martedì 10 gennaio 2012

Arthur Schopenhauer. Il dilemma dei porcospini. Alcuni porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione

Arthur Schopenhauer. Il dilemma dei porcospini, in Parerga e Paralipomena, 1851

"Alcuni porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione".
Arthur Schopenhauer. Il dilemma dei porcospini, in Parerga e Paralipomena, 1851


Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l'uno verso l'altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l'uno lontano dall'altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.

A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: keep your distance! − Con essa il bisogno del calore reciproco è soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. − Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli.




Chi vuol essere razionalista, dev’essere un filosofo, e come tale emanciparsi da ogni autorità, andare avanti e non lasciarsi spaventare da nulla. Se, invece, si vuol essere un teologo, bisogna essere coerenti e non abbandonare il fondamento dell'autorità, nemmeno quando essa ci obbliga a credere ciò che non si può capire. Non si può servire due padroni: dunque o si serve la ragione o la Scrittura. Juste milieu significa qui mettersi a sedere fra due sedie. Si tratta o di credere o di filosofare!
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena II



Quanta gente crede che ci sarà sempre tempo per fare, ma non é così, si pensa che non si morrà mai per cui si può rimandare tutto vivendo in un 'attesa sterile e senza senso. Come diceva Schopenauer..
"Perciò la maggior parte delle persone, se alla fine della vita guarderanno indietro, troveranno di aver vissuto per tutta la vita ad interim, e si meraviglieranno di vedere che proprio ciò che hanno lasciato passare senza considerarlo e senza goderlo è stato la loro vita, ed è stato proprio quello nell'attesa di cui hanno vissuto. E così infatti è di regola il corso della vita umana:l'uomo preso in giro dalla speranza, finisce a passo di danza tra le braccia della morte" 
Arthur Schopenauer, Parerga e Paralipomena.



La natura, il mondo, la vita sono la base da cui il filosofo deve partire per dare vita ai suoi pensieri, non i libri. Infatti, tutto ciò che i libri possono dare egli lo riceve solo di seconda mano, e per lo più già falsato: si tratta infatti solo di una riproduzione dell'originale, di un riflesso, e di rado lo specchio che lo creò fu veramente puro. Al contrario, la realtà non mente mai: essa è l'unica che rende ogni verità tale.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Pensieri diversi, 34



Spesso noi cerchiamo di rischiarare le tinte fosche del presente, speculando su possibilità favorevoli, e inventiamo speranze chimeriche di ogni genere, ciascuna delle quali è gravida di una delusione, che non tarda a presentarsi quando tale speranza naufragherà contro la dura realtà.

Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851



NON SI CONTESTI L'OPINIONE DI NESSUN UOMO, E SI PENSI CHE SE SI VOLESSE DISSUADERLO DA TUTTE LE ASSURDITÀ IN CUI CREDE, si potrebbe raggiungere l'età di Matusalemme, senza arrivare alla conclusione. CI SI DEVE POI ANCHE TRATTENERE, NELLA CONVERSAZIONE, DA QUALSIASI OSSERVAZIONE FATTA ALLO SCOPO DI CORREGGERE, per quanto bene intenzionata essa sia: È FACILE INFATTI INDISPETTIRE LA GENTE, difficile invece migliorarla, se non impossibile. Quando le assurdità di una conversazione, di cui noi facciamo parte, cominciano a metterci in collera, dobbiamo pensare che si tratti di una commedia tra due pazzi."Probatum est". Chi è venuto al mondo per ammaestrarlo seriamente e nelle cose più importanti, può dirsi fortunato di cavarsela con la pelle salva.
Arthur Schopenauer, "Paperga e Paralipomena"




