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mercoledì 22 febbraio 2012

Bruno Bettelheim. Il genitore deve resistere all'impulso di cercare di costruire il FIGLIO CHE LUI VORREBBE AVERE, e aiutarlo invece a sviluppare appieno, secondo i suoi ritmi, le sue potenzialità, a diventare quello che lui vuole e può essere, in armonia con la sua dotazione naturale e come risultante della sua individualissima storia


“Platone, che comprese cosa forma la mente dell’uomo, sapeva quale fosse il valore delle esperienze intellettuali per il conseguimento della vera umanità”. Per questo suggerì che “i futuri cittadini della sua repubblica ideale iniziassero la loro educazione letteraria dall’apprendimento dei miti piuttosto che dai meri fatti o dai cosiddetti insegnamenti razionali .......“Il piacere che proviamo quando ci lasciamo coinvolgere da una fiaba, l’incanto che avvertiamo, proviene non solo dal suo significato psicologico ma anche dalle sue qualità letterarie, dalla fiaba come opera d’arte …E come avviene con tutta l’arte, anche il significato più profondo della fiaba è diverso per ciascuna persona e per la stessa persona, in momenti differenti della vita …Critici letterari capirono e affermarono che le fiabe sono "esplorazioni spirituali" estremamente realistiche perché rivelano ‘la vita umana come è vista o intuita dall’intimo’
Bruno Bettelheim, Il mondo incantato

Bruno Bettelheim  (psicoanalista austriaco)
Soltanto uscendo nel mondo l'eroe della fiaba (il bambino) può trovare se stesso; e quando trova se stesso trova anche l'altra persona con cui potrà vivere felice per il resto dei suoi giorni, cioè senza dover più provare l'angoscia di separazione. La fiaba è orientata verso il futuro e guida il bambino - in termini che egli può comprendere sia nella sua mente conscia, sia in quella inconscia - aiutandolo ad abbandonare i suoi desideri infantili di dipendenza e a raggiungere una più soddisfacente esistenza indipendente. Oggigiorno i bambini non crescono più nella sicurezza di una famiglia allargata, o di una comunità ben integrata. E’ perciò importante, ancor più che ai tempi in cui furono inventate le fiabe, fornire al bambino moderno immagini di eroi che devono uscire da soli nel mondo e che, benchè originariamente all'oscuro delle cose ultime, trovano luoghi sicuri nel mondo seguendo la loro giusta via con profonda fiducia interiore. L'eroè delle fiabe agisce per un certo tempo nell'isolamento, così come il bambino moderno si sente spesso isolato. L'eroe viene aiutato dal fatto di essere a contatto con cose primitive - un albero, un animale, la natura - così come il bambino si sente più a contatto con esse della maggior parte degli adulti. La sorte di questi eroi convince il bambino che, come loro, può sentirsi emarginato e abbandonato nel mondo, brancolante nel buio, ma, come loro, nel corso della vita verrà guidato ad ogni passo, e otterrà aiuto quando ne avrà bisogno. Oggi ancor più che in passato, il bambino ha bisogno della rassicurazione offerta dall'immagine dell'uomo isolato che malgrado ciò è in grado di stringere relazioni significative e comprensatrici col mondo che lo circonda.
BrunoBettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, 2015 (ed. or. 1975), pag. 17


Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, 1975 USA, ed.it.1977 Feltrinelli.
Bettelheim, psicoanalista austriaco (1903-1990), spiega perché fate e streghe, maghi, orchi e draghi fanno a suo parere più bene che male ai bambini.
Di origini ebraiche, nel 1938 fu deportato a Dachau, l'anno dopo fu liberato grazie a un'amnistia per il compleanno di Hitler, riuscì a raggiungere la moglie negli USA e divenne cittadino americano. Morì suicida.

