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domenica 17 settembre 2017

Italo Calvino, Prima che tu dica pronto. È IN QUESTO SILENZIO DEI CIRCUITI CHE TI STO PARLANDO. So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno ad incontrarsi sul filo, ci diremo delle frasi generiche e monche; NON È PER DIRTI QUALCOSA CHE TI STO CHIAMANDO, nè perchè creda che tu abbia da dirmi qualcosa. Ci telefoniamo perchè solo nel chiamarci a lunga distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti, relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati, IN QUESTO SCANDAGLIARE IL SILENZIO E ATTENDERE IL RITORNO DI UN’ ECO, SI PERPETUA IL PRIMO RICHIAMO DELLA LONTANANZA, il grido di quando la prima grande crepa della deriva dei continenti s’è aperta sotto i piedi d’una coppia di esseri umani e gli abissi dell’oceano si sono spalancati a separarli mentre l’uno su una riva e l’altra sull’altra trascinati precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tendere un ponte sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile finchè il rombo delle onde non lo travolgeva senza speranza. Da allora LA DISTANZA È L’ORDITO CHE REGGE LA TRAMA D’OGNI STORIA D’AMORE come d’ogni rapporto tra viventi, la distanza che gli uccelli cercano di colmare lanciando nell’aria del mattino le arcate sottili dei loro gorgheggi, così come noi lanciando nelle nervature della terra sventagliate d’impulsi elettrici traducibili in comandi per i sistemi a relais: solo modo che resta agli esseri umani di sapere che si stanno chiamando per il bisogno di chiamarsi e basta.

Ti sto venendo a cercare e prima che tu dica “Pronto” avrò già chiuso i miei occhi. 
Li chiudo ogni volta che sono stanco di vedere che non ci sei. 
Perché in questo momento saprei esattamente in quale punto preciso di questa stanza saresti se fossi con me. Ma quel posto resta vuoto. 
Tu non ci sei.Allora chiudo gli occhi. 
Ecco, ora si che ti vedo.
Italo Calvino, Prima che tu dica “pronto”


La verità è che i tuoi sorrisi tristi a me piacciono, 
perché a te stanno bene, perché li sai trattare, 
li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe.
Italo Calvino, Prima che tu dica “pronto”
(da ‘Gli amori difficili’) […]


- Questo è: che per noi le cose pensate sono diverse dalle cose.
- Ecco, io ho già pensato a tutte le cose possibili, ho vissuto centinaia di vite con il pensiero
Di sposarmi, di avere tanti figlioli, di abortire, di sposare un ricco, di sposare un povero, di diventare una donna di lusso, di diventare una donna di strada, ballerina, monaca, venditrice di caldarroste, diva, deputatessa, crocerossina, campionessa. Tante vite con tutti i particolari. E tutte che finivano felici. Ma nella vita vera non succede mai nulla di quelle cose pensate. Così, ogni volta che mi capita di fantasticare, mi spavento e cerco di scacciare i pensieri, perché se sogno una cosa, non avverrà mai.
Italo Calvino, Prima che tu dica “pronto”



L’orizzonte è deserto, non ci sei che tu.
Tu sei l’orso e la grotta.
Perciò io sto ora accucciata tra le tue braccia,
perché tu mi protegga dalla paura di te.
Italo Calvino, Prima che tu dica “pronto”


Forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo.
Italo Calvino, “Prima che tu dica pronto"


Vedi, – dice Mariamirella, - forse io ho paura di te.
Ma non so dove rifugiarmi.
L'orizzonte è deserto, non ci sei che tu.
Tu sei l'orso e la grotta.
Perciò io sto ora accucciata tra le tue braccia,
perchè tu mi protegga dalla paura di te.
Italo Calvino - Prima che tu dica “Pronto”



Mi capitò una volta, a un crocevia, in mezzo alla folla, all’andirivieni.
Mi fermai, battei le palpebre: non capivo niente.
Niente, niente del tutto: non capivo le ragioni delle cose, degli uomini, era tutto senza senso, assurdo. E mi misi a ridere.
Lo strano era per me allora che non me ne fossi mai accorto prima. E se avessi fin’allora accettato tutto: semafori, veicoli, manifesti, divise, monumenti, quelle cose così staccate dal senso del mondo, come se ci fosse una necessità, una conseguenza che le legasse l’una all’altra.
Allora il riso mi morì in gola, arrossii di vergogna. Gesticolai, per richiamare l’attenzione dei passanti e – Fermatevi un momento! – gridai – c’è qualcosa che non va! Tutto è sbagliato! Facciamo cose assurde! Questa non può essere la strada giusta! Dove si va a finire?
La gente mi si fermò intorno, mi squadrava, curiosa. Io rimanevo lì in mezzo, gesticolavo, smaniavo di spiegarmi, di farli partecipi del lampo che m’aveva illuminato tutt’a un tratto: e restavo zitto. Zitto, perché nel momento in cui avevo alzato le braccia e aperto la bocca, la grande rivelazione m’era stata come ringhiottita e le parole che m’erano uscite così, per via dello slancio.
– Ebbene? – chiese la gente – cosa vuol dire?
Tutto è al suo posto. Tutto va come deve andare. Ogni cosa è conseguenza d’un’altra. Ogni cosa è ordinata con le altre. Noi non vediamo niente d’assurdo o d’ingiustificato!
E io rimasi lì, smarrito, perché alla mia vista tutto era tornato al suo posto e tutto mi sembrava naturale, semafori, monumenti, divise, grattacieli, rotaie, mendicanti, cortei; e pure non me ne veniva tranquillità, ma tormento.
-Scusate – risposi – Forse ho sbagliato io. M’era sembrato.Ma tutto è a posto. Scusate – e mi feci largo ta i loro sguardi irti.
Pure, anche adesso, ogni volta ( spesso) che mi accade di non capire qualche cosa, allora, istintivamente, mi prende la speranza che sia di nuovo la volta buona, e che io torni a non capire più niente, a impossessarmi di quella saggezza diversa, trovata e perduta nel medesimo istante.
Italo Calvino, Il lampo da Prima che tu dica pronto, Mondadori.


È IN QUESTO SILENZIO DEI CIRCUITI CHE TI STO PARLANDO. So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno ad incontrarsi sul filo, ci diremo delle frasi generiche e monche; NON È PER DIRTI QUALCOSA CHE TI STO CHIAMANDO, nè perchè creda che tu abbia da dirmi qualcosa. Ci telefoniamo perchè solo nel chiamarci a lunga distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti, relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati, IN QUESTO SCANDAGLIARE IL SILENZIO E ATTENDERE IL RITORNO DI UN’ ECO, SI PERPETUA IL PRIMO RICHIAMO DELLA LONTANANZA, il grido di quando la prima grande crepa della deriva dei continenti s’è aperta sotto i piedi d’una coppia di esseri umani e gli abissi dell’oceano si sono spalancati a separarli mentre l’uno su una riva e l’altra sull’altra trascinati precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tendere un ponte sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile finchè il rombo delle onde non lo travolgeva senza speranza. Da allora LA DISTANZA È L’ORDITO CHE REGGE LA TRAMA D’OGNI STORIA D’AMORE come d’ogni rapporto tra viventi, la distanza che gli uccelli cercano di colmare lanciando nell’aria del mattino le arcate sottili dei loro gorgheggi, così come noi lanciando nelle nervature della terra sventagliate d’impulsi elettrici traducibili in comandi per i sistemi a relais: solo modo che resta agli esseri umani di sapere che si stanno chiamando per il bisogno di chiamarsi e basta.
Italo Calvino, “Prima che tu dica “Pronto”


