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giovedì 15 giugno 2017

Primo Levi. I sommersi e i salvati. La zona grigia (capitolo secondo): "L’ingresso in lager era un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il noi perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno.[...].Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si ravvisava di trovare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere."

Primo Levi. 
I sommersi e i salvati

L’opera pubblicata nel 1986, un anno prima del suicidio dello scrittore, è divisa in otto capitoli, preceduti da una Prefazione e seguiti da una Conclusione.

La zona grigia (capitolo secondo):
"L’ingresso in lager era un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il noi perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno.[...].Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si ravvisava di trovare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere." 

Comunicare (capitolo quarto):
[...] gli ordini venivano dati tranquillamente, poi ripetuti identici in tono rabbioso, infine urlati a squarciagola, accompagnati da calci e pugni "come si farebbe a un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto." Il sapere o no il tedesco era uno spartiacque
Sul piano dell'immediato, non è possibile comprendere gli ordini, nè decifrare le prescrizioni: 
a riprova di ciò i primi giorni di prigionia non possono essere che ricordati come "un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava". In ultima analisi non si può sopravvivere, perché nel Lager senza informazione non si vive. Chi non capisce il tedesco, intendendo con tedesco quella sorta di lingua parallela propria dei lager e solo vagamente somigliante a quello originario, rischia di "annegare nel mare tempestoso del non-capire". Ed il non-parlare ha effetti devastanti sull'individuo, perché "con la lingua ti si secca il pensiero" e si realizza la crudele volontà di rendere l'uomo una bestia. [...]

Violenza inutile (capitolo quinto):
[...] L'autore apre così il capitolo relativo alle inutili ingiustizie subite dagli internati nei campi di concentramento.

La sequenza di umiliazioni e offese gratuite inizia già dal metodo di deportazione: enormi carri merci, tuttavia non abbastanza grandi per il numero di persone stipate in essi per numerosi giorni senza cibo, acqua o un minimo di latrina.

Una delle più vane costrizioni con cui il prigioniero doveva fare i conti, una volta entrato nelle fredde stanze dove avvenivano la privazione degli abiti, delle scarpe e di tutti gli oggetti personali, era il taglio dei capelli e di tutti i peli. Al di là della necessità di maggiore pulizia, dato il proliferare dei pidocchi, questa violenza risultava offensiva per la sua inutile ridondanza. Un uomo nudo e scalzo è una preda inerme. La stessa sensazione debilitante di impotenza era provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio, un dettaglio apparentemente inutile, ma che marginale non era per un uomo che si nutriva ogni giorno di una sola e misera razione di zuppa. Non era una questione di risparmio, per i tedeschi, ma un preciso intento di umiliazione

A tutto ciò c’è da aggiungere l’assurdità dell’adattamento della vita concentrazionaria a una versione militare tedesca con regole ferree quanto insulse (dalla divisa con i suoi 5 bottoni obbligatori alla marcia cadenzata da musiche di banda, all’ordine del rifare i letti in un certo modo) e da segnalare è anche l’uso dei prigionieri come cavie umane per esperimenti scientificamente inutili in un’epoca in cui ci si chiedeva se sia giusto condurre esperimenti dolorosi su animali. 

Il discorso da farsi sul tatuaggio è leggermente differente, poiché questo fu invenzione auschwitziana autoctona. L'operazione, in sé, era poco dolorosa, ma lo era il suo significato simbolico: "Questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome." La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa. Era anche un ritorno barbarico: il tatuaggio, infatti, è vietato dalla legge mosaica. Violenza inutile era poi il lavoro non retribuito ed afflittivo. Non bisogna poi dimenticare quello che fu l'esempio estremo di una violenza ad un tempo stupida e simbolica: l'empio uso del corpo umano, gli esperimenti medici. E tale crudeltà si estendeva anche al cadavere, alle spoglie umane dopo la morte.

http://ospitiweb.indire.it/~copc0001/ebraismo/sommersi.htm

  • il primo capitolo (La memoria dell’offesa) indaga lo strumento della memoria, che per Levi è “meraviglioso ma fallace”, perché viene implicitamente condizionata da ciò che avviene in seguito: gli aguzzini del campo possono così tentare di giustificare i loro comportamenti come frutto di un disegno più grande, di cui loro erano semplici ingranaggi incolpevoli. Una distorsione speculare della memoria è anche quella delle vittime del Nazismospesso, per nascondere un dolore troppo grande, i sopravvissuti al Lager (i “salvati”) si sono costruiti una sorta di memoria fittizia

