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mercoledì 30 ottobre 2013

Aldo Carotenuto. Le rose nella mangiatoia. Quando nei racconti dei Chassidim si dice che non si può aiutare a rialzarsi chi è caduto nel fango se non ci si sporca le mani di fango, si tocca una verità importante: l'idea di lavorare conservando candide le proprie mani, o di insegnare senza contraddizioni la propria parola, è soltanto un'esigenza dell'uomo puerile che chiede incondizionata felicità. Calarsi in una situazione, qualsiasi essa sia, significa sporcarsi, vivere la contraddizione, essere lacerati. (...) Di fronte ai grandi eventi della vita tutto si relativizza e si comprende ciò che è essenziale e ciò che non lo è. (...) Nel momento in cui doniamo quel che possediamo, cioè la nostra anima, la nostra interiorità, in un rapporto mistico, analitico e d'amore, allora tutto ci sarà dato.

"La trasformazione è spesso annunciata da un disagio, magari dall'emergere di un sintomo. In questo modo l'individuo si trova suo malgrado, a confrontarsi con il problema del senso, del valore del suo particolare esserci, con quel preciso destino."
Aldo Carotenuto "Attraversare la vita"


"In una stanza buia nella penombra, le cui imposte sono state chiuse e che solo una luce artificiale illumina. Sole nero, stanza buia. La stanza buia di Bousquet, non diversamente dall'immaginario sottosuolo di Dostoevskij, diventa paradossalmente esercizio infinito di libertà. A partire dal sovvertimento d'una rimozione che veramente sembra caratterizzare la specie umana: la rimozione della morte. Allorchè tale rimozione viene sovvertita, ricondotta al suo opposto, la morte va incontro a una trasformazione e diventa, per così dire, vivibile"
Aldo Carotenuto, I sotterranei dell'anima




"Forse la vera patologia risiede proprio nell'etimo latino dell'espressione: "passionis ratio", ossia "subire la regola", intesa come incapacità nel lasciarsi attivare e destabilizzare dal sentimento, dal pathos del vivere; pathos che, in questo caso, non ha il significato medico di sofferenza, ma di autentica passione, di appello alla vita, nella sue essenza più intima e creativa."
Aldo Carotenuto,  "Vivere la distanza", Bompiani, 1998


"In verità ognuno di noi porta con sé una ferita primordiale difficile da comunicarsi, ma che può tuttavia trasformarsi in feritoia, ossia può diventare la matrice del nostro relazionarci con il mondoTrasformare la ferita in feritoia significa fare del proprio dolore e della propria mancanza la chiave d’accesso e di soluzione dei nostri dubbi. Una leggenda indiana racconta di un giovane pastorello costretto su una spina, eppure, proprio perché impossibilitato a dormire dal dolore, vedeva cose che agli altri sfuggivano. Similmente possiamo dire che la nostra ferita-feritoia è l’aculeo dell’interesse e della curiosità verso la vita."
Aldo Carotenuto, Vivere la distanza



<<Proprio come quando ci ammaliamo e un organo del nostro corpo duole, riusciamo a percepire quell'organo e ad accorgerci che esiste, allo stesso modo percepiamo la nostra anima quando, nel momento in cui siamo costretti a trasformarci o a trasformare la nostra esistenza, essa grida.
Comprendiamo allora che tutta la nostra vita può essere letta come un cammino conoscitivo, come una ricerca che quotidianamente portiamo avanti per scoprire la nostra vera natura, quel patrimonio inespresso di risorse che giace nei sotterranei della nostra anima.>>
Aldo Carotenuto



"Ogni uomo si confronta con una mancanza, con il fantasma di ciò che non c’è più e che si vorrebbe invece ricreare. E’ per questo che sostengo che nella coppia non si è mai in due, ma almeno in quattro: i due partner più i loro rispettivi fantasmi, che trovano consistenza in tutta quella serie di proiezioni che l’uno riversa nell’altro. "
Aldo Carotenuto


«La depressione si configura come un singolare stato d’animo che costringe la persona in una condizione di prigionia emotiva e di allontanamento dal mondo. La “prigione” è data dall’individuo stesso, dal suo mondo interno che lo inghiottisce ogni giorno di più, dalle tenebre dentro le quali precipita accompagnato solo dalla spiacevole sensazione di non poter più fare ritorno. Non c’è nulla, ma proprio nulla, nella realtà esterna che possa sollecitare l’interesse del depresso, men che mai accendere un barlume di progettualità. Quando sentiamo parlare della cosiddetta “mancanza di interessi” che caratterizzerebbe le persone depresse, non facciamo altro che confrontarci con un banalissimo luogo comune, un buffo eufemismo che riesce a spostare l’attenzione solo sulla punta dell’iceberg. La depressione distrugge gli interessi della persona, li sgretola fino al punto di farli diventare finissima sabbia. E per quanti sforzi l’individuo compia, per quanto impegno possa metterci, per quanto aiuto possa ricevere, i suoi granitici interessi e le sue solide attività sono ora solo sabbia che sfugge tra le sue dita. Uno stato depressivo non lascia spazio alla forza d’animo, alle motivazioni, alla capacità di progettare. In questa cupa sensazione di disperato abbandono l’unico “desiderio” che è possibile avvertire è che l’incubo finisca il prima possibile. E per un buffo scherzo del destino è il depresso stesso a procrastinare sempre più il risveglio dall’incubo: dormendo quasi tutto il giorno — oppure aspettando con ansia di poterlo fare — la persona depressa si arrende supina alla letargia della sua vita. Eppure, sebbene possa sembrare paradossale, soprattutto quando sopraggiunge una depressione profonda è il caso di dire “non tutti i mali vengono per nuocere”. Lo stato di grave prostrazione e l’abbattimento che si vengono così a creare, infatti, costringono gioco-forza l’individuo a confrontarsi con gli aspetti più oscuri, segreti e imprevedibili della sua personalità. Sprofondando fino negli abissi dell’anima, prima o poi giunge il momento in cui “si tocca il fondo”. Gli elementi che permettono di comprendere di aver “toccato il fondo” variano da persona a persona, ma in genere è la consapevolezza di aver calpestato se stessi, di essersi lasciati risucchiare da una condizione di degrado personale e psicologico, a far si che il depresso si senta percorso da un brivido raggelante. E questo un breve ma preziosissimo momento, in cui una flebile luce rischiara per qualche istante il buio in cui si è immersi. Sono attimi da prendere al volo, in cui si deve decidere rapidamente se distendersi su quel fondale attendendo la morte dell’anima o, viceversa, se trasformare quello stesso fondale in una piattaforma di lancio da cui ripartire ed emergere. Soltanto chi avrà vissuto sulla propria pelle l’avventura spaventosa e affascinante di un viaggio nei sotterranei della propria anima potrà capire questo discorso, tutti gli altri dovranno accontentarsi di assistere increduli alle evoluzioni della psiche altrui. Un aspetto veramente interessante della depressione è dato dallo sfacciato contrasto tra la sterilità di giorni trascorsi come creature prigioniere della propria vita, e la grande fertilità del momento in cui si decide di ricominciare a vivere. In quel momento, infatti, l’individuo porta sulle proprie spalle un pesante carico: si tratta di tutte le esperienze psicologiche e delle riflessioni generate dalla depressione stessa. Che non sono una zavorra, ma un prezioso bagaglio che l’individuo potrà decidere di mettere a frutto. Da una depressione non si emerge mai come si era prima di sprofondarvi, la depressione è soprattutto metamorfosi e, spesso, arricchimento interiore. La sofferenza dell’anima e la depressione, che di essa costituisce uno dei più “illustri” rappresentanti, divengono spesso scintille da cui divampa un vero incendio creativo, o la volontà di occuparsi di rinnovati interessi.»
Aldo Carotenuto, Il Fondamento della Personalità