"Chi ritiene che la sua esistenza sia limitata alla vita attuale, ritiene di essere un nulla animato; giacchè, sessant'anni fa non era nulla e fra sessant'anni sarà nulla di nuovo. Quanto più chiaramente una persona si rende consapevole della caducità e nullità della natura chimerica di tutte le cose, tanto più chiaramente si renderà consapevole anche dell'eternità della sua intima essenza. Quell'esistenza che non è interessata dalla morte dell'individuo non ha per sua forma nè il tempo nè lo spazio; ma tutto quello che per noi è reale ci appare in quelle forme, perciò la morte ci si presenta come annientamento. L'individuo finisce con la morte, ma l'individuo non è la nostra vera e ultima essenza, bensì una mera manifestazione di essa: non è la cosa in sè, ma solo la sua apparenza, che si rappresenta nella forma del tempo e conformemente a ciò, ha principio e fine. L'essenza in sè invece non conosce nè tempo, nè principio, nè fine.
Ciascuno porta in se stesso il centro immobile di tutto il tempo infinito. La vita, in conseguenza di tutto ciò, può essere considerata come un sogno, e la morte come il risveglio. La personalità, l'individualità, appartiene alla coscienza che sogna e non a quella vigile; per questa ragione ad essa la morte si presenta come annientamento. In ogni caso, da questo punto di vista, la morte non deve essere considerata come il passaggio a uno stato per noi del tutto nuovo ed estraneo, ma piuttosto semplicemente come il ritorno allo stato nostro originario, come quello del quale la vita fu un breve episodio. Infatti, nella morte, la coscienza perisce, non invece ciò che l'aveva fino ad allora prodotta. Ne deriva che l'individualità non è perfezione, bensì limitazione: se conoscessimo interamente e fino in fondo la nostra essenza, cioè la volontà universale di vivere, ci apparirebbe puerile ed estremamente ridicola. Nel vedere scorrere questo nostro breve periodo di tempo potremmo diventar pazzi se nel più profondo recesso della nostra essenza non vi fosse la segreta coscienza che ci appartiene la sorgente inesauribile dell'eternità."
Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena



Arthur Schopenhauer, Questo povero disgraziato creato dal nulla.
“Agostino, con la sua testa inflessibile e sistematica, rinchiudendo in rigide dogmi il cristianesimo e determinando in modo fisso le dottrine soltanto accennate nella Bibbia e rimaste ancora oscillanti su di un fondo oscuro, ha conferito a queste dottrine contorni così rigidi e ha dato al cristianesimo un’interpretazione così aspra, che oggi, ci ripugna, e appunto perciò, come a suo tempo il pelagianesimo, ai giorni nostri il razionalismo vi si è opposto. Ad esempio, in ‹De civitate Dei›, libro XII, cap. 21, la cosa, presa ‹in abstracto›, si presenta realmente nel modo seguente: un Dio ‹crea un essere dal nulla›, gli impartisce proibizioni e ordini, e, siccome essi non vengono osservati, lo tortura per una eternità senza fine, con tutti gli strazi immaginabili; a questo fine egli collega, in modo indissolubile, corpo e anima (‹De civitate Dei, libro XIII, cap.2; cap. 11 ‹in fine› e 24 ‹in fine›), affinché mai e poi mai il tormento annienti questo essere mediante la decomposizione, ed esso possa così liberarsene, bensì viva eternamente, per le pene eterne – questo povero disgraziato, creato dal nulla, che almeno dovrebbe avere il diritto di ritornare al suo ‹nulla› originario; – veramente questa ultima ‹retraite›, che in nessun caso può essere un gran male, gli doveva essere assicurata per diritto come sua proprietà ereditaria. Io, almeno, non posso fare a meno di simpatizzare con lui.”
ARTHUR SCHOPENHAUER (1788 – 1860), “Parerga e paralipomena” (1845 – 1850, I ed. 1851), prefazione (1981) di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1983, 2 tomi, tomo II a cura di Mario Carpitella, trad. di Eva Amendola Kuhn, Capitolo quindicesimo ‘Della religione’, 177. ‘Intorno al cristianesimo’, pp. 481 – 488.




