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domenica 15 febbraio 2015

Annibale. ROMA: DISCESA ALL’INFERNO (BATTAGLIA DI CANNE) E RITORNO (METAURO) Nella zona nord del lago Trasimeno, Annibale aveva attirato in un agguato l’esercito romano, e l’aveva distrutto. [...] Avevano l’abitudine, i romani, quando passavano un momento di gravità ECCEZIONALE, di fare ricorso ad una carica ECCEZIONALE: la dittatura. Questa era sicuramente a tempo, quindi con la scadenza, e poteva essere totale o finalizzata ad un obiettivo preciso. Insomma, se lo ritenevano necessario, i romani SOSPENDEVANO LA LEGGE NORMALE, e ponevano la res publica nelle mani di un capo, dalle provate qualità e virtù, per un periodo di tempo e per obiettivi ben chiari. E tutti gli dovevano ubbidienza assoluta e totale. Un pò come facciamo noi, quando nominiamo un commissario straordinario per la gestione di un’azienda o un Ente, la cui dirigenza normale per varie ragioni non funzioni.


ROMA: DISCESA ALL’INFERNO (BATTAGLIA DI CANNE) E RITORNO (METAURO)
Nella zona nord del lago Trasimeno, Annibale aveva attirato in un agguato l’esercito romano, e l’aveva distrutto. [...] Avevano l’abitudine, i romani, quando passavano un momento di gravità ECCEZIONALE, di fare ricorso ad una carica ECCEZIONALE: la dittatura. Questa era sicuramente a tempo, quindi con la scadenza, e poteva essere totale o finalizzata ad un obiettivo preciso. Insomma, se lo ritenevano necessario, i romani SOSPENDEVANO LA LEGGE NORMALE, e ponevano la res publica nelle mani di un capo, dalle provate qualità e virtù, per un periodo di tempo e per obiettivi ben chiari. E tutti gli dovevano ubbidienza assoluta e totale. Un pò come facciamo noi, quando nominiamo un commissario straordinario per la gestione di un’azienda o un Ente, la cui dirigenza normale per varie ragioni non funzioni.

E la scelta cadde su Quinto Fabio Massimo. 
Costui fece le sue valutazioni, ed arrivò alla conclusione che non era il caso di riprovarci con Annibale in campo aperto. Il punico infatti aveva dimostrato una estrema pericolosità, e il nuovo esercito romano era stato messo in piedi con una leva d’urgenza, e risultava composto da giovincelli con scarsa esperienza: aveva sconfitto, Annibale, gli eserciti regolari e composti da soldati esperti, non era dunque il caso di provarci con quei pivelli. Era invece il caso di aspettare l’occasione giusta, tanto più che Annibale un problema serio ce l’aveva: i rifornimenti. Era partito dalla Spagna con una convinzione: i popoli italici avrebbero approfittato della sua presenza, per sfilarsi dalla soggezione ai romani, e lo avrebbero aiutato. Ma le cose non andarono proprio così. Gli si accodarono, infatti, i galli della valle padana, vinti solo quattro anni prima dai romani (222 a.C, battaglia di Casteggio, vinta dal console plebeo Marco Claudio Marcello), e quindi non avevano ancora un rapporto organico con la capitale. Anche alcune città greche si sfilarono da Roma (Taranto, Siracusa ed alcune altre), ma il grosso delle popolazioni italiche restò fedele (specie etruschi sabini latini sanniti), garantendo ai capitolini continui rifornimenti di soldati armi e mezzi.
Annibale , invece, doveva procedere per razzie, e questo stancava i soldati ed inimicava gli italici ancora di più. Perché gli italici restarono fedeli a Roma? Per due ragioni: la paura, in quanto i romani punivano pesantemente chi tradiva; ma, soprattutto, perché avevano capito che liberarsi dei romani voleva dire mettersi sotto il tacco dei cartaginesi, noti per il loro dispotismo, e, tra l’altro, di un diverso ceppo etnico (semiti). Dunque Fabio Massimo adottò la tattica della toccata e fuga: rapide improvvise e micidiali incursioni, per poi sottrarsi allo scontro diretto. Con ciò si meritò il titolo di CUNCTATOR, temporeggiatore! Ma la sua dittatura arrivò a scadenza, e tornò la gestione normale, con i due consoli, Lucio Emilio Paolo e Marco Terenzio Varrone.