Nel momento in cui sentiamo di essere attratti in modo irrefrenabile da un’altra persona, quando avvertiamo di essere trascinati nel mondo dell’altro e di non poter opporre alcuna resistenza, ciò avviene perché siamo stati colpiti nella nostra autenticità, perché sono stati chiamati in causa i nostri più antichi desideri e bisogni.
Aldo Carotenuto



"Quando si proietta sull’altro, simbioticamente, il proprio mondo interno, ci si aspetta che egli si comporti esattamente come noi: l’altro non esiste in quanto persona autonoma, perché è totalmente investito dalla nostra volontà di farlo esistere nella forma di una nostra propaggine; ma al tempo stesso si reclama da lui un’autonomia di pensiero e di azione che ci renda liberi dalla schiavitù del legame eterno. Quello che si desidera è antiteticamente ciò che più si teme, e il partner si trova nella difficile posizione di dover risolvere una richiesta di contemporaneità: quella di un’assenza di volontà autonoma, come incarnazione del desiderio altrui, e quella di una presenza indipendente che, al momento opportuno, libera l’altro dal senso di asfissia."
Aldo Carotenuto




"Dal momento in cui nasciamo veniamo eterodiretti, dapprima dai progetti dei nostri genitori, poi da quelli dell'ambiente in cui viviamo. Soltanto quando operiamo delle scelte personali diventiamo autodiretti.
Nell'immaginario collettivo questa capacità di auto-dirigersi, di essere responsabili delle proprie decisioni, è raffigurata dal mito di Ulisse. Nei dieci anni del suo peregrinare, egli incontra e ama delle creature bellissime: ninfe, maghe, o donne mortali. Ma deve sempre abbandonarle, per seguire il suo destino, quel richiamo inconscio, personificato da Ermes. Ulisse è la perfetta incarnazione dell'uomo spinto dal suo demone interiore, quel demone che costringe l'individuo creativo a seguire sempre la propria strada, rimanendo fedele a se stesso, nonostante il dolore arrecato a sé e agli altri.
Troncare gli affetti, voltare le spalle al mondo che noi abbiamo costruito, è terribile, perché non abbiamo nessun'altra giustificazione, all'infuori della fedeltà a noi stessi. Tale modalità di agire equivale al tradimento. Ciò che io tradisco, voltandogli le spalle, è il collettivo. Si capisce allora come in tali situazioni si venga assaliti dai rimorsi, dai dubbi, dai sensi di colpa"
Aldo Carotenuto, La chiamata del daimon. Gli orizzonti della verità e dell'amore in Kafka


"Ma l’insoddisfazione in analisi purtroppo non riguarda soltanto l’amore; è molto più fonda, più crudele, più irriducibile. La via dell’analisi è per eccellenza la parola, la simbolizzazione. Ma il simbolo è per sua natura insoddisfatto. Così Hegel: la coscienza è sempre insoddisfatta. Tutto il linguaggio è un limite: il parlante è il punto medio tra il dicibile e l’indicibile, tra la parola e il silenzio. L’insoddisfazione, la tensione tra l’uso e la possibilità, tra il corpo della parola, pubblico e dicibile, e l’ombra sempre più vasta dell’intenzione, delle risonanze intime, individuali, non più parlabili, sarebbe tipica del linguaggio tutto. A maggior ragione del linguaggio in analisi. Questo sforzo continuo di intendersi, di rendere corpo, uso pubblico o gioco linguistico le immagini-ombre dell’intenzione, è davvero frustrante, crudele. La parola, il logos, è dono di Apollo, il dio obliquo, della violenza raffinata, differita. Come l’arco o il dardo, la parola è una sfida mortale del dio. L’ambiguità dell’enigma è l’arma suprema della violenza apollinea, la freccia più mortale scagliata dal suo arco. I dardi di Apollo sono i pensieri! Ma l’enigma indica l’origine della ragione, l’istigazione a interpretare, l’oscurità della parola come stimolo alla lotta.Così la psicoanalisi, questo rito della parola, è un agone, una lotta del pensiero. La crudeltà e cerebrale. Chi si espone alla prova, come il sapiente antico di fronte all’enigma del dio, accetta un rischio mortale. L’insoddisfazione è il perno dell’analisi perché insoddisfatto è il linguaggio, il simbolo, la parola. Spesso, per resistere alla prova, si cerca aiuto nel linguaggio dei corpi, più semplice, più dolce, meno crudele. È una fuga, una resistenza, certo. Ma forse è solo consolamentum, una piccola consolazione, un reciproco darsi calore e farsi coraggio per riuscire ad affrontare la crudeltà dell’astinenza e dell’insoddisfazione."
Aldo Carotenuto, brano tratto da "Diario di una segreta simmetria"



Ma perché, come e quando SIAMO CHIAMATI VERSO UN LIVELLO PIÙ EVOLUTO DI COSCIENZA, un orizzonte più ampio di consapevolezza? Quasi sempre A SEGUITO DI UN EVENTO TRAUMATICO, DI UN LUTTO, DI UNA FERITA NARCISISTICA. Allora accade qualcosa come un risveglio, l’avvio di un confronto con noi stessi che ci allontana dall’istinto per avvicinarci allo spirito. È un cammino in cui potremo incontrare nuovo dolore; ma chi non ha conosciuto il dolore, dovrebbe sospettare di non essere mai nato alla vita vera, ossia alla conoscenza.
Aldo Carotenuto, Breve storia della psicoanalisi 


"Per entrare in se stesso, per guadagnare l'accesso e la dimora nella propria interiorità, Lucio deve trasformarsi in asino.
La trasformazione in asino sembra dunque volerci dire che per traslarsi a una più alta condizione spirituale, per superare l'infantilismo e accedere alla maturità, è necessario operare un percorso a ritroso, regredire a una condizione di "stupidità", l'unica che consente di ascoltare verità altrimenti inaccessibili.
La conoscenza più intima delle cose è possibile soltanto in condizioni di miseria e sofferenza."