  • Nel secondo capitolo (La zona grigia) Levi allora approfondisce la natura del disegno di sterminio hitleriano, soprattutto negli ultimi drammatici mesi di guerra: l’obiettivo è quello della distruzione non solo fisica ma anche psicologica degli internati. Da qui la serie di violenze insensate e di umiliazioni disumane di cui sono vittime i prigionieri ebrei. La peggiore di tutte per Levi è quella che confina l’essere umano in una condizione di complicità con i suoi stessi carnefici: è il caso dei Sonderkommandos (i gruppi di prigionieri ebrei che si devono occupare della gestione delle camere a gas) e, più in generale, di tutti quei prigionieri privilegiati che, proprio grazie al rapporto con le autorità naziste, hanno avuto salva la vita
  • La vergogna (capitolo terzo) tratta allora il problema morale della “minoranza anomala” che si è salvata dai campi di sterminio: Levi descrive il tormento morale e il senso di colpa dei “salvati che, poiché “mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza”, non hanno saputo o potuto aiutare tutti gli altri prigionieri. La pena di questi “salvati” non sarà però minore nel resto della loro esistenza, tanto che in molti sceglieranno la via del suicidio.
  • Il capitolo quarto (Comunicare) affronta una questione solo apparentemente secondaria: quella della lingua. La gran parte dei prigionieri del campo vive infatti nella condizione assurda di non comprendere gli ordini delle guardie, non conoscendo il tedesco. Questa condizione umilia ulteriormente i prigionieri, privandoli della facoltà di relazionarsi con il mondo, venendo privati del loro stesso pensiero. Levi analizza poi la particolare lingua del campo di concentramento, che è una sorta di degenerato dialetto tedesco
  • Nel quinto capitolo (Violenza inutile) lo scrittore affronta il fondamentale tema della violenza nei confronti dei detenuti: essa appare agli occhi di Levi tanto inutile quanto umiliante, e finalizzata solo alla completa distruzione psicofisica dell’internato attraverso le leggi del campo (il taglio dei capelli, la sottrazione degli oggetti personali, l’obbligo delle marce e il rispetto meticoloso degli orari). A ciò s’aggiunge la pratica degli esperimenti medici sui detenuti, che rappresentano l’esempio più estremo di alienazione e disumanizzazione. L’intellettuale ad Auschwitz (capitolo sesto), prendendo spunto dalla figura di Jean Amery (pseudonimo di Hans Mayer), affronta invece la questione della dura vita di un intellettuale all’interno di un campo di concentramento, dove egli vede miseramente crollare tutti i valori in cui aveva sempre creduto.

Gli ultimi due capitoli (Stereotipi e Lettere di tedeschi) affrontano rispettivamente alcuni falsi miti sul mondo di Auschwitz (come la possibilità di fuga dal campo) e la questione della valutazione a posteriori di quello che è successo in Germania durante gli anni del Nazismo. Per Levi il rischio è sempre quello che la distanza temporale che si frappone tra noi e gli eventi descritti nei suoi libri offuschi la percezione di ciò che è successo e quindi ci porti a dimenticare con troppa leggerezza. Completa il quadro la corrispondenza dell’autore con alcuni cittadini tedeschi dopo la pubblicazione in tedesco di Se questo è un uomo (1961).
 
Nelle pagine de I sommersi e i salvati Levi decide di farci udire la voce anche di chi non è sopravvissuto al nazismo, quella dei "sommersi". Questi ultimi sono coloro che non hanno trovato un modo per restare in vita perché hanno seguito passo per passo le regole della vita del campo; a loro si contrappongono i (pochi) "salvati" che, pur ad un prezzo altissimo, sono tornati vivi alla loro esistenza normale e quotidiana. 

Levi, annoverandosi tra questi, spiega al lettore come la maggior parte dei "salvati" siano riusciti a vivere perché hanno accettato di abbandonare parte della propria moralità e integrità, riuscendo a divenire "utili" al funzionamento del campo

Da ciò capiamo l’angoscia provata da Levi al momento della liberazione da parte degli alleati, che non viene vissuto con totale gioia, perché porta con sé la vergogna per essere sopravvissuti, e insieme l’onere delle testimonianza di ciò che i sopravvissuti hanno visto.

La forza di questo libro è il coraggio di raccontare l’animo umano in una situazione inedita nella Storia come quella del campo di sterminio. Levi non descrive la spinta alla solidarietà e all’aiuto reciproco da parte degli internati, ma piuttosto presenta la vita del campo secondo la massima mors tua vita mea - "la tua morte è la mia vita", e cioè il cinico principio per cui alla morte di un compagno corrisponde una speranza di salvezza in più per se stessi: la quotidianità dell'incubo, l'assurdità delle leggi del campo in una situazione esistenziale in cui nulla pare avere più norma o valore, la perversità di un microcosmo che pare non avere orizzonti di uscita.

