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martedì 17 gennaio 2012

Hobbes. Non imparare dai tuoi errori. Impara dagli errori degli altri così che tu non possa farne.

Vero o falso sono attributi delle parole, non delle cose.
E dove non c'è parola, non c'è né verità né falsità; ci può essere errore, come quando aspettiamo ciò che non sarà, quando sospettiamo ciò che non è stato, ma in nessuno dei due casi un uomo può essere accusato di falsità
Thomas Hobbes, "Leviatano"



Qualunque cosa noi immaginiamo è finita.
Perciò non esiste alcuna idea o concezione di ciò che chiamiamo infinito.
Nessuno può avere nella mente un'immagine di una grandezza infinita, né può concepire una velocità infinita, un tempo infinito, o una forza infinita o una potenza infinita. Quando diciamo che qualcosa è infinito, intendiamo dire soltanto che non siamo in grado di concepire i termini e i limiti della cosa che abbiamo nominato, perché non abbiamo nessuna concezione della cosa ma solo della nostra incapacità."
Thomas Hobbes, "Leviatano"



"L'ignoranza del significato delle parole, che è difetto di comprensione, dispone ad accogliere con fiducia non soltanto la verità che non si conosce ma anche gli errori e, quel che più importa, le assurdità di coloro ai quali si presta fiducia. Non è infatti possibile scoprire né l'errore né l'assurdità senza una completa comprensione delle parole.
[...] L'ignoranza delle cause naturali dispone alla credulità, tanto da far credere molte volte a cose impossibili, perché non si conosce nulla di contrario al fatto che possano essere vere e non si è in grado di scoprirne l'impossibilità."
Thomas Hobbes, "Leviatano"



La sola via per ERIGERE UN POTERE COMUNE CHE POSSA ESSERE IN GRADO DI DIFENDERE GLI UOMINI DALLA AGGRESSIONE STRANIERA E DALLE INGIURIE RECIPROCHE, e con ciò rassicurarli in modo tale che con la loro industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di CONFERIRE TUTTI I LORO POTERI E TUTTA LA LORO FORZA AD UN UOMO O AD UNA ASSEMBLEA DI UOMINI CHE POSSA RIDURRE TUTTE LE LORO VOLONTÀ, PER MEZZO DELLA PLURALITÀ DI VOCI, AD UNA VOLONTÀ SOLA. Questa è la generazione del grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più reverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa.
Thomas Hobbes, Leviatano



«...in modo tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo, o a quest'assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama STATO, in latino CIVITAS. E' questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria e dell'aiuto reciproco contro i nemici di fuori...».
Thomas Hobbes, Leviatano, cap. XVII.


«La natura, ossia l'arte per mezzo della quale Dio ha fatto e governa il mondo, viene imitata dall'arte dell'uomo, oltre che in molte altre cose, anche nella capacità di produrre un animale artificiale. Infatti, poiché la vita non è altro che un movimento di membra, l'inizio del quale sta in qualche parte interna fondamentale, perché non potremmo affermare che tutti gli automi (macchine semoventi per mezzo di molle e ruote, come un orologio) possiedono una vita artificiale? Che cosa è infatti il cuore se non una molla e che cosa sono i nervi se non altrettante cinghie, e le articolazioni se non altrettante rotelle che trasmettono il movimento a tutto il corpo secondo l'intendimento dell'artefice? L'arte si spinge anche più avanti attraverso l'imitazione di quel prodotto razionale che è l'opera più eccellente della natura: l'uomoViene infatti creato dall'arte quel grande Leviatano chiamato Repubblica o Stato (in latino Civitas) che non è aoltro che un uomo artificiale, anche se ha una statura e una forza maggiori rispetto all'uomo naturale, per proteggere e difendere il quale è stato voluto».
Thomas Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, Introduzione.