Aldo Carotenuto "Le rose nella mangiatoia. Metamorfosi e individuazione nell'Asino d'oro di Apuleio".


"Se si chiede a una crisalide cosa vuole essere, essa non dirà mai che desidera diventare una farfalla, perchè non sa di esserlo in potenza...Una crisalide risponderà quindi di voler diventare una crisalide, mentre in realtà diventerà una farfalla. Nel momento critico ...dello smarrimento la nostra richiesta tende a un ritorno al "prima". Ignoriamo se il nostro naufragio ci farà approdare a un'altra isola, se la sofferenza ci aprirà al tesoro. La soluzione, il senso, non sono mai evidenti. Accettare il rischio del proprio esistere non significa strappare una promessa, significa invece, come diceva Jaspers, essere aperti alle possibilità ".
Aldo Carotenuto, Le rose nella mangiatoia. Metamorfosi e individuazione nell'Asino d'oro di Apuleio


Quando nei racconti dei Chassidim si dice che non si può aiutare a rialzarsi chi è caduto nel fango se non ci si sporca le mani di fango, si tocca una verità importante: l'idea di lavorare conservando candide le proprie mani, o di insegnare senza contraddizioni la propria parola, è soltanto un'esigenza dell'uomo puerile che chiede incondizionata felicità. Calarsi in una situazione, qualsiasi essa sia, significa sporcarsi, vivere la contraddizione, essere lacerati. (...) Di fronte ai grandi eventi della vita tutto si relativizza e si comprende ciò che è essenziale e ciò che non lo è. (...) Nel momento in cui doniamo quel che possediamo, cioè la nostra anima, la nostra interiorità, in un rapporto mistico, analitico e d'amore, allora tutto ci sarà dato.
Aldo Carotenuto. Le rose nella mangiatoia


Quanto più una persona ha contato in un periodo della nostra vita, tanto più abbiamo bisogno che il tempo ci aiuti a «decantarne» il ricordo, liberando la sua immagine dalle scorie delle nostre proiezioni per vederla finalmente nella sua luce autentica, non più filtrata dalle idealizzazioni e dalle attese di allora.
Aldo Carotenuto, L'opera esige la vita


L'INDIVIDUO NON È SOLO AGENTE DI TRASFORMAZIONE, È ANCHE UN OGGETTO CHE SUBISCE L'AZIONE DI FORZE E DI EVENTI CHE EGLI NON PUÒ CONTROLLARE E PREVEDERE. NELLO STESSO MOMENTO IN CUI METTIAMO IN MOTO QUALCOSA, SIA ESSO UN RAPPORTO, UN PROGETTO, UN LAVORO, NOI SIAMO ESPOSTI AD UNA AZIONE TRASFORMATIVA IMPREVEDIBILE.
Aldo Carotenuto, L'eclissi dello sguardo, Bompiani, 1997, pp.100-101



"Molto spesso ci chiediamo perché si vive e quale è il segreto della felicità. La nostra esistenza è come una matassa di fili che si intrecciano in maniera confusa,senza che sia possibile rintracciarne un inizio e una fine. C'è però un'esperienza che permette di coniugare i diversi poli della nostra vita, smussando gli spigoli più insidiosi e conferendo un senso profondo a tutto quelloche facciamo. Si tratta dell'incontro tra uomo e donna, caratterizzato dall'armonico ricomporsi dei tanti tasselli che costituiscono il mosaico della nostra vita. Incontrare un'altra persona e sentirsi attratti da lei non è un'esperienza che si esaurisce in pochi istanti, ma si tratta di un vero e proprio cammino di evoluzione psicologica. Per quanto possa apparire come il risultato di un evento fortuito, in realtà ogni incontro ha le sue "buone ragioni", nel senso che nasce e si fonda su ciò che rimane delle relazioni precedenti. Nel momento in cui ci sentiamo attratti da un'altra persona, ciò non avviene mai per pura casualità, perché i ricordi e le tracce delle esperienze passate agiscono nel nostro mondo interiore spingendoci verso una certa persona piuttosto che un'altra. Le cicatrici e le ferite ancora aperte nella nostra anima ci rendono sensibili a quel volto, permeabili a un certo tipo di emozione. È la nostra storia individuale, il bagaglio di esperienze che abbiamo alle spalle che rendono possibile ogni incontro e che agevolano o ostacolano l'inizio di un rapporto. E' come se dinanzi all'immagine dell'altro, la nostra mente ripercorresse a grande velocità le tappe del passato per poi tornare al presente con un ritmo alterno scandito dal bagaglio dei nostri ricordi. In ogni relazione sono sempre individuabili le ombre del passato ma, al contempo, prendono corpo immagini e sensazioni mai provate prima. Si tratta davvero di uno spazio privilegiato, perché permette la fusione di realtà e fantasia. L'Altro è lì, dinanzi a noi, è una realtà tangibile con cui si può entrare in contatto, ma esso rappresenta anche la possibilità di vedere concretizzarsi le nostre più intime fantasie. Non sono molte le situazioni che la vita ci offre per riuscire a realizzare il connubio di realtà e fantasia, e questo accade perché i ritmi dell'esistenza in genere ci impongono di muoverci sul terreno della concretezza. Nello spazio dell'incontro con l'Altro, invece, tutto è diverso e gli aspetti banali della vita cedono il posto allo spirito della dimensione emotiva. L'uomo e la donna possono dirsi "completi" solo nel momento dell'incontro e questo senso di pienezza è ciò che può rendere noi esseri umani felici. Ma se il segreto della gioia di vivere si esaurisse soltanto con la possibilità di realizzare un incontro importante, allora potremmo forse sentirci tutti più sollevati. In realtà la situazione non è così semplice, giacché ogni rapporto è anche fonte di sofferenza e causa di dubbi assillanti.
Nell'ambito di una relazione sentimentale, capita che tanto il maschile quanto il femminile siano tormentati da dubbi angoscianti, incertezze di varia natura che rivelano un'importante emozione di fondo: la paura. Quando si vive un'esperienza amorosa, a prescindere dal fatto che essa sia appagante o colma di difficoltà, si prova sempre angoscia: potremmo essere abbandonati, illusi, ingannati, traditi, tutto potrebbe all'improvviso finire."
Aldo Carotenuto, Eros e Pathos



