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lunedì 31 agosto 2015

Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi.







E' il modo di essere per essere accettati dagli altri senza dover interagire fisicamente. 
Per questo motivo molte più donne utilizzano questo modo di socializzare online in confronto agli uomini; semplicemente perchè l' aspetto fisico passa in secondo luogo, anzi in un luogo tra vero e non vero. anche in una fotografia è solo una parte della persona con cui interagiamo, il modo di essere, il linguaggio del corpo sono altrettanto importanti per socializzare con le persone giuste.



è vero che l'interlocutore è assente, ma il pensiero viene percepito e condiviso o contrastato:
è come parlare al telefono!!!!!!!!!!




Facebook: quando credendo di parlare con altri, 
comunichiamo solo con noi stessi
di Pino Corrias | 31 agosto 2015

Nel tempo in cui si va globalizzando tutto, compresa la disperazione dei migranti che ci parlano attraverso il loro corpo, la loro allarmante invadenza fisica, il re della più grande rivoluzione immateriale e antisociale, Mark Zuckerberg, festeggia con un miliardo di persone connesse in un solo giorno, il rumore di fondo che ci avvolge (ci scalda, ci illude) e che noi chiamiamo comunicazione interattiva, equivocandone il suo sostanziale silenzio passivo. Perché credendo di parlare agli altri, stiamo in realtà parlando con noi stessi. In una collettiva regressione infantile, verso quei giochi che giocavamo da soli, ma facendo le voci di tutti i personaggi in campo.
Facebook è un kinderheim planetario. 
Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.
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Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. 
La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.
La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”
Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.
Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai lo sguardo verso il vicino, ma concentravano tutta la loro attenzione sulla superficie dei cellulari e dei computer che li rifornivano di immagini, suoni e compagnia. Erano sparpagliati qui e là nei vagoni, in mezzo a qualche giovane donna che inspiegabilmente leggeva ancora un libro di carta e a qualche filippino che parlava (in diretta, live) con la persona in carne e ossa che gli stava accanto. Oggi il paesaggio è uniforme, quelle giovani donne con i libri sono scomparse, i filippini sono anche loro connessi, intorno solo teste reclinate in sequenza sui bagliori dello schermo degli smartphone, nessuno che si azzardi ad alzarla.
Lo stesso accade sempre più spesso – fateci caso – al ristorante, al semaforo, dove coppie di amici o fidanzati navigano ognuno per contro proprio, insieme solo nella forma, ma separati nella sostanza. Ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.
Ma l’immaterialità che ci avvolge non è e non sarà senza conseguenze. 
Ci sta rendendo sempre più fragili – più stupidi e specialmente più spaesati – come lo sono quei turisti d’agenzia o da crociera che credendo di viaggiare per il mondo stanno fermi in un simulacro del mondo, protetti dall’aria climatizzata, lavati e nutriti, difesi da ogni interferenza della vita reale, fossero anche il caldo e gli insetti.
La nostra crociera dentro il mondo che non esiste, finirà prima o poi per fare naufragio contro gli scogli di quello vero. La crisi economica e i tagliatori di teste non spariranno in un clic. E nemmeno le ondate dei migranti che con i loro corpi e le loro morti atroci sono un principio di realtà che ci sorprende così tanto da credere alla scorciatoia politica dei muri e delle ruspe. E se quel giorno – mentre postiamo una ricetta o un insulto su Facebook – ci verrà addosso il mondo, toccherà affrontarlo con gli occhi di nuovo aperti e il telefonino spento. Se ne saremo ancora capaci.

Da Il Fatto Quotidiano del 30 agosto 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/31/facebook-quando-credendo-di-parlare-con-altri-comunichiamo-solo-con-noi-stessi/1995908/

sabato 29 agosto 2015

Bruno Tognolini. Filastrocca dei mutamenti «Aiuto, sto cambiando!» disse il ghiaccio «Sto diventando acqua, come faccio? Acqua che fugge nel suo gocciolìo! Ci sono gocce, non ci sono io!» Ma il sole disse: «Calma i tuoi pensieri Il mondo cambia, sono i raggi miei Tu tieniti ben stretto a ciò che eri E poi lasciati andare a ciò che sei» Quel ghiaccio diventò un fiume d'argento Non ebbe più paura di cambiare E un giorno disse: «Il sale che io sento Mi dice che sto diventando mare E mare sia. Perché ho capito, adesso Non cambio in qualcos'altro, ma in me stesso»

Filastrocca dei mutamenti
«Aiuto, sto cambiando!» disse il ghiaccio
«Sto diventando acqua, come faccio?
Acqua che fugge nel suo gocciolìo!
Ci sono gocce, non ci sono io!»
Ma il sole disse: «Calma i tuoi pensieri
Il mondo cambia, sono i raggi miei
Tu tieniti ben stretto a ciò che eri
E poi lasciati andare a ciò che sei»
Quel ghiaccio diventò un fiume d'argento
Non ebbe più paura di cambiare
E un giorno disse: «Il sale che io sento
Mi dice che sto diventando mare
E mare sia. Perché ho capito, adesso
Non cambio in qualcos'altro, ma in me stesso»
Bruno Tognolini

Le Palais Idéal un sogno da vedere nel sud della Francia. Ho cominciato scavando una piscina, in cui ho iniziato a scolpire diverse specie di animali con il cemento. Poi ho costruito una cascata con le mie pietre. Mi ci sono voluti due anni. Una volta finito, sono rimasto io stesso stupito del mio lavoro. Criticato dalla gente del posto, ma incoraggiato da visitatori stranieri, non mi sono perso d'animo


Le Palais Ideal: il palazzo di sassi costruito da un postino francese che stregò Picasso.
Costruire un castello è un’impresa monumentale, in qualsiasi modo si guardi la cosa. Ma che dire se il castello è fatto di ghiaia e pietre, edificato utilizzando solo materiali trovati lungo il percorso di lavoro del geniale creatore? Sembra assolutamente inconcepibile, eppure è esattamente ciò che ha fatto Ferdinand Cheval a Hauterives, in Francia, e più di 100 anni dopo il suo castello di ghiaia è meta di turisti provenienti da tutto il mondo. La costruzione dello stravagante palazzo iniziò quando Cheval, che di mestiere faceva il postino, letteralmente inciampò in un sasso, durante il suo percorso giornaliero per consegnare la posta. Prese con sé la pietra, che divenne lo spunto per l’impresa che lo avrebbe totalmente assorbito per 33 anni.
Parlando del progetto, Ferdinand Cheval raccontò:
“Stavo camminando molto veloce quando il mio piede inciampò su qualcosa, facendomi quasi perdere l’equilibrio, e volevo conoscere la causa. In un sogno avevo costruito un palazzo, un castello o una caverna, non riesco a esprimermi bene… non ho parlato a nessuno di questo, per paura di essere deriso, e mi sentivo ridicolo io stesso. Poi, quindici anni più tardi, quando avevo quasi dimenticato il mio sogno, quando non ci pensavo affatto, il mio piede me lo ha ricordato. Il mio piede ha inciampato su una pietra che quasi mi ha fatto cadere. Volevo sapere cosa fosse … Si trattava di una pietra dalla forma talmente strana, che l’ho messa in tasca per ammirarla a mio agio.”
Cheval iniziò a raccogliere sassolini lungo il suo percorso lavorativo, tornando a casa ogni giorno con le tasche piene. Quando sua moglie si stancò di dover continuamente rammendare le tasche dei pantaloni, iniziò a usare un cesto, per raccogliere il materiale. Alla fine la costruzione richiedeva pietre più grandi, così Ferdinand Cheval cominciò a portare con sé una carriola.
La costruzione della massiccia struttura, chiamata Le Palais ideal, iniziò nel mese di aprile del 1879, e il lavoro fu completato nel 1912, 33 anni più tardi. Cheval non aveva alcuna nozione di architettura, né particolari conoscenze artistiche, ma l’edificio da lui creato è ritenuto un esempio di rara bellezza diarchitettura naïf e Art Brut. Si erge come un omaggio al potere della ricerca artistica e alla determinazione.
Nel corso degli anni, Cheval fece molte riflessioni sul suo palazzo di ghiaia, che “rappresenta una scultura così strana che è impossibile da imitare, rappresenta ogni tipo di animale, qualsiasi tipo di caricatura”, disse. In realtà, Cheval portò a termine un progetto che la Natura aveva iniziato: “Ho detto a me stesso: poiché la natura è disposta a fare la scultura, io farò la muratura e l’architettura.”
Il castello di ghiaia è uno straordinario esempio di architettura naif, costruito totalmente con pietre tenute insieme con malta e cemento, e che ha mostrato una notevole resistenza all’erosione e al degrado. Attualmente il castello ospita spesso grandi concerti e mostre artistiche. Cheval probabilmente non immaginava che la sua creazione sarebbe diventata un punto di riferimento così importante per la vita culturale e artistica della Francia.
Se si guarda l’esterno dell’edificio, sembra di trovarsi di fronte al castello di una antica civiltà perduta. Le sale interne e le camere del grande palazzo sono decorate in modo altrettanto complicato.
Le superfici esterne sono decorate con varie lapidi e figure, molte delle quali derivano da immagini di cartoline e riviste che Cheval consegnava nel corso della sua giornata di lavoro.
Verso la fine della sua vita, Cheval ottenne il riconoscimento e la lode di artisti del calibro di André Breton e Pablo Picasso, e il suo lavoro fu anche oggetto di un saggio della scrittrice Anaïs Nin. Le Palais ideal divenne monumento storico francese nel 1969.
Cheval avrebbe voluto essere sepolto nel castello di ghiaia, alla cui creazione aveva dedicato gran parte della sua vita, ma la legge francese non lo consentiva. Così Cheval trascorse altri otto anni a costruire il suo mausoleo, nel cimitero di Hauterives. Morì nell’agosto del 1924, un anno dopo il completamento sua ultima dimora.




