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sabato 26 novembre 2016

Italo Calvino, Il Barone Rampante. Cosimo riuscì a ricostruire la storia della colonia che soggiornava sui platani. Erano nobili spagnoli, ribellatisi a Re Carlos III per questioni di privilegi feudali contrastati, e perciò posti in esilio con le loro famiglie. Giunti a Olivabassa, era stato loro interdetto di continuare il viaggio: quei territori infatti, in base a un antico trattato con Sua Maestà Cattolica, non potevano dar ricetto e nemmeno venir attraversati da persone esiliate dalla Spagna. La situazione di quelle nobili famiglie era ben difficile da risolversi, ma i magistrati di Olivabassa, che non volevano avere seccature con le cancellerie straniere ma che neppure avevano ragioni d'avversione per quei ricchi viaggiatori, vennero a un accomodamento: la lettera del trattato prescriveva che gli esuli non dovessero «toccare il suolo» di quel territorio, quindi bastava che se ne stessero sugli alberi e si era in regola. Dunque gli esuli erano saliti sui platani e sugli olmi, con scale a pioli concesse dal Comune, che poi furono tolte. Stavano appollaiati lassù da alcuni mesi, confidando nel clima mite, in un prossimo decreto d'amnistia di Carlos III e nella provvidenza divina.

Calvino, "Il Barone rampante" di Italo Calvino, nato da un racconto di Salvatore Scarpetta una sera del 1950 all'osteria Menghi di via Flaminia, a Roma. Scarpetta raccontò a Calvino di quando bambino, nella California degli anni Trenta, dove viveva con la famiglia, un giorno per scappare a uno scappellotto del padre salì su un albero e vi rimase 34 giorni diventando una vera celebrità.


Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l'ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d'Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell'ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d'andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s'era vista disubbidienza più grave.
Italo Calvino, Il barone rampante


Convalescente, immobile sul noce, si ritemprava nei suoi studi più severi. Cominciò in quel tempo a scrivere un “Progetto di Costituzione d’uno Stato ideale fondato sopra gli alberi", in cui descriveva l’immaginaria, Repubblica d’Arbòrea, abitata da uomini giusti. Lo cominciò come un trattato sulle leggi e i governi ma scrivendo la sua inclinazione d’inventore di storie complicate ebbe il sopravvento e uscì uno zibaldone d’avventure, duelli e storie erotiche, inserite, quest’ultime, in un capitolo sul diritto matrimoniale. L’epilogo del libro avrebbe dovuto essere questo; l’autore, fondato lo Stato perfetto in cima agli alberi e convinta tutta l’umanità a stabilirvisi e a vivere felice, scendeva ad abitare sulla terra rimasta deserta. Avrebbe dovuto essere, ma l’opera restò incompiuta. Né mandò un riassunto al Diderot, firmano semplicemente: Cosimo Rondò, lettore dell’Enciclopedia. Il Diderot ringraziò con un biglietto.
Italo Calvino, Il barone rampante

Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: «Cosimo Piovasco di Rondò - Visse sugli alberi -Amò sempre la terra - Salì in cielo».
Italo Calvino, Il barone rampante


«- Lei è il brigante Gian dei Brughi?

- Come mi conosce?

- Eh, così, di fama.

- E lei è quello che non scende mai dagli alberi?

- Sì. Come lo sa?

- Be’, anch’io, la fama corre.