«Fin qui ho delineato la natura dell'uomo (costretto dal suo orgoglio e dalle altre passioni a sottomettersi al governo) insieme a quella del grande potere del suo reggitore, che ho paragonato al Leviatano, prendendo il paragone dai due ultimi versetti del quarantunesimo capitolo del Libro di Giobbe; dove Dio, dopo aver messo in evidenza il grande potere del Leviatano, lo chiama re dell'orgoglio: "Non c'è nulla sulla terra - dice - che possa essere paragonato a lui. E' fatto per non aver paura. Vede sotto di sé ogni cosa, per quanto elevata; ed è re di tutti i figli dell'orgoglio"».
ivi, cap. XXVIII
Thomas Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Laterza, Bari 1989


"La maggior parte degli scrittori politici suppongono o pretendono che l'uomo sia un "animale sociale" già atto fin dalla nascita a consociarsi, e su questa base costruiscono le loro teorie poltiche. Ma questo assioma (presupposto) è falso, benchè accettato dai più: e l'errore proviene da un esame troppo superficiale della natura umana. Noi non cerchiamo, per natura, amici, ma ci avviciniamo a persone da cui ci venga onore, vantaggio o una qualche utilità. Questo cerchiamo in primo luogo. La condizione dell'uomo é una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro, dove ognuno è governato dalla propria ragione e non c'è cosa di cui egli possa fare uso che egli non abbia la facoltà di impiegare per preservare la propria vita contro i suoi nemici. L’interesse e la paura sono i principi della società."
Thomas Hobbes


L'interesse e la paura sono i principi della società.
Thomas Hobbes

Non imparare dai tuoi errori. Impara dagli errori degli altri così che tu non possa farne.
Thomas Hobbes

La condizione dell'uomo è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro
Thomas Hobbes


La vita è un movimento incessante che, quando non può continuare in linea retta, si trasforma in moto circolare.
Thomas Hobbes

Un uomo libero è colui che, in quelle cose che la sua forza ed il suo ingegno lo mettono in grado di fare, non è impedito di fare ciò che vuole.
Thomas Hobbes


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Il filosofo immaginario







1. IL LEVIATANO
In polemica con la tradizionale tesi di Aristotele, che vedeva nella società il prodotto di un istinto primordiale, il filosofo di Westport sostiene che nell'uomo, a differenza degli animali, non esiste alcuna socialità istintiva.
Fra gli individui non esiste alcun amore naturale, ma solo una miscela esplosiva di timore e bisogno reciproco, che se non fosse controllata dallo Stato, darebbe origine a un'incontrollabile serie di violenze e sopraffazioni ("Homo homini lupus").

"Di conseguenza, il contratto che fonda ogni società umana ha carattere artificiale.
Perciò, è necessario che lo Stato sia assoluto, sovrano e potente, capace di sopprimere il prevalere dell'interesse personale. Solo riconoscendosi tutti come sudditi di un'autorità esterna, lo Stato, gli uomini possono abolire qualsiasi forma di antagonismo reciproco".
Thomas Hobbes