Le Palais Idéal un sogno da vedere nel sud della Francia.

Hauterives è un comune situato nel dipartimento della  Drôme nel sud est della Francia regione Rodano-Alpi.

Se vi capiterà di andarci potrete vedere un monumento fatto interamente di pietre tenute insieme con malta e cemento e costruito da Ferdinand Cheval più di cento anni fa.

L’uomo dopo essere stato apprendista fornaio era diventato postino e un giorno, aveva fatto un sogno, quello di costruire un palazzo, ma non lo aveva raccontato a nessuno per non essere preso in giro. Col passare del tempo aveva dimenticato questa idea finché un giorno, mentre consegnava la posta, inciampò in una pietra, le cui forme lo colpirono e riaccesero in lui la vecchia idea del palazzo.

Nel corso dei successivi 33 anni dal 1879 al 1912 continuò a raccogliere e posizionare i vari sassi per costruire un’opera di fantasia senza avere la benché minima nozione di architettura ma riuscendo a creare un esempio di rara bellezza di architettura naif.



Dice in una lettera a André Lacroix:
Ho cominciato scavando una piscina, in cui ho iniziato a scolpire diverse specie di animali con il cemento. Poi ho costruito una cascata con le mie pietre. Mi ci sono voluti due anni. Una volta finito, sono rimasto io stesso stupito del mio lavoro. Criticato dalla gente del posto, ma incoraggiato da visitatori stranieri, non mi sono perso d'animo”.

Ambiente dopo ambiente Cheval fece prendere forma al palazzo continuando ad assemblare pietre caricate nel suo zaino e trasportate anche per una decina di chilometri sulle spalle e rappresentandovi elementi naturali quali animali o vegetazione, oppure riferimenti biblici e indù.
Dal 1969 la costruzione è stata dichiarata monumento storico dopo aver ottenuto il riconoscimento di artisti del calibro di André Breton e Pablo Picasso e dopo essere diventata l’oggetto di saggio della scrittrice Anaïs Nin.

Le leggi dell’epoca non consentivano a Cheval di essere sepolto nel proprio palazzo come aveva sognato quindi il nostro postino si mise all’opera un’altra volta per otto dei suoi nove ultimi anni di vita per costruireLa tomba del silenzio e del riposo senza fine” nel cimitero cittadino, dove riposa dal 1924.

La tomba


Ed ecco un video che vi farà innamorare di questo posto e chissà farà venire anche a voi il desiderio di visitarlo.
https://youtu.be/_MFJC3BvQhg






http://soniatoncelli.blogspot.it/2015/07/le-palais-ideal-un-sogno-da-vedere-nel.html



Bachisio Bandinu. La maschera, la donna, lo specchio. La maschera non si addice alla donna che non può essere mamuthone, boe, thurpu. È esclusa dal rito. La donna è già animale - dio: est capra. È maschera per se stessa, senza vestizione, senza rito. Il suo corpo è ciclico, un perenne moto di marea. Il corpo della donna è animal: è materia vivente che produce materia vivente, crea e conforma altri corpi. Apertura, dilatazione, espulsione. Come contrappunto: chiusura, continenza, segreto. Questa natura della donna è ad un tempo cultura della donna.





La maschera non si addice alla donna che non può essere mamuthone, boe, thurpu. È esclusa dal rito.
La donna è già animale - dio: est capra.
È maschera per se stessa, senza vestizione, senza rito.
Il suo corpo è ciclico, un perenne moto di marea.
Il corpo della donna è animal: è materia vivente che produce materia vivente, crea e conforma altri corpi. Apertura, dilatazione, espulsione.
Come contrappunto: chiusura, continenza, segreto.
Questa natura della donna è ad un tempo cultura della donna.
Una lettura etnologica e psicanalitica della cultura sarda pone per l'uomo un problema fondamentale: come fare i conti col corpo della donna.
Il fallo è simbolico, l'utero è misterioso.
La paura di fondo è che la donna detenga un potere originario, mai formulato in nessuna legge simbolica maschile. In questa prospettiva la donna non è funzionale né al marito, né al figlio, né al padre.
È quel mistero che ritorna come fantasma per porsi al di là della soggettività dell'uomo, dell'etica, e dell'ordinamento giuridico e sociale.
Il timore perturbante è che ci sia una modalità di essere indipendente dal modo di essere maschile, e che questa differenza non possa essere amministrabile. Bisogna che la dimensione erotica sia dentro l'etica, il diritto e l'estetica, altrimenti è pervertitrice dell'ordine sociale. L'uomo pensa la donna nell'ambivalenza della sublimazione e dell'abbrutimento, dell'esaltazione e dell'obbrobio.
La fata e la strega.
Alla donna appartiene il mistero, l’evocazione, e la visione.
Se si dovesse fare riferimento alla maternità del linguaggio, la donna custodisce un mondo di significati e significanti nel suo grembo.
Ma la donna è anche tessitrice di parole e di saggezza.
La donna che aderisce alla legge sociale e a quella etica è parte fondamentale della comunità.
Sta all’interno del cerchio, tanto caro alla simbologia sarda, che “preserva” e “svela” al contempo.
Stare all’interno del cerchio vuol dire “appartenere a” ed essere visti da tutto il paese.
Il pericolo dell’esser guardati non sta nello specchio della comunità ma semmai nel riflesso distorto e deformante dello specchio globale attraverso cui non c’è più distinzione tra ciò che è e ciò che appare."
Bachisio Bandinu, "La maschera , la donna, lo specchio"


Sardegna. Editto delle chiudende. Con questo atto si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata


EDITTO DELLE CHIUDENDE
Personaggi e Storia di Sardegna

Il cosiddetto editto delle chiudende, più precisamente “Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna“, fu un provvedimento legislativo emanato il 6 ottobre 1820 dal re di Sardegna vittorio emanuele I e pubblicato nel 1823.
Con questo atto si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata. L’editto mirava a favorire la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale, che versava in gravi condizioni di arretratezza, e nel suo passaggio più cruciale conteneva l’autorizzazione a qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio. Egual licenza era concessa ai comuni, per i terreni di loro proprietà, ed in tutti terreni chiusi in applicazione dell’editto era “libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco”.

