessità di leggerlo.
In fondo, su questa storia della responsabilità vi risponderei in modo molto concreto. E tuttavia qualche lettore ce l'ho per forza di cose, ebbene, questi individui sono per la maggior parte dei poveracci, delle persone pietose, degli sventurati e per la maggior parte sono nevrotici. Beh, leggere certe mie cose è stata per loro una sorta di liberazione. In realtà il problema della responsabilità con le implicazioni diciamo negative, non si è mai posto e non si porrà mai. Ovviamente, forse non avrei lo stesso sentimento se i miei libri circolassero normalmente, ma anche in quel caso, sa, ad ogni modo, essendo la vita quello che è, una cosa assolutamente terribile. Non vedo perché la si dovrebbe truccare, perché eludere il problema del male.
Intervista di Christian Bussy, 1973

http://youtu.be/LhR536ao_cg







Se ho capito bene, lei mi chiede perché non abbia scelto semplicemente il silenzio, invece di girargli attorno, e mi rimprovera di profondermi in lamenti quando farei meglio a tacere. Tanto per cominciare, non tutti hanno la fortuna di morire giovani. Il mio primo libro l'ho scritto in rumeno, a ventun anni, ripromettendomi per il futuro di non scrivere più niente. Poi ne ho scritto un altro, seguìto dallo stesso proposito. La commedia si è ripetuta per più di quarant'anni. Il motivo? Il motivo è che lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un anno all'altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche. Le sembrerà ridicolo, eppure è verissimo. Un libro è la tua vita, o una parte della tua vita che ti rende estraneo. Ci si libera contemporaneamente di tutto quello che si ama e soprattutto di tutto quello che si detesta. Le dirò di più: se non avessi scritto, sarei potuto diventare un assassino. L'espressione è una liberazione. Le consiglio di provare questo esercizio: quando odia qualcuno, quando le viene voglia di farlo fuori, prenda un pezzo di carta e scriva che X è un porco, un bandito, un farabutto, un mostro. Si renderà subito conto di odiarlo meno. E proprio quello che ho fatto io. Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, e ho sopportato meglio la vita.
(E mentre mi appresto a uscire, Cioran insiste). Non dimentichi di dire che io sono soltanto un marginale, uno che scrive per svegliare. Lo riferisca: i miei libri aspirano a svegliare.

Emil Cioran, INTERVISTA CON FERNANDO SAVATER.



L’ultima intervista a Cioran (Abstract) 
Poco prima di morire a Parigi, nel giugno del 1995, il filosofo rumeno Emile Michel Cioran lasciò questa intervista allo scrittore tedesco Heinz-Norbert Jocks. 

INTERVISTA 
Qual è stato il significato della sua vita in Romania, della sua infanzia? 
 Cioran: la Romania era un paradiso terrestre, isolato da tutto e circondato da schiavi. 
Andavo a casa solo per mangiare e dormire, altrimenti passavo il tempo fuori, all’aria aperta, in maniera semplice. Metà del villaggio viveva sulle montagne, i Carpazi. Ho mantenuto l’amicizia con i pastori e li ho ammirati molto. Era un altro mondo, al di là della civiltà. Forse perché vivevano in un paese di nessuno, sempre di buon umore, come se ogni giorno fosse un giorno di festa. Secondo il loro punto di vista, l’inizio del genere umano non doveva essere stato così male. 

Quando finì tutto? 
Cioran: Nel 1920, a dieci anni, quando dovetti abbandonare il mio villaggio e andare a Hermannstadt [Sibiu], per frequentare la scuola elementare. Non potrò mai dimenticare quel dramma, la disperazione di quel giorno. Mi sono sentito morire. A quel tempo non c’erano auto, quindi ci diede un passaggio un contadino che prese me e mio padre a dorso del suo cavallo. Lo stile primitivo vissuto laggiù mi sembrava l’unico possibile. Ciò che conta è la preistoria, il momento antecedente la presa di coscienza, l’inizio della storia, la vita nell’inconscio. L’umanità deve andare avanti nell’essere ciò che è (risate), per la storia, solo un errore; per la coscienza, un peccato; e per l’essere umano, un’avventura senza pari. 