Il genitore deve resistere all’impulso di cercare di costruire il figlio che lui vorrebbe avere, e aiutarlo invece a sviluppare appieno, secondo i suoi ritmi, le sue potenzialità, a diventare quello che lui vuole essere, in armonia con la sua dotazione naturale e come risultante della sua individualissima storia.
Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto



I due grandi problemi dell'adolescenza sono:
trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo, trovare se stessi.
Bruno Bettelheim, psicoanalista austriaco



La solidarietà reciproca all’interno della famiglia continua a essere desiderata con la medesima intensità di prima, ma oggi è più difficile da realizzare appunto per la forza delle emozioni e dei conflitti che sorgono tra persone che vivono insieme e sono tese ciascuno a conseguire la propria autonomia” e “...l’umanità non ha ancora trovato un modo migliore per allevare i suoi piccoli se non nell’ambito della famiglia, né un’organizzazione più adatta a fornire il benessere emotivo, o una struttura entro la quale il bambino possa più direttamente fare un’esperienza di un rapporto d’intimità, che è ciò che gli darà la sicurezza interiore per tutto il resto della vita”.
Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto



Ho letto "la fortezza vuota" per documentarmi, perché la mia tesi alla Scuola Universitaria per Traduttori fu la traduzione di un romanzo incentrato sulla storia di una mamma e di suo figlio autistico. Il senso di irraggiungibilità e l'impotenza di fronte al verdetto di autismo, a me, estranea al settore, hanno creato tanta tanta tristezza.



Bruno Bettelheim
Posted on 1 febbraio 2011 by Dr. Giuliana Proietti.

Bruno Bettelheim, classe 1903, fu uno psichiatra e psicanalista statunitense di origine austriaca.
Citando Pirandello, potremmo parlare di un Dr. Bettelheim Uno e Due e concludere che la verità forse non esiste, poiché ognuno ha la sua.

Cominciamo dalla biografia ufficiale:
Bettelheim nacque a Vienna, dove svolse gli studi universitari e si laureò nel 1938.
Era il tempo di Freud, della psicoanalisi e poi, purtroppo, anche del Nazismo.
Il destino di Bettelheim seguì la sorte di molti dei suoi correligionari ed infatti nel 1938 fu fatto prigioniero e portato nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald.
Nel 1939, in circostanze che non sono ancora del tutto chiare, lo psicoanalista riuscì a fuggire negli Stati Uniti, dove cinque anni dopo ottenne la cittadinanza americana. Nel 1941 Bettelheim sposò, in seconde nozze, Trude Weinfeld, un’insegnante di cui si era innamorato prima di essere fatto prigioniero, e la coppia ebbe tre figli. Tranne che per i primi due anni, trascorsi presso il Rockford College nell’Illinois, lo psicoanalista lavorò all’Università di Chicago dove, nel 1963, ottenne anche una cattedra di psicologia e psichiatria. Presso la stessa Università si occupò di psicologia dell’età evolutiva e in particolare di autismo infantile, dirigendo per oltre trent’anni la Orthogenic School, Istituto residenziale per bambini psicotici dell’Università di Chicago.

Nel 1944 divenne il Direttore dell’Istituto e in libri come “Love Is Not Enough” (1950) e Truants from Life (1955), Bettelheim descrisse i sistemi educativi della scuola e la filosofia terapeutica, da lui stesso elaborata. Queste teorie sono spiegate, con aggiunta di casi clinici, in “The Empty Fortress: Infantile Autism and the Birth of the Self” (1967).

Egli vedeva il comportamento dei bambini psicotici e autistici come il risultato di genitori troppo apprensivi in alcuni stadi delicati dello sviluppo psichico. I bambini, che tendono naturalmente a ritenersi responsabili di ciò che preoccupa i loro genitori, finiscono per ritirarsi in un mondo fantastico, allo scopo di prevenire un comportamento distruttivo e autodistruttivo. Bettelheim paragonava questa deumanizzazione distruttiva del bambino a quanto aveva potuto osservare nei comportamenti tenuti dai nazisti nei campi di concentramento sui prigionieri.

A seguito delle sue esperienze di detenzione, descritte nel libro The Informed Heart (1960) aveva elaborato un metodo di trattamento che consisteva nell’accettazione incondizionata di tutti i comportamenti spontanei del bambino, da parte del personale della scuola. Sin dall’inizio la sua impostazione teorica e clinica fu criticata: ad esempio non veniva accettata la teoria di Bettelheim per cui bambini autistici e i bambini che presentano disturbi emotivi fossero da considerare come un caso clinico da trattare nello stesso modo.