Teoria e pratica del riformismo agrario
In Sardegna la riforma agraria del governo sabaudo, sollecitata da diversi studi economici svolti in precedenza, non tenne conto della diversità dei vari territori e soprattutto del fatto che nell’isola vigeva ancora il sistema feudale, che si innestava nel sistema tradizionale degli ademprivi (per ademprivio si intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.), rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali.
Delle chiudende si parlava già da tempo, poiché la recinzione dei propri terreni da parte dei proprietari privati era, sia pur moderatamente [Non tutti i terreni di proprietari privati erano recintati, ma avrebbero dovuto esserlo, e da questa condizione nasce proprio il nome della “chiudenda”, che indica quella terra “che dovrà essere chiusa”.], sempre esistita.
Nel 1806 cominciava a rilevare la frequenza di abbattimenti di recinzioni da parte dei pastori per entrare abusivamente con il bestiame in terre private, tanto che si emanarono apposite norme per la repressione del fenomeno. La spinta all’agricoltura si corredava di varie norme d’agevolazione, comprese una che concedeva, come racconta Pietro Martini, “nobiltà gratuita a coloro che piantassero quattromila ulivi“, una che concedeva titolo a richiedere fidecommessi a chi disponesse di 400 piante d’ulivo, e soprattutto una che dava a tutti la facoltà di “chiudere i terreni aperti per formarvi degli uliveti“, che prevedeva sanzioni per chi non impiantasse ulivi nelle terre chiuse (esproprio e riassegnazione ad aspiranti ulivicoltori) e che introduceva la pena di morte per i capi di eventuali complotti di diroccatori di chiudende.
Ma se da un lato l’operato del governo puntava a risanare l’agricoltura ristrutturando la rete dei “monti granatici e d’abbondanza” (l’ammasso cui conferire le produzioni agricole frumentarie), dall’altro era costretta a creare nel 1807 i “monti di riscatto”, monti di pegno resisi indispensabili dopo che l’usura aveva raggiunto livelli preoccupanti per l’ordine sociale. La pastorizia, nelle sue millenarie tradizioni, era debole e disturbante nell’ottica economica piemontese: se già il Gemelli aveva sottolineato come l’istituto dell’alternanza nell’uso delle terre recasse gravi danni da mancato guadagno e da freno contro gli investimenti, altri studiosi consideravano una “piaga” il modo di allevamento semi-brado caratteristico dell’isola.
L’editto infranse il tradizionale principio “ubi feuda, ibi demania” (dove ci sono beni feudali, là ci sono i demani) che faceva parte del diritto intermedio già da diverso tempo. Fu accolto subito con criticità da alcuni conoscitori dell’Isola, in particolare dall’Angius, che nel 1822 scriveva che “i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti […]. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte“.
Gli effetti dell’editto furono di diverse nature. Lo stesso ex viceré di Sardegna, marchese di Yenne, scrisse due relazioni, la prima il 22 settembre 1832, la seconda il successivo 6 ottobre, che ne contengono una cronaca sufficientemente istruttiva: “È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge“. Rincarando la dose, aggiunse che l’editto «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti».
La reazione pratica infatti era stata la corsa alle chiusure da parte di chi aveva la possibilità di farlo, e fra questi non erano i molti che non vennero a conoscenza del provvedimento se non a chiusure ormai completate. Corsa, come riferito dallo Yenne, caratterizzata dalla diffusione degli abusi da parte di coloro che «non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni […] al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti». Conseguenza della corsa a chiudere, cui si riferiscono i versi attribuiti al Murenu, fu un diffuso malcontento popolare, che ben presto sfociò in violenza e disordini. Sempre dalla relazione del viceré si apprende (per aver egli assunto le “più accurate informazioni”) che gli incidenti cominciarono a Gavoi, con l’abbattimento di tre “chiusi” e con «discussioni fra li demolitori e danneggiati»; seguitarono poi alla vicina Mamoiada e poi a Nuoro, Fonni, Bitti ed altri paesi, «portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e rovine, e segnatamente in Benetutti, il di cui aspetto mette orrore al passeggiero». Da queste azioni delittuose contro i beni, si passò presto a quelle contro le persone e si ebbero anche omicidi. Secondo lo Yenne da un lato vi era l’avidità di alcuni proprietari, che chiusero anche pubbliche strade e beni comunali, mentre dall’altro vi era una «irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di un’illimitata libertà di pascolare i loro armenti in cui ripongono unicamente ogni loro idea di proprietà“». A margine vi era anche, sempre secondo la relazione, l’avarizia di alcuni ecclesiastici che non si ristettero dall’andare predicando presso il popolino che le chiudende erano un sistema odioso, forse per paura di veder calare, con la crescita dell’agricoltura, le loro decime sulla pastorizia.
In alcune aree dell’isola (Logudoro e Campidano) l’editto fu accolto in parte positivamente, soprattutto per il fatto che gli agricoltori erano in gran numero e finalmente potevano proteggere le loro coltivazioni; il rilancio dell’agricoltura portava a valorizzare vecchi istituti spagnoleschi come la roadia, la quale anch’essa, secondo le politiche della riforma, giovava a questi scopi. Ma il malcontento era generale. L’effetto negativo fu risentito in modo particolare nella zona delle Barbagie in quanto la privatizzazione dei terreni, che erano la risorsa primaria del territorio, mise in enorme difficoltà l’attività della pastorizia, la principale dell’area, dato che i pastori si trovarono improvvisamente in pratica privati dei loro pascoli.
Ben presto molti dei diseredati andarono ad ingrossare le file dei fuorilegge, dando al fenomeno del banditismo una virulenza ancora mai conosciuta. Nel 1827 furono emanate altre norme che confermavano la sostanza dell’editto, negando titolo ad azione risarcitoria a quei proprietari che non avessero chiuso bene i loro “tancati” (Il tancato è l’appezzamento di terreno chiuso a muro a secco; dal sardo tanca, a sua volta dal verbo tancare, chiudere.) ed avessero patito danno perché vi fosse penetrato del bestiame; a coloro che non chiudevano bene erano anzi comminate ammende. L’editto fu riformato nel 1830 e nel 1831, ma il livello del malcontento rimase sopra i livelli di guardia. Gli incidenti crebbero in tal misura che nel 1832 si dovette istituire una commissione militare che fece repressione arrestando ed impiccando senza regolare processo (nel 1833 si emanarono norme per vietare la ricostruzione delle chiudende e ordinare che quelle abusive fossero abbattute); a questa seguì una commissione mista, composta di militari e civili, e ve ne fu anche una terza, che impiegò l’esercito e che era guidata da un giudice dell’Audiencia, ma quest’ultima operò in favore dei proprietari.
A seguito dell’editto del 31 maggio 1836, con il quale cessava la “baronale giurisdizione”, finalmente dal 1837 iniziò il riscatto dei feudi, “riacquistati” dal re, che si concluse nel 1846, riscatto che fu pagato attingendo alle tasse dei sardi. Tra il 1847 ed il 1848 si attuò la perfetta unione della Sardegna agli stati di terraferma, ma i problemi aperti dall’editto del 1820 non erano stati ancora risolti. In ogni caso era sempre “monitorata” la situazione delle chiudende, tanto che nel 1850 l’Angius, nella sua analisi dell’Isola, riservava per ciascuno dei comuni osservati un’apposita sezione in cui osservava quanto le chiudende fossero praticate.

Sèguiti, effetti ed analogie
L’editto delle chiudende fu idealmente seguito nel 1865 da una legge con la quale si aboliva l’istituto degli ademprivi e si imponeva una tassazione particolarmente onerosa sulle abitazioni; la tassazione aveva sì dei correttivi e prevedeva delle agevolazioni, ma queste erano in massima parte inapplicabili nella strutturazione urbanistica sarda, costituita di piccoli villaggi, perché prevista per quelle abitazioni completamente isolate. Si ebbe in Sardegna un esproprio ogni 14 abitanti, mentre la media nazionale era di uno ogni 27.000. Questo provvedimento, insieme all’editto delle chiudende, è la causa dei disordini sfociati infine a Nuoro nel 1868 con la rivolta nota come “Su Connottu“. Dopo la rivolta fu istituita una Commissione Parlamentare di indagine presieduta dal Depretis.