Una riflessione religiosa? 
 Cioran: Io non sono un ateo, anche se non credo in Dio e non prego. Per me esiste una dimensione religiosa indefinibile, al di là di ogni fede. Il credente si identifica con Dio, che può comprendere, invece io mi sento distante da tutto questo. Mi muovo su una linea di confine. Condivido la grande idea del peccato originale dell’uomo, ma non nel modo in cui si pensa ufficialmente. La storia, come l’essere umano del resto, sono, che noi lo vogliamo o no, il prodotto di una catastrofe. L’idea della deviazione umana è indispensabile per la comprensione dello sviluppo della storia. Secondo questa idea, l’essere umano è colpevole, non in senso morale, ma per aver preso parte a questa avventura. Quando abbandonai il mio villaggio, non ero più un primitivo. Prima di allora, ero appartenuto alla Creazione, come gli animali, assieme a quelli che ebbero un rapporto personale con me; ora mi son trovato fuori, distante. 

Lei discorreva di santi, di “Creazione abortita “, e si è visto in difficoltà? 
Cioran: Sì. Mia madre era il presidente della Chiesa Ortodossa di Hermannstadt e mio padre – un buon prete, e anche sincero, ma in alcun modo un uomo di profonda religiosità – in realtà avrebbe voluto fare l’avvocato. Fu molto triste quando lesse il libro Lacrime e Santi, alla fine del 1937, poco prima del mio trasferimento a Parigi. Quando inviai il manoscritto al mio editore rumeno, lui, mio padre, un mese dopo mi chiamò, per dirmi che non poteva stamparlo. Non l’aveva letto lui personalmente, ma uno dei suoi linotipisti; tuttavia mi disse che doveva il suo patrimonio a Dio, e che non avrebbe potuto pubblicare un libro del genere per nulla al mondo. In quel momento, nel pieno dei preparativi del viaggio in Francia, mi chiesi, disperato, cosa potevo fare. In quel frangente, incontrai un rumeno che aveva collaborato con la Rivoluzione russa e aveva conosciuto Lenin. Mi chiese cosa stesse succedendo, e così gli raccontai la storia e guarda caso lui possedeva una tipografia. Così, il mio libro fu pubblicato sprovvisto di un’etichetta editoriale, poco prima del mio trasferimento a Parigi. Pochi mesi dopo, ricevetti una lettera da mia madre, con la quale mi diceva della vergogna che il mio libro aveva provocato. Anche se lei non era una persona religiosa, si sentiva sotto forte pressione e mi pregò di rimuovere il libro dalla circolazione. Risposi che era l’unica opera religiosa scritta nei Balcani, perché era un balcanico confronto con Dio. Quasi tutti i miei amici ebbero una brutta reazione, soprattutto Mircea Eliade, che scrisse una dura critica, mentre una ragazza che conoscevo mi disse che era il libro più triste che avesse mai letto. È evidente che si trattava di una esperienza religiosa equivoca. Ero così immerso nella vita dei santi che, in verità, avrei dovuto pregare. Ma per questo mi mancava il dono necessario, anche se mi sentivo attratto dai grandi mistici. Tuttavia, la fede religiosa non è mai il risultato di una riflessione, ma qualcosa di molto più – troppo – complicato. La religiosità può essere stupida, ma ha radici molto profonde (risate). 