Ritenendo che l’ansia fosse un elemento importante per la nascita della psicosi del bambino, Bettelheim trattò i bambini con disturbi comportamentali della Scuola Orthogenica costruendo per loro un ambiente rassicurante, materiale ed affettivo, che considerava il primo passo necessario, prima di mettere in atto qualsiasi tentativo di comprendere le cause della psicosi. Un ambiente sano e delle esperienze di vita in grado di ridurre l’isolamento emotivo del bambino potevano essere la chiave per ottenere un corretto sviluppo psicofisico.

Tra i suoi libri tradotti in italiano, che sono ancora dei best sellers, ricordiamo:

  • L’amore non basta (1950); 
  • La fortezza vuota (1976); 
  • I figli del sogno (1977); 
  • Il mondo incantato (1977); 
  • Sopravvivere (1981); 
  • Imparare a leggere (1989); 
  • La Vienna di Freud (1990). 


Bettelheim fu molto citato anche per le sue frasi celebri.
Famosa quella del “mai dire mai”: nessuno dovrebbe dire “non farò mai quella cosa.

Il nostro comportamento infatti è dettato più dalle circostanze che dalla nostra personalità.
Dopo l’esperienza dei campi di concentramento, lo psicologo austriaco arrivò a concludere che i comportamenti più imprevedibili possono manifestarsi quando le circostanze diventano eccezionali (Questa concezione, tra l’altro, fa molto pensare alla teoria di Zimbardo, sull’effetto Lucifero).

E’ l’ambiente che determina il comportamento:
di conseguenza, se un ambiente organizzato può distruggere una personalità, deve essere possibile ricostruire l’essere umano a partire da un ambiente completamente positivo.

Il suo maggiore successo editoriale è “Il mondo incantato”, un’opera nella quale l’autore descrive le più belle e conosciute favole per bambini:

da Hänsel e Gretel a Cappuccetto Rosso, da Biancaneve alla Bella Addormentata nel Bosco.

Le fiabe, secondo Bettelheim, catturano l’attenzione dei bambini, li divertono, suscitano il loro interesse e stimolano la loro attenzione: è questo dunque il migliore mezzo che hanno gli educatori per comunicare con i bambini, per trasmettere loro dei messaggi positivi.

Per più di quarant’anni, Bruno Bettelheim è stato considerato dal grande pubblico come uno dei più importanti e influenti psicoanalisti, un erede della psicoanalisi viennese, un allievo degli allievi di Freud.

Il giudizio su Bettelheim era però destinato a modificarsi nel tempo, anzi a ribaltarsi completamente ad opera di un giornalista suo biografo, Richard Pollack, anch’egli di origine ebraica. La molla che ha portato Pollack a scrivere una biografia al veleno di Bettelheim, circostanziata e lunga quasi 500 pagine, è un caso personale. Stephen Pollack, fratello dell’autore del saggio, fu internato nella scuola di Bettelheim, con la diagnosi di autismo. In questo istituto stette per cinque anni. Un giorno, durante una vacanza da scuola ebbe un incidente domestico, (che coinvolse anche Richard), dal quale il ragazzo non uscì vivo. Bettelheim affermò che si trattava di suicidio: quali furono le parole di conforto che disse alla famiglia? Queste: “La madre, i genitori, la famiglia, voi tutti ne siete i responsabili.” Tra l’altro Bettelheim definì il padre del suo assistito, il Signor Pollack senior, come un inetto, utilizzando il termine yiddish ”schlemiel”, e sua madre come una “falsa martire”, che aveva la colpa di aver rifiutato questo figlio alla nascita.

Come si può capire questa tragedia sconvolse profondamente la vita di Richard, che trascorse anni a documentarsi e ad indagare. Il libro di Pollack è uscito in America nel 1997 (in Italia, caso stranissimo e non poco sorprendente, il libro non è stato ancora tradotto) e si intitola “La Creazione del Dr. B.”, come veniva chiamato lo psicoanalista dai suoi collaboratori. Secondo Mr. Pollak, Bettelheim raccontò di sé stesso non tutto quello che aveva fatto davvero, ma quello che avrebbe voluto fare: incontrare Freud, portare dei bambini autistici a casa sua, prendere degli attestati dall’Università di Vienna, combattere per liberare Vienna dai nazisti, resistere ai maltrattamenti dei nazisti nei campi di concentramento ed essere salvato da questi attraverso la mediazione, niente meno, di Eleanor Roosevelt, la moglie del Presidente degli Stati Uniti d’America.

Dopo essere emigrato negli Stati Uniti infatti, sempre secondo Pollack, falsificò numerosi documenti accademici e fece della sua vita un mito. Si vantava di aver conosciuto Freud e di aver frequentato la sua più ristretta cerchia, di aver lavorato su bambini autistici a Vienna, di aver intervistato 1.500 prigionieri nei campi di concentramento ecc.Portando avanti le sue indagini anche in biblioteche e archivi di Vienna, Amsterdam, Dachau, Buchenwald e negli Stati Uniti d’America, intervistando più di 100 persone, tra parenti ed altri che avevano dei rapporti con lui, confrontando i libri e gli articoli l’autore, Pollack svela una “fortezza”, citando il famoso libro di Bettelheim, costruita sulla sabbia. Bettelheim rifiutò di essere intervistato dal giornalista per questa biografia, ma Pollack poté intervistare due dei tre figli di Bettelheim, alcuni colleghi, i suoi editori, studenti ed amici: molti di loro hanno concordato sul fatto che ”you couldn’t believe anything he said.” cioè era un bugiardo, non si poteva credere ad una sola parola di tutto quello che diceva.

Nella Orthogenic School, che diresse per trent’anni, il Dr. B. si vantava di aver curato ‘centinaia’ di bambini autistici riuscendo ad ottenerne la guarigione nell’85% dei casi. Pollack dimostra con dovizia di particolari che le cose non andarono esattamente così.

Ecco allora la descrizione fatta da Pollack del Dr: B numero Due:
Nipote e figlio di ricchi commercianti ebrei di legname, dopo la morte del padre, causata dalla sifilide, B.B. fu costretto ad interrompere i suoi studi di letteratura e storia dell’arte per dedicarsi al mestiere di famiglia. La madre era una donna fredda e anaffettiva. Bruno aveva allora solo 23 anni: questa tragedia familiare fu un grave colpo per lui, in quanto gli impedì di riuscire ad integrarsi pienamente nell’élite intellettuale che frequentava a Vienna. Si laureò con 12 anni di studi fuori corso, in Storia, studiando soprattutto come autodidatta. Prima di essere arrestato dai Nazisti, nel 1938, stava completando un dottorato in estetica (una branca della filosofia) che non fu mai portato a termine. Catturato dai nazisti nel 1938, fu deportato a Dachau e poi Buchenwald, dove fu rilasciato nella primavera del 1939 grazie a tangenti pagate dalla madre e da parenti della moglie, emigrati negli Stati Uniti. Entrando nel porto di New York, avrebbe detto: “si apre una nuova vita per me” ed infatti è lì che, secondo Pollack, sfruttando gli sconvolgimenti prodotti dalla Seconda guerra mondiale, riuscì a ricostruire la sua storia, e perfino a mitizzarla. Bettelheim non era un uomo particolarmente attraente, ma era estremamente abile nell’uso del linguaggio, considerato seducente da molte donne e invidiato da molti uomini. In America, dice il biografo, con una consumata abilità nella manipolazione e con opportunismo, per decenni, avrebbe trascorso la sua vita sviluppando teorie senza fondamento, affermando risultati non verificabili, attraverso il plagio di altri autori. Secondo Pollak, oltre ad inventarsi titoli accademici che non aveva, oltre a citare un tirocinio per diventare analista che non aveva mai frequentato, il nostro arrivò perfino a dire che Freud (che non aveva mai conosciuto) avesse detto un giorno di lui: “questa è esattamente la persona giusta di cui abbiamo bisogno per far crescere e sviluppare la psicoanalisi”. In America, a quel tempo, nessuno avrebbe messo in dubbio quanto diceva uno psicoanalista ebreo-viennese scappato dai campi di concentramento; con il suo accento viennese, i continui riferimenti a Freud, la sua abitudine di interpretare i sogni dei suoi allievi, i loro ricordi, ecc…