"Durante l’analisi è interessante vedere che alcune persone, quelle che noi comunemente definiamo “sfortunate in amore”, non conoscono la grammatica del linguaggio amoroso. Quindi succede che non sanno interpretare le parole, i segni, e sbagliano sempre. Naturalmente questa mancanza di capacità interpretativa ha ragioni psicologiche ben profonde: ed è su queste ragioni psicologiche che fa leva il lavoro dell’analista.
Facciamo il caso dell’amore e dei sentimenti di affetto che noi sentiamo per una persona. Ma quante volte noi ci siamo accorti che il nostro amore, la nostra sentimentalità, nei riguardi di questa persona, diventa così contraddittoria. Pensate che perfino nei momenti di maggiore intimità, in cui ci si può abbracciare, ci si può stringere con passione, poi magari si dà anche un morso, un piccolo morso. E allora, se uno si pone qualche domanda, si rende subito conto che quelle situazioni sono situazioni così, che vanno di pari passo. Cioè il sentimento non può essere soltanto positivo, ma è sempre accompagnato dal suo opposto. Io questo lo posso sperimentare, in maniera particolare, durante le lezioni, ad esempio. Io per un anno intero sto con centinaia e centinaia di ragazzi e ne discutiamo spesso. Allora molte volte uno per quale motivo può suscitare un entusiasmo, può apparentemente essere stimato e voluto bene dai propri discepoli, e poi magari, quelli stessi hanno poi un atteggiamento negativo, hanno un atteggiamento di violenza, che è chiaro che dimostra soltanto la necessità di doversi staccare. Ma tutto questo può avvenire proprio perché “odio et amo”: questo famoso verso latino ci sta proprio a indicare che noi tutti dobbiamo essere consapevoli di queste cose, perché, come al solito, il lavoro legato ai sentimenti è un lavoro che dovrebbe spingere anche alla consapevolezza la persona. Per cui se io lavoro coi sentimenti, io debbo saperne anche quali sono gli aspetti negativi e positivi, perché la conoscenza di queste cose permette in tanti modi di attutire. Altrimenti che cosa può succedere? Che io, senza volerlo, diciamo, commetto degli sbagli. Forse il termine “lapsus” è più conosciuto. Commetto un lapsus, che impedisce a me di raggiungere la persona amata o comunque dimentico qualche cosa, che poi, tradotto, è un atto aggressivo proprio verso la persona che io amavo tanto. E allora cosa si nasconde? Si nasconde il fatto che io non sono mai troppo consapevole del fatto che in realtà, amando una persona, tanto amore c’è, e può darsi che ci sia tanto odio, tanta distruttività. Ma questo fa parte della vita. Cioè non è un problema di anormalità, è un problema di vita e noi dobbiamo saperlo, così come sappiamo che quando mangiamo stiamo bene, però se mangiamo troppo poi non stiamo più bene. Cioè è sempre la conoscenza, la consapevolezza, in questo caso dell’ambivalenza, che permette a noi di fronteggiare questa ambivalenza e eventualmente di ridurne i danni, se questi danni si presentano."
Aldo Carotenuto






Uno scrittore Abraham Yehoshua narra in forma ironica nel suo romanzo "La morte del vecchio" di un vecchio appunto condannato a non poter morire, finché non viene alla fine "fatto morire" in forma non cruenta, quindi non ucciso dalla comunità.
Nel libro "L'eclissi dello sguardo," Aldo Carotenuto così commenta, la metafora sulla morte rinviata da questo racconto.
"L'enigma è svelato nel momento in cui Yehoshua fa emergere la verità e dichiara la vita priva di senso, per cui arrivati alla vecchiaia non si può più andare oltre: l'univa via di salvezza per l'uomo è la morte, la quale impedisce che i ricordi diventino troppi, e si trasformino in montagne che non permettono più di "vedere il mondo" [.]






"Il compito della psicoterapia è quello di ristabilire le connessioni perdute: sia le connessioni fra differenti parti di noi stessi - come fra coscienza e inconscio - sia fra noi e il mondo.
Tradizionalmente la psicologia ha interpretato "il mondo" nel senso di "altre persone" e di conseguenza ha posto l'accento sulle relazioni.
Adesso però grazie alle neuroscienze si sta facendo evidente che la psiche riceve un impatto da qualunque cosa del "mondo", da tutte le forme animate e inanimate in cui la natura si esprime. Una psiche malata è un sistema chiuso, come un lago infestato dalle alghe, perché è impedita la circolazione dell'acqua.
Una psiche in salute è permeabile, mutevole, portata a cambiare e a scambiare:
si alimenta di ciò che sostiene la vita e si spegne quando è intossicata
Mi piace immaginare la nostra ricerca di saggezza, che dura tutta la vita, come un processo continuo di disintossicazione, un allontanarsi da situazioni che non possono favorire la vita".
Ginette Paris "Cuori spezzati. Guarire dalla perdita di un amore"





la memoria agisce in modo sincretico , conosco persone che dopo quel processo di decantamento di un ricordo hanno in un certo qual modo modificato tutto il processo mnestico nel senso sia del rimosso che nella ricostruzione immaginale....mi chiedo se è possibile raggiungere davvero quella "luce autentica"



Il ricordo è rimembranza .... E la rimembranza è racconto. Quando l'ideale decade, si ha la consapevolezza che ci permette di non essere soggettivi bensì oggettivi. Privo di proiezioni l'amore è totalizzante, permettendo di cogliere il linguaggio del cuore (in latino cordis).




LA "MIA" PSICOTERAPIA
Ad un certo punto del percorso psicoterapico il paziente si rende conto di vivere una situazione affettiva esclusiva e particolare col proprio terapeuta: il centro delle sue riflessioni non sono più le problematiche che lo hanno portato in terapia, ma proprio la relazione con lo psicoterapeuta, carica di stati d’animo a volte ambivalenti.
In questa fase il sintomo iniziale si eclissa per lasciare spazio ad un groviglio di affetti poco definito e molto intenso.
In realtà il problema iniziale che aveva portato il paziente in terapia non è sparito ma si è ricreato nella relazione con il terapeuta.
In tutto questo c’è un enorme vantaggio: nello stanzino d’analisi quel vecchio problema lo si può analizzare, lo si può vivere istante per istante, nel “qui e ora” della relazione analitica, concretamente.
E’ adesso che l’analisi comincia a dare i suoi frutti.
Naturalmente, un bravo psicoterapeuta è preparato ad affrontare la situazione e a dirigere il potenziale affettivo che si sprigiona nella relazione, per i fini utili al suo paziente, nel rispetto del codice deontologico.
L’arte terapeutica consiste infatti nel direzionare costruttivamente un grande potenziale umano, scoprendo e coltivando il talento inespresso del paziente, sviluppando la sua libertà di scegliere il proprio atteggiamento verso il “destino”, forgiandolo con le proprie mani.
Il paziente non sa ancora ciò che potrebbe diventare ed essere, deve imparare pertanto ad ascoltare quella voce flebile ma persistente che ha dentro di sé.
Come dice un vecchio proverbio africano: “Dio si appoggia su di te per aiutarti”.
Non posso essere certo dell’esistenza di Dio, ma credo che le persone diventano ridicole solo quando vogliono sembrare o essere ciò che non sono, o quando pensano che la tristezza abbia meno merito della gioia. Non può essere così, anzi, è proprio di notte che è bello credere alla luce.
La “luce” equivale per me al famoso detto: “divieni ciò che sei”.
Perciò, bisognerebbe far tesoro dell’ammonimento: “La più grande sfortuna che può capitare ad un uomo è credere nella fortuna”.
Ecco che possiamo essere d’accordo con i Saggi quando dicono che il valore di un uomo dipende dalla misura in cui i suoi sentimenti, i suoi pensieri e le sue azioni contribuiscono allo sviluppo dell’esistenza degli altri individui.
A volte, però, è necessario chiedere aiuto. Come diceva il mio analista: “Tu solo puoi farcela… ma non puoi farcela da solo”.
(tratto dal mio libro: “Aldo Carotenuto, psicologia di uno psicoterapeuta” Armando Editore)