Si guardarono con cortesia, come due persone di riguardo che s’incontrano per caso e sono contente di non essere sconosciute l’una all’altra.»
Italo Calvino, Il barone rampante


Ma in tutta quella smania c'era un'insoddisfazione più profonda, una mancanza, in quel cercare gente che l'ascoltasse c'era una ricerca diversa. Cosimo non conosceva ancora l'amore, e ogni esperienza, senza quella, che è? Che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?
Italo Calvino, Il barone rampante


Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.
Italo Calvino, Il barone rampante


L’amore riprendeva con una furia pari a quella del litigio.
Era difatti la stessa cosa, ma Cosimo non ne capiva niente.
Italo Calvino, Il barone rampante


Ma in tutta quella smania c'era un'insoddisfazione più profonda, una mancanza, in quel cercare gente che l'ascoltasse c'era una ricerca diversa. Cosimo non conosceva ancora l'amore, e ogni esperienza senza quello che è? che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?
Italo Calvino, Il barone rampante


Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.
Italo Calvino, "Il barone rampante"

Cosimo tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita.
Italo Calvino, “Il barone rampante”


-Cosa sai di come sono io, eh, cosa sai?
S’era fatta dolce, e Cosimo a questi passaggi repentini non finiva di stupirsi.
Le venne vicino. Viola era d’oro e miele.  […]
Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo.
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino, Il barone rampante


Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, ma s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino, "Il barone rampante", cap.XXI

Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. 
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre mai s’era potuta riconoscere così.
Lui aveva ancora il sole negli occhi, quello rosso scuro dei tramonti d’agosto e d’improvviso in un giorno bianco di neve la luce calda dei suoi occhi si era specchiata in quelli di lei: freddi, grigio acciaio. 
Gli occhi di lui non avevano mai visto quel grigio inespugnabile fatto di quel cielo di Milano che ti si chiude piano piano addosso, inghiottendoti. 
Gli occhi di lei non avevano il calore e l’ingenuità di quel sole umile di passione ogni mattina allo specchio. 
Invano lo cercò lei, era fuggito. 
Lui temeva quegli occhi, impaurito e attratto dalla stanchezza dello sguardo di chi ha visto, vissuto, infine capitolato di fronte a quel turbinio di immagini che lascia il vuoto dentro. 
Occhi che ricercano, scrutano, mai capaci di sottrarsi. Ma il calore degli occhi di lui , quello che scalda la neve, era ormai lontano, scosso dal gelo che aveva visto. 
E così si erano conosciuti e nel gelo lui si era ormai saputo e lei, che si sapeva da sempre, finalmente si poté riconoscere.
Italo Calvino, "Il barone rampante", cap.XXI



E lei: Tu credi che l’amore sia dedizione assoluta, rinuncia di sé.
Era lì sul prato, bella come mai, e la freddezza che induriva appena i suoi lineamenti e l’altero portamento della persona sarebbe bastato un niente a scioglierli, e riaverla tra le braccia… Poteva dire qualcosa, Cosimo, una qualsiasi cosa per venirle incontro, poteva dirle: “Dimmi che cosa vuoi che faccia, sono pronto.” e sarebbe stata di nuovo felicità per lui, la felicità insieme senza ombre. Invece disse: “Non ci può essere amore se non si è sé stessi con tutte le proprie forze.
Italo Calvino, Il barone rampante

- Cosimo: Perché mi fai soffrire?
- Viola: Perché ti amo.
- Cosimo: No, non mi ami! Chi ama vuole la felicità, non il dolore.
- Viola: Chi ama vuole solo l'amore, anche a costo del dolore.
- Cosimo: Mi fai soffrire apposta, allora.
- Viola: Si, per vedere se mi ami.
Italo Calvino, Il barone rampante



