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lunedì 12 marzo 2012

Pier Paolo Pasolini. Alla mia nazione. e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti , una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti

A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde.
E' un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.
Pasolini


Siamo stanchi di diventare giovani seri, o contenti per forza, o criminali, o nevrotici: vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così senza sogni.
 Pier Paolo Pasolini. Accattone




L'intelligenza non avrà mai pesomai 
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai 
da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione
di questo popolo ormai dissociato 
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mia liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
vedere morire nel modo più atroce
gli altrinella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Pier Paolo Pasolini
Da: "La Guinea", Poesia in forma di rosa,
 in "Bestemmia", volume primo, Garzanti, Milano 1993



Alla mia nazione - Pier Paolo Pasolini
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Pier Paolo Pasolini


L’Ionio non è mare nostro: spaventa. appena partito da Reggio – città estremamente drammatica e originale, di una angosciosa povertà, dove sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci”- mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi sulla costa. Così circa fino a Porto Salvo. Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile. 
Vado verso Crotone, per la zona di Cutro. Illuminati dal sole sul ciglio della strada, due uomini mi fanno segno di fermarmi. Mi fermo li faccio salire. Mi dicono – questa è zona pericolosa, di notte è meglio non passarci. due anni fa, qui, in questo punto hanno ammazzato a uno, un ricco signore, mentre tornava in macchina da roma – ecco, a un distendersi delle dune gialle in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. 
È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. 
Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia. 
Nel fervore che precede l’ ora di cena l’omertà ha questo forma lieta, vociante: nel loro mondo si fa così. Ma intorno c’è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura”.
ESTRATTO DA “LA LUNGA STRADA DI SABBIA”
di Pier Paolo Pasolini




Pasolini Non sopporta Roma. 
“Mi stabilirò da quelle parti, da qualche parte, forse in Persia – dice. In Persia, sai che qualcuno mi riconosceva? Un soldato, raso, coi baffini, che aveva visto in un festival i miei film, mi si è avvicinato tutto timido. Devo stabilirmi altrove. Non sopporto più Roma, le case brutte, la gente brutta, le automobili, il traffico”. Quelli della troupe raccontano infatti che girando nello Yemen o in Persia ogni tanto Pasolini si fermava e diceva che quella casa, quel posto, lo voleva comprare per stabilirsi lì. C‟era persino un luogo, nello Yemen, che ormai tutti della troupe chiamavano “l‟albergo Pasolini”. (Ma lo ha comprato? Rispondono: comprerà. Quando Pasolini dice una cosa, in genere si è portati a crederlo; non si pensa a un passeggero capriccio; le sue parole hanno accento di verità). “Le Mille e una notte – dice Pasolini – non è nella mia tradizione infantile. Ho certo letto, a suo tempo, quello che si leggeva da ragazzi, Aladino e la lanterna magica [...]. Per vent‟anni, poi, non ho più pensato alle mille e una notte. C‟erano altre letture, altri interessi. Da giovane la filologia, Leopardi, i simbolisti; e soprattutto, come capita ai giovani, la tendenza a una visione apocalittica. Poi ho cambiato carattere, ho aggiunto nuovi elementi alla mia psicologia. Il merito è stato soprattutto di Elsa Morante. Lei mi ha insegnato ad amare la leggerezza, per esempio la leggerezza mortuaria di Mozart. Ho imparato ad amare Mozart, e lo amo nonostante non sia nelle mie corde... perché questo male profondo che si espia in leggerezza, che vince il dolore con la leggerezza, sarà forse più santo della santità canonica, ma io sono per quest‟ultima... Poi, dopo Elsa Morante, Ninetto, Ninetto Davoli, che è la gioia, l‟allegria, un balletto vivente...”. 
Giulia Massari 
Da “Il Mondo”, 31 maggio 1973 



Io avevo voglia di stare da solo, perché soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose [...] Mi piaceva camminare, solo, muto, imparando a conoscere passo per passo, quel nuovo mondo, così come avevo conosciuto passo passo, camminando solo, la periferia romana: c'era qualcosa di analogo: soltanto che ora tutto appariva dilatato e sfumante in un fondo incerto.
Pier Paolo Pasolini. L’odore dellIndia