Entriamo nel merito della specificazione di ciò che per la clinica è il rapporto tra sociologia e malattia.
La malattia è straordinariamente indicativa dei processi creativi alla base della personalità originale della persona a monte delle condizioni che l'hanno determinata, con l'aiuto di Aldo Carotenuto e dei suoi allievi.
I disturbi psicopatologici emergono, cambiano e spariscono secondo i mutamenti culturali e sociali: dal punto di vista epidemiologico, se fino a 30 anni fa le persone manifestavano per lo più sintomi di nevrosi, il cui meccanismo di difesa principale è la rimozione, oggi sono sempre più frequenti i disturbi di personalità con organizzazione borderline che utilizzano come difese soprattutto la scissione e l’identificazione proiettiva.Thomas Ogden nelle sue pubblicazioni ha fornito una descrizione puntuale di quest’ultimo meccanismo difensivo, utilizzandolo quale strumento concreto per comprendere il mondo interno del paziente. Lo studioso descrive l’identificazione proiettiva come il modo in cui una persona fa uso di un’altra per sperimentare e contenere un aspetto di sé stessa: colui che proietta ha la fantasia inconscia di liberarsi di una parte di sé non desiderata e di collocarla in un’altra persona, al fine di poterla controllare in maniera molto forte; a sua volta la parte proiettata viene poi percepita come appartenente all’altro individuo. Chi riceve la proiezione è indotto a identificarsi, quindi a pensare, sentire e agire in maniera conforme con il particolare aspetto che il primo soggetto ha rifiutato. Quando questo meccanismo di difesa viene messo in atto all’interno del setting, il paziente non si limita a vedere il terapeuta in base alle proprie relazioni oggettuali passate, ma esercita delle “pressioni” emotive per fargli sperimentare sé stesso in base alla fantasia inconscia dominante.
In sintesi l’identificazione proiettiva descrive:
un’interazione interpersonale (la pressione di un soggetto su un altro per soddisfare la fantasia proiettiva); l’attività fantasmatica dell’individuo che agisce la difesa; l’interazione tra la dimensione intrapsichica e interpersonale.
Esempio clinico:
“A. diceva frequentemente di voler mettere il suo cervello malato nel terapeuta, che avrebbe quindi dovuto ossessivamente addizionare i numeri di ogni targa automobilistica che vedeva e sarebbe stato tormentato ogni volta che toccava un oggetto non suo, dal timore che la gente lo accusasse di cercare di rubarlo. Il paziente rese evidente che la sua fantasia non era semplicemente quella di liberarsi di qualcosa: era quella di vivere in un’altra persona e di controllarla dall’interno. Il suo cervello malato avrebbe tormentato, nella fantasia il terapeuta dall’interno, proprio come normalmente tormentava il paziente”. Ogden offre un esempio molto chiaro per comprendere l’esperienza condivisa tra analista e paziente: il soggetto è il regista e, allo stesso tempo, uno degli attori principali della rappresentazione interpersonale, basata su una relazione oggettuale interiorizzata; il terapeuta è un attore inconsapevole della parte che gli è stata attribuita. L’identificazione proiettiva si rivela essere, allora, il processo con cui al terapeuta vengono date indicazioni di regia per recitare un dato ruolo.
Esempio clinico:
“Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all’analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall’analisi “ci guadagnava qualcosa”, diceva “forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile”, e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle sempre più in ritardo, fino al punto che l’analista incominciò a chiedersi se il paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l’analista pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell’inizio di una seduta, l’analista pensò di accorciare l’ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l’analista. Gradualmente, l’analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente “il valore di quello che lui pagava”. Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l’analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo “inutile” lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l’analista fu capace di guardare ora in modo nuovo al materiale clinico. Il padre del Sig. K. aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l’avidità del paziente per il tempo, l’energia e l’affetto della madre aveva provocato l’abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all’analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l’abbandono da parte del padre (transferale) e l’attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell’analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l’analista e l’analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L’interazione aveva sottilmente generato nell’analista un intenso sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all’inizio anch’egli cercò di negarlo e sconfessarlo. Per l’analista, il primo passo nell’integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell’aspetto di se stesso che era interessato alla comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell’analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell’analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l’analista diventava consapevole di questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro. Dopo un pò di tempo il paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l’analista sembrava felice di ricevere “quel bel grasso assegno”, e che ciò “non si addiceva molto ad uno psichiatra”. L’analista sorrise un pò, e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione, l’accettazione da parte dell’analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l’internalizzazione da parte del paziente. L’analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la reinternalizzazione attraverso l’interazione terapeutica”. Vediamo in sintesi cosa emerge da questa interazione: a causa della scarsa puntualità nei pagamenti del Sig. K. l’analista inizia a sentirsi inutile e avido di denaro (“si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo inutile lavoro”), ovvero comincia a interpretare un ruolo all’interno dell’identificazione proiettiva del paziente; sentendosi in colpa per i suoi sentimenti di avidità, l’analista cerca di correggerli regalando qualche minuto in più alla fine della seduta (… “l’avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo”). Il paziente, percependo l’anomalo comportamento del terapeuta, vede riconfermata la sua patologia, cioè la paura e la vergogna ad ammettere di essere una persona colpevole di essere avida di affetto. Il terapeuta però dopo qualche tempo comincia a pensare che quello che lui sente dentro potrebbe anche essere una proiezione del paziente. Osservandosi internamente sente di poter accettare questi sentimenti integrandoli con altri aspetti della sua personalità (“egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato”) così arriva a mostrare al paziente che si può anche provare avidità, e parlarne, e non per questo esserne sopraffatti con il conseguente abbandono da parte di figure importanti. L’analista, alla fine dell’interazione, non usa una classica interpretazione per chiarire ciò che è successo, ma semplicemente interagisce col paziente manifestando di accettare i sentimenti proiettati (“L’analista sorrise un pò e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro”).
A cosa serve l’identificazione proiettiva e come può essere utilizzata?
Il paziente utilizza tale modalità difensiva per liberarsi di una parte di sé che rifiuta e per restare legato al precario equilibrio interiore; d’altra parte può utilizzarla per fare in modo che l’aspetto inserito nell’altro venga salvato e protetto. Dal canto suo l’analista, grazie all’interazione difensiva, ha accesso ad una ricchissima fonte di dati – pensieri e sentimenti – sul mondo interiore del soggetto ed ha la possibilità di integrare la comprensione della propria esperienza interiore con quella trasmessa e vissuta dall’altro. Lo strumento terapeutico diviene la capacità dell’analista di ricevere le proiezioni del paziente, utilizzando aspetti della propria organizzazione psichica per trasformare i frammenti emotivi ricevuti, rendendoli digeribili e pronti per essere reincorporati, come materiale adatto per la crescita esperenziale dal paziente stesso. È un lavoro molto difficile quello di funzionare da “contenitore” delle pressioni emotive del paziente che spesso sono di natura aggressiva e svalutante e inducono il terapeuta ad intervenire o a fuggire da esse; l’Autore suggerisce di non agire direttamente sui sentimenti che si sono manifestati, infatti è alto il rischio che il contenimento fallisca e il terapeuta introduca nuovamente nel paziente gli aspetti del sé che questi stava cercando disperatamente di allontanare. I vissuti scaricati dal soggetto sono comunicazioni da comprendere e accettare attraverso una particolare condizione emotiva del terapeuta che Ogden chiama rêverie analitica: essa consiste in uno stato onirico ad occhi aperti che può prendere qualsiasi forma – frammenti di film, musiche, ricordi personali, sensazioni corporee etc. – e implica un allontanamento dalla logica del reale, per sentire più distintamene cosa si muove nell’inconscio. I frammenti e le immagini scaturite durante la rêverie apparentemente sembrano scollegate da ciò che il paziente dice o fa; al contrario sono in profonda connessione con ciò che in quel momento sta succedendo nel setting, infatti lo studioso sostiene che i sogni e le rêverie prodotti dalla coppia analitica derivano, non solo dalle esperienze interiori individuali, ma da una costruzione intersoggettiva inconscia, il cosiddetto “terzo analitico”, un terzo soggetto con vita propria generato dalla fusione emotiva dei due protagonisti. Quindi il sogno e la rêverie appartengono all’attività del terzo analitico, secondo una costruzione progressiva sinergica ancorché asimmetrica. In questo luogo altro si esprimono tutta una serie di sentimenti legati all’angoscia dominante attualizzata nel transfert e nel controtransfert e la rêverie è lo strumento per riuscire ad entrare in contatto con il prodotto del terzo analitico intersoggettivo. Solitamente l’analista vive la sua rêverie come un’intrusione disturbante, una manifestazione di stanchezza, di problemi personali o ritiro narcisistico: al contrario Ogden sostiene di affidarsi a questo tipo di silenziosa esperienza come ad una bussola emotiva, per cogliere le giuste indicazioni su quello che sta accadendo nella relazione.