Thomas Hobbes. Il bene comune.
È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono socievolmente fra loro (a causa di ciò sono annoverate da Aristotele fra le creature politiche), pur senza avere altra direzione che i loro giudizi e appetiti particolari, né avendo loquela con cui significarsi vicendevolmente quello che ritengono utile per il bene pubblico; qualcuno potrebbe forse desiderare di sapere perché l’umanità non possa fare allo stesso modo. Al che rispondo: primo, che gli uomini sono continuamente in competizione fra loro per l’onore e la dignità, mentre queste creature non lo sono; di conseguenza, su questo terreno, nasce fra gli uomini l’invidia e l’odio, e infine la guerra, ma niente del genere nasce fra queste creature;
secondo, che fra queste creature, il bene comune non differisce dal privato e, tendendo per natura al loro bene privato, procurano per ciò stesso il bene pubblico. Per l’uomo, invece, la cui gioia consiste nel confrontarsi con gli altri, non può aver sapore nulla che non sia eminente; terzo, che queste creature, non avendo (come l’uomo) l’uso della ragione, non vedono – e non pensano di vedere – alcuna pecca nell’amministrazione degli affari comuni, laddove, fra gli uomini, ce ne sono moltissimi che si ritengono più saggi e più capaci degli altri di governare la società. Costoro si sforzano – chi in un modo, chi in un altro – di riformare e di innovare e, così facendo, la portano alla disgregazione e alla guerra civile;
quarto, che queste creature, benché siano provviste di un qualche uso della voce nel comunicarsi vicendevolmente i rispettivi desideri ed affezioni, mancano, tuttavia, di quell’arte delle parole grazie alla quale certi uomini possono rappresentare agli altri ciò che è bene nelle sembianze di male e il male nelle sembianze di bene, nonché aumentare o diminuire l’apparente grandezza del bene e del male, rendendo inquieti gli uomini e turbando la pace a loro piacimento;
quinto, le creature irrazionali non possono distinguere fra ‹torto› e ‹danno›; perciò, finché i loro agi sono assicurati non si sentono offese dalle loro compagne, mentre l’uomo è più pronto ad agitarsi proprio quando gode del massimo degli agi, giacché è allora che ama mostrare la propria saggezza criticando le azioni di coloro che governano lo Stato.
Infine, l’accordo fra queste creature è naturale; quello fra gli uomini deriva solo dal patto ed è artificiale. Dunque non desta meraviglia che (oltre al patto) sia necessario qualcos’altro per rendere il loro accordo costante e durevole; e questo qualcosa è un potere comune che li tenga in soggezione e che ne diriga le azioni verso il bene comune.”
THOMAS HOBBES (1588 – 1679), “Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile” (1651), a cura e introd. di Arrigo Pacchi con la collaborazione di Agostino Luppoli, trad. di Agostino Luppoli, Maria Vittoria Predeval, Riccarda Rebecchi, appendice di Francesca Izzo, Mondadori, Milano 2008 (su licenza di Laterza, Roma-Bari 1989, Appendice 2005), Seconda parte ‘Lo Stato’, Capitolo diciottesimo ‘Cause, generazione e definizione di «Stato»’, pp. 183 – 184.

“ It is true, that certain living creatures, as bees, and ants, live sociably one with another, (which are therefore by Aristotle numbered amongst political creatures;) and yet have no other direction, than their particular judgments and appetites; nor speech, whereby one of them can signify to another, what he thinks expedient for the common benefit: and therefore some man may perhaps desire to know, why mankind cannot do the same. To which I answer,
First, that men are continually in competition for honour and dignity, which these creatures are not; and consequently amongst men there ariseth on that ground, envy and hatred, and finally war; but amongst these not so.
Secondly, that amongst these creatures, the common good differeth not from the private; and being by nature inclined to their private, they procure thereby the common benefit. But man, whose joy consisteth in comparing himself with other men, can relish nothing but what is eminent.
Thirdly, that these creatures, having not (as man) the use of reason, do not see, nor think they see any fault, in the administration of their common business: whereas amongst men, there are very many, that think themselves wiser, and abler to govern the public, better than the rest; and these strive to reform and innovate, one this way, another that way; and thereby bring it into distraction and civil war.
Fourthly, that these creatures, though they have some use of voice, in making known to one another their desires, and other affections; yet they want that art of words, by which some men can represent to others, that which is good, in the likeness of evil; and evil, in the likeness of good; and augment, or diminish the apparent greatness of good and evil; discontenting men, and troubling their peace at their pleasure.
Fifthly, irrational creatures cannot distinguish between ‹injury›, and ‹damage›; and therefore as long as they be at ease, they are not offended with their fellows: whereas man is then most troublesome, when he is most at ease: for then it is that he loves to shew his wisdom, and control the actions of them that govern the commonwealth.
Lastly, the agreement of these creatures is natural; that of men, is by covenant only, which is artificial: and therefore it is no wonder if there be somewhat else required (besides covenant) to make their agreement constant and lasting; which is a common power, to keep them in awe, and to direct their actions to the common benefit.”
THOMAS HOBBES, “Leviathan” (“Leviathan, or The Matter, Forme, & Power of a Common-Wealth Ecclesiastical and Civill”, Andrew Crooke, London 1651), edited with an Introduction and Notes by John. C. A. Gaskin, Oxford University Press, Oxford-New York 1998 (first published 1996), Part 2 ‘Of Commonwealth’, Chapter XVII ‘Of the Causes, Generation, and Definition of a Commonwealth’, 6. – 12., pp. 113 – 114.