Levi ci spiega quali limiti disumani possa raggiungere una condizione come quella dei prigionieri di un lager, non riferendosi tanto alla ferocia nazista, bensì descrivendo lo stato di degradazione morale e fisica in cui versano i prigionieri: una disumanizzazione tale da togliere significato anche alla morte.

1 Si pensi in particolare al ruolo della poesia proemiale Shemà.
2 Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner, vv. 582-585.

http://www.oilproject.org/lezione/primo-levi-sommersi-e-salvati-riassunto-e-spiegazione-dell-opera-2880.html

Scritto nel 1986, ultimo lavoro dell'autore, è un'analisi dell'universo concentrazionario che l'autore compie partendo dalla personale esperienza di prigioniero del campo di sterminio nazista di Auschwitz ed allargando il confronto ad esperienze analoghe della storia recente, tra i cui i gulag sovietici.

La narrazione descrive con lucidità e distacco - nonostante l'averne vissuto l'esperienza diretta - i meccanismi che portano alla creazione di "zone grigie" di potere tra oppressori e oppressi, la corruzione economica e morale delle persone che vivono nei sistemi concentrazionari, gli scopi e gli utilizzi politici e sociali di tali sistemi, la replicazione di analoghe dinamiche comportamentali nelle realtà quotidiane odierne.

Già dalla prefazione, Levi pone l'attenzione sulla tendenza del pubblico a rifiutare l'esistenza dei lager, a sminuire l'orrore che i diretti testimoni avrebbero riportato. Tale rifiuto già era stato previsto dai colpevoli, tant'è che erano soliti ammonire i prigionieri dei lager che nessuno gli avrebbe creduto, e che comunque tutte le prove sarebbero andate distrutte, cosa che però non avvenne. 

I militi delle SS cercarono difatti fino all'ultimo di distruggere documenti e interi campi di sterminio - e in alcuni casi vi riuscirono anche - ma buona parte del materiale rimase fino alla fine della guerra. 

Gli stessi comandanti delle SS furono inviati in zone poco sicure, con il preciso intento, secondo l'autore italiano, di rimanere uccisi e non poter quindi confermare quanto i nazisti avevano fatto. 

Inoltre Levi pone attenzione al fatto che l'intera Germania fosse a conoscenza di quanto accadeva nei lager: troppi erano gli indizi, come l'acquisto di veleni e di forni crematori, da non poter insospettire. Tuttavia, molti preferirono non indagare.

Nel primo capitolo, La memoria dell'offesa, Levi inizia a trattare dell'argomento principale del libro: la memoria. Parte dal presupposto che la memoria umana è fallace, condizionata da ciò che si sente successivamente e da ciò che si legge. E se per gli oppressori la memoria può essere facilmente cancellata, è per gli oppressi che il ricordo delle torture subite non riesce a scomparire. 

Inoltre la fallacità della memoria può essere usata a proprio favore: 
molti sono gli oppressori che si sono, volutamente, inventati un'altra memoria, cancellando quanto avevano fatto e riducendolo in semplici azioni senza alcuna colpa. Questo è il modo con cui Levi afferma che molti complici dello sterminio si siano salvati dai loro stessi sensi di colpa

Tornando alla memoria, anche coloro che hanno subito tendono a ricrearsene una nuova
non per sfuggire a ciò che hanno fatto - poiché, come si è detto, sono loro che hanno subito - ma per sfuggire a quel ricordo, per dimenticare quanto hanno subito, i dolori e le ingiustizie.

Nel secondo capitolo, La zona grigia, l'autore tratta dei privilegiati all'interno dei lager, quella che lui definisce appunto "la zona grigia". Fra queste, nota è la squadra addetta alla gestione dei crematori, di cui Levi parlerà approfonditamente. 

In chiusura del capitolo, si parlerà anche della figura di Mordechai Chaim Rumkowski, il decano di Lòdz, ebreo affezionato al potere e che, appoggiato dalle SS, aveva imposto il suo comando all'interno del ghetto della sua cittadina.

Nel terzo capitolo, La vergogna, Levi inizia a parlare dell'angoscia della liberazione
Non vi è stata infatti, secondo il suo parere, la felicità nell'essere liberati, poiché i mesi passati all'interno del lager hanno modificato profondamente tutti i superstiti. Tanto da farli vergognare della loro posizione, da farli sentire in colpa per quanto era successo e per quanto le SS avevano fatto.