"In tutto ciò che noi facciamo o tralasciamo si prende per lo più in considerazione l'opinione altrui prima di ogni altra cosa, e da tale preoccupazione vediamo sorgere quasi la metà di tutte le afflizioni e le ansie da noi provate. Questa preoccupazione infatti sta alla base di ogni sentimento della nostra dignità, tanto spesso offeso poichè così morbosamente sensibile, di tutte le nostre vanità e presunzioni, come pure delle nostre millanterie e fanfaronate. L'opinione contraria rende infelici. Quando si esclama con enfasi: "più che la vita conta ancora l'onore", ciò significa propriamente: "l'esistenza e il benessere non contano nulla, e l'essenziale è ciò che gli altri pensano di noi". Quando si vede per contro come quasi tutto ciò cui gli uomini aspirano instancabilmente per tutta la loro vita, con sforzi irrequieti e tra mille pericoli e fatiche, equivalga, come scopo ultimo all'innalzarsi in tal modo nell'opinione del prossimo (dal momento che non solo le cariche, i titoli e le onoreficienze, ma anche la ricchezza e persino la scienza e l'arte, sono ricercati in fondo solo per la ragione suddetta, dal momento che il fine supremo cui si tende è il maggiore rispetto degli altri), si deve concludere che tutto ciò dimostra soltanto la grandezza della follia umana.

Tutto dipende sempre da cosa uno sia e abbia quindi in se stesso, poichè la sua individualità l'accompagna sempre e ovunque, e da essa è colorito tutto ciò che egli vive. Ciascuno dev'essere necessariamente per se stesso, ciò che di meglio egli è: quanto di tutto questo si rispecchia nel cervello di altri, e quanto egli vale nella loro opinione, è qualcosa di secondario e può essere per lui solo di un interese subordinato. Ciò che uno è per se stesso, ciò che lo accompagna nella solitudine e che nessuno può dargli nè prendergli, è per lui più essenziale di tutto quanto egli può essere agli occhi degli altri, o di quanto egli è in grado di possedere. Ciononostante gli uomini si preoccupano mille volte di più di procurarsi ricchezze che non un'educazione spirituale, quando invece è assolutamente certo che ciò che si è contribuisce molto di più alla nostra felicità che non ciò che si ha. Noi vediamo quindi molti sforzarsi dal mattino alla sera, con un'attività incessante e con un'alacrità degna delle formche, per aumentare le ricchezze esistenti. Costoro non conoscono nulla all'infuori del campo ristretto dei loro mezzi necessari a tale fine: il loro spirito è vuoto, insensibile ad ogni altra cosa. I godimenti più alti, quelli spirituali, sono inattingibili da costoro essi cercano invano di sostituirli, permettendosi di tanto in tanto piaceri fuggevoli, sensuali, piaceri cioè che richiedono poco tempo e molto denaro. Simili persone aspirano vanamente a sostituire con la ricchezza esteriore quella interiore, volendo ricevere tutto dal di fuori. Alla fine della loro vita essi si trovano dinanzi come risultato, se la fortuna è stata favorevole, un grande mucchio di denaro, che lasciano agli eredi, perchè lo aumentino o lo sperperino. Una simile vita, per quanto sostenuta sin in fondo con un atteggiamento di grande serietà e importanza, è altrettanto folle quanto molte altre.

È una grande stoltezza perdere "interiormente", per guadagnare "esteriormente", cioè abbandonare del tutto o in gran parte la propria tranquillità, il proprio ozio e la propria indipendenza, per posizioni brillanti, sfarzi, titoli e onori. L'uomo comune si dirige, in quel che riguarda il godimento della sua vita, a cose fuori di lui, cioè al possedere, alla posizione, alla moglie e ai figli, ad amici, alla società, eccetera, e su tutto ciò si appoggia la felicità della sua vita, la quale naturalmente cade, quando egli perde ciò che si è detto, o si vede ingannato in proposito. Per esprimere tale rapporto, possiamo dire che il suo baricentro cade al di fuori di lui. Proprio per questo egli ha desideri e capricci continuamente mutevoli: se i suoi mezzi lo permettono, ora diverrà proprietario di terre, ora comprerà cavalli, ora darà delle feste, ora farà dei viaggi, tutto sommato cioè sfoggerà un gran lusso. In ogni cosa infatti egli cerca un soddisfacimento dall'esterno.