Esempio clinico:
“In una recente seduta il Sig. W. mi ha detto, con un tono di intenso coinvolgimento, di essere molto spaventato quando si sente mentalmente fuori controllo.Il Sig. W. ha alle spalle 2 matrimoni, entrambi terminati con il suo abbandono di moglie e figli, sentiti ormai estranei.Ha aggiunto che io sono l’unica persona alla quale abbia pienamente rivelato tutta la sua ‘follia’. Mentre il Sig. W. parlava, la mia mente vagava intorno a pensieri sull’imminenza del mio cinquantesimo compleanno. Ho ricordato una conversazione con un mio amico, al quale avevo raccontato, tra il serio e il faceto, che mi apprestavo a gestire il passaggio dei cinquanta rifiutandomi di crederci. A posteriori ho sentito questa spiritosaggine come un tentativo troppo consapevole di dimostrarmi arguto. Mi sembrava di aver insistito troppo nello scherzo e, con il procedere della conversazione nella mia mente, mi sentivo sempre più imbarazzato. Riportando l’attenzione su ciò che diceva il Sig. W. ho cercato di inserire la mia rêverie nel contesto della relazione analitica presente. Dopo un po’ ho detto al Sig. W. che, pur credendo che fosse sinceramente spaventato dal livello cui gli sembrava fossero giunte la sua follia e mancanza di controllo, avevo comunque la sensazione che altre volte riuscisse a rendere quel senso di sé così irreale da non credere che facesse parte di ciò che egli era. Il Sig. W. rimase in silenzio per qualche istante, poi ha detto (con un tono che sembrava molto più sollevato dalla precedente pressione) che quando parla dell’analisi come di qualcosa di “elettivo”, la sua follia gli sembra come appartenere a un lontano passato o perfino ad un’altra persona, qualcuno che conosce bene, ma che non è completamente lui. “Non è che penso che si veramente un’altra persona, ma neanche mi sembra di essere io”. Ogden ha usato terapeuticamente una serie di sentimenti e pensieri emersi spontaneamente dentro di lui, durante la seduta. Apparentemente questo materiale sembrava sconnesso rispetto al racconto del paziente tuttavia, nel corso del tempo, si è fatta più chiara la forte connessione tra il rifiuto dell’analista di credere che stava per compiere 50 anni e il rifiuto del Sig. W. di essere consapevole del suo lato fuori controllo (“… mi apprestavo a gestire il passaggio dei cinquanta rifiutandomi di crederci”… “Non è che penso che si veramente un’altra persona, ma neanche mi sembra di essere io”).
La rêverie, i sogni e i sintomi sono considerati dall’autore come metafore dell’esperienza inconscia con le quali bisogna giocare creativamente per capire appieno il loro potere trasformativo: come un artista egli riesce ad utilizzare tutto ciò che proviene dalla conversazione col suo paziente, dando vita a esperienze originali e nutrienti per entrambi. Vediamo in concreto come egli utilizza la rêverie nel contesto terapeutico: innanzitutto dall’inizio alla fine della seduta cerca la connessione tra la coppia analitica e due aree sovrapposte dell’esperienza, ovvero 1) come sia la sua sensazione di essere con il paziente in quel dato momento e 2) quale sia la sua percezione dell’angoscia transferale/controtransferale dominante nello stesso momento. All’inizio questi due aspetti dell’esperienza sono entrambi inconsci e attraverso gli elementi che emergono durante la rêverie lentamente è possibile cogliere significati condivisibili. Ogden descrive al paziente ciò che sta accadendo tra di loro (“Dopo un po’ ho detto al Sig. W. che, pur credendo che fosse sinceramente spaventato … avevo comunque la sensazione che altre volte riuscisse a rendere quel senso di sé così irreale da non credere che facesse parte di ciò che egli era”), cercando di parlare in base all’esperienza che vive nella sua rêverie: il risultato è che l’intervento del terapeuta esprime come il paziente stia sentendo la relazione analitica e la relativa angoscia e come quella determinata esperienza sia collegata con altre situazioni vissute sempre nel setting o con persone fondamentali della sua vita. Egli si cala all’interno della relazione cercando costantemente di trasformare l’esperienza di essere ‘io’ come soggetto inconsapevole, nell’esperienza di essere ‘me’, come oggetto di indagine analitica all’interno di quel luogo condiviso che egli chiama ‘terzo analitico intersoggettivo’.
Ogden nei suoi lavori cerca continuamente di chiarire il modo in cui lavora come psicoanalista e il modo in cui concepisce ciò che accade nella stanza d’analisi: la sua posizione, racconta, è il tentativo di cogliere il più possibile i momenti “vivi” di una seduta attraverso la capacità dell’analista di “sognare l’analisi”, ovvero sentire interiormente cosa prova con quel determinato paziente, condividendo con lui lo stato di rêverie in un luogo al confine del sogno.