- Sono stanca.
- Di quelli?
- Di tutti voi.
- Ah.
- Loro m’hanno dato le più grandi prove d’amore…
Cosimo sputò.
- … Ma non mi bastano.
Cosimo alzò gli occhi su di lei.
E lei: - Tu non credi che l’amore sia dedizione assoluta, rinuncia di sé…
Era lì sul prato, bella come mai, e la freddezza che induriva appena i suoi lineamenti e l’altero portamento della persona sarebbe bastato un niente a scioglierli, e riaverla tra le braccia…
Poteva dire qualcosa, Cosimo, una qualsiasi cosa per venirle incontro, poteva dirle: - Dimmi che cosa vuoi che faccia, sono pronto… - e sarebbe stata di nuovo la felicità per lui, la felicità insieme senza ombre. Invece disse: - Non ci può essere amore se non si è sé stessi con tutte le proprie forze.
Viola ebbe un moto di contrarietà che era anche un moto di stanchezza. Eppure ancora avrebbe potuto capirlo, come difatti lo capiva, anzi aveva sulle labbra le parole da dire: “Tu sei come io ti voglio…” e subito risalire da lui… Si morse un labbro. Disse: - Sii te stesso da solo, allora.
“Ma allora esser me stesso non ha senso…”, ecco quello che voleva dire Cosimo.
Invece disse: - Se preferisci quei due vermi…
- Non ti permetto di disprezzare i miei amici! - lei gridò, e ancora pensava:
“A me importi solo tu, è solo per te che faccio tutto quel che faccio!”
- Solo io posso essere disprezzato…
- Il tuo modo di pensare!
- Sono una cosa sola con esso.
- Allora addio. Parto stasera stessa. Non mi vedrai più. […] Fu di parola.
Italo Calvino, Il barone rampante