Vorrei portarti con me.
Resisteresti poco, al freddo senza l’afa estiva ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me.
Ti racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello, per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto per le volte che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato.
Mangeremmo e dormiremmo poco perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno, perché tre non sarei capace.
Ti farei almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così, se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare.
Vorrei che ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto per innamorarti e allora è per questo che vorrei portarti con me: per farti innamorare.
Verresti?
No, non verrei. Perché dovrei?
Non credo che mi riporteresti indietro, non voglio che tu faccia di tutto per me. Il suono è simile a quello della tua voce, non della mia: vorrei che lo capissi e te ne rendessi conto. Le tue parole sono esigenti e mi si stringono al cuore. L’unisono tra di noi non funziona. Il moto di due anime in una non esiste. Non vorrei foto di questo momento, né motivi per lasciare che non finisca. È doloroso da ricordare. Cosa c’è di poetico in una sensazione moritura? Se lo volessi, non farei in modo che arrivi la fine. Perché è questo il punto: io sto facendo in modo che l’ultimo secondo di tutto accada, capisci? Permettimi di dire di no. Permettimi di non esserti accanto. Permettimi di decidere di non esserci come vuoi tu.
Pensare che sia per due, per renderti i pensieri più facili; lo sai che mi stai raccontando una bugia mentre mi chiedi ‘verresti?‘
Certo che lo sai.
Venire? Cosa potrebbe dire? Cosa saremmo?
La mia automobile scivola da sola verso casa mentre rileggo le tue parole. Cerco di trovare interpretazione, tentando di valicare le frasi così come sono – cunei – e trovarci l’intenzione inespressa di dire dell’altro. Cerco titubanze, virgole, mi soffermo sui dettagli. Ma io di dettagli non capisco nulla. Non so come sono fatti, in verità.
Potrei rimanere attaccato alla balaustra a due mani, mangiare tutte le merendine della macchinetta accanto all’ingresso del gate pur di restare a guardare il fiume da un lato e la strada dall’altro.
Fissare l’asfalto fino a farmelo entrare negli occhi e bucarmeli per non vedere la via di casa: questo dovrebbe accadere affinché io vada via da qui e mi rassegni alle tue parole. Credevo di non essere capace di rimanere in silenzio a guardare. Sono solito pensare di me cose molto positive: grande cuore, grande testa, spirito d’iniziativa, forte indipendenza; pensavo di non essere capace di restare a guardare inerme.
È una di quelle circostanze che non si addicono agli spiriti vincenti. È come ammettere di avere un buco scoperto e lasciare che qualcuno ci infili un dito dentro, stracciando carne e tessuti, graffiando vasi, fino a tingere di rosso i vestiti e non poter, così, celare l’affanno.
Eppure io sono un tipo sveglio, non mi lascio abbindolare facilmente; ho sempre saputo tenerle a distanza e prosciugarne il necessario. Ecco, sì: non sono mai andato al di là del necessario con quasi nulla. Solo di foglie d’albero ne ho troppe, perché ne faccio collezione.
Ne ho mangiate molte di merendine della macchinetta ma adesso, alla guida, con le mani poco convinte e smaniose, non ne ricordo il sapore singolo e anche gli incartamenti mi paiono tutti uguali. Non posso distinguere il caramello dal fiordilatte e questi dal cioccolato: ho un solo amalgama appiccicaticcio nella bocca.
Mi sembra strano sentirmi così sopra le righe. Mi sembra strano, ancora, sentire quegli occhi addosso. I tuoi e i miei insieme, che erano altro, lo sono stato lo so, lungo il fiume e poi sono irrimediabilmente scomparsi dopo un battito di ciglia. Un movimento fisiologico ne ha decretato la fine ed io lo vado cercando, adesso, mentre mi dirigo verso casa, seguo la scia per provare a seguirti.
Che pena. Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare.
Non so raccontare una volta in cui tu mi avevi detto di essere felice, in effetti. E nemmeno una volta in cui te l’ho detto io, d’altronde. Non credo minimamente di esserti venuto incontro per davvero, con foga ed eccitazione, per abbracciarti di sorpresa.
Non mi viene in mente la prima volta che t’ho visto. So quand’è, con precisione, perché io ero al bancone di un bar con una ragazza che mi piaceva molto. E che ho abbracciato con slancio e voluto tante di quelle volte da essermene invaghito e addirittura innamorato a un certo punto.