Siamo a Benares e camminiamo, reduci dal bazar, condotti dal tassista maomettano, grosso, intelligente e veloce come un europeo, verso il tassì. Camminiamo per una larga strada del centro, con le case a due passi, gonfie come pianole, tutte di legno, con gli angoli smussati rotondeggianti, i portichetti slabbrati e dipinti di colori teneri.
Sotto un portichetto dipinto di fresco di verdognolo, nella confusione di tassì, cenci e vacche, sentiamo il suono insistente e primitivo di una musica. La faccia del tassista ci promette qualcosa di buono: perciò ci accostiamo, e ci uniamo a una piccola ressa, addossata a una finestrella, in un vicolo perpendicolare alla strada e alla loggetta verde. Attraverso la finestrella, vediamo una saletta non molto grande e completamente disadorna, ma non sporca: in fila sono accucciati per terra degli indù, sei o sette file di una decina di persone l’una. Tutti cantano con gran fervore. Gli strumenti musicali che accompagnano quel coro, sono pochi. Prevale un tamburo lungo e stretto battuto con grande furore dal musicante, che pare stacchi, vorticosamente, le mani dalla pelle del tamburo, come questa fosse spalmata di colla. I colpi sono ordinati, ma precipitosi e drammatici. Il canto della folla accucciata, benché elementare, com’è la melodia indiana, ha qualcosa di giocondo: ricorda i canti delle nostre osterie.
Sotto la finestra, in un angolo della stanza, c’è un parapetto, dipinto di giallo, che circonda la cappella, col solito dio, l’ingam, ossia il sesso, tra le figure in atteggiamenti simbolici: arte folclorica e moderna.
Saltato fuori da chissà dove, ecco che uno strano essere comincia a ballare davanti al recinto del piccolo altare, sui tappeto stinto e strappato. È un nano, maschio, ben adulto e peloso, ma vestito da nana: una grande sottana gialla e un corpetto verde; braccialetti ai polsi e alle caviglie: collane e orecchini luccicanti. Tra le dita agita dei sistri, che si uniscono al suono degli altri strumenti, ossessivi. All’assordante ritmo dei suoi sistri, il nano balla vorticosamente, ripetendo sempre gli stessi gesti: rotea su se stesso, facendo fare alla gonna una specie di ruota, si ferma, si rigira, va verso la folla, fa l’atto di prendere qualcosa sul palmo della mano aperto e teso, e va a gettare questo qualcosa verso l’altare. Ripete questi gesti, senza posa, coi sistri che ronzano e ringhiano come un alveare di api furenti.
L’espressione del nano ha qualcosa di osceno, di maligno. Tra tutte quelle facce dolci di indiani, è l’unico a sapere cos’è la bruttezza. Lo sa in modo infantile e bestiale, chissà per quale ragione: e compie la sua danza sacra e antica, come facendone la caricatura, deturpandola con la sua inspiegabile perfida volgarità.
Non fu il solo caso. Anche a Gwalior, una cittadina tra Delhi e Benares, potei notare qualcosa di analogo. Passavamo per la piazza centrale della città, stupiti del suo aspetto moderno; una gran Porta, due tre palazzotti rossi e bianchi, una grossa aiuola nel centro. Però dappertutto, in mezzo al traffico, vacche e capre, grige di sporcizia. Tra le vacche e le capre, su un marciapiede, era disteso un sacco, grigio di sporcizia, e, sotto, un uomo, con una gran capigliatura nera che fuorusciva dagli orli del sacco. Un gruppo di gente stava intorno a lui, in ginocchio, venerandolo. Prima di andarsene, qualcuno che era stato lì in raccoglimento devoto, gli baciava o gli sfiorava i piedi con la mano. E lui, l’adorato, fermo sotto il suo straccio immondo, con tutti quegli immondi capelli sciolti sul marciapiede. Quando uno, paralizzato di venerazione, gli si accostò offrendogli una sigaretta accesa, l’adorato rifiutò, muto, limitandosi a scuotere follemente un piede, quasi desse piccoli vorticosi calci isterici all’intero mondo.
A Kajurao, il giorno dopo, abbiamo avuto modo di vedere un altro di questi santoni. Kajurao è il posto più bello dell’India, anzi forse l’unico posto che si può dire veramente bello, nel senso «occidentale» di questa parola. Un immenso prato-giardino di gusto inglese, verde, d’una tenerezza struggente, con delle buganvillee sparse a grossi cespugli rotondi, davanti a ognuno dei quali l’occhio si sarebbe perduto a goderne il rosso paradisiaco per ore intere. File di giovinette, col sari, tutte inanellate, lavoravano il prato: e, più in là, file di fanciulli, accucciati sull’erba, e, più in là ancora, giovani che portavano, appesi all’estremità di una pertica, dei secchi d’acqua: tutto in una pace di infinita primavera. E sparsi in questo prato, i piccoli templi: che sono quanto di più sublime si possa guardare in India.
Ai margini del prato, c’era una casetta, una catapecchia non lurida, di mattoni: un fuoco acceso dentro, e qualche suppellettile. Intorno, qualcuno stava trafficando, come preso dalle sue faccende. Era un uomo sui quarant’anni, con una folta barba nera e una folta zazzera nera alla D’Artagnan. Il suo aspetto era immediatamente antipatico. Osservandolo bene, infatti, si vedeva che non stava affatto sfaccendando, occupato a accendersi il fuoco, a cucinarsi i fagioli o che so io: ma, con la stessa attenzione, accuratezza e albagia, di chi fa un lavoro ritenuto indispensabile, stava accudendo a un cerimoniale sacro. Girava come un matto intorno alla catapecchia, si fermava, toccava degli oggetti, faceva dei gesti con le mani, si chinava a terra.
Lo lasciammo lì: chiuso nella sua maniaca concentrazione, in un cerchio infinito di tolleranza.
Non riuscivamo a staccarci da Kajurao: c'erano sei templi, piccoli e stupendi, e intorno a ognuno indugiavamo almeno per un’ora, seduti sui suoi scalini, o sul prato sottostante, a goderci quella insperata pace, potentemente mite.
I templi davanti a noi, coi loro due corpi (uno grande, con nell’interno l’ingam, l’altro, di fronte, più piccolo, poco più che una tettoia a coprire la stupenda vacca di pietra rivolta all’ingam) nell’oro del sole, erano di una bellezza inesauribile. Non cose di pietra, parevano: ma d’un materiale quasi commestibile, più che prezioso, aereo. Nuvoloni e nuvolette cadute in quel gran prato verdino, condensate, coagulate, diventate simili a grandi grappoli d’uva, col gambo ficcato a terra, gocciolanti, e i grani fitti, quasi incastrati l’uno nell’altro: e poi un po’ alla volta, un sole paziente pareva averli prosciugati, fino a renderli sughero, canna, legno, tufo: ma lasciando a ogni superficie quel groviglio di grani incastrati, ricciuti.
Guardavamo, seduti su un gradino slabbrato, fatto di quel materiale ch’era pura tenerezza e vecchiezza, intorno a noi, quel mondo di templi, quando fummo distratti da una figura che attraversava il prato. Veniva avanti sicura, rapida: i giardinieri, intorno, radi e pigri, la guardavano passare deferenti.
Era il santone. Chissà dove andava. Camminava impettito, nudo come un verme, con lo zazzerone e il barbone neri che andavano su e giù al moto del suo passo elastico e quasi sportivo: camminava altezzoso col petto in fuori, senza degnare di uno sguardo i fedeli. Sembrava un capoufficio che passasse per il corridoio tra gli uscieri e i fattorini. E quando un povero negretto, umile umile, gli si accostò e gli offerse la solita sigaretta accesa, egli non si voltò nemmeno non solo a ringraziarlo, ma nemmeno a guardarlo, quell’imbecille.
Fortunatamente l’induismo non è una religione di stato. Perciò i santoni non sono pericolosi. Mentre i loro fedeli li ammirano (ma mica tanto, poi), c’è sempre un mussulmano, un buddista o un cattolico che li guarda con compassione, ironia o curiosità. È un fatto, comunque, che in India l’atmosfera è favorevole alla religiosità, come dicono anche i referti più banali. Ma a me non risulta che gli indiani siano molto occupati da seri problemi religiosi. Certe loro forme di religiosità sono coatte, tipicamente medioevali: alienazioni dovute all’orrenda situazione economica e igienica del paese, vere e proprie nevrosi mistiche, che ricordano quelle europee, appunto, del medioevo, che possono colpire individui o intere comunità. Ma più che una religiosità specifica (quella che dà i fenomeni mistici o la potenza clericale) ho osservato tra gli indiani una religiosità generica e diffusa: un prodotto medio della religione. La non violenza, insomma, la mitezza, la bontà degli indù. Essi hanno forse perso contatto con le fonti dirette della loro religione (che è evidentemente una religione degenerata) ma continuano a esserne dei frutti viventi. Così la loro religione, che è la più astratta e filosofica del mondo, in teoria, è, ora, in realtà, una religione totalmente pratica: un modo di vivere.
Si giunge addirittura a una specie di paradosso: gli indiani, astratti e filosofici alle origini, sono attualmente un popolo pratico (sia pure di una pratica che serve a vivere in una situazione umana assurda), mentre i cinesi, pratici e empirici alle origini, sono attualmente un popolo estremamente ideologico e dogmatico (pur risolvendo praticamente una situazione umana che pareva irrisolvibile). Così, in India, ora, più che alla manutenzione di una religione, l’atmosfera è propizia a qualsiasi spirito religioso pratico.
Ho conosciuto dei religiosi cattolici: e devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce; un trapianto splendidamente riuscito. A Calcutta, Moravia, la Morante e io siamo andati a conoscere Suor Teresa, una suora che si è dedicata ai lebbrosi. Ci sono sessantamila lebbrosi, a Calcutta, e vari milioni in tutta l’India. E una delle tante cose orribili di questa nazione, davanti a cui si è del tutto impotenti: in certi momenti ho provato dei veri impulsi di odio contro Nehru e i suoi cento collaboratori intellettuali educati a Cambridge: ma devo dire che ero ingiusto, perché veramente bisogna rendersi conto che c’è ben poco da fare in quella situazione. Suor Teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla. La lebbra, vista da Calcutta, ha un orizzonte di sessantamila lebbrosi, vista da Delhi ha un orizzonte infinito.
Suor Teresa vive in una casetta non lontana dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato. Con lei ci sono altre cinque, sei sorelle, che l’aiutano a dirigere l’organizzazione di ricerca e di cura dei lebbrosi, e, soprattutto, di assistenza alla loro morte: esse hanno un piccolo ospedale dove i lebbrosi vengono raccolti a morire.
Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l’occhio dolce, che, dove guarda, «vede». Assomiglia in modo impressionante a una famosa sant’Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica.

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