Ai consoli si raccomandava di agire d’accordo, ma, in caso di divergenze d’opinione, era prevalente l’opinione del console in quel momento in posizione di primato (mezzo anno per uno). Ed Emilio continuò la tattica di Fabio, nella scontentezza dell’esercito e dell’opinione pubblica e del senato, ansiosi di vendicare le batoste del Ticino, del Trebbia, e del Trasimeno. Quando fu il momento di Terenzio, i due consoli (probabilmente d’accordo) si risolsero ad affrontare Annibale in una battaglia campale, tanto più che i romani avevano un numero quasi doppio di armati. Cammina cammina, i due eserciti nemici erano arrivati in Puglia, vicino al fiume Ofanto, nei pressi di una località chiamata CANNE. Era il 2 agosto del 216 a.C.. Annibale dispose le sue truppe in una formazione convessa al centro, e lì i romani concentrarono l’assalto. Come stabilito da Annibale, il suo centro indietreggiò, fino ad assumere una fisionomia concava, e circondare così i romani. I reparti di cavalleria punici sconfissero i reparti a cavallo romani, e presero alle spalle le fanterie romane. E fu un massacro! Pochi si salvarono, e tra questi un giovane diciottenne, di nome Publio Cornelio Scipione. [...]
Annibale si portò all’accampamento romano, per fare bottino. Lì i consoli avevano lasciato circa dieci mila uomini, e questi si arresero senza combattere. Annibale ordinò che si presentassero da lui i dieci prigionieri appartenenti alle famiglie più importanti di Roma. Comunicò loro che li mandava a Roma, a comunicare al senato che lui era pronto a rilasciare tutti i prigionieri in cambio di un riscatto, un tanto a testa. Prima che uscissero, però, dovevano vincolarsi con un solenne giuramento a tornare. I dieci partirono, ma uno di loro finse di aver dimenticato qualcosa nell’accampamento, e rientrò per poi riuscire. Fece questo come atto di furbizia: aveva giurato che sarebbe tornato, e lui, così rientrando, aveva ottemperato al giuramento, che quindi per lui non valeva più. Pensava con ciò di potere restare a casa, una volta tornato a Roma.
Intanto a Roma era arrivata la notizia della strage: 60 mila morti! 

Il senato temette il tracollo, e decise una reazione energica. Per prima cosa vietò funerali, vestiti a lutto e cerimonie connesse; quindi accolse con tutti gli onori il console superstite, Varrone (Emilio Paolo era morto a Canne), decretò la leva di massa, e si dispose a resistere all’attacco sicuro di Annibale. Arrivarono i dieci mandati da Annibale a chiedere soldi. Figurarsi le pressioni delle famiglie dei prigionieri, perché si pagasse! Ma il senato disse di no! E per due ragioni: 

1. Se il denaro fa comodo ad Annibale, non va bene per Roma. Annibale, infatti, con quel denaro, può assoldare mercenari, ed allora per Roma è finita; 

2. Pagare il riscatto può costituire un pericoloso precedente: al prossimo scontro i soldati, facendo conto che saranno riscattati, saranno inclini a non combattere ed a farsi fare prigionieri. Dunque rimandarono indietro a mani vuote i dieci, tutt’e dieci. Anzi, quello che aveva creduto di fare il furbo, glielo rimandarono incatenato.

Annibale, sicuro di tutt’altro esito, capì che la faccenda con Roma sarebbe stata ben più seria di quanto lui prevedesse. [...] 
Annibale non se la sentì di uccidere tutti quegli uomini, e li liberò. 

Questi presero la strada per Roma, ma nel viaggio incontrarono una delegazione romana, che intimò loro di andare in Sicilia, e lì aspettare la fine della guerra, ché poi si sarebbero fatti i conti della loro vigliaccheria: arrendersi senza combattere! Non è da romani! Lì in seguito li trovò Scipione, quando decise di attaccare l’Africa, e furono ben felici di aderire alla sua offerta di arruolamento: quale occasione per riscattarsi! E partirono con lui, e si fecero onore, per tornare poi a Roma a testa alta.

La disfatta di Canne avviene il 2 agosto 216. 
Annibale si dirige verso Roma, ma non si fida di attaccarla. 
Teme infatti di venire a sua volta assediato da eserciti italici, che Roma è in grado di mettere in campo. Si piazza a Capua in attesa dell’occasione propizia. I romani non stanno con le mani in mano, ed assediano Nola, che era passata con il nemico. Annibale la vuole aiutare senza impegnarsi direttamente. Allora si dirige su Roma, per costringere i romani a togliere l’assedio a Nola, convinto com’è che Roma sia indifesa. Ed arriva a vederla, Roma, ma proprio quando arriva, vede uscire dalla porta dei reparti armati: non erano contro di lui, ma un’esercitazione di un contingente appena appena arruolato. Quindi se ne andò, e Nola fece una brutta fine.