Il testo dell’editto
Regio Editto Sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna.
In data del 6 d’ottobre 1820, Torino
Il Re Carlo Emanuele, Avolo mio d’immortal memoria, fra le molte sue cure pel rifiorimento della Sardegna, manifestò il pensiero di favorire le chiusure dei terreni; principalissimo mezzo d’assicurare, ed estendere la proprietà, e così promuovere l’agricoltura. Convinti Noi di questa verità, già soggiornanti nell’Isola, Ci siamo applicati ad incoraggiare sì gran miglioramento, e l’anno scorso abbiamo poi creduto bene d’annunziare la legge, che si stava d’ordine nostro preparando. Ora col parere del Nostro Consiglio, di certa Nostra scienza, ed autorità Sovrana, ordiniamo, e stabiliamo in forza di legge quanto segue.
I. Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe, o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o d’abbeveratoio.
II. Quanto ai terreni soggetti a servitù di pascolo comune, il proprietario, volendo far chiusura, o fossa, presenterà la sua domanda al Prefetto, il quale nella sua qualità d’Intendente, sentito, in Consiglio raddoppiato, il voto delle Comunità interessate, procederà secondo le norme, che saranno stabilite.
III. Qualunque Comune potrà esercitare sopra i terreni, che gli spettano in proprietà, gli stessi diritti assicurati ad ogni proprietario dall’art. 1 della presente legge.
IV. Il terreno di proprietà del Comune trovandosi nel caso indicato nell’art.II, la deliberazione dovrà essere presa parimenti in Consiglio raddoppiato, e sottoposta al Prefetto nella sua qualità d’Intendente, per aspettarne le superiori deliberazioni.
V. Colle stesse forme potrà il Comune, invece di chiudere i terreni di sua proprietà, deliberare il progetto di ripartirli per uguali porzioni fra Capi di Casa, o di venderli, o di darli a fitto; il tutto con quelle riserve, o condizioni, che saranno determinate a vantaggio degli stessi Comuni, e del Regno.
VI. Quando fra un anno, dopo la pubblicazione della presente legge, il Comune non abbia deliberato il progetto di chiudere, o ripartire, o vendere, o dare a fitto, il riparto potrà essere chiesto davanti al Prefetto dai Capi di casa, in numero almeno di tre.
VII. I terreni propri della Corona, e fra questi i derelitti, e gli altri vacanti, potranno essere venduti, o dati a fitto, o ceduti gratuitamente, od altrimenti assegnati in un modo conforme alle massime stabilite pel riparto dei terreni Comunali.
VIII. In qualunque terreno chiuso sarà libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco.
IX. Sarà libera in tutto il Regno la vendita delle foglie di tabacco, la manifattura, la vendita e l’uscita del tabacco, mediante il pagamento dei dazi che saranno stabiliti.
Data dal Nostro Castello di Stupinigi, l’anno del Signore mille ottocento venti, e del Regno Nostro il decimonono, addì sei del mese d’ottobre. Vittorio Emanuele

Fonte: http://it.wikipedia.org

Jacob Levi Moreno. Psicodramma. Non è del tutto giusto dire che la psicoanalisi sia un dialogo tra due. Si potrebbe dire con maggiori giustificazioni che si tratta di un monologo tenuto alla presenza di un interprete.


Non è del tutto giusto dire che la psicoanalisi sia un dialogo tra due.
Si potrebbe dire con maggiori giustificazioni che si tratta di un monologo tenuto alla presenza di un interprete.
Jacob Levi Moreno, Psicodramma, 1946/69


Maria Pia Pierotto
Quindi per 1 monologo paghiamo circa 70-75 €!!!:)...la prossima volta parlo da sola in casa per 1 ora, tanto mi ascolto solo io...e magari mi do pure le risposte e trovo le soluzioni!


Lara Sangaletti
Ummmm piuttosto è un dialogo a 4 o anche meglio a 8: tu, il tuo analista, tuo padre, tua madre, i genitori di tuo padre e i genitori di tua madre....ecco cosa sta dietro ai "monologhi" dallo psicanalista! chi fa davvero psicanalisi capirà!


Manuela Bellofiore
Infatti la psicoterapia è più avanti..un vero scambio tra terapeuta e paziente! una coterapia!


Irene Massa
Mah,io con la mia psicologa ho un rapporto di scambio di dialogo...Sì,beh,certo,potrei andare lì e snocciolare tutti i miei pensieri,ma sarebbe poco rispettoso nei suoi confronti,aggiungendo,che non le permetterebbe di capire un acca...Che sia una sorta d'interprete,questo sì.


''Qui giace J.L.Moreno, l'uomo che ha portato la risata nella psichiatria."
(Scritta sulla tomba di J.L. Moreno, l'inventore dello psicodramma)




venerdì 28 agosto 2015

Raimond Panikkar. Una delle metafore che spesso ricordo è quella della finestra. Noi tutti vediamo il mondo dal nostro particolare punto di vista. Vediamo il mondo attraverso una finestra. Più pulita è la finestra, meno vedo il vetro e la finestra. Più sono in sintonia e amo ciò che vedo, non vedo la mia finestra ma vedo attraverso la finestra. Ho bisogno di qualcuno che mi dica: vedi attraverso una finestra

Una delle metafore che spesso ricordo è quella della finestra. Noi tutti vediamo il mondo dal nostro particolare punto di vista. Vediamo il mondo attraverso una finestra. Più pulita è la finestra, meno vedo il vetro e la finestra. Più sono in sintonia e amo ciò che vedo, non vedo la mia finestra ma vedo attraverso la finestra. Ho bisogno di qualcuno che mi dica: vedi attraverso una finestra.
Raimond Panikkar

giovedì 27 agosto 2015

George Steiner. La stretta di mano è goffa – come il Kaiser e Lord Halifax non riesce a ruotare il braccio per via di un’atrofia muscolare congenita. «Nasce tutto da lì», dice. «I primi anni di vita li ho passati in terapia, cliniche a Parigi e in Svizzera. Mia madre ha lottato contro la mia menomazione come una leonessa. Mi costringeva ad allacciarmi le scarpe – avrei potuto averle con la zip, ma no. Dovevo per forza scrivere con la destra – potevo farlo benissimo con la sinistra, ma no. Mia madre non mi permetteva di aggirare il problema. Quando avevo quattro anni arrivò il momento fatidico in cui mi disse: “Non ti rendi conto della fortuna che hai: non farai il militare”. All’epoca la leva durava tre anni, ti distruggeva la vita. Ne fui così felice che non mi sentii mai più menomato né condannato, ma speciale e privilegiato».

Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz. Dire che egli ha letto questi autori senza comprenderli o che il suo orecchio è rozzo, è un discorso banale ed ipocrita. In che modo questa conoscenza pesa sulla letteratura e società, sulla speranza, divenuta quasi assiomatica dai tempi di Platone a quelli di Matthew Arnold, che la cultura sia una forza umanizzatrice, che le energie dello spirito siano trasferibili a quelle del comportamento? Per giunta non si tratta soltanto del fatto che gli strumenti tradizionali della civiltà- le università, le arti, il mondo librario- non sono riusciti a opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spesso anzi essi si levarono ad accoglierla, a celebrarla, a difenderla. Perché? Quali sono i legami, per ora assai poco compresi, tra gli schemi mentali e psicologici della cultura superiore e le tentazioni del disumano? Matura forse nella civiltà letterata un gran senso di noia e di sazietà che la predispone allo sfogo della barbarie?”
George Steiner, da Linguaggio e silenzio, traduzione di Ruggero Bianchi, Garzanti, 2014, prefazione)



Abbiamo perso l’arte di dire “no”. No alla brutalità della politica, no alla follia delle ingiustizie economiche che ci circondano, no all'invasione della burocrazia nella nostra vita quotidiana. No all'idea che si possano accettare come normali le guerre, la fame, la schiavitù infantile. C’è un bisogno enorme di tornare a pronunciare quella parola. E invece ne siamo incapaci. Mi creda, sono sgomento di fronte all'acquiescenza di tante persone per bene, trasformate in campioni di fatalismo. Che dichiarano apertamente il loro scetticismo in ordine all'inutilità della protesta, quasi che protestare fosse diventato imbarazzante.
George Steiner “L'importanza di dire No”


Senza la traduzione abiteremmo province confinanti con il silenzio.
George Steiner


Leggere bene significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo (…) chi ha letto la Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell'unico senso che conti realmente”.
George Steiner


«Si può essere a casa propria dappertutto. 
Datemi un tavolo da lavoro, sarà la mia patria.»
George Steiner


Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz. Dire che egli ha letto questi autori senza comprenderli o che il suo orecchio è rozzo, è un discorso banale e ipocrita. In che modo questa conoscenza pesa sulla letteratura e la società, sulla speranza, divenuta quasi assiomatica
dai tempi di Platone a quelli di Matthew Arnold, che la cultura sia una forza umanizzatrice, che le energie dello spirito siano trasferibili a quelle del comportamento? Per giunta, non si tratta soltanto del fatto che gli strumenti tradizionali della civiltà – le università, le arti, il mondo librario – non sono riusciti a opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spesso anzi essi si levarono ad accoglierla, a celebrarla, a difenderla. Perché? Quali sono i legami, per ora assai poco compresi, tra gli schemi mentali e psicologici della cultura superiore e le tentazioni del disumano? Matura forse nella civiltà letterata un gran senso di noia e di sazietà che la predispone allo sfogo della barbarie?"
George Steiner, dalla Prefazione a «Linguaggio e silenzio», 1967