- A Olivabassa c'è tutta una genìa di Spagnoli che vivono sugli alberi! 
- Cosimo non ebbe più pace finché non intraprese attraverso gli alberi dei boschi il viaggio per Olivabassa. [...] Cosimo riuscì a ricostruire la storia della colonia che soggiornava sui platani. Erano nobili spagnoli, ribellatisi a Re Carlos III per questioni di privilegi feudali contrastati, e perciò posti in esilio con le loro famiglie. Giunti a Olivabassa, era stato loro interdetto di continuare il viaggio: quei territori infatti, in base a un antico trattato con Sua Maestà Cattolica, non potevano dar ricetto e nemmeno venir attraversati da persone esiliate dalla Spagna. La situazione di quelle nobili famiglie era ben difficile da risolversi, ma i magistrati di Olivabassa, che non volevano avere seccature con le cancellerie straniere ma che neppure avevano ragioni d'avversione per quei ricchi viaggiatori, vennero a un accomodamento: la lettera del trattato prescriveva che gli esuli non dovessero «toccare il suolo» di quel territorio, quindi bastava che se ne stessero sugli alberi e si era in regola. Dunque gli esuli erano saliti sui platani e sugli olmi, con scale a pioli concesse dal Comune, che poi furono tolte. Stavano appollaiati lassù da alcuni mesi, confidando nel clima mite, in un prossimo decreto d'amnistia di Carlos III e nella provvidenza divina. Avevano una provvista di doppie di Spagna e compravano vivande, dando così commercio alla città. Per tirare su i piatti, avevano installato alcuni saliscendi. Su altri alberi c'erano baldacchini sotto ai quali dormivano. Insomma, s'erano saputi aggiustar bene, ossia, erano gli Olivabassi che li avevano così ben attrezzati, perché ci avevano il loro tornaconto. 
Gli esuli, da parte loro, non muovevano un dito in tutta la giornata.
Cosimo era la prima volta che incontrava degli altri esseri umani abitanti sulle piante, e cominciò a far domande pratiche.
- E quando piove, come fate?
- Sacramos todo el tiempo, Sehor!
E l'interprete, che era il Padre Sulpicio de Guadalete, della Compagnia di Gesù, 
esule da quando il suo ordine era stato messo al bando dalla Spagna: 
- Protetti dai nostri baldacchini, rivolgiamo il pensiero al Signore, 
ringraziandolo di quel poco che ci basta!...
- A caccia ci andate mai?
- Senor, algunas veces con el visco.
-Talvolta uno fra noi unge di vischio un ramo, per suo spasso. 
Cosimo non era mai stanco di scoprire come avevano risolto i problemi 
che s'erano presentati pure a lui.
- E per lavarvi, per lavarvi, come fate?
- Para lavar? Hay lavanderas! - disse Don Frederico, con un'alzata di spalle.
- Diamo i nostri indumenti alle lavandaie del paese, - tradusse Don Sulpicio. 
- Ogni lunedì, a esser precisi, noi si cala il canestro della roba sporca.
- No, volevo dire per lavarvi la faccia e il corpo.
Don Frederico grugnì e alzò le spalle, come se questo problema non gli si fosse mai presentato.
Don Sulpicio si credette in dovere d'interpretare: 
- Secondo il parere di Sua Altezza, queste son quistioni private di ciascheduno.
- E, chiedo venia, i vostri bisogni dove li fate?
- Ollas, Senor.
E Don Sulpicio, sempre col suo tono modesto: 
- S'usa certi orciuolini, in verità.
Congedatosi da Don Frederico, Cosimo fu guidato dal Padre Sulpicio a far visita ai vari membri della colonia, nei loro rispettivi alberi residenziali. Tutti questi hidalghi e queste dame serbavano, pur nelle ineliminabili scomodità del loro soggiorno, atteggiamenti abituali e composti. Certi uomini, per stare a cavalcioni sui rami, usavano selle da cavallo, e ciò piacque molto a Cosimo, che in tanti anni non aveva mai pensato a questo sistema (utilissimo per le staffe - notò subito -che eliminano l'inconveniente di dover tenere i piedi penzoloni, cosa che dopo un po' dà il formicolìo). Alcuni puntavano cannocchiali da marina (uno tra loro aveva il grado di Almirante) che probabilmente servivano soltanto a guardarsi tra loro da un albero all'altro, curiosare e far pettegolezzi. Le signore e signorine sedevano tutte su cuscini da loro stesse ricamati, agucchiando (erano le uniche persone in qualche modo operose) oppure carezzando grossi gatti. Di gatti, v'era su quegli alberi gran numero, come pure d'uccelli, in gabbia questi (forse erano le vittime del vischio) tranne alcuni liberi colombi che venivano a posarsi sulla mano delle fanciulle, e carezzati tristemente.
In queste specie di salotti arborei Cosimo era ricevuto con ospitale gravità. Gli offrivano il caffè, poi subito si mettevano a parlare dei palazzi da loro lasciati a Siviglia, a Granada, e dei loro possedimenti e granai e scuderie, e lo invitavano pel giorno in cui sarebbero stati reintegrati nei loro onori. Del Re che li aveva banditi parlavano con un accento che era insieme d'avversione fanatica e di devota reverenza, talvolta riuscendo a separare esattamente la persona contro la quale le loro famiglie erano in lotta e il titolo regale dalla cui autorità emanava la propria. Talvolta invece a bella posta mescolavano i due opposti modi di considerazione in un solo slancio dell'animo: e Cosimo, ogni volta che il discorso cadeva sul Sovrano, non sapeva più che faccia fare.
Aleggiava su tutti i gesti e i discorsi degli esuli un'aura di tristezza e lutto, che un po' corrispondeva alla loro natura, un po' a una determinazione volontaria, come talora avviene in chi combatte per una causa non ben definita nei convincimenti e cerca di supplire con l'imponenza del contegno.
Nelle giovinette - che a una prima occhiata parvero a Cosimo tutte un po' troppo pelose e opache di pelle - serpeggiava un accenno di brio, sempre frenato a tempo. Due d'esse giocavano, da un platano all'altro, al volano. Tic e tac, tic e tac, poi un gridolino: il volano era caduto in strada. Lo raccattava un monello olivabasso e per tirarlo su pretendeva due pesetas.
Sull'ultimo albero, un olmo, stava un vecchio, chiamato El Conde, senza parrucca, dimesso nel vestire. Il Padre Sulpicio, avvicinandosi, abbassò la voce, e Cosimo fu indotto a imitarlo. El Conde con un braccio spostava ogni tanto un ramo e guardava il declivio della collina e una piana or verde or brulla che si perdeva lontano.
Sulpicio mormorò a Cosimo una storia d'un suo figlio detenuto nelle carceri di Re Carlo e torturato. Cosimo comprese che mentre tutti quegli hidalghi facevano gli esuli così per dire, ma dovevano ogni poco richiamarsi alla mente e ripetersi perché e percome si trovavano là, solo quel vecchio soffriva davvero. Questo gesto di scostare il ramo come aspettandosi di veder apparire un'altra terra, quest'inoltrare pian piano lo sguardo nella distesa ondulata come sperando di non incontrare mai l'orizzonte, di riuscire a scorgere un paese ahi quanto lontano, era il primo segno vero d'esilio che Cosimo vedeva. E comprese quanto per quegli hidalghi contasse la presenza del Conde, come fosse quella a tenerli insieme, a dare loro un senso. Era lui, forse il più povero, certo in patria il meno autorevole di loro, che diceva loro quello che dovevano soffrire e sperare.
Tornando dalle visite, Cosimo vide su lui ontano una fanciulla che non aveva visto prima. In due salti fu lì.
Era una ragazza con occhi di bellissimo color pervinca e carnagione profumata. Reggeva un secchio.
- Com'è che quando ho visto tutti non vi ho vista?
- Ero per acqua al pozzo, - e sorrise. Dal secchio, un po' inclinato, cadde dell'acqua. Lui la aiutò a reggerlo.
- Voi dunque scendete dagli alberi?
- No; c'è un ritorto ciliegio che fa ombra al pozzo. Di là caliamo i secchi. Venite.
Camminarono per un ramo, scavalcando il muro d'una corte. Lei lo guidò nel passaggio sul ciliegio. Sotto era il pozzo.
- Vedete, Barone?
- Come sapete che sono un Barone?
- Io so tutto, - sorrise. - Le mie sorelle m'hanno subito informata della visita.
- Sono quelle del volano?
- Irena e Raimunda, appunto. [...]