L'attualità di Hobbes: gnoseologia, antropologia e politica.
Filosofo noto per l’impostazione materialistico-meccanicistico che ne regge il pensiero, dalle considerazioni sulle facoltà umane alle riflessioni politiche, Hobbes è senz’altro una delle figure cardine della filosofia moderna.

Insieme a Dario Zucchello – autore della monografia su Hobbes per la collana Briciole di Filosofia - abbiamo ripercorso alcune delle tematiche principali del suo pensiero, cercando di individuarne l’attualità.

Qual è l’interesse del pensiero hobbesiano oggi?
Il pensiero di Hobbes è ancora di grande interesse per quello che rappresenta per la cultura moderna europea.

Dopo l’ambizioso progetto della Instauratio Magna baconiana, gli Elementa Philosophiae hobbesiani costituiscono una delle prime grandi “narrazioni” filosofiche del Seicento:
un disegno di ricostruzione del sapere in funzione della potenza umana, generato in una fase cruciale di trasformazione in campo scientifico (astronomia copernicana e kepleriana, fisica galileiana) e politico (guerra civile in Inghilterra, conflitti religiosi continentali).

Un pensiero che matura nella consapevolezza dei limiti della conoscenza umana e quindi della necessità di ottimizzarne gli sforzi, all’interno di un universo i cui i processi meccanici sembrano ridimensionare il ruolo privilegiato dell’uomo.

In questo senso, di Hobbes sono da apprezzare, oltre alla (più frequentata) teoria politica, orientata dall’urgenza conservativa e dalla connessa esigenza d’ordine, i contributi a una teoria empirista della conoscenza e nominalista del linguaggio, ripresa e approfondita poi da Locke, e la riflessione sulla natura della scienza, in cui proprio la dimensione logico-linguistica riveste una funzione essenziale: nel disordine latente, a tutti i livelli, nell’esperienza, l’ordine si può costruire sostanzialmente nell’artificio della convenzione linguistica.

Ricordiamo inoltre che dobbiamo a Hobbes la prima formulazione esplicita del fondamento teorico dell’odierna Intelligenza Artificiale: una definizione della ragione come calcolo di nomi.

Che cosa significa “filosofia” per Hobbes e quale ruolo le riconosce nella vita dell’uomo?
Il termine filosofia è impiegato da Hobbes sostanzialmente come sinonimo di scienza e connotato in senso discorsivo: la filosofia si presenta come ratiocinatio, reasoning, e, proprio per la sua natura discorsiva, è per Hobbes essenzialmente prodotto del corretto uso del linguaggio, cioè dell’ordinamento dei caotici dati dell’esperienza attraverso l’imposizione di un artificiale filtro logico-linguistico. La filosofia costruisce e ricostruisce processi generativi, e dunque, escludendo ciò di cui non sia possibile concepire generazione, può avere come oggetto di studio solo il «corpo»: la sua ricostruzione delle cause generatrici è funzionale alla produzione/previsione degli effetti e così finalizzata a una pratica incidenza nel corso dell’esistenza umana. Il quadro teorico deve assicurare efficace direzione nell’azione concreta: Hobbes sottolinea, baconianamente, come la scienza sia «in vista della potenza», ogni speculazione in vista di un’azione o un’opera.