Ricordo d’averti preso in consegna nella mia mente, ma non d’averti visto. Non so nemmeno com’eri vestita. So solo che ti sei passata una mano tra i capelli, il gesto più comune che si possa recuperare nella memoria. Eppure io l’ho registrato. In realtà potrebbe essere falso. Potrei aver traslato la mano di un altro sulla tua e adesso cucirti addosso un movimento che non t’è appartenuto.
Avevi un braccialetto che si compra al mare, di quelli di cotone colorato, che dicono porti fortuna e poi, un giorno, si spezzi per far avverare un desiderio. Di quelli che hanno tutti, eccetto me, poiché io non li sopporto: rimangono bagnati per ore, dopo la doccia, ed umidi sulla pelle.
Mi sono chiesto quale potesse essere il tuo desiderio. È la prima cosa su cui mi sono interrogato guardandoti quella volta e pensandoti i giorni successivi. Se tu avessi un desiderio sopra tutti, se fosse legato a quel braccialetto o a un sentimento. Ho sentito il bisogno di saperlo, come se fosse il tuo nome.
Avevi anche un anello costoso. Sottile, ma prezioso. Un anello facile, che non sorprende se lo regali. Non so perché l’avessi notato. Niente a che vedere coi tuoi occhi, mi rendo conto. A chiunque avessi chiesto di te nei giorni seguenti, continuavo a dire di non avere in mente i tuoi occhi: eppure sono meravigliosi. Non mi viene un’altra parola in mente. Dovrei inventarla ma non sono capace, tu lo sai. Posso fartelo intuire ma non so spiegarlo.
Non capisco perché non me li sono incollati addosso. Avevo notato di te solo i dettagli peggiori fra tutti gli altri; ciononostante ti cercavo già il giorno dopo. Mentre passeggiavo sotto casa tua, nelle sere a seguire, speravo di notare i tuoi movimenti alla finestra oppure con chi saresti uscita. Desideravo vederti da sola, che, una volta sull’uscio, ti guardassi intorno e vedendomi rimanessi piacevolmente compiaciuta.
Avrei voluto essere io nei tuoi sogni, a ispirare i tuoi sonni e farti felice. Ma lo so di non potere. Eppure questa consapevolezza non m’ha fatto smettere di volerti portare via con me.
Non capisco. Non capisco cosa vuoi dire. Mi pare assurdo che tu pensi di poter amarmi. Quanto abbiamo passato insieme? Non capisco perché tu voglia portarmi con te. Non sai nulla.
Ti ho rubato anche un sorriso triste quella sera.È andata così: io ti ho guardata per un momento, mentre ti passavi le mani nei capelli, e stavi sorridendo, ma non alla persona con cui parlavi. Sorridevi, rivolta verso il basso come per un pensiero veloce da far svanire. E, rivolto di nuovo il tuo volto verso l’alto, ti ho sorpresa triste, come se quel pensiero felice andasse celato.
Sorridi solo quando qualcuno o qualcosa ti fa ridere, ma non dovresti. A me piace, ma non dovresti. La felicità pare si auguri a tinte pastello e così mi tocca fare, con te, adesso: cercare di farti togliere dal viso i tuoi sorrisi tristi, come ho sempre fatto, d’altronde.
Potremmo essere in giro a passeggiare in una città qualunque, col caldo, mano nella mano e io dovrei accorgermi del tuo sorriso triste e allora darti un bacio o prenderti il viso e farti fare una smorfia che mimi la gioia. Sorrideresti e il mio desiderio di felicità per te sarebbe compiuto. La verità è che i tuoi sorrisi tristi a me piacciono, perché a te stanno bene, perché li sai trattare, li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe. Se lo facessi io sarei penoso.
Questo è il punto: faccio pensieri e desidero cose nuove.Non importa cosa so. Per la prima volta, non importa.
Non so da dove vengono o come si chiamino e non potrei spiegarle a nessuno eccetto te, con un po’ di tempo, con un po’ di pause, con quei silenzi che non saprei riempire, all’inizio. Ma potrei imparare.
Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine.
Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi far finta di niente se hai un po’ di senno.
Come un sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti?
Italo Calvino, Prima che tu dica “Pronto”




Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi far finta di niente se hai un po’ di senno.
Come un sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo.
Solo per essere sicuro. Verresti?
Italo Calvino


Sono un pessimo romantico, lo ammetto.
È per questo che non sono riuscito a farti innamorare.
Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io,
con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura.
E del tempo, per spiegarti quello che manca,
per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine.
Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo.
Era una possibilità, capisci?
Come fare a metterla via, a dimenticarla.
Forse aspettando, forse non era il momento.
Forse io e te abbiamo un altro tempo.
Italo Calvino, Prima che tu dica “Pronto”

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