 Nel suo lavoro traspare un elogio della vita primitiva. 
Cioran: In questo villaggio rumeno dove vivevo, avevamo un orto accanto al cimitero, e, per questo motivo, fin da piccolo divenni amico di un becchino di una cinquantina di anni. Era un uomo che procedeva con gioia quando doveva scavare una tomba e giocare a calcio con i teschi. Mi sono sempre chiesto come poteva sentirsi giorno dopo giorno così felice. Io stesso, non ero come Amleto, non ero così sconvolto. In seguito, la nostra stretta amicizia subì un cambiamento e si trasformò in un problema. Mi sono chiesto perché abbiamo dovuto vivere tutto questo in vita. Per essere alla fine soltanto un cadavere? Queste impressioni rimasero come segni indelebili. Quell’uomo – che tutti i giorni si confrontava con la morte – si comportava come se non avesse mai visto un morto. Mi piaceva molto quell’uomo. Era sempre sorridente. 

 La morte è un tema a cui è stato fedele. 
Cioran: Fin da subito. È una posizione a cui è legata un altro tipo di intensità. Ho convissuto con la morte, fin da molto giovane. Anche ora che ho più motivi per pensarci, non associo nessuna idea compulsiva alla morte. In gioventù, l’idea che avevo della morte era un’ossessione predominante, giorno e notte. Come un nucleo di realtà, aveva una presenza opprimente, molto distante da tutte le influenze letterarie. Tutto ruotava intorno ad essa, al di là del senso di ripugnanza e paura, seppur in modo patologico. Questo, naturalmente, fu anche il motivo per cui non ho dormito bene durante quei sette anni della mia giovinezza, e dei quali divenni esausto. In quel periodo scrissi “Al Culmine della Disperazione”. Questa insonnia persistente divenne il mio punto di vista sul mondo e il mio atteggiamento nei suoi confronti. Il momento peggiore di questa situazione lo vissi a Hermannstadt, quando vivevo con i miei. Vagai senza meta per la città, di notte. Mia madre piangeva disperata, ed io, che avevo appena compiuto 21 anni, ero sul punto di suicidarmi. Anche oggi io non so perché non lo abbia fatto. E’ possibile che abbia sedato la mia voglia di suicidio con la forza della scrittura. Non avevo la minima concreta idea di cosa fosse la mia vita. 

Avete cambiato idea sulla morte? 
Cioran: Non è possibile che uno cambi idea sulla morte. Il problema dell’esistenza costituisce un problema in sé. Al cospetto, tutto il resto perde importanza. Curiosamente, ci sono molte persone che non pensano alla morte, che non vogliono o non possono pensarci. Quelli che comprendono cosa significhi la morte sono la minoranza. Gli altri mancano di valori e anche i filosofi evitano il problema. Ma uno filosofeggia sulla morte. Cioran: Certo, la morte è un tema nella storia della filosofia (risate), ma non intima esperienza di vita. In Baudelaire c’è la morte, in Sartre non c’è. I filosofi hanno evitato la morte trasformandola in una questione, invece di viverla come qualcosa di esistente. Non lo considerano come qualcosa di assoluto, ma tra i poeti è diverso. Essi sentono il fenomeno profondamente, prefigurandola. Un poeta insensibile al tema della morte non è un grande poeta. Sembra esagerato, ma è così. 

In una serie di saggi su alcuni amici, Lei ha scritto di Samuel Beckett. 
Cosa le piace del suo lavoro? 
Cioran: Il fatto di non aver bisogno di eroi, il fatto di aver creato un raro tipo umano e, con esso, aver mostrato un altro genere di umanità. Il suo lavoro, quindi, non è associato a un determinato periodo. È la singolare opera di un singolo individuo. 