Nel quarto capitolo, Comunicare, l'autore tratta delle difficoltà linguistiche, in particolare di quelle degli italiani che, giunti nei lager, non riuscivano a comprendere il tedesco. Inoltre si parla della lingua tedesca e della sua mutazione all'interno dei lager, un imbastardimento tale da creare un dialetto proprio per ogni lager.

Nel quinto capitolo, Violenza inutile, Levi tratta della violenza senza un apparente scopo, ma usata solamente per provocare il piacere in chi la esegue. In questo capitolo viene portato ad esempio il viaggio nei carri merci, la nudità imposta ai prigionieri, il tatuaggio sul braccio, i lavori inutili e gli esperimenti effettuati sulle persone.

Nel sesto capitolo, L'intellettuale ad Auschwitz, l'autore tratta e commenta un saggio di Jean Amery, un sopravvissuto ai lager. Qui Levi critica la definizione che Amery dà dell'intellettuale in quanto conoscitore della cultura umanistica e filosofica, e dedito al pensiero astratto (escludendo quindi scienziati e tecnici), proponendo la figura di un intellettuale la cui cultura è viva e che non prova sdegno davanti a nessun ramo del sapere, sempre pronto a rinnovarsi e accrescersi. In ultima analisi, però, concorda con Amery per la considerazione finale per cui il lavoro manuale, affrontare la routine della baracca e assistere all'imbastardimento della lingua, è più duro e debilitante per l'uomo colto che non per l'incolto.

Nel settimo capitolo, Stereotipi, Levi risponde a tre delle domande più frequenti verso i reduci. 
La prima riguarda la fuga dai lager, la seconda la ribellione verso i carcerieri e la terza riguardo alla fuga dalla patria per evitare la deportazione.

Nell'ottavo capitolo, Lettere di tedeschi, Levi commenta alcune lettere inviategli negli anni al seguito della pubblicazione di Se questo è un uomo in Germania.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
https://it.wikipedia.org/wiki/I_sommersi_e_i_salvati



il fulcro del libro è costituito dai capitoli II e III, intitolati rispettivamente La zona grigia e La vergogna. Argomenta Levi che lo spazio tra la categoria delle vittime e degli aguzzini non è vuoto, bensì «costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo) che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana». 

È un tema ingrato, questo delle forme di collusione o di acquiescenza tra vittime e oppressori: i Kapos, i Prominenten, e tutte le altre grottesche figure del privilegio nel Lager e nei ghetti ebraici, ma anche i rari gesti di spaventata pietà da parte della popolazione civile tedesca. 

Levi indaga e descrive lasciando in sospeso il giudizio, ma scavando col suo bisturi verbale dentro la carne viva dei fatti. La sua indagine porta alla luce un sentimento paradossale: la «vergogna del sopravvivente», il senso di colpa del «salvato», il quale è portato a credere di essere rimasto vivo al posto di un altro, più debole, più sfortunato e più onesto di lui, al quale egli ha dunque sottratto qualcosa.

[...] è il libro di un antropologo che include se stesso nel campo dell’indagine; [...].

 
«"È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire".
 [...] Le domande cui Levi risponde [...] 
Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario, e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi? Chi sono gli esseri che abitano la "zona grigia" della collaborazione? Come si costruisce un mostro? Era possibile capire dall'interno la logica della macchina dello sterminio? Era possibile ribellarsi ad essa? E ancora: come funziona la memoria di un'esperienza estrema? Che cosa sapevano, o volevano sapere, i tedeschi? [...] 


http://www.primolevi.it/Web/Italiano/Contenuti/Opera/110_Edizioni_italiane/I_sommersi_e_i_salvati



Secondo Primo Levi, per comprendere meglio il mondo e affrontare più facilmente gli ostacoli della vita, gli uomini operano moltissime semplificazioni, procedura che è indispensabile per farsi un’idea di come funziona il mondo.  

Una di queste semplificazioni porta gli uomini a dar credito ad una visione manichea del mondo: esistono solo i puramente buoni e i puramente cattivi. Non ci sono, non ci possono e non ci devono essere contatti tra queste due realtà. 

Un esempio molto significativo che riporta l’autore è il successo esagerato degli sport come il calcio o il baseball: durante una partita esistono solo due squadre o due individui che si fronteggiano; naturalmente, lo spettatore è portato a considerare, secondo sui giudizi personali, una delle due realtà come buona e l’altra come cattiva, anelando alla vittoria della prima e alla sconfitta della seconda.

Tuttavia, molto raramente (praticamente mai) le situazioni della vita sono così semplici e poco articolate: molto spesso queste due realtà entrano in contatto, unendosi così indissolubilmente e profondamente, tanto  da rendere impossibile qualsiasi tentativo di giudizio.

Riportando questa definizione di “zona grigia”  alla realtà del lager, Levi ci offre un nuovo modo di vedere i campi di concentramento: la loro caratteristica più odiosa, oltre alle terrificanti umiliazioni e alla tortura fisica, era il fatto che chiunque entrava in un lager non aveva punti di riferimento di alcun genere, era completamente solo di fronte ad una realtà completamente ostile.

Non esistevano due “fazioni”opposte che si fronteggiavano, non esisteva un solo nemico su cui concentrare tutta la propria rabbia e il proprio odio perchè  i mostri da cui guardarsi non erano solo i soldati, ma anche quelli che fino a poco tempo fa erano i propri amici, parenti, concittadini, ormai asserviti in misura maggiore o minore ad un sistema disumano nel tentativo di sopravvivere.

Questo brusco cambiamento rispetto alla vita quotidiana era riscontrabile fin dalle prime ore di detenzione nel campo e, molto spesso, bastava per sgretolare ogni traccia di speranza e coraggio nei prigionieri.  Questo era  l’intenzione  dei dirigenti del campo rispetto a chiunque giungesse per la prima volta nel campo: agli occhi dei “vecchi” detenuti,  il “nuovo” doveva essere  un avversario per definizione, qualunque fosse il motivo per cui era lì e la sua personalità andava attaccata e distrutta il prima possibile e con i metodi più violenti.

Levi è molto chiaro su come questo scopo fosse importante per le SS
non appena giunti al campo, i “nuovi” venivano  picchiati violentemente, intontiti con una sequela di ordini urlati con furia (in qualche caso anche simulata)e in una lingua che alcuni non comprendevano, denudati, rasati e vestiti di stracci. Ogni singolo aspetto di questo macabro e insensato rituale andava a contribuire all’annichilimento della personalità del prigioniero.

Oltre all’impegno delle guardie nel raggiungere questo proposito, molto spesso anche i prigionieri già presenti nel campo facevano la loro parte: chi era lì da più tempo degli altri era considerato una figura importante e da tenere in considerazione, figura che molto spesso non apprezzava l’arrivo dei “nuovi”, nei quali vedevano riflessa la loro vita precedente che pareva loro dolorosamente lontana.

Molto interessante, curiosa, patetica e triste è la condizione dei cosiddetti prigionieri “privilegiati: erano questi una percentuale ristretta all’interno del campo, percentuale che diventa significativa nel conteggio dei sopravvissuti; infatti, essi (in un modo o in un altro), erano quelli che aveva trovato la possibilità di mantenersi più in forze degli altri.

Questi “privilegiati”, il cui privilegio scaturiva molto spesso da contatti (di qualunque tipo) con le alte sfere del campo, erano incaricati di incrementare maggiormente la dose di soprusi e angherie ai danni dei “nuovi”, in  modo che l’ordine del campo non venisse nemmeno lontanamente intaccato.

Questi personaggi tristi e complicati costituivano l’ossatura del controllo del campo da parte dei nazisti: essi non ne potevano fare a meno, a causa della mancanza di personale, impegnato a mantenere il controllo nell’Europa sottomessa e sui molteplici fronti di guerra. I nazisti, tuttavia, non potevano pensare che i “privilegiati” obbedissero ai loro ordini e non tradissero mai e in nessun caso: l’avevano fatto con i loro compagni e amici e nulla avrebbe loro impedito di farlo ancora. Per ovviare a questo fatto, i “privilegiati”  venivano immediatamente costretti a compiere azioni terribili ai danni degli altri prigionieri, in modo che rimanessero come marchiati e non potessero più tornare sui loro passi.

Nell’insieme dei “privilegiati”, Levi distingue due categorie: 
una composta da coloro che, pur di ricevere una razione extra di cibo, si davano da fare per svolgere compiti di relativa importanza (oppure assolutamente inventati dal nulla!); l’altra categoria delineata rappresenta coloro che, a differenza di quelli appena citati, disponevano all’interno del campo di un vero e proprio potere.

Erano questi i Kapos (i capi delle squadre di lavoro), i capibaracca, gli scritturali, uomini che avevano incarichi  di rilievo all’interno dell’amministrazione del lager.

Essi potevano accedere ad informazioni rilevanti sulla struttura del campo e sui membri delle guardie (magari le più corruttibili): per questo erano tenuti sotto osservazione continua dai dirigenti del campo; comunque, rispetto ai prigionieri, il potere di questi particolari “privilegiati”, non aveva alcun limite: non era raro (fino al 1943) che un Kapos ammazzasse di botte un prigioniero e non accorresse in alcuna sanzione (dal 1943 in avanti, quando la domanda di manodopera divenne più impellente, si introdussero alcune “norme”, come il fatto che le punizioni dei Kapos non dovessero ridurre permanentemente la capacità lavorativa del prigioniero).

Di fatto, quindi, all’interno del campo andava a delinearsi una struttura che in tutto e per tutto riprendeva quella dello stato totalitario: il potere proveniva tutto dall’alto e coloro che erano alla base di questa struttura non aveva alcun controllo su di esso.

Diventa quindi chiaro che questa struttura appariva allettante per chi, di natura, era attratto dal potere: infatti, in molti casi diventava Kapos chi risultava essere sadico, frustrato e chi, incredibilmente, dopo molta sofferenza, andava a riconoscersi nei suoi propri carnefici; secondo primo Levi, anche questo fatto delineava la somiglianza tra lo stato totalitario e la vita nel campo.

Successivamente Levi propone un esempio limite di questa aberrante collaborazione “vittima-carnefice”: i Sonderkommandos presenti nei campi di sterminio.

I Sonderkommandos (letteralmente “squadra speciale”), rappresentavano la squadra di prigionieri del campo incaricata del controllo e della gestione dei crematori e delle camere a gas. Essi, in quanto squadra speciale, erano sovvenzionati con razioni extra di cibo per la durata del servizio (qualche mese). Venivano scelti al momento dell’arrivo alla stazione e solo in un secondo momento realizzavano quale fosse il loro compito (chi rifiutò di obbedire venne ucciso).

Il loro  incarico  consisteva nel controllare i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas, estrarre i loro cadaveri dalle camere, estrarre i denti d’oro dalle mascelle, rasare i capelli femminili, dividere e mettere da parte i vestiti, le scarpe, i bagagli, trasportare i corpi ai crematori, sovrintendere al funzionamento dei forni e quindi ripulirli dalle ceneri.

Questo compito orribile era affidato ad un gruppo di uomini che contava dai 700 ai 1000 effettivi, che comunque non durava per più di qualche mese: infatti, allo scadere del mandato, i componenti del Sonderkommandos venivano eliminati (sempre con metodi diversi per non destare sospetti) perché non potessero riportare ciò che avevano visto.

Il primo compito della squadra successiva, era quello di eliminare  i cadaveri della squadra precedente, una sorta di “rito di iniziazione”, ma non era chiaro che quel destino sarebbe toccato anche a loro.

Per quanto mi riguarda, questo è il miglior capitolo di tutto il libro.

L’idea della “zona grigia”, in cui nessuno è completamente innocente o colpevole, è qualcosa di assolutamente affascinante, che ci porta ad evitare quelle semplificazioni possono farci travisare la realtà dei fatti.

Levi riesce, incredibilmente, a superare le emozioni che lo colpiscono quando ripensa al campo e ad osservare la sua realtà in modo scientifico e obiettivo: solamente in questo modo, riesce ad indicare con chiarezza le situazioni del campo e, soprattutto, i suoi effetti sui prigionieri.

Con parole semplici ma dure, Levi descrive come il compito primario dei lager non fosse semplicemente distruggere fisicamente i prigionieri, ma umiliarli, spingerli al limite, alienarli da tutto ciò che è umano, perché se anche fossero sopravvissuti non avrebbero potuto ritornare alle loro vite precedenti.

In questo terrificante rituale, entravano a far parte anche gli stessi prigionieri, devastati dalla sofferenza e dalla rabbia e pronti a tutto pur di compensare in qualche modo il vuoto che sentivano dentro.

In questo modo, il lager acquista una concezione “fantascientifica”: 
è una sorta di dimensione parallela, in cui i valori normali della quotidianità vengono stravolti e ribaltati, i prigionieri vengono ridotti a bestie e costretti a perdere ogni connotato di umanità, ogni persona è completamente sola e immersa in un mondo che non può completamente comprendere.

Attraverso vari esempi, Levi delinea un filo conduttore per spiegare i comportamenti di collaborazione tra prigionieri e guardie: il potere.

In un sistema come quello del lager, il potere è un attraente miraggio cui molti anelano, ma che solamente alcuni, i più spietati e i più furbi, riescono a raggiungere: nei campi di sterminio, il potere e la sopraffazione risultano essere causa della sofferenza, ma anche unica apparente via d’uscita.

È la logica distorta del lager, la logica distorta del totalitarismo e dell’estremismo…la logica assurda, terribile, patetica e inconcepibile della violenza. [...]


La vergogna 1
PRIMO LEVI  –  LA VERGOGNA
La vergogna. Questo sentimento emerge, a parer nostro, in modo evidente in questa frase tratta dal libro “La tregua”:
la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.”.