Un individuo ricco interiormente non ha bisogno dall'esterno di null'altro se non di un dono negativo, cioè di un libero ozio, per formare le sue capacità spirituali, per svilupparle e per poter godere della sua ricchezza intima, ha cioè bisogno propriamente soltanto del permesso di poter essere se stesso per tutta la vita, giorno per giorno, ora per ora. Di un tale uomo soltanto noi possiamo quindi dire, che il baricentro cada completamente in lui. Dal che si può spiegare il fatto, che gli uomini, estremamente rari, di questa specie, anche se sono di carattere molto buono, non sono capaci di quella partecipazione intima e illimitata alla vita degli amici, della famiglia e della comunità, che molti altri posseggono. Di conseguenza sta in loro un elemento, dagli altri non posseduto, di isolamento, il quale è tanto più efficace, in quanto gli altri uomini non bastano loro mai del tutto, per il fatto che i geni non possono mai vedere alcuno che sia loro del tutto simile. Poichè anzi quanto vi è di eterogeneo in tutti gli altri viene da loro continuamente sentito, essi si abituano a poco a poco ad aggirarsi tra gli uomini come esseri di un'altra natura.

Frattanto si deve avere pazienza. Un uomo di retto discernimento in mezzo a individui infatuati assomiglia infatti a una persona la quale venga a trovarsi, con un orologio che va perfettamente, in una città dove gli orologi delle torri segnano tutti un'ora falsa. Egli solo sa l'ora giusta, ma ciò non gli frutta nulla. Tutti quanti si regolano secondo gli orologi che segnano l'ora falsa, anche coloro cui sia noto che soltanto il suo orologio segna l'ora esatta.

Per ognuno dunque la parte migliore e prevalente sarà in lui stesso e sarà prodotta da lui; quanto più questo si verificherà e quanto più quindi ciascuno troverà in se stesso le fonti dei propri piaceri, tanto più felice egli sarà. Nella vecchiaia poi, tutte le fonti esterne della felicità e del piacere inaridiscono necessariamente quasi tutte: l'amore, la voglia di scherzare, di viaggiare, e la prestanza nella società ci vengono meno, e persino gli amici e i parenti ci sono sottratti dalla morte. In tal caso, più che mai, tutto dipende da cosa uno abbia in se stesso. Quanto più rilevante è infatti ciò che uno ha in se stesso, tanto meno egli ha bisogno dell'esterno, e tanto meno inoltre possono significare gli altri per lui. L'individuo dell'altra estremità per contro, non appena il bisogno gli conceda un attimo di respiro, cercherà passatempo e compagnia a ogni costo, e si contenterà facilmente di tutto, evitando null'altro quanto se stesso. Nella solitudine infatti, in cui ciascuno è rimandato a se stesso, si mostra per l'appunto ciò che egli ha in sè: l'imbecille sospira allora sotto il peso, onde non può liberarsi, della sua individualità misebabile, mentre l'uomo dalle alte doti popola e rianima con i suoi pensieri il paesaggio più deserto. Com'è noto, i mali diventano leggeri quando sono sopportati in comune. Tra questi mali la gente sembra annoverare anche la noia, e si riunisce quindi per annoiarsi in comune. Di conseguenza si riscontrerà, tutto sommato, che ognuno è socievole nella misura in cui è spiritualmente povero, e in genere volgare."
Arthur Schopenhauer - Parerga e Paralipomena


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