Fiorirono i peschi, i mandorli, i ciliegi. Cosimo e Ursula passavano insieme le giornate sugli alberi fioriti. La primavera colorava di gaiezza perfino la funerea vicinanza del parentado.
Nella colonia degli esuli mio fratello seppe subito rendersi utile, insegnando i vari modi di passare da un albero all'altro e incoraggiando quelle nobili famiglie a uscire dalla abituale compostezza per praticare un po' di movimento, gettò anche dei ponti di corda, che permettevano agli esuli più vecchi di scambiarsi delle visite. E così, in quasi un anno di permanenza tra gli Spagnoli, dotò la colonia di molti attrezzi da lui inventati: serbatoi d'acqua, fornelli, sacchi di pelo per dormirci dentro. Il desiderio di far nuove invenzioni lo portava a secondare le usanze dì questi hidalghi anche quando non andavano d'accordo con le idee dei suoi autori preferiti: così, vedendo il desiderio di quelle pie persone di confessarsi regolarmente, scavò dentro un tronco un confessionale, dentro il quale poteva entrare il magro Don Sulpicio e da una finestrella con tendina e grata ascoltare i loro peccati.
La pura passione delle innovazioni tecniche, insomma, non bastava a salvarlo dall'ossequio alle norme vigenti; ci volevano le idee. Cosimo scrisse al libraio Orbecche che da Ombrosa gli rimandasse per la posta a Olivabassa i volumi arrivati nel frattempo. Così potè far leggere a Ursula Paolo e Virginia e La Nuova Eloisa.
Gli esuli tenevano spesso adunanze su una vasta quercia, parlamenti in cui stilavano lettere al Sovrano. Queste lettere in principio dovevano essere sempre d'indignata protesta e di minaccia, quasi degli ultimatum; ma a un certo punto, dall'uno o dall'altro di loro venivano proposte formule più blande, più rispettose, e così si finiva in una supplica in cui si prosternavano umilmente ai piedi delle Graziose Maestà implorandone il perdono.
Allora s'alzava El Conde. Tutti ammutolivano. El Conde, guardando in alto, cominciava a parlare, a voce bassa e vibrata, [...]







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