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giovedì 31 ottobre 2013

Moby dick. Non c’è progresso fermo e irreversibile in questa vita; non avanziamo per gradi fissi verso l’ultima pausa finale: attraverso l’incanto inconscio dell’infanzia, la fede spensierata dell’adolescenza, il dubbio della gioventù (destino comune), e poi lo scetticismo, e l’incredulità, per fermarci alla fine, maturi, nella pace pensosa del Forse. No, una volta arrivati alla fine ripercorriamo la strada, e siamo eternamente bambini, ragazzi, uomini e Forse. Dov’è l’ultimo porto da cui non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai? Dov’è nascosto il padre del trovatello? Le nostre anime sono come quegli orfani le cui madri nubili muoiono nel partorirli: il segreto della nostra paternità giace nella loro tomba, ed è lì che dobbiamo cercarlo


“Tradurre Moby Dick è un mettersi al corrente con i tempi. Il libro – ignoto sinora in Italia – ha tacitamente ispirato per tutta la metà del secolo scorso i maggiori libri di mare. E da qualche decina di anni gli anglo-sassoni ritornano a Melville come a un padre spirituale scoprendo in lui, enormi e vitali, i molti motivi che la letteratura esoticheggiante ha poi ridotto in mezzo secolo alla volgarità. Herman Melville, nato a New York nel 1819 da una famiglia antica e nobilesca, morì a New York nel 1891, dopo essere passato anche per gli impieghi statali, immiserito, sconosciuto e sdegnoso. Ma queste sue infelicità non ci toccano. È la solita sorte dei grandi, su cui piace ai posteri spargere eloquenza, salvo poi a trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo modo. Questa infelicità di Melville anzi ha avuto qualche parte in Moby Dick. Benvenuto, quindi. Poi bisogna ricordare i quattro anni della giovinezza passati su navi baleniere e da guerra, nel Pacifico, nell’Atlantico, tra cacce, tifoni, bonacce e avventure d’inferno o d’arcadia, tutta materia che è stata colata, con un lento lavoro di assimilazione, nelle opere. E l’arcadia c’è in Typee, c’è in Omoo, c’è in Mardi, le storie ispirate dai mesi di vita che l’autore condusse in comune coi cannibali di un’isola oceanica. L’inferno è in WhiteJaeket – spigliato e spietato giornale della vita di bordo su una nave da guerra – e in Pierre, una truce storia morale fallita, che serve a mostrare a quale prezzo, e con quali fatiche l’autore di Moby Dick sia giunto al capolavoro.”
Ottobre 1941, Cesare Pavese




Io amo tutti gli uomini che si tuffano.
Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri o più; e se questa non ce la fa a toccare il fondo, beh, tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo. […] Sto parlando […] dell’intero corpo dei “palombari del pensiero”, che si sono immersi nel fondo per ritornare a galla con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo.
Herman Melville, Lettera a Evert A. Duyckinck, 3 marzo 1849



Essenziale tra questi motivi era la travolgente idea della grande balena in carne e ossa. Un mostro tanto portentoso e misterioso sollevava tutta la mia curiosità. Poi, i mari selvaggi e remoti dov’egli voltolava la sua massa simile a un’isola, i pericoli, indescrivibili e senza nome, della caccia: queste cose, con tutte le concomitanti meraviglie di un migliaio di parvenza e di suoni patagonici, s’aggiungevano a spingermi al mio desiderio. Ad altri uomini, forse, tutto questo non sarebbe stato d’incitamento, ma, quanto a me, io sono tormentato da una smania sempiterna per le cose lontane. Mi piace navigare mari proibiti e approdare su coste barbariche. Non ignorante di ciò che è bene, sono lesto a percepire un orrore, ma non per questo, se ci riesco gli volto le spalle; dato che non è che bene mantenersi in buoni rapporti con gli inquilini del luogo dove si abita.
Herman Melville, “Moby Dick o la Balena”


Ora, perché la balena dovrebbe insistere così a fare le sue sfiatate fuori, se non per riempire il suo serbatoio d’aria, prima di tuffarsi davvero? Quant’è ovvio, perciò, che questa necessità d’emersione esponga la balena a tutti i rischi fatali della caccia! Poiché né con l’amo né con la rete si potrebbe catturare questo immenso Leviatan, quando navigasse a un migliaio di tese sotto la luce del sole. Non tanto quindi la tua abilità, o cacciatore, quanto i grandi bisogni vitali ti dànno la vittoria!
Moby Dick di Herman Melville


"...mi stanno davanti come tanti mucchietti di polvere, e io ne sono la miccia. Oh, è duro che per accendere gli altri anche la miccia debba andare distrutta! Ciò che è osato, l’ho voluto; e ciò che ho voluto lo farò! Mