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venerdì 2 dicembre 2011

Marco Polo e Matteo Ricci. durante il suo quasi trentennale soggiorno in Cina Ricci imparò alla perfezione il cinese, che Marco invece non sapeva perché ai suoi tempi la lingua ufficiale dell’impero era il mongolo, e assimilò molti aspetti della cultura del “paese ospitante” arrivando addirittura ad adottarne l’abbigliamento, prima quello di un bonzo, cioè di un monaco buddista con il cranio rasato a zero, e poi quello di un letterato confuciano con le maniche lunghe, il cappello a tre punte e i capelli e la barba lunghi; divenne amico di molti dei più importanti letterati e intellettuali cinesi di quell’epoca e venne pure introdotto alla corte imperiale, anche se non riuscì mai a incontrare l’imperatore; tradusse per la prima volta in latino gli scritti filosofici confuciani e scrisse un vero e proprio trattato sulla Cina e la sua cultura incomparabilmente più ampio, sistematico e dettagliato del Milione; ma soprattutto fu il primo a far conoscere la cultura europea in Cina traducendo in cinese gli Elementi di Euclide, disegnando il primo mappamondo cinese, con la Cina al centro al posto dell’Europa, e introducendo nel Celeste Impero il calendario gregoriano. I cinesi lo stimavano e ammiravano tanto da chiamarlo Li Madou Xitai, il grande saggio d’Occidente, e alla sua morte lo seppellirono nella Città Proibita, primo occidentale a cui fu concesso questo onore. È a Ricci che si riferisce Battiato nella canzone “Centro di gravità permanente” quando parla di “gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”.



Il 15 settembre del 1254 nasceva Marco Polo.
O almeno così sostengono alcuni siti di dubbia affidabilità. In realtà la vera data di nascita è sconosciuta; l’unica cosa certa è che nacque nel 1254. Tuttavia è molto probabile che, come la maggior parte della gente che conosco, sia nato anche lui in un giorno preciso oltre che in un anno e in mancanza di dati più sicuri prendiamo per buono il 15 settembre.
Quella sulla data di nascita non è l’unica controversia che circonda il grande viaggiatore veneziano; in effetti, a dispetto della sua fama mondiale e delle tonnellate di libri che sono stati scritti sul suo conto, di lui sappiamo davvero poco: ignoriamo che aspetto avesse (il ritratto più celebre è del XVI secolo, più di due secoli dopo la sua morte) e anche il luogo di nascita: molto probabilmente Venezia, ma qualcuno di recente ha ipotizzato che in realtà potrebbe essere l’isola dalmata di Curzola (in croato Korcula) allora possedimento veneziano come praticamente tutte le isole del Mediterraneo da Chioggia a Cipro. 
Questa ipotesi ha mandato in brodo di giuggiole i nazionalisti croati che si sono affrettati a rivendicare “MarkoPilic’” come un loro compatriota; per intenderci sarebbe come se considerassimo Rudyard Kipling uno scrittore indiano per il fatto che sia nato a Bombay ai tempi dell’impero britannico. Contenti loro…

Ma soprattutto non abbiamo nemmeno l’assoluta certezza che sia stato in Cina: è la sconvolgente tesi avanzata da una studiosa inglese (ma questi cacchio di albionici non se li sanno proprio fare gli affaracci loro?) secondo cui Marco sarebbe stato in realtà un bugiardo e un millantatore che non si spinse mai più lontano del Mar Nero e che si limitò ad ascoltare, e poi a dettare, i racconti di altri mercanti e viaggiatori che avevano realmente visitato il Celeste Impero.