Chi poteva dubitare del Dr. B.?
Dosando sottilmente seduzione e provocazione, grazie al mondo mediatico che subiva il suo fascino e il suo talento di ‘fine dicitore’, svicolando dalle critiche del mondo scientifico, che non arrivavano al grande pubblico, Bettelheim gettò l’anatema sui gruppi vulnerabili, come gli ebrei sotto il nazismo, sui prigionieri dei campi di concentramento, sulle madri dei bambini autistici, sui giovani pacifisti. Nel suo Istituto regnò come sovrano assoluto, dove i soli neri ammessi erano i domestici. Quanto ai collaboratori, per Pollack il Dr. B faceva di tutto per destabilizzare il loro equilibrio psicologico, per meglio manipolarli. I bambini che Bettelheim definiva ‘psicotici’ erano dei bambini con disturbi del comportamento, o provenienti da ambienti sociali e familiari disagiati. Di bambini autistici veri e propri, secondo le ricerche di Pollack, in quell’istituto diretto dal Dr. B., ve ne furono veramente pochi. Bettelheim era un direttore autoritario, aggressivo e persino violento con i bambini che non gli obbedivano; alla sbandierata assenza di regole di autorità, si opponeva nel privato uno stile direttivo molto acceso che prevedeva come sanzioni al mancato rispetto delle regole perfino l’umiliazione e la violenza fisica. Mr. Pollak sostiene che un metodo di punizione era ad esempio far spogliare un paziente ed imporgli di farsi la doccia di fronte ad altre persone.
Ciò nonostante, rileva Pollack, Bettelheim riuscì a diventare un punto di riferimento:
le sue teorie portarono una generazione di genitori ed operatori a colpevolizzare i genitori dei bambini autistici e a considerare ‘autistici’ anche bambini che vivevano semplicemente nel disagio, millantando poi un numero incredibile di ‘guarigioni’.

Nel 1943 nell’articolo ”Individual and Mass Behavior in Extreme Situations,” Bettelheim se la prese con i prigionieri ebrei, cosa che forse più delle altre ha fatto inorridire Pollack e molti intellettuali ebrei: i prigionieri ebrei, secondo lo psicologo, invece di prendersela con i loro carnefici, si combattevano l’un l’altro, come dei bambini, fantasticando e perfino emulando gli esempi dati dai Nazisti e comportandosi come degli strumenti in mano alla Gestapo.

Questo documento attrasse l’attenzione critica di Meyer Schapiro, Dwight Macdonald, Dwight D. Eisenhower, Theodor Adorno e Max Horkheimer. Pollak si mostra indignato soprattutto perché queste idee, del tutto personali, sono state camuffate come il risultato di ricerche scientifiche condotte sul campo, su 1.500 prigionieri in cinque differenti baracche. Ma se Bettelheim aveva vissuto solamente in due baracche, come aveva potuto condurre le interviste?

C’è poi il mistero della sua prima moglie, Patsy, che Bettelheim definì “autistica”.
In seguito la storia della prima moglie autistica fu abbellita, spiegando che Patsy era solo una dei tanti ragazzi autistici che B. curava a Vienna, al proprio domicilio. Non è vero nulla, confuta Pollack, ma questo gli permise di lavorare presso l’Istituto Ortogenico. Bettelheim, dice Pollack, non poteva sopportare le madri, specialmente ebree: non voleva che esse visitassero i figli in Istituto o si portassero a casa i figli. Apprezzava invece la vita nei kibbutz, dove l’educazione dei figli non era praticata dai genitori del bambino, ma dal gruppo allargato degli adulti della piccola comunità.

Nel libro ‘La fortezza vuota’ arrivò ad attribuire le cause dell’autismo al cattivo comportamento materno, coniando il termine di “madri-frigorifero.

Grazie alle sue teorie negli anni novanta il mondo scientifico riteneva che l’autismo fosse un disturbo psicologico dovuto alle cattive cure materne e non ad una disabilità psichica, dice Pollack. Quando Bettelheim andò in pensione, ritirandosi dalla Orthogenic School nel 1973, andò a vivere in California dove scrisse ”The Uses of Enchantment’ (in italiano “il mondo incantato”), che Pollack mostra in larga parte ricopiato da un testo del 1963 dal titolo ”A Psychiatric Study of Fairy Tales: Their Origin, Meaning and Usefulness,” di Julius Heuscher.