Non sarà l’essere entrambi affascinati dall’ozio che vi porta ad essere così vicini? 
Cioran: L’esperienza della noia, non la noia volgare, per mancanza di compagnia, ma la noia assoluta, è molto importante. Quando qualcuno si sente abbandonato dai propri amici, quello è nulla. La noia vera esiste senza motivo, senza cause esterne. Con essa si ha la sensazione del tempo vuoto, qualcosa di simile alla vacuità, una cosa che conosco da sempre. Ricordo molto bene la prima volta, avevo cinque anni. Allora vivevo in Romania, con tutta la mia famiglia. Improvvisamente, ho avuto la chiara coscienza di ciò che era l’ossessione, la noia. Erano circa le tre del pomeriggio, quando fui preso dalla sensazione del nulla, della carenza assoluta di sostanza. Fu come se, d’un tratto, tutto fosse scomparso, tutto fosse piombato nella nullità ed è stato l’inizio della mia riflessione filosofica. Questo stato intenso di solitudine mi colpì in modo così profondo che mi chiesi cosa realmente volesse dire. Non essendo in grado di difendermi, né di liberarmene attraverso la riflessione, sicuro che il presentimento sarebbe tornato altre volte, ne rimasi così sconcertato, da accettarlo come punto di orientamento. Al culmine della noia si sperimenta il senso del Nulla, e, in questo senso, non si tratta di una situazione deprimente, dal momento che, per una persona non credente, rappresenta la possibilità di vivere l’assoluto, qualcosa come l’ultimo istante.


Cioran: 
una vita intensa quanto densa di contraddizioni; una moltitudine di strati in viaggio ciascuno sull'altro, dentro l'altro. La scoperta di un mondo artefatto a soli 10 anni; la consapevolezza di un adulterio consumato tra uno stile di vita recondito e una realtà agli antipodi; la mistificazione di una religiosità senza nome, senza padri nè madri; infine il conflitto tra se stessi e tutto il resto, tutti coloro che hanno segnato nell'identità la propria appartenenza: una vita forse più complicata che complessa. Ma la religiosità non è mai stupida [...]. E' solo l'alfabeto che ciascuno di noi utilizza per leggere dentro al mistero. "Ho imparato ad amare la morte per non odiare la vita". Fu un concetto che partorii per caso, resa gravida da chissà quale accadimento. Non vidi mai chi e cosa generò questa consapevolezza dentro di me, ma cominciò a crescere finchè un giorno la diedi alla luce: rinacqui. Credo piuttosto che mi sorprese come un amante che, rifiutato volta dopo volta, aggiunse la mia vita alla propria fino a far sì che la compulsione fomentasse l'azione. E mi braccò così come chiunque sconvolto dall'ossessione può fare: senza permesso e con infinito possesso. Non so se fosse amore, ma se lo era, somigliava a una parte di me.


Emil Cioran. L’architetto delle caverne. 
La teologia, la morale, la storia e l’esperienza di tutti i giorni INSEGNANO CHE, PER RAGGIUNGERE L’EQUILIBRIO, NON C’È UN’INFINITÀ DI SEGRETI – CE N’È UNO SOLO: ‘SOTTOMETTERSI’. <ACCETTATE UN GIOGO> ESSE CI RIPETONO <E SARETE FELICIsiate ‘qualche cosa’ e verrete liberati dalle vostre pene>. In effetti, tutto è ‘mestiere’ quaggiù: professionisti del tempo, funzionari del respiro, dignitari della speranza, UN ‘LAVORO’ CI ATTENDE ANCOR PRIMA DELLA NASCITA: le nostre carriere si preparano nel grembo delle nostre madri. MEMBRI DI UN UNIVERSO UFFICIALE, DOBBIAMO OCCUPARVI UN POSTO, IN VIRTÙ DI UN DESTINO RIGIDO, che non si allenta se non in favore dei folli; essi, almeno, non sono COSTRETTI AD AVERE UNA FEDE, AD ADERIRE A UNA ISTITUZIONE, A SOSTENERE UN’IDEA, A SEGUIRE UN’INIZIATIVA. Da quando la società si è costituita, coloro che hanno voluto sottrarvisi sono stati perseguitati o scherniti. VI SI PERDONA TUTTO, PURCHÉ ABBIATE UN MESTIERE, UNA QUALIFICA SOTTO IL VOSTRO NOME, UN SIGILLO SUL VOSTRO NULLA. Nessuno ha l’audacia di esclamare: <IO NON VOGLIO FARE NIENTE!> - si è più indulgenti con un assassino che non con uno spirito affrancato dagli atti. Moltiplicare le possibilità di sottomissione, RINUNCIARE ALLA PROPRIA LIBERTÀ, UCCIDERE IN SÉ IL VAGABONDO: COSÌ L’UOMO HA RAFFINATO LA PROPRIA SCHIAVITÙ e si infeudato ai fantasmi. Anche i suoi disprezzi e le sue ribellioni, non li ha coltivati se non per esserne dominato, schiavo com’è dei propri atteggiamenti, dei propri gesti e dei propri umori. Uscito dalle caverne, ne ha conservato la superstizione; era loro prigioniero, ne è divenuto l’architetto. Perpetua il suo stato primitivo con maggiore inventiva e sottigliezza; ma, in fondo, ingrandendo o rimpicciolendo la propria caricatura, egli si plagia sfrontatamente. Ciarlatano ‘a corto di trucchi’, le sue contorsioni e le sue smorfie incantano ancora…”
EMIL M. CIORAN (1911 - 1995), “Sommario di decomposizione” (“Précis de décomposition”, Gallimard, Paris 1949), trad. di Mario Andrea Rigoni e Tea Turolla con una nota di Mario Andrea Rigoni, Adelphi, Milano 1996, ‘L’architetto delle caverne’ (‘L'architecte des cavernes’), p. 195.