Questa tesi è stata efficacemente confutata da altri storici, sia occidentali che cinesi, basandosi su numerosi elementi : di questi il più importante è l’estrema precisione di “Le divisiment dou monde” (la descrizione del mondo, questo il titolo originale del manoscritto in francese, anzi in Lingua d’Oil, di Rustichello da Pisa, meglio noto come “Il Milione”); una precisione che solo il racconto di qualcuno che in quei posti c’era stato davvero e che li aveva visti coi suoi occhi poteva avere! Dai monumenti di Pechino alle curiose usanze dei cinesi e degli altri popoli asiatici ai prodotti tipici di ogni regione (che ricevono lo spazio maggiore, non dimentichiamo che Il milione è prima di tutto una guida per mercanti scritta da un mercante), tutto viene descritto con abbondanza di dettagli e straordinario realismo. È proprio questo l’aspetto più straordinario del libro e della personalità di Marco Polo, una straordinarietà che giustifica ampiamente la fama imperitura del mercante veneziano: Marco è un uomo del Medioevo, eppure nel suo modo di pensare e di vedere il mondo, di relazionarsi all’altro, a una cultura sconosciuta e completamente diversa dalla nostra, con curiosità e totale mancanza di pregiudizi o senso di superiorità, è straordinariamente moderno e vicino a noi. Non meraviglia che sia considerato, assieme a Ulisse, l’archetipo del viaggiatore.

In questo Marco si dimostra un degno cittadino di Venezia, un luogo unico al mondo e che è stato definito nei modi più disparati: Città sull’acqua, città delle Gondole, delle maschere, Repubblica dei castori (da Goethe). Tutte queste definizioni si adattano perfettamente perché, come dice Italo Calvino proprio per bocca di Marco Polo ne “Le città invisibili”, Venezia è una città inesauribile che può essere descritta in mille modi diversi. Ma forse la definizione migliore e più sintetica è quella di Città sospesa, sospesa tra la terra e l’acqua e tra l’Occidente e l’Oriente, che per natura si adatta, quindi, ad avviare un dialogo tra due mondi diversissimi come potevano essere la civiltà europea e quella cinese nel medioevo.

Soprattutto, e più prosaicamente, Venezia era una città di mercanti la cui legge non scritta era più o meno: “arabi, turchi ebrei, todeschi, armeni, cinesi, mongoi: i xe tuti benvenui, ne va ben tuto, no gavemo miga pregiudisi… basta che i ne porta schei!
Eh, già! I veneziani l’avevano capito molto tempo fa: l’amore per i “schei” è l’unica cosa che praticamente tutte le culture, di tutto il mondo, hanno in comune e sulla base del quale è possibile dimenticare le differenze culturali e religiose e trovare un’occasione di dialogo interessante e proficuo (soprattutto proficuo) per entrambe le parti.


È interessante paragonare la figura di Marco Polo a quella di un altro grande viaggiatore italiano di quasi tre secoli dopo: il gesuita maceratese Matteo Ricci.
La fama di Ricci non si può certo paragonare a quella di Marco Polo, anzi il suo nome è sconosciuto ai più (ma di certo non al sottoscritto cui è toccato passare l’estate a studiarne vita, morte e miracoli per scrivere una tesi su di lui invece di andarmene in vacanza, sigh!).

Eppure anche lui è stato un personaggio estremamente affascinante e la sua importanza storica è stata incomparabilmente superiore a quella del mercante veneziano: durante il suo quasi trentennale soggiorno in Cina Ricci imparò alla perfezione il cinese, che Marco invece non sapeva perché ai suoi tempi la lingua ufficiale dell’impero era il mongolo, e assimilò molti aspetti della cultura del “paese ospitante” arrivando addirittura ad adottarne l’abbigliamento, prima quello di un bonzo, cioè di un monaco buddista con il cranio rasato a zero, e poi quello di un letterato confuciano con le maniche lunghe, il cappello a tre punte e i capelli e la barba lunghi; divenne amico di molti dei più importanti letterati e intellettuali cinesi di quell’epoca e venne pure introdotto alla corte imperiale, anche se non riuscì mai a incontrare l’imperatore; tradusse per la prima volta in latino gli scritti filosofici confuciani e scrisse un vero e proprio trattato sulla Cina e la sua cultura incomparabilmente più ampio, sistematico e dettagliato del Milione; ma soprattutto fu il primo a far conoscere la cultura europea in Cina traducendo in cinese gli Elementi di Euclide, disegnando il primo mappamondo cinese, con la Cina al centro al posto dell’Europa, e introducendo nel Celeste Impero il calendario gregoriano. I cinesi lo stimavano e ammiravano tanto da chiamarlo Li Madou Xitai, il grande saggio d’Occidente, e alla sua morte lo seppellirono nella Città Proibita, primo occidentale a cui fu concesso questo onore.