[...] 

La vergogna2 (Valentina Vorgnano).
Nel terzo capitolo, La vergogna, Levi inizia a parlare della vergogna provata dal “salvato” nel momento in cui ripensa all’esperienza del lager, oppure quando deve rispondere alle domande di chi non ha vissuto direttamente quell’esperienza eppure pretende di giudicarla.

Primo Levi afferma che molti (ed anche egli stesso) hanno provato vergogna, cioè un senso di colpa, durante la prigionia e dopo; questo è un fatto accertato e confermato da molte testimonianze. [...]

1) I “salvati” soffrivano perché si erano sentiti colpevoli per non aver fatto niente o non abbastanza  contro il sistema in cui erano assorbiti. Secondo Primo Levi sul piano razionale, non ci sarebbe stato molto di cui vergognarsi, ma la vergogna restava ugualmente. [...]

2) Nei campi di concentramento tutti avevano vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: avevano sopportato la sporcizia, le loro giornate erano state ingombrate dalla fame, dalla fatica, dal freddo… Inoltre  tutti avevano rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo…Tutti avevano dimenticato il proprio paese, la propria cultura, la famiglia, il passato, il futuro che si erano rappresentati, perché, erano ristretti al momento del presente. [...]

3) Primo Levi racconta che nel momento in cui si sentivano ridiventare uomini, ritornavano le pene degli uomini  [...].


Levi, infatti, racconta che nel maggio del 1944 arrivò un nuovo kapo per la sua squadra. Questi picchiava in modo convulso, maligno e perverso sul naso, sugli stinchi e sui genitali. Un collega, un ebreo comunista croato, aveva detto a Levi che questo Kapo non sarebbe durato molto. Infatti dopo una settimana il picchiatore sparì. Solo anni dopo, in un convegno di reduci, Levi venne a conoscenza del fatto che alcuni prigionieri politici addetti all’ufficio del lavoro del campo, avevano il potere di sostituire i numeri di matricola sugli elenchi dei prigionieri destinati alla camera a gas.) [...]

“Mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza”, afferma Levi. [...]
la regola principale del Lager era quella di badare prima di tutto a se stessi.

5) Levi ricorda, che nell’agosto del 1944, faceva molto caldo. La sua squadra era stata mandata in una cantina a sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivano per la sete. A Levi era stato affidato un angolo della cantina, attiguo ad un locale occupato da impianti chimici in corso di installazione ma già danneggiati dalle bombe. Lungo il muro c’era un tubo che terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. Levi lo aprì a si accorse che usciva dell’acqua a gocce. Scelse di dividere l’acqua con il suo compagno Alberto, amico fin dall’infanzia. Di nascosto in due bevettero, alternandosi sotto il rubinetto.

Ma nella marcia di ritorno al campo Levi si trovò accanto a Daniele, tutto grigio di polvere di calcinacci con le labbra spaccate e gli occhi lucidi e si sentì colpevole.

Daniele li aveva visti e glielo disse alcuni mesi dopo la liberazione avvenuta. 
Chiese perchè non avesse potuto bere anche lui. Era il codice morale “civile” che riemergeva.

Inoltre il fatto di essere sopravvissuti fa sempre pensare che forse “sei vivo al posto di un altro”, sicuramente migliore di te.

6) Levi racconta di quando, al ritorno dalla prigionia, andò a trovarlo un amico più anziano di lui il quale era contento di ritrovarlo vivo e indenne dicendo che il fatto che Levi fosse sopravvissuto non fu opera del caso ma bensì opera della provvidenza. Levi iniziò così ad interrogarsi sul perché proprio lui, non credente, si fosse salvato. Un suo amico religioso gli disse che era sopravvissuto affinchè portasse testimonianza di quanto era accaduto, ma lui rifiutò completamente questa spiegazione, perchè acuiva il suo senso di colpa.

Primo Levi si domanda perché sia morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che si era sforzato di capirlo e di farsi capire e di spiegare le regole essenziali di sopravvivenza nei primi giorni di cattività; è morto Robert, professore alla Sorbona, che emanava fiducia e coraggio intorno a sé e registrava tutto nella sua memoria…Queste persone sono morte non malgrado il loro valore, ma per il loro valore.

7) Infine i sopravvissuti sentivano la “vergogna del mondo”, cioè il dolore per le colpe che altri hanno commesso: soffrivano perché si rendevano conto che il genere umano, di cui fanno parte, era capace di costruire una mole infinita di dolore.
Vorgnano Valentina

 

Gli stereotipi
Nel settimo capitolo, Stereotipi, Levi risponde a tre delle domande più frequenti verso i reduci. [...]

Primo Levi dice che coloro che hanno sperimentato la prigionia si dividono in due categorie ben distinte: quelli che tacciono e quelli che raccontano

Tacciono coloro che  provano quel disagio (coloro che ha chiamato “vergogna”), coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite bruciano ancora. 

Parlano quelli che obbediscono a spinte diverse; parlano perché ravvisano nella loro prigionia il centro della loro vita, l’evento che ha segnato la loro esistenza. Parlano perché sanno di essere testimoni di un processo secolare, parlano perché “è bello raccontare i guai passati”, parlano descrivendo paura e coraggio, astuzie, offese, sconfitte…ma parlano anche perché vengono invitati a farlo. Gli ascoltatori, gli amici, i figli, i lettori, capiscono l’unicità della loro esperienza e li sollecitano a raccontare, ponendo domande e talvolta mettendoli in imbarazzo.

Primo Levi dice che fra le domande che gli vengono poste ce n’è una “famiglia” che non manca mai: “Perché non siete fuggiti?”, “Perché non vi siete ribellati?”, “Perché non vi siete sottratti alla cattura ‘prima’?”. Secondo Levi queste domande, per la loro immancabilità e crescere nel tempo, meritano attenzione.

“Perché non siete fuggiti?”

Vi sono paesi in cui la libertà non è mai stata conosciuta perché il bisogno che l’uomo ne prova viene dopo altri bisogni: resistere al freddo, alla fame, alle malattie..

[...]

Per i paria dell’universo nazista l’evasione era difficile e pericolosa:erano demoralizzati, indeboliti dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasati, abiti lerci e scarpe di legno.

Se gli ebrei fossero riusciti a superare lo sbarramento di filo spinato e la griglia elettrificata, a sfuggire dalle pattuglie, alla sorveglianza delle sentinelle armate di mitragliatrice nelle torrette di guardia, ai cani addestrati alla caccia all’uomo: 
verso dove avrebbero potuto dirigersi? 
a chi avrebbero chiesto ospitalità?
erano fuori dal mondo, non avevano più una patria né una casa. 
Chi ospitava o aiutava un ebreo rischiava punizioni terrificanti. 
Inoltre la fuga di un solo prigioniero era considerata un evento intollerabile. 
Di conseguenza, quando un ebreo mancava all’appello l’intero campo veniva messo in stato d’allarme; i connazionali o gli amici notori erano interrogati sotto tortura e poi uccisi. I suoi compagni di baracca venivano fatti stare in piedi , nella piazza dell’appello, sotto la neve, la pioggia o il sole, finchè l’evaso non fosse stato ritrovato, vivo o morto.

Primo Levi racconta poi l’evasione di Mala dal Lager femminile di Birkenau. 
Mala era un’ebrea polacca che era stata catturata in Belgio e parlava molte lingue, perciò fungeva da interprete e da portaordini, godendo di una certa libertà di spostamento. Nell’estate del 1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Corruppero una SS e si procurarono due uniformi. Giunsero al confine slovacco, vennero fermati da due doganieri e consegnati alla polizia  e furono riportati a Birkenau. Edek venne impiccato subito. Mala era riuscita a nascondersi una lametta da rasoio addosso; mentre era nella cella si recise l’arteria di un polso ai piedi della forca. L’SS cercò di strapparle la lama  ma Mala gli sbattè sul viso la mano insanguinata. Accorsero subito altri militi che la calpestarono a morte e poi fu portata al crematorio.

Levi si ricorda di quando era stato invitato a parlare in una quinta elementare per commentare i suoi libri. Un ragazzino gli chiese di tracciare uno schizzo alla lavagna del campo di concentramento; dopo aver studiato il disegno gli espose il piano che aveva escogitato
di notte, bisognava per prima cosa sgozzare la sentinella; poi, indossare i suoi abiti, subito dopo correre alla centrale e interrompere la corrente elettrica così si sarebbero spenti i fari e si sarebbe disattivato il reticolato ad alta tensione. Questo illustra la spaccatura che esiste fra le cose com’erano “laggiù” e le cose come vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti. [...]



https://codolini.wordpress.com/letteratura-italiana/autori-e-argomenti-di-lettetatura-italiana-ordine-cronologico/4il-novecento/il-romanzo-italiano-del-novecento/primo-levi/i-sommersi-e-i-salvati-sintesi-di-alcuni-capitoli/


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[Quarta di copertina della prima edizione Einaudi 1986, collana «Gli struzzi»]

http://www.primolevi.it/Web/Italiano/Strumenti/Immagini/Prime_edizioni?img=FEDIZ_L00017.jpg



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