Parigi, 10 dicembre 1976, Caro amico,
in novembre, passando per Parigi, Lei mi aveva chiesto di collaborare a un volume in onore di Borges. La mia prima reazione è stata negativa; la seconda… anche. A che pro celebrarlo quando lo fanno perfino le università? La mala sorte di essere riconosciuto si è abbattuta su di lui. Meritava di meglio. Meritava di rimanere nell’ombra, nell’impercettibile, di restare tanto altrettanto inafferrabile e impopolare quanto la nuance. Lì, era a casa propria. La consacrazione è la peggior punizione – per uno scrittore in generale, e in modo particolare per uno scrittore del suo tipo. [..] Nè in Francia nè in Inghilterra vedo qualcuno che abbia una curiosità paragonabile a quella di Borges, una curiosità spinta fino alla mania, fino al vizio, dico proprio vizio, poichè, in fatto di arte e di riflessione, tutto ciò che non si trasforma in un fervore alquanto perverso è superficiale, dunque irreale. [..] Poichè vuole sapere ciò che mi piace di più in Borges, le risponderò senza esitare che è la sua scioltezza negli ambiti più vari, la sua capacità di parlare con eguale sottigliezza dell’Eterno Ritorno e del TangoPer lui tutto si equivale, dal momento che è il centro di tutto. La curiosità universale è un segno di vitalità soltanto se reca il marchio assoluto di un io, di un io da cui tutto emana e a cui tutto ritorna: sovranità dell’arbitrario, inizio e fine che si possono interpretare secondo i criteri più capricciosi. Dov’è la realtà in tutto questo? L’Io – farsa suprema… Il gioco, in Borges, ricorda l’ironia romantica, l’esplorazione metafisica dell’illusione, il funambolismo dell’Illimitato. Friederich Schlegel, oggi, è addossato alla Patagonia…Ancora una volta, si può solo deplorare che un sorriso enciclopedico e una visione così raffinata suscitino un’approvazione generale, con tutto ciò che questo implica… Ma, dopo tutto, Borges potrebbe diventare il simbolo di un’umanità senza dogmi nè sistemi, e, se c’è un’utopia alla quale sottoscriverei volentieri, sarebbe quella in cui ciascuno si modellasse su di lui, su uno degli spiriti meno pesanti che mai vi siano stati, l’ultimo dei delicati…
E.M. Cioran, Lettera a Fernando Savater, in “Esercizi di ammirazione”, Adelphi, 1988













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