Che cos’è l’uomo per Hobbes?
La concezione antropologica che emerge dai testi hobbesiani risulta dalla rigorosa e radicale riduzione dell’uomo a realtà naturale e di questa a parametri materialistici e deterministici. Ricondotta ogni cosa a corpo e ogni processo naturale a contatto meccanico, ad alterazione puramente quantitativa degli stati di cose, l’uomo è presentato come nodo materiale determinato da un peculiare status dinamico (in altre parole da moto) che tende a conservarsi nell’urto costante con altri nodi materiali, sottoposti alle stesse leggi fisiche.
Un quadro che implica l’annullamento di ogni forma di dualismo ontologico (di stampo cartesiano) tra uomo e natura, materia e spirito: alla sensazione è attribuita l’origine di ogni orientamento conoscitivo verso il mondo e agli affetti la spinta determinante dei comportamenti. La rappresentazione della fisiologia percettiva e passionale – che fa dell’uomo una sorta di meccanismo che trova nel cuore la propria molla fondamentale - ne sottolinea l’orientamento “egocentrico” e dunque il relativismo conservativo.

In che condizioni vive l’uomo su questa terra (dallo stato di natura alla costituzione dello Stato)?
La trattazione della condizione umana è proposta da Hobbes in rigorosa continuità con l’analisi della natura umana, ricorrendo a un artificio concettuale: lo stato di natura.
Risultato della sottrazione, dalla condizione storica dell’uomo, degli obblighi imposti dall’associazione politica, lo stato di natura riflette una situazione di immediato individualismo, in cui ogni essere umano provvede, al di fuori di qualsiasi freno o tutela legale, alla propria conservazione, ricorrendo direttamente a quanto ritenga indispensabile per conseguirla.

Una condizione di uguaglianza e piena libertà, dominata dalle urgenze e necessità materiali, rispetto alle quali ognuno insegue, in competizione con gli altri, i mezzi per conservarsi.

In questo senso, il concetto di stato di natura consente di mettere a fuoco l’intrinseca tensione presente nella natura umana, spinta a preservarsi con mezzi che si rivelano inidonei allo scopo: in assenza di leggi che istituiscano un «corpo civile», infatti, le dinamiche affettive conducono inevitabilmente al conflitto.

La guerra si rivela tuttavia decisiva per la genesi dello stato in quanto, il rischio della morte, “livellando” qualsiasi pretesa differenza naturale tra gli individui, fa emergere il valore insostituibile della pace.

La ragione, in questo contesto, suggerisce una condotta più adeguata all’obiettivo della preservazione di sé, che si traduce in una serie di dettami, da Hobbes specificati come «leggi di natura», i quali sottolineano la convenienza a ricercare un accordo generale, che eviti il rischio della vita.

Il percorso suggerito dalla ragione per fuoriuscire dai paradossi della condizione di piena libertà - in cui l’esistenza è sempre potenzialmente a rischio, e quella libertà, di conseguenza, mai propriamente fruibile – passa attraverso la rinuncia al proprio jus in omnia, che deve essere reciproca e dunque implicare un mutuo, contestuale impegno. Questo, a sua volta, perché ne sia assicurata l’esecuzione, deve presupporre l’istituzione di un’autorità che lo faccia rispettare.

Di fronte all’incombenza della morte, il calcolo prudenziale spinge i singoli alla contestuale rinuncia ai propri poteri naturali (a eccezione del diritto a difendersi se aggrediti o minacciati direttamente nel corpo e nei beni) a favore di un «potere comune», che eserciterà il controllo su di loro, li sottrarrà alla «miserevole condizione della guerra», mantenendoli in soggezione, al rispetto dei patti.

Che consigli può darci – se può – l’Hobbes politico oggi?
Il contributo di Hobbes è considerato un classico della teoria politica, che ha ciclicamente richiamato l’attenzione degli studiosi: questo vale soprattutto per la seconda metà del XIX secolo e un po’ per tutto il XX secolo.