È a Ricci che si riferisce Battiato nella canzone “Centro di gravità permanente” quando parla di “gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”.

Anche se poco conosciuto in Occidente Li Madou è ricordato con affetto e gratitudine in Cina dove, per contro, Marco Polo è una figura relativamente oscura; non c’è un solo documento cinese risalente al regno di Kublai Khan in cui lui, suo padre e suo zio siano anche solo nominati (la tesi del Marco Polo contaballe si basava principalmente su questo); ma è normale che sia così, in fin dei conti erano solo tre dei tanti mercanti venuti da chissà dove che visitavano la Cina in quel periodo, non fecero nulla di importante o straordinario tale da attirare l’attenzione e meritare di essere scritto su un documento. Marco racconterà, è vero, di essere stato un confidente di Kubilai e addirittura di aver governato una regione e di aver svolto un’importante missione diplomatica scortando, nel viaggio di ritorno una principessa mongola in Persia; ma questi sono probabilmente abbellimenti che aggiunse di sana pianta quando dettò le sue avventure a Rustichello. In questo senso sì, un po’ contaballe lo era.
Ma c’è un punto in cui Marco si dimostra, a mio avviso, superiore a Matteo Ricci, ed è nella tolleranza e nella comprensione verso le fedi e le credenze degli altri: Ricci bollava infatti le religioni orientali come sette superstiziose e fu particolarmente duro nei confronti del buddismo da lui ridotto a una scopiazzatura del cristianesimo (pur essendo più antico di cinquecento anni) che insegnava assurdità come la reincarnazione e la pietà verso gli animali; salvò invece il confucianesimo ma perché lo considerava una filosofia più che una religione.

Marco invece parlando, primo europeo a farlo, del fondatore del buddismo gli fece il più grande elogio che un cristiano del Medioevo potesse fare:
«certo se fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo».

Questa differenza di vedute aveva un’origine professionale: Matteo Ricci, per quanto curioso e aperto, era comunque un missionario venuto in Cina con un solo scopo: convertire i pagani alla vera fede; tutto il suo operato, compresa l’assimilazione dei costumi cinesi, va vista tenendo a mente questo obiettivo da lui riassunto in questa frase «Mi sono fatto barbaro per amor di Cristo».

Marco invece non voleva convertire nessuno: era un mercante venuto in Cina esclusivamente per commerciare, vendere e comprare. Se gli occhi di Ricci erano sempre rivolti al cielo quelli di Marco erano ben fissi alla terra, se Ricci era animato dall’ “amor di Cristo” Marco, da buon veneziano lo era dall’ “amor dei schei”. 

El so dio se ciama schei”, questa frase del grande poeta veneziano Sir Oliver Skardi si adatta benissimo a Marco e a tutti i veneziani di quell’epoca.

Il fascino della figura di Marco Polo è stato così riassunto da Marco Paolini che al mercante veneziano si è ispirato per “Il milione” uno dei suoi migliori spettacoli: «Marco Polo non è come il genovese Colombo che dove arriva pianta bandiere, battezza e conquista. Marco Polo apprende, scambia, mangia cinese, si adatta. Nessuno avrebbe saputo dei suoi viaggi se non avesse scritto un diario».

Tra le innumerevoli biografie di Marco Polo la migliore è, a mio parere, quella di Alvise Zorzi “Vita di Marco Polo veneziano”. Non sono abbastanza esperto per dire se sia quella più storicamente accurata ma come appassionato di letteratura trovo che sia senza dubbio la più piacevole da leggere; lo stile di Zorzi è quello di un romanziere più che di uno storico; ha una capacità assolutamente unica di raccontare gli eventi storici in modo avvincente e di catturare l’attenzione del lettore, senza con questo rinunciare al rigore scientifico e alla scrupolosità della documentazione.



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