Fino al tardo Ottocento [...] era pratica comune per i giovani, e per i lettori impegnati vita natural durante, trascrivere lunghi discorsi politici, prediche, pagine di poesia e di prosa, voci di enciclopedie e capitoli di narrazioni storiche. Questo lavoro di copiatura aveva diversi scopi: il miglioramento del proprio stile, la tesaurizzazione voluta di esempi pronti di argomentazione o di persuasione, il rafforzamento di una memoria accurata (elemento cardinale). Soprattutto, la trascrizione comprende un coinvolgimento totale con il testo, una dinamica reciproca fra lettore e libro.
Questo coinvolgimento totale è la somma dei vari modi di risposta responsabile: marginalia, annotazione sistematica, correzione ed emendamenti filologici, trascrizione. Tutti insieme, essi generano una continuazione del libro che viene letto. La penna attiva del lettore verga «un libro in risposta». (da George Steiner, Una lettura ben fatta: p. 14


Oggi soltanto i professionisti – epigrafisti, bibliografi, filologi – correggono ciò che leggono.
Vale a dire coloro che incontrano il testo come una presenza viva, che ha bisogno della collaborazione del lettore per mantenere intatta la sua vitalità, la sua vivacità e luminosità. [...] E chi, fra noi, si prende la briga di trascrivere per piacere personale e per impararle a memoria le pagine che lo hanno interpellato più direttamente, che lo hanno «letto» con maggiore accuratezza?
La memoria, ovviamente, è il perno della questione.
La «responsabilità verso» il testo, la comprensione dell'auctoritas e la risposta critica che le si dà, le quali plasmano il modo classico di leggere e la sua rappresentazione da parte di Chardin, dipendono strettamente dalle «arti della memoria». [...] L'atrofia della memoria è la caratteristica precipua dell'educazione e della cultura nella seconda metà del Novecento. [...]
Non impariamo più a memoria, «con il cuore».
Gli spazi interiori sono muti o intasati di banalità discordanti.
George Steiner, Una lettura ben fatta: p. 21 ss.


I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno.
Anche le idee più astratte e speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose.
Che dire allora dell'idea di Europa?
L'Europa è i suoi caffè, quelli che i francesi chiamano cafés.
Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa
ai cafès di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel.
Dai caffè di Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kierkegaard nel suo meditabondo girovagare, fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè archetipici a Mosca, che è già la periferia dell'Asia.
Ce ne sono pochissimi in Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo.
Non ce ne sono nell'America del Nord, con l'eccezione dell'avamposto francese di New Orleans.
Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori essenziali dell'«idea di Europa».
Il caffè è il luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo.
Lo frequentano il flâneur, il poeta, il metafisico con il suo taccuino.
È aperto a tutti, e al tempo stesso è un club,
una massoneria di identità politiche o artistico-letterarie.
George Steiner, Una certa idea di Europa


È il mio quarto assioma: la doppia eredità di Atene e Gerusalemme. [...]
Essere europei significa cercare di negoziare sul piano morale,
intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese,
le praxis contrastanti della città di Socrate e di quella di Isaia.
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 40

Il giudaismo e le sue due principali note a piè di pagina,
il cristianesimo e il socialismo utopico,
discendono direttamente dal Sinai,
e anche gli ebrei erano solo un piccolo gruppo disprezzato e perseguitato.
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 45



Chi è insensibile a quella che Platone chiamava mania, essere posseduti dalla ricerca di verità spesso astratte, senza alcuna immediata applicazione pratica, dovrebbe andarsene altrove. Gli scienziati, gli studiosi, sono destinati, come sostiene Weber, a un ideale sacrificale, antico come i presocratici, che caratterizza il genio dell'Europa.
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 49


Inoltre la nostra capacità di previsione è ridicolmente miope
(quasi sempre costruiamo le nostre ipotesi utilizzando uno specchietto retrovisore).
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 51

Non c'è dubbio: l'Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali. Perirà se dimentica che «Dio si trova nei dettagli».
George Steiner, Una certa idea di Europa, p. 54



Adesso, in un modo profondamente commovente, c'è gente in America che dice: non vogliamo più quella discussione tremenda sulla doppia lealtà, sul fatto che ogni ebreo ha la consapevolezza traditrice di essere ebreo prima che americano. Eppure quel fantasma continua a ossessionarci.
È inerente alla natura stessa dell'identità di un popolo che rivendica di essere una razza ma non una razza, una nazione ma non una nazione, di avere una vocazione religiosa quando questa vocazione non ha più senso per la maggioranza secolare.
George Steiner, Totem o tabù: p. 147

La presenza ebraica, spesso impressionante, nella matematica moderna, in fisica, nella teoria economica e sociale, nasce direttamente da quella astinenza dall'approssimazione e dall'effimero che caratterizza l'ethos del chierico. 
(da La nostra terra, il testo: p. 237)

Per due millenni la dignità dell'ebreo ha consistito nell'essere troppo debole per trasformare altri uomini in profughi altrettanto infelici di sé stesso. 
(da La nostra terra, il testo: p. 242)


Il marxismo è essenzialmente un giudaismo che ha perso la pazienza. 
Il Messia ci ha messo troppo a venire, o piuttosto a non venire. 
Il regno della giustizia deve essere instaurato dall'uomo stesso, su questa terra, qui e ora. 
(da Attraverso quello specchio, oscuramente: p. 259)


Due morti hanno plasmato in gran parte la sensibilità occidentale. 
Due casi di pena capitale, di omicidio giudiziario 
determinano i nostri riflessi religiosi, filosofici e politici. 
Sono due morti a governare la percezione metafisica e politica 
che abbiamo noi stessi: quella di Socrate e quella di Cristo. 
Siamo tuttora figli di quelle morti. 
George Steiner, Due galli: p. 281


Sono stati l'accademismo rarefatto di Platone, 
l'istituzionalizzazione dell'insegnamento metafisico, 
la nuova definizione, in parte sofistica in parte scientifica, 
del filosofo e dialettico come specialista accademico dopo Socrate, 
a permettere il commercio opportunistico e istrionico fra intelletto e potere. 
George Steiner, Due galli: p. 300



Uccidendo i suoi ebrei, l'Europa si è suicidata.
George Steiner, (dal discorso al convegno di European Judaism, Amsterdam, 1969[1])
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006


Al cuore della cultura ci sono i classici – ovvero opere fuori dal tempo.
Sono fuori dal tempo e immortali perché il loro significato trascende la morte.
Nelle parole di HöIderlin: «Was bleibet aber, stiften die Dichter».
(«E tuttavia quello che resta, sono i poeti che lo creano.»)[1]
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006


La caratteristica dei capolavori è che ci interrogano, ci impongono di reagire.
L'antico busto di Apollo nel celebre poema di Rilke ce lo dice in termini chiari:
«Du sollst dein Leben ändern». («Devi cambiare vita.»)[1]
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006


Solo gli sciocchi ignorano il significato della tradizione, dei fatti e della conoscenza. Hölderlin:
«Wir sind nur Originai, weil wir nichts wissen».
(«Noi siamo originali solo perché non sappiamo nulla.»)[1]
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006

Essere a casa propria nel mondo della cultura significa essere a casa propria in molti mondi, in molti linguaggi: significa trovarsi a casa propria nella storia delle idee, nella letteratura, nella musica, nelle arti. Richiede erudizione e la capacità di cogliere i rapporti tra i diversi mondi: il nexus.[1]
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006


Esiste un rapporto tra l'arte e la politica, tra la cultura e la società. 
Per capire l'evoluzione della cultura, per capire quali idee prevalgano 
e quali siano le loro conseguenze, è indispensabile la riflessione culturale e filosofica.[1]
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006


Il linguaggio è una creazione costante di mondi alternativi. [...] 
L'incertezza di significato è poesia incipiente. 
Dopo Babele (III, 4; p. 226)


Elencate san Gerolamo, Lutero, Dryden, Hölderlin, Novalis, Schleiermacher, Nietzsche, Ezra Pound, Valéry, MacKenna, Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Quine – e avrete quasi esattamente il totale complessivo di quanti hanno detto qualcosa di fondamentale o di nuovo sulla traduzione. (IV, 1; p. 260)
George Steiner, Dopo Babele (III, 4; p. 226): 
Il linguaggio e la traduzione, traduzione di Ruggero Bianchi, Sansoni Editore, 1984. ISBN 


E cosa lasciò Cristo alla sua piccola mafia? Un tesoro d'impazienza.
 Bramavano la fine dei tempi come cani che muoiono di sete. [...] 
La storia non aveva chiuso bottega. 
E ci siamo ritrovati nell'implacabile routine di sempre. 
A quel punto la Chiesa ordinò la pazienza, 
pazienza e ancora pazienza, e distribuì i calmanti. [...] 
Non c'è niente che Roma abbia temuto più dell'impazienza. 
Il suo regno non è di questo mondo. 
C'è mai stato un manifesto politico più abile? 
Rispondi, Professore. 
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 46 sg.