Pochi mesi dopo la morte della moglie, il 12 marzo 1990, Bettelheim, già sofferente di diversi problemi di salute (aveva 86 anni), si ubriacò di whisky e assunse una grande quantità di psicofarmaci per trovare il coraggio di suicidarsi per asfissia, chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica.
Per i suoi detrattori questo suicidio è la prova dell’esistenza di un secondo Dr. B., sconosciuto ai più.

Concludendo, il Dr. B. potrebbe essere stato un personaggio molto diverso da quello che viene descritto nelle biografie ufficiali e davvero pericoloso per le sue idee personali, con scarsi connotati scientifici. Da quello che scrive Pollack non sembrerebbe essere stato neanche un esempio di saggezza e di onestà, ma sicuramente indagando nella vita di molte persone di successo potremmo trovare gli stessi scheletri nell’armadio, a partire dallo stesso Freud.

Una biografia così distruttiva è spiegabile, oltre che per le ragioni obiettive fin qui elencate, anche per una comprensibile vendetta personale ed “etnica” da parte di Pollack (Bettelheim infatti aveva abbandonato la religione ebraica, professava l’ateismo ed inoltre parlava molto male degli altri ebrei, arrivando al punto di sostenere che le vittime dell’Olocausto avessero “collaborato” con i loro carnefici nella loro distruzione, in quanto da secoli coltivavano un pensiero ‘da ghetto’, all’insegna della passività).

Psicolinea.it © Feb 2011

Tratto dal sito psicolinea.it, online dal 2001:
http://www.psicolinea.it/bruno-bettelheim/




Bruno Bettelheim.
Nel suo celebre e discusso La fortezza vuota, Bettelheim correlava anche il comportamento dei bambini autistici a quello di alcune vittime delle SS nei lager nazisti, quelli che erano totalmente rassegnati alla morte e si ritiravano completamente dal mondo.
Da un paio di decenni alcuni studiosi hanno messo in dubbio le diagnosi di autismo di Bettelheim. Secondo tali studiosi l'autismo è (almeno prevalentemente) una patologia su base organica e se i casi riscontrati da Bettelheim fossero stati casi clinici di autismo vero, egli non avrebbe potuto accertare guarigioni con la terapia della parola (psicoterapia) e con un setting ambientale adeguato.[5] Naturalmente, gli studiosi che invece propendono per una spiegazione prevalentemente relazionale dell'autismo (dovuto ad una natura traumatica della relazione dell'individuo con la realtà o con i propri accuditori primari) non sono affatto sorpresi dell'efficacia dell'approccio psicoterapeutico.
Bettelheim sostenne la scarsa utilità o addirittura la nocività di un approccio educativo basato sul metodo delle punizioni, in particolare di tipo fisico, benché sia emerso negli anni successivi che nel suo Istituto di Chicago si facesse largo uso di sevizie sessuali e di barbarie per mantenere l'ordine.[6]
https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Bettelheim