Prese a spostarsi per l’Italia meridionale, seguito dall’esercito romano, tra scorribande, scaramucce, scontri e ripiegamenti. Infine pose il campo nei pressi di Canosa di Puglia, ed i romani di fronte a lui. Console romano era Caio Claudio Nerone, poco noto per colpa dell’omonimo imperatore, come osserverà Byron.

Annibale si è sistemato, sta fermo e non si muove più. 
Sta aspettando qualcosa? Si domanda il console. E cosa sta aspettando? 
O, meglio, chi sta aspettando? 

Allerta i suoi: è assolutamente necessario catturare qualche staffetta cartaginese e farsi dire cosa stia succedendo. E così fanno, e così si viene a sapere che Annibale sta aspettando suo fratello Asdrubale con un altro esercito. Asdrubale è partito dalla Spagna giusto un attimo prima che vi giungesse Scipione e bloccasse la via dei rifornimenti. Se i due fratelli congiungono le forze – pensò Claudio Nerone – la faccenda si fa veramente brutta. Dunque decise di agire d’astuzia. Sapeva che Asdrubale sarebbe passato per le regioni adriatiche, avvertì l’altro console – Marco Livio Salinatore, che operava in Italia centrale – e se ne andò via dal proprio campo. Ma era assolutamente necessario che Annibale non se ne rendesse conto. Quindi lasciò nell’accampamento un certo numero di soldati, con l’ordine di fare quanta più confusione possibile – trombe, marce, pattuglie, fuochi – perché i cartaginesi non si accorgessero che l’esercito romano era partito. E lui lo fece partire di notte, nel silenzio più assoluto, e alla media di più di 60 km al giorno (a piedi: incredibile!) coprì la distanza che lo separava dal nemico. I due consoli congiunsero le forze, ed aspettarono Asdrubale sul fiume Metauro, nelle Marche. Il punico si rese conto di come stavano le cose, ma non poté sottrarsi allo scontro. 
Era il 22 giugno 207. E fu una strage: morirono tutti i cartaginesi, Asdrubale compreso. 
Gli staccarono la testa e se la portarono via.

Ed il console Caio Claudio Nerone riportò i suoi soldati all’accampamento, e zitti zitti vi rientrarono di notte, il tutto all’insaputa di Annibale [...]. La verità la seppe il giorno dopo: un drappello di cavalleria romana si avvicinò al campo cartaginese, ed uno dei cavalieri roteò un sacco e lo scagliò nel campo nemico. Lo aprirono, e dentro vi trovarono la testa di Asdrubale. E lì Annibale capì che la guerra, che lui aveva scatenato, stava prendendo una piega decisamente amara.

Scipione lo costrinse a lasciare l’Italia e lo sconfisse a Zama (18.10.202). A Cartagine Annibale si trovò in posizione politica assolutamente debole. Per giunta i romani fecero sapere ai cartaginesi che avrebbero molto gradito la consegna di Annibale, per scorticarlo vivo e fargli pagare tutti i guai che aveva causato (300 mila morti, tanto per cominciare). E lui scappò da Cartagine, e nelle regioni del Mediterraneo iniziò una micidiale caccia all’uomo. Finché , arrivato in Bitinia, capì di non avere più scampo. E si suicidò, per non cadere vivo nelle mani dei romani. Ma Scipione era morto qualche mese prima.

La battaglia sul fiume Metauro fu di sicuro uno degli eventi nodali della storia: un esito diverso poteva cambiare il corso delle cose [...].

Donde traevano questa tempra i romani? 
Leggete questa. Anno 340 a.C., guerra contro i latini. Il console romano si chiama Tito Manlio Imperioso Torquato, e suoi figlio comanda un reparto di cavalleria. L’ordine del console è che nessuno si muova di propria iniziativa. Ma un drappello di cavalleria nemica provoca Torquato figlio, questi li attacca all’insaputa [...] del padre, e sbaraglia il nemico. Poi, tutto contento, va da papà, per ricevere l’elogio. E quello invece lo mette a morte. Roma è grande per la sua disciplina – gli dice – e tu l’hai minata con il tuo comportamento. Dovendo scegliere tra la tua salvezza e quella della repubblica, con la morte nel cuore ti devo punire, perché Roma è più importante di te. [...]


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