Il marxismo ha reso all'uomo il massimo onore. 
La visione di Mosè e di Gesù e di Marx, 
la visione di una terra giusta, di un amore per il prossimo, 
di un'universalità, l'abolizione delle barriere fra paesi,
classi, razze, l'abolizione degli odi tribali: 
questa visione era – siamo rimasti d'accordo su questo, vero? 
– un'immensa impazienza. 
Ma era anche qualcosa di più. 
Era una sopravvalutazione dell'uomo. 
Una sopravvalutazione forse fatale, 
forse insensata, eppure magnifica, giubilante, dell'uomo. 
Il più grande complimento che gli sia mai stato fatto. 
La Chiesa ha ostentato un disprezzo tremendo per l'uomo. 
L'uomo è una creatura caduta dalla grazia, 
condannata a trascorrere la sua sentenza a vita 
lavorando col sudore della fronte. 
Polvere alla polvere. 
George Steiner, il Professore:  cap. VIII, p. 57


Sono un socialista. Sono e rimango un marxista. 
Perché altrimenti non potrei essere un correttore di bozze!»
Questa evidenza assoluta l'aveva fulminato. 
Voleva allargare le braccia, ballare lì in strada.
«Se trionfa la California, non serviranno più i correttori di bozze. 
Le macchine se la caveranno meglio. 
Oppure tutti i testi diventeranno audiovisivi, 
con programmi autocorrettori incorporati. 
Notte dopo notte dopo notte, Carlo, lavoro finché mi duole il cervello. 
Per arrivare all'esattezza perfetta. 
Per correggere il più infimo refuso in un testo 
che forse nessuno leggerà mai 
o che verrà mandato al macero il giorno dopo. 
L'esattezza. La santità dell'esattezza. 
Il rispetto di se stesso. 
Gran Dio, Carlo, devi capire quello che cerco di dire. 
L'Utopia significa semplicemente l'esattezza! 
Il comunismo significa togliere gli errata dalla storia. 
Dall'uomo. Correggere bozze.» 
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 67 sg.



Questo è il vero genio del capitalismo: 
impacchettare, mettere l'etichetta 
con il prezzo sui sogni degli uomini. 
Mai valutarci al di sopra della nostra mediocrità. [...] 
Con quanta precisione l'America ha valutato l'uomo, 
riducendolo al benessere, 
mettendo pace tra i desideri umani e l'appagamento. 
George Steiner, il Professore:  cap. VIII, pp. 60 sg.


E quando l'America dice: 
"Sii soltanto te stesso," 
non dice: "Non migliorarti." 
Dice: "Lotta per quel Premio Nobel, 
se è questo che ti accende l'anima. 
O per quella piscina riscaldata." 
Non che l'America creda 
che le piscine riscaldate siano il Partenone; 
non le considera nemmeno una necessità. 
Ma perché sembrano procurare piacere e causare pochi danni. [...] Sai, Professore, l'America è probabilmente la prima nazione e società nella storia dell'umanità a incoraggiare gli esseri comuni, fallibili e impauriti, a sentirsi a loro agio nella propria pelle. [...] 
Ma, tutto sommato, l'America è davvero l'unica grande potenza, l'unica comunità che, a differenza di tutte le altre che conosco, 
si sforza di rendere la terra un filino migliore, 
un filino più speranzosa di quanto l'abbia trovata. 
Infatti la speranza è la principale materia prima della nazione e la sua maggior esportazione. 
George Steiner, Carlo: cap. VIII, pp. 62 sg.



Cosa diavolo può sperare un ricco? 
Perché tormentarti con la speranza quando hai la pancia piena? 
E' questo che fa di ogni vittima un ebreo, un vero ebreo. 
Il progenitore degli autentici eletti non è Abramo, che era miliardario. 
Non discendiamo da Giobbe, che raddoppiò i suoi beni. 
Siamo figli di Agar. 
Ci siamo cibati di sassi e le vespe hanno cantato per noi. 
Non può esistere un comunista, un vero socialista che non sia, in fondo, un ebreo. [...] 
C'erano ebrei che vedevano più in fondo alle cose 
e capirono che il Messia non sarebbe mai venuto. Mai. 
O piuttosto che il Messia era un uomo anche lui. 
Che la rivelazione e i grandi venti a venire erano quelli della nostra storia. 
Che gli uomini e le donne ordinari non avevano neppure cominciato ad essere se stessi. [...] 
Uomini e donne, creature della ragione, custodi di questa terra: 
sì, c'è un Messia, e una Gerusalemme. 
Ma non dopo il nostro funerale e non fatti di nubi rosee. 
E ci sono leggi, ma non sono quelle eruttate da qualche vulcano nel Sinai. 
Ci sono le leggi della storia, e della scienza, e della domanda e dell'offerta. 
George Steiner, il Professore: cap. VIII, pp. 50 sg.




Hai ragione, perché trasformare l'acqua in vino? 
Un trucco da baraccone, sono d'accordo. 
Quando puoi trasformare il sangue e il sudore dell'uomo in oro e ferro. [...] 
Nel cuore del comunismo c'è la menzogna. 
La menzogna centrale, assiomatica: 
un regno di giustizia, una fratellanza senza classi, 
una liberazione dalla servitù qui e ora. In questo mondo. 
È questa la grande menzogna. 
La corruzione e il tradimento sistematici della speranza umana. 
George Steiner, Carlo: cap. VIII, pp. 54 sg.



È indispensabile essere elitari – ma nel senso più autentico del termine: 
prendersi la responsabilità per «il meglio» della mente umana.
Una élite culturale deve sentirsi responsabile della conoscenza e della conservazione delle idee e dei valori più importanti, dei classici, del significato delle parole, della nobiltà dei nostri spiriti. Essere elitari, come ha spiegato Goethe, significa essere rispettosi: rispettosi del divino, della natura, degli altri esseri umani, e dunque della nostra umana dignità.[1]
 Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006

Heidegger è il grande maestro della meraviglia, l'uomo il cui stupore di fronte al semplice fatto che noi siamo invece di non essere ha posto un luminoso ostacolo sul sentiero dell'ovvio.
George Steiner


Non ci sono stati successori di Joyce nella lingua inglese; forse non ce ne possono essere di un talento così esauriente del suo proprio potenziale.[3]
 citato in Charles Shaar Murray, Jimi Hendrix. Una chitarra per il secolo, traduzione di Massimo Cotto, Feltrinelli 1992>





George Steiner. “Ci sarà una guerra e torneremo a leggere”
Incontro con il grande critico “È il tempo dell’odio, ma la gente riscoprirà la riflessione e la musica”
«No, niente passeggiata». Lo hanno intervistato tante persone illustri. Non ha senso. E poi, a 86 anni, è troppo cagionevole. Capisco che sta per riattaccare. «Aspetti, che ne pensa di due passi in giardino, attorno alla casa?». Pensavo ad Albert Speer a Spandau, a come il vice di Hitler girando in tondo per il cortile del carcere immaginava di andare a Heidelberg. Ma Spandau non è Cambridge e Speer sotto ogni profilo è l’opposto di George Steiner. Nel mio pensiero Steiner è un girovago intellettuale che si è lasciato indietro gran parte della sua generazione. Avevo 17 anni quando ascoltai un suo coraggioso discorso sulla supremazia della letteratura che avvalorò la mia scelta della facoltà di Lettere. All’università studiai i suoi “La morte della tragedia” e “Dopo Babele” e avrei preferito avere lui come docente invece degli pseudo-campioni dello strutturalismo che continuavano, in maniera scandalosa, a negargli la cattedra. Quindi se esiste un intellettuale con cui non mi dispiacerebbe fare due passi, anche solo un giretto, è proprio Francis George Steiner. All’altro capo del filo c’è esitazione. «Va bene».