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Nel 1980 Aldo Carotenuto pubblicò un libro tanto interessante quanto importante: DIARIO DI UNA SEGRETA SIMMETRIA. SABINA SPIELREIN TRA JUNG E FREUD. Degli ultimi due si è detto tanto, i loro nomi sono ormai noti sia agli esperti che ai profani di psicanalisi. Mi piacerebbe invece spendere qualche parola per l’unica donna in questione, Sabina Spielrein. Il libro di Carotenuto, nella versione in italiano, presenta il diario di Sabina e lettere spedite a Jung e Freud. La versione tedesca, invece, contiene anche le lettere che Jung spedì alla Spielrein. A quasi trent’anni di distanza, questo libro non ha smesso di suscitare curiosità e interesse negli studiosi, come nel pubblico comune e nel mondo dello spettacolo. Esso ha infatti rivelato, per la prima volta, UN EPISODIO SIGNIFICATIVO DELLA STORIA DELLA PSICANALISI, UN EPISODIO CHE È AL TEMPO STESSO UNA COMPLESSA VICENDA UMANA IN CUI SI INTRECCIANO UNA GUARIGIONE ANALITICA, L’ESPLOSIONE DI UN AMORE IMPOSSIBILE e la nascita di grandi idee del nostro tempo.
Sabina Spielrein nacque a Rostov sul Don (Russia) nel 1885, figlia di un ricco mercante ebreo. DURANTE L’ADOLESCENZA RICEVETTE LA DIAGNOSI DI “ISTERIA PSICOTICA” A SEGUITO DI GRAVI PROBLEMI COME ALLUCINAZIONI, ECCESSI DI RISO, URLA E PIANTO E, INFINE, DI DEPRESSIONE. Ricoverata nella clinica psichiatrica di Zurigo, il Burghölzli, PER QUASI UN ANNO, FU SOTTOPOSTA A TRATTAMENTO PSICANALITICO DAL DOTTOR JUNG. LA PSICANALISI ERA ALLORA AGLI INIZI E NÉ JUNG NÉ SABINA CONOSCEVANO BENE LA TESI DEL TRANSFERT E DEL CONTROTRANSFERT. SABINA GUARISCE E SI RIAPPROPRIA DI SÉ GRAZIE ALLA PAROLA, MA QUELLO CHE EMERGE DALLE LETTERE È L’AMORE INTENSO IN CUI I DUE, PAZIENTE E ANALISTA, SI RITROVANO IMPRIGIONATI, INCAPACI DI GESTIRE, CAPIRE, INCANALARE. GRAZIE ANCHE AI CONSIGLI DI FREUD, JUNG TRONCA DOPO SETTE ANNI LA SUA RELAZIONE SCONVENIENTE CON SABINA (ALL’EPOCA JUNG ERA GIÀ SPOSATO). Ritorniamo alla Spielrein. Per molti anni la sua figura è rimasta nell’ombra e solo negli ultimi anni i riflettori si sono accesi sulla storia di questa piccola grande donna. DOPO ESSERE GUARITA E DOPO AVER ATTRAVERSATO LA BURRASCA E LA SOFFERENZA DI UN AMORE IMPOSSIBILE, SABINA NEL 1911 SI LAUREA IN MEDICINA CON UNA TESI SU UN CASO DI SCHIZOFRENIA. Nello stesso anno diviene membro della Società di Psicoanalisi di Vienna, dove si trasferisce. Nel 1912 sposa il medico Pavel Scheftel, da cui ha due figlie, Renate ed Eva. Dieci anni più tardi la coppia tornò in Russia, per stabilirsi a Rostov sul Don. NELLA SUA CITTÀ NATALE, LA SPIELREIN FONDÒ UN OSPEDALE PSICHIATRICO PER BAMBINI, L’ASILO BIANCO. L’asilo bianco rappresenta un esperimento ambizioso in cui Sabina non smise mai di credere: IN ESSO I BAMBINI VENIVANO FATTI CRESCERE IN ASSOLUTA LIBERTÀ, PER AIUTARLI A DIVENTARE UOMINI VERAMENTE LIBERI. Il sogno dell’asilo bianco fu però interrotto durante gli anni della dittatura di Stalin; IL REGIME FECE CHIUDERE L’ASILO E BANDÌ LA PSICOANALISI, inoltre non risparmiò la famiglia di Sabina: due suoi fratelli furono deportati ed uccisi. A Sabina il destino non riservò una fine migliore: morì, nel 1942, fucilata dai nazisti in una sinagoga, insieme alle sue figlie e ad un altro centinaio di ebrei. L’opera di Sabina ha fortemente influenzato il pensiero di Freud e di Jung. IN  AL DI LÀ DEL PRINCIPIO DEL PIACERE FREUD CITA LA SPIELREIN (lo fa una sola volta in tutta la sua opera) SPIEGANDO CHE NEL SUO RICCO E INTENSO LAVORO, CHE SFORTUNATAMENTE NON MI È DEL TUTTO CHIARO, SABINA SPIELREIN AVEVA ANTICIPATO UNA CONSIDEREVOLE PARTE DELLE SUE MEDITAZIONI ED AVEVA ANCHE NOTATO UNA COMPONENTE SADICA DELLA PULSIONE SESSUALE COME UNA “PULSIONE DISTRUTTIVA”. INOLTRE, LA SUA RELAZIONE CON JUNG EBBE CONSEGUENZE SULLO SVILUPPO DEL CONCETTO DI CONTROTRANSFERT E SULL’ELABORAZIONE DEL CONCETTO DI PULSIONE DI MORTE FORMULATO DALLO STESSO FREUD.
La storia professionale e umana di Sabina è stata raccontata in numerosi libri e ha trovato posto anche in LAVORI TEATRALI COME SABINA (1988) DI SNOO WILSON E THE TALKING CURE ( 2003 ) DI C. HAMPTON.
Discreto successo ha ottenuto nel 2002 il regista Roberto Faenza e il suo film “Prendimi l’anima”, con Emilia Fox nei panni di Sabina e Iain Glen in quelli del dottor Jung.
A breve uscirà un nuovo film ispirato alla storia di Sabina, girato da David Cronenberg con Keira Knightley nei panni della psicanalista russa.
E’ interessante notare come negli ultimi anni –finalmente- le storie di donne importanti, come Sabina, hanno ritrovato nuova luce e soprattutto posto accanto a quello dei grandi uomini di sempre.
In una semplice frase di Sabina possiamo racchiudere la sua vita, la sua sofferenza e il suo lavoro:
QUANDO MORIRÒ VOGLIO ESSERE SEPPELLITA SOTTO UNA QUERCIA, E VOGLIO CHE QUALCUNO SCRIVA: “ANCHE LEI ERA UN ESSERE UMANO.”