IL TESTAMENTO SEGRETO DI BETTELHEIM.
Bruno Bettelheim, il grande psicologo dell' infanzia morto suicida, non è uscito di scena in punta di piedi come tutto lasciava supporre dopo il laconico comunicato (Suicidio per asfissia) di John E. Smialek, capo coroner del Maryland. I particolari della sua fine, che apprendiamo oggi, sono raccapriccianti e fanno di Bettelheim un personaggio anche più tragico. Sabato scorso la dottoressa Jacquelyn Sanders, direttrice della Orthogenic School di Chicago diretta da Bettelheim per gran parte della sua vita, trovandosi a Washington, gli aveva telefonato alla Charter House di Silver Spring (Maryland), per vederlo. Lui le aveva risposto: La settimana prossima, ma dipende dalle mie condizioni fisiche. Martedì mattina Bettelheim ha chiuso a chiave la porta della sua stanza, ha ingerito una forte dose di pillole (non meglio specificate), ha messo la testa in un sacco di plastica, che ha annodato al collo, ed è soffocato. Accanto al suo letto hanno trovato una nota, ma per il momento non se ne conosce il contenuto, né a chi sia diretta. Vengono in luce anche i motivi del suicidio. Nel 1987 Bettelheim, che già era stato profondamento scosso dalla morte della moglie Gertrude (avvenuta nel 1984), era stato colpito da un ictus che gli aveva tolto la capacità di scrivere. Il suo declino fisico, da allora, era stato rapido. All' amico Rudolph Ekstein, in un momento di confidenza, parlava di Socrate e della cicuta. Inoltre e questa è forse la ragione principale della resa, un'intima sconfitta che contrastava con tutto il suo lavoro teorico sui rapporti tra figli e genitori pare certo che negli ultimi anni vivesse in mezzo a insopportabili contrasti con la figlia Ruth, psicologa affermata.
La sua fuga dalla California al Maryland era stata provocata da questi contrasti e dal desiderio di essere vicino all' altra figlia, Naomi Pena, mentre anche dal figlio Eric, che vive a Londra, si sentiva lontano. Ma la casa di riposo, squallida in confronto al lusso dell' appartamento di Ruth a Santa Monica, aveva finito per prostrarlo ulteriormente.

Il perché della fine ora è chiaro, anche se lascia un' enorme perplessità nel contesto del posto che Bruno Bettelheim occupava nella cultura americana dal 1939, quando aveva scelto l'esilio dopo i due anni passati a Dachau e a Buchenwald. In questa perplessità si fanno avanti anche le prime opinioni divergenti. Tra l' altro la sua morte è giunta il giorno stesso in cui la rivista Time è andata in edicola con una cover story sul Diritto di morire. Ed è fresca in tutti l' immagine del professor Louis Levy (interpretato dal filosofo Martin S. Bergmann) dell' ultimo film di Woody Allen, Crimini e misfatti.
A quest'ultimo proposito, Allan Bromfield, uno psicoanalista di Stanford (dove Bettelheim era professor emeritus), ci dice: E' troppo mettere in relazione la morte di Bettelheim con la fine di Primo Levi e quella fittizia di Louis Levy, com' è stato fatto. Bettelheim aveva 86 anni ed era malato: il marchio nazista lo aveva superato. Di parere contrario rimane Rudolph Ekstein, il quale, come Jacquelyn Sanders, fa notare che alla Orthogenic School, dove Bettelheim curava bambini handicappati, la realtà era l'opposto dei campi nazisti: porta chiusa dall' esterno, ma aperta dall' interno.
Il suo lavoro trascende la psicoanalisi, osserva da Harvard lo psichiatra Robert Coles.
La sua importanza riguarda il mondo della cultura in generale.
Il coro maggiore dei commenti si mantiene su questo tono:
con Bettelheim, l'America perde una delle sue voci più forti e più appassionate.
Si levano però anche voci contrarie. Jeffrey M. Masson, allontanato dall'establishment psicoanalitico dopo le sue divergenze con Anna Freud, ci dice testualmente: Bettelheim? Una frode! Non era affatto uno psicoanalista, non è vero che ha lavorato con Freud come tutti dicono perché Freud non lo conobbe mai, non è vero che a Dachau e a Buchenwald passasse due anni ma solo pochi mesi. Si era inimicato tutti gli ebrei perché accusava il suo popolo di aver voluto il proprio sterminio, gli studenti degli anni 60 li chiamava fascisti, e i bambini li tirannizzava, come dimostra anche il suo fallimento di padre!
Masson sostiene di interpretare il parere della comunità scientifica californiana quasi al completo. Woody Allen e Martin S. Bergmann reagiscono con un no comment. Altri come Fritz Redlich, psichiatra di Yale si limitano a vedere in una profonda depressione la tragedia. E altri ancora come lo psicoanalista Peter Blos di New York sembrano scartare i pettegolezzi e volersi concentrare sulle invenzioni terapeutiche di Bettelheim, che vanno oltre la dottrina freudiana. Mentre, del mistero che in un primo momento circordava il suicidio, resta solo da appurare ciò che contiene la sua ultima missiva, un fatto è certo: Bruno Bettelheim è vissuto lottando, e si è dato la morte quando non poteva lottare più.









  EmpaticaMente




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