L’uomo in maglia bianca mi apre la porta con un sorriso. Sotto il mento ha una barbetta da mandarino cinese. La stretta di mano è goffa – come il Kaiser e Lord Halifax non riesce a ruotare il braccio per via di un’atrofia muscolare congenita. «Nasce tutto da lì», dice. «I primi anni di vita li ho passati in terapia, cliniche a Parigi e in Svizzera. Mia madre ha lottato contro la mia menomazione come una leonessa. Mi costringeva ad allacciarmi le scarpe – avrei potuto averle con la zip, ma no. Dovevo per forza scrivere con la destra – potevo farlo benissimo con la sinistra, ma no. Mia madre non mi permetteva di aggirare il problema. Quando avevo quattro anni arrivò il momento fatidico in cui mi disse: “Non ti rendi conto della fortuna che hai: non farai il militare”. All’epoca la leva durava tre anni, ti distruggeva la vita. Ne fui così felice che non mi sentii mai più menomato né condannato, ma speciale e privilegiato». Può anche essere che ne derivi quello che Steiner considera il suo maggior talento: «La mia prima dote nella vita è stata una sfacciataggine cosmica».

«Ora che mi avvicino alla fine dei miei giorni mi affascinano i limiti di tutta la narrativa. Né Shakespeare né Dante sarebbero riusciti a inventare Stephen Hawking, la sua persona, le sue opere. Dal minuscolo margine di una palpebra è al centro dell’universo ».
Anche Steiner abita i margini. Ha passato gran parte della sua vita a bordo ring degli studi umanistici definendosi “l’uccellino pulitore dei rinoceronti”, un piccolo volatile giallo che vide in Africa che, appollaiato sul dorso del rinoceronte, segnalava a tutti l’arrivo dell’animale. Analogamente, dice, un insegnante e un critico validi ti diranno cosa leggere e perché.
Sulla poltrona gialla di fronte si sono seduti scrittori che hanno fatto esclamare Steiner di meraviglia. In questa stanza è entrato misurando i passi Jorge Luis Borges, il mago cieco d’Argentina. Per Steiner «Borges rappresenta un particolare momento della storia dell’immaginazione. Ha lasciato una sorta di incantesimo, seppur breve».
All’epoca Steiner aveva due bimbi piccoli. «Borges si sedette su quella poltrona a raccontargli storie. Volle che non fossi presente. Lo portammo in auto alla facoltà di lettere dove avrebbe tenuto un’importante conferenza. Lo accompagnai all’ingresso. “Non vorrà certo entrare”, mi disse. Era capace di una finissima, soprannaturale empatia. La facoltà di lettere mi aveva comunicato che non mi sarebbe stata assegnata una cattedra, per cui non avevo accesso alla sala docenti». Un altro occupante della poltrona gialla fu Bruce Chatwin, di ritorno dalla Scozia, dove, a quanto sosteneva, era stato a caccia di cervi. Dice Steiner: «Ho una teoria sugli uomini belli. Esser belli è difficile e Bruce era bello davvero. Seduto su quella poltrona lesse brani interi del manoscritto de Le vie dei canti . Avevo contattato Shawn al New Yorker segnalandogli Chatwin, il suo libro sulla Patagonia mi aveva fatto impazzire. Shawn lo bocciò. Il suo riserbo era leggendario: lasciava trapelare una profonda diffidenza, come se non credesse a una sola parola».

«Appartengo a una specie bizzarra in estinzione, quella degli intellettuali impegnati. Un tempo si usava il termine russo, intellighènzia», dice con un ampio gesto della mano. «Questa stanza è un’enciclopedia di umanesimo perduto. Qui ho esemplari che credo non si trovino né a Cambridge né alla Biblioteca Bodleiana. La prima pubblicazione, su rivista, del Tractatus di Wittgenstein. La prima edizione di Essere e tempo di Heidegger. E il talismano della casa!». Si alza di scatto per tirarlo giù, un libriccino blu che estrae a fatica dalla custodia di cartone. Lo solleva con deferenza mostrando un nome stampigliato sull’ultima pagina in inchiostro violetto: “F. Kafka”.
Non mi dica… «Sì, sì, della sua biblioteca sono sopravvissuti solo tre libri, questo è uno».
Leggo il titolo, Was du tust, das tue recht, e noto che è stato stampato a Stoccarda nel 1910. «Ciò che fai andrà bene», traduce. «Una tesi pedagogica, del tutto mediocre sull’istruzione femminile ». Lo ha letto? «No, è un libro insulso, ma spesso l’ho preso in mano e ho sentito un brivido intenso lungo la schiena al pensiero che Kafka lo aveva avuto a sua volta tra le mani».

Come Kafka, il padre di Steiner, Frederick, lavorava per una banca a Vienna. Sigmund Freud e Frederick Steiner erano amici. Andavano a passeggio a Vienna e sui colli intorno, chiacchierando. Steiner, maestro di connessioni, non riesce a immaginare che Hitler, Freud, Mahler e suo padre non si siano mai incontrati a passeggio sul Ring. «È inevitabile, soggiornando nella stessa città per due, tre anni». Aveva cinque anni quando udì la frase che, a suo dire, ha improntato tutta la sua vita. Stava osservando dalla finestra a Parigi la folla che urlava “morte agli ebrei! “ e suo padre disse: «Non devi mai aver paura; quel che hai davanti agli occhi si chiama storia».
Steiner non andò incontro al destino di tutti i suoi compagni di classe ebrei, tranne due, grazie alla dritta di un uomo d’affari tedesco nella neutrale New York. Nel gennaio 1940 in una toilette del Wall Street Club, il padre di Steiner si imbatté in un conoscente, un dirigente della Siemens, che afferrandolo per un braccio gli disse: «Mi ascolti bene, che le piaccia o no. Molto presto arriveremo in Francia. Porti via la sua famiglia, costi quello che costi». Quando, cinque mesi dopo, i carri armati nazisti entrarono a Parigi, gli Steiner erano in America.
Nell’estate del 1943 giunse un altro momento decisivo. «Ero in vacanza a White Plains, fuori New York, e in uno studio medico vidi sulla rivista Life un paginone dedicato ai membri dell’Accademia sovietica della scienza, in cui erano indicate le rispettive competenze: radiologia, biochimica, matematica». A 14 anni Steiner restò molto colpito dal fatto che non si trattasse di artisti, bensì di scienziati. «Mi incaponii a fare quello da grande, non so spiegarlo, ma fu decisivo. La mia unica ambizione divenne studiare scienze a Chicago». Ebbe insegnanti di tutto rispetto, Enrico Fermi di fisica, Harold Urey di chimica. Ma non servì. «Mi dissero che tecnicamente ero un idiota. Potevo contare sulle capacità mnemoniche esercitate al liceo nel sistema scolastico francese, ma non avevo un briciolo di creatività. Se almeno, come un certo Jim Watson, fossi stato indirizzato alla biologia… Fu così che, col cuore a pezzi, approdai alla letteratura e alla filosofia».
Da Chicago passò a Harvard, dove si laureò, quindi a Oxford, per vedersi respingere la tesi che divenne poi La morte della tragedia .
(«Stupefacente, non trova? »); poi vennero l’Economist, Princeton e, nel 1961, Cambridge.
Prende una chiave e a piccoli passi leggeri mi porta fuori, nel suo giardino all’inglese. Steiner scrive dell’importanza del camminare nel suo ultimo libro, The Idea of Europe . Kant che attraversa Königsberg con precisione cronometrica. Le passeggiate di Kierkegaard per Copenhagen. Il corpulento Coleridge che ogni giorno percorreva cinquanta chilometri su terreni ardui e montuosi poetando o ragionando su complessi temi teologici a ogni passo. Secondo Steiner è una pratica che ci differenzia dall’America. «In America non si va da una città all’altra a piedi».
L’Europa invece è stata plasmata e umanizzata dal piede umano. Non è esagerato affermare che tutta la nostra filosofia è stata condizionata dal camminare, dal semplice atto di mettere un piede davanti all’altro che in men che non si dica ci porta a destinazione.

Steiner inserisce la chiave nella toppa, mi invita a entrare. Il suo studio ha il perimetro pentagonale e il soffitto a piramide. La luce cade dall’alto sulla scrivania occupata da una macchina da scrivere elettrica di dimensioni ragguardevoli. Steiner vi si siede ogni mattina con un libro scelto a caso. «Prendo un paragrafo e lo traduco nelle mie quattro lingue» e scrive la traduzione su un pezzo di carta che getta nel cestino. Lo definisce «un esercizio musicale della mia pluralità». Poi, dopo aver risposto alla mezza dozzina di lettere che riceve ogni giorno, legge per un’ora o due.
«L’idea era di avere qui i 1200 volumi indispensabili. Non funziona però. Sono costretto a fare sempre avanti e indietro». Me li presenta, come degli amici. Nietzsche, Hegel davanti a sé, sulla parete alla sua sinistra Celan, la scuola di Francoforte.
Cosa le piacerebbe aver scritto?, gli chiedo. «Narrativa di altissimo livello». Perché non lo ha fatto? «Ero troppo dispersivo e appassionato di troppe cose». O è stato qualcos’altro a limitarlo? Anche quando segnalava i nomi degli autori che dovevamo leggere avvertiva sempre che il rinoceronte su cui era appollaiato era una bestia pericolosa, capace di travolgere e distruggere. Che gli studi umanistici non sono di per sé umanizzanti, bensì troppo spesso legittimano la bestialità. In The Idea of Europe ci ricorda che «L’Europa è il luogo in cui il giardino di Goethe quasi confina con Buchenwald».
Steiner è pessimista, pensa che non abbiamo mai toccato un livello superiore di brutalità e vede profilarsi una catastrofe. «Ci sarà una guerra. Posso essere più preciso. È imminente». Una guerra religiosa islamica che darà il via al nuovo Armageddon. «Si tratta di odi implacabili. Già non si riescono a bloccare gli sbarchi di profughi in Italia. È un fiume in piena».
Però lo rincuora il pensiero che in tempi di catastrofe «la gente riprenderà a leggere, a riflettere, tornerà alla musica. Niente paura, il destino non ama la vacuità». Mi parla dell’attacco dei ceceni alla scuola russa di Beslan. «I bambini erano rimasti per tre giorni senza cibo né acqua ma con un’insegnante coraggiosa, che il terzo giorno disse loro “Preghiamo assieme Dio e i vangeli”. I bambini si rifiutarono. “Noi preghiamo il mago di Harry Potter, lui verrà”. E i bambini avevano ragione ».
(Intervista a George Steiner.A cura di NICHOLAS SHAKESPEARE traduzione di Emilia Benghi)

L’ESERCIZIO
Ogni mattina prendo un paragrafo a caso e lo traduco nelle mie quattro lingue. È l’esercizio della mia pluralità

I LIMITI
Mi affascinano i limiti della narrativa Né Shakespeare né Dante sarebbero riusciti a inventare Stephen Hawking

L’EUROPA
Da Kant a Coleridge è stata fondata sul camminare In America non si va da una città all’altra a piedi


«Un libro mai scritto è più di un vuoto. Accompagna l'opera che si è compiuta come un'ombra fattiva, insieme ironica e dolente. È una delle vite che non abbiamo potuto vivere, uno dei viaggi che non abbiamo intrapreso. La filosofia insegna che la negazione può essere determinante. È più del rifiuto di una possibilità. La privazione ha conseguenze che non possiamo prevedere o valutare con precisione. È il libro che non è stato mai scritto che avrebbe potuto fare la differenza. Che avrebbe potuto permetterci di fallire meglio. O forse no.»
George Steiner


Descrizione
Dopo aver pubblicato decine di saggi, romanzi e racconti, George Steiner racconta i sette libri che non ha scritto per discrezione, o perché l'argomento era troppo doloroso, o perché la sfida intellettuale o personale del progetto è risultata troppo ardua. Gli argomenti sono i più disparati e sfidano convenzioni e tabù: il tormento cui è sottoposto chi, pur dotato di talento e capacità, si trova a confronto con il genio; l'esperienza del sesso fatto in lingue diverse; l'amore per gli animali quando supera l'amore per gli esseri umani; il costoso privilegio dell'esilio; una teologia del vuoto. Temi disparati e apparentemente inconciliabili, ma che hanno invece in comune l'idea che il nostro meglio, ciò che arriviamo a compiere, è solo la punta dell'iceberg.



È stato docente di letteratura comparata in molte università quali Princeton, Stanford, Oxford e altre. Il suo approccio alla letteratura è in termini morali e religiosi (è stato allievo dello studioso di mistica ebraica Gershom Scholem) e il suo interesse è rivolto al rapporto tra potere, barbarie e cultura con particolare riferimento alle vicende e questioni inerenti al popolo ebraico.

« Molto personale è la sua posizione sullo stato di Israele: tra le colpe del nazismo c’è quella di averne legittimato la nascita (per reazione alla Shoah), mentre la ricchezza della cultura ebraica è tutta nella diaspora e nel suo spirito cosmopolita. »

Filosofia del linguaggio
Di particolare interesse e piuttosto controverso è stato il suo romanzo "Il processo di San Cristobal" ("The portage to San Cristobal of A.H.") di ispirazione fantastica: Steiner infatti si immagina che Adolf Hitler sia ancora vivo e si sia rifugiato in Brasile, dove un commando del Mossad viene inviato per portarlo in Israele e processarlo. Al di là della cornice fantastica, "Il processo di San Cristobal" presenta acute pagine di riflessione filosofica sul linguaggio: in particolare, Steiner cerca di illustrare la "potenza negativa del linguaggio" e accosta la figura di Hitler alla figura del falso messia Shabbatai Tzevi, giungendo addirittura all'affermazione paradossale e provocatoria che il Führer sia stato il "vero" messia ebraico, poiché ha portato alla fondazione dello stato di Israele. Secondo la filosofia del linguaggio di Steiner, l'affermazione della "messianicità" di Hitler va compresa in modo del tutto ipotetico e paradossale come lo spunto per una riflessione filosofica profonda sulla natura del linguaggio: il linguaggio non è solo uno "strumento positivo" di comunicazione, ma anche un mezzo di distruzione, di coercizione e di propaganda.[2]




https://it.wikipedia.org/wiki/George_Steiner




Andrea Grieco Filosofo
Spieghiamo brevemente il rapporto che la Germania ha con la filosofia.
La Germania ebbe un grande filosofo; Kant e non lo capì.
Dopo l'uscita della Critica della ragion pura, nessuno comprese nulla.
Il filosofo scrisse successivamente i Prolegomeni per semplificare i concetti cola' espressi,
ma nessuno capì niente lo stesso.
Venne poi Hegel e la sua confusione, e i tedeschi, pur non capendolo, lo preferirono a Kant.
Comparse in seguito Schopenhauer,
ma rimase ignorato per quasi tutta la vita a causa di quel sofista di Hegel.
Si presentò sulla scena un'altro grande fenomeno filosofico tedesco,
il quale ha abbindolato i germanici e il mondo con le sue fantasticherie,
cioè Marx, che, avendo ribaltato le categorie hegeliane,
ha ridotto la filosofia ad un processo dialettico di lotta di classe.
Salì sul palcoscenico infine Nietzsche e la sua Volontà di potenza;
ed ecco che il nazismo prese la palla al balzo.
Questi sono i tedeschi. E la storia poi è continuata con Heidegger etc..



Kim Phuc è conosciuta come la bambina che correva nuda nella famosa foto scattata da Nick Út durante l'attacco vicino a Saigon, in Vietnam. Nel bombardamento al napalm, Kim rimase gravemente ustionata sulle braccia e alla schiena. Ora vive a Toronto con il marito e due figli. La sua organizzazione, Kim Foundation International, aiuta i bambini vittime della guerra.


Kim Phuc è conosciuta come la bambina che correva nuda nella famosa foto scattata da Nick Út durante l'attacco vicino a Saigon, in Vietnam. Nel bombardamento al napalm, Kim rimase gravemente ustionata sulle braccia e alla schiena. Ora vive a Toronto con il marito e due figli. La sua organizzazione, Kim Foundation International, aiuta i bambini vittime della guerra.