http://www.letteratu.it/2011/03/la-storia-di-una-donna-sabina-spielrein/



Aldo Carotenuto, Diario di una segreta simmetria
Quando si proietta sull’altro, simbioticamente, il proprio mondo interno, ci si aspetta che egli si comporti esattamente come noi: l’altro non esiste in quanto persona autonoma, perché è totalmente investito dalla nostra volontà di farlo esistere nella forma di una nostra propaggine; ma al tempo stesso si reclama da lui un’autonomia di pensiero e di azione che ci renda liberi dalla schiavitù del legame eterno.
Quello che si desidera è antiteticamente ciò che più si teme, e il partner si trova nella difficile posizione di dover risolvere una richiesta di contemporaneità: quella di un’assenza di volontà autonoma, come incarnazione del desiderio altrui, e quella di una presenza indipendente che, al momento opportuno, libera l’altro dal senso di asfissia:
[lettera di Jung a Spielrein] "(…) Lei non immagina quanto significhi per me la speranza di poter amare una persona che non devo maledire e che non condanna se stessa a soffocare nella banalità dell’abitudine". Questo è quello che si richiede a un’esistenza idealizzata; (…) ma l’ideale, si sa, collocato nella realtà è costretto a crollare miseramente.
Le parole di Roland Barthes sembrano uscite da una pagina autobiografica di Jung o di Sabina, ma rappresentano una sorta di legge dell’annullamento degli amanti, in ragione della quale non esiste quiete o certezza di appagamento nell’animo di colui che ama: [in Rolande Barthes, Frammenti di un discorso amoroso]" L’altro è dunque annullato dall’amore: da questo annullamento, io ricavo un sicuro vantaggio; non appena sono minacciato da un dolore accidentale […], lo riassorbo nella magnificenza e nell’astrazione del sentimento amoroso: mi placo nel desiderare ciò che, non essendoci, non può ferirmi. Tuttavia, subito dopo, soffro vedendo l’altro (che amo) così sminuito, ridotto, e come escluso dal sentimento che lui ha suscitato. Mi sento colpevole e mi rimprovero di volerlo abbandonare". (…)
(…) Il Rapporto fra Spielrein e Jung fu perturbante.
Fu la nascita di un dio che è come il profumo di Baudelaire:
si può goderne ma non è mai completamente qui, è insieme corpo e negazione del corpo. Questo perché l’amore esclude il possesso dell’altro, la sua afferrabilità. Di ciò era cosciente Proust quando scriveva: "capivo l’impossibilità contro cui urta l’amore. Ci immaginiamo che esso abbia per oggetto un essere che può stare disteso davanti a noi, rinchiuso in un corpo. Ahimè! Il vero oggetto è l’estensione di quell’essere a tutti i punti dello spazio e dell’essere che esso ha occupato e occuperà […]. E noi non li possiamo toccare, tutti quei punti".
E Jung, dal canto suo, doveva così scrivere nei Ricordi:
"Quale che sia l’interpretazione che i dotti danno della frase ‘Dio è amore’, il tenore delle parole conferma che la divinità è un complexio oppositorum […]. Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa esso sia […]. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare di uno senza considerare anche l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto". (…)
(…) Ma l’insoddisfazione in analisi purtroppo non riguarda soltanto l’amore; è molto più fonda, più crudele, più irriducibile. La via dell’analisi è per eccellenza la parola, la simbolizzazione. Ma il simbolo è per sua natura insoddisfatto.
Così Hegel: la coscienza è sempre insoddisfatta.
Tutto il linguaggio è un limite: il parlante è il punto medio tra il dicibile e l’indicibile, tra la parola e il silenzio. L’insoddisfazione, la tensione tra l’uso e la possibilità, tra il corpo della parola, pubblico e dicibile, e l’ombra sempre più vasta dell’intenzione, delle risonanze intime, individuali, non più parlabili, sarebbe tipica del linguaggio tutto. A maggior ragione del linguaggio in analisi. Questo sforzo continuo di intendersi, di rendere corpo, uso pubblico o gioco linguistico le immagini-ombre dell’intenzione, è davvero frustrante, crudele. La parola, il logos, è dono di Apollo, il dio obliquo, della violenza raffinata, differita. Come l’arco o il dardo, la parola è una sfida mortale del dio. L’ambiguità dell’enigma è l’arma suprema della violenza apollinea, la freccia più mortale scagliata dal suo arco. I dardi di Apollo sono i pensieri! Ma l’enigma indica l’origine della ragione, l’istigazione a interpretare, l’oscurità della parola come stimolo alla lotta.
Così la psicoanalisi, questo rito della parola, è un agone, una lotta del pensiero. La crudeltà e cerebrale. Chi si espone alla prova, come il sapiente antico di fronte all’enigma del dio, accetta un rischio mortale. L’insoddisfazione è il perno dell’analisi perché insoddisfatto è il linguaggio, il simbolo, la parola. Spesso, per resistere alla prova, si cerca aiuto nel linguaggio dei corpi, più semplice, più dolce, meno crudele. È una fuga, una resistenza, certo. Ma forse è solo consolamentum, una piccola consolazione, un reciproco darsi calore e farsi coraggio per riuscire ad affrontare la crudeltà dell’astinenza e dell’insoddisfazione.” (…)
(Aldo Carotenuto, Diario di una segreta simmetria, 1999, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma)




Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa esso sia (Jung). Affermazione che condivido come moltri pensatori. Mi domando come mai altri, invece, scrivono decine, centinaia, di trattati o libri sull'amore. La risposta è semplice soddisfano il bisogno del se proprio e altrui, negando il senso del me di entrambi dove "l'amore" è inesistente.



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