Nei momenti di crisi politica (tra le due guerre e nel secondo dopoguerra) il confronto con le opere di Hobbes ha impegnato intellettuali dagli orientamenti più diversi, da Carl Schmitt a Leo Strauss e Hannah Arendt: Hobbes offriva l’opportunità di riflettere su origine, destino e paradossi dello Stato moderno: irresistibile sotto tutti i punti di vista, ma nello stesso tempo solo strumentale rispetto alle esigenze di conservazione e sicurezza; fortemente rappresentativo in quanto istituito come «persona unica», proprio mentre al suo interno ogni singolo individuo tendeva a scomparire.
Una macchina (automaton) potenzialmente capace di prevaricare la ragione che l’ha creata.

Probabilmente la lettura dell’Hobbes politico è oggi utile per ritornare a riflettere sui fondamenti della vita associata: la ricerca di sicurezza in un mondo insicuro e le garanzie che lo Stato deve in tale prospettiva assicurare; il senso delle istituzioni, che non devono essere fini a se stesse ma funzionali al successo conservativo dei cittadini; il valore dei diritti, che senza uno Stato che li faccia rispettare risulta vanificato; le condizioni per garantire, riconoscendo il primato della politica, la possibilità di convivenza di gruppi religiosi diversi.


DARIO ZUCCHELLO, saggista e professore di Filosofia, è uno dei principali animatori del gruppo di ricerca sull’insegnamento della filosofia denominato “La città dei filosofi”. Ha al suo attivo numerosi studi di storia della filosofia.


Intervista a cura di Serena Lietti
http://www.diogenemagazine.it/letture/343-l-attualita-di-hobbes-gnoseologia-antropologia-e-politica.html




Il 4 dicembre 1679 muore il filosofo, scienziato e storico inglese ‪‎Thomas Hobbes‬. Conosciuto soprattutto per la sua attività di filosofo politico, il suo pensiero è articolato nell’opera ‪‎Leviatano‬.
Nella prospettiva meccanicistica di Hobbes, lo stato di natura è concepito come una condizione di sopraffazione e di lotta di tutti contro tutti: la ragione spingerebbe quindi gli uomini ad associarsi, per raggiungere uno stato di pace.
Alla base della società vi sarebbe quindi un contratto, in cui gli uomini rinunciano ai propri diritti illimitati in favore un terzo, un uomo o un assemblea, da cui farsi governare, e i cui poteri non sono in alcun modo vincolati.





I diritti naturali persistono anche nello stato di società, e anzi sono la base della nostra libertà. Se gli uomini accettano di vivere in una società è solo per star meglio. Nessun contratto di sottomissione ma un deposito di sovranità, che può essere ripreso perché basato sul consenso. Come possono dunque gli uomini decidere di proteggersi da volpi e faine facendosi divorare da un leone?




In realtà il contratto è l'unico modo per uscire dallo stato di natura, dove, secondo Hobbes, vige la legge del Lupo. Gli uomini quindi, cedono tutti i loro diritti, a differenza di quanto affermato da Locke e dal giusnaturalismo.





Lo stato di natura non è naturale ma imposto, la versione popolare della dottrina di Hobbes è erronea




"Hobbes oltre che della teoria politica si interessò e scrisse di storia, geometria, etica, ed economia. Inoltre, la descrizione di Hobbes della natura umana, descritta come sostanzialmente competitiva ed egoista, esemplificata dalle frasi Bellum omnium contra omnes ("la guerra di tutti contro tutti" nello stato di natura), e Homo homini lupus ("ogni uomo è lupo per l'altro uomo"), ha trovato riscontro nel campo dell'antropologia politica"


(Dettaglio dal frontespizio della prima edizione del Leviatano, 
che rappresenta lo Stato come un sovrano assoluto, costituito dai corpi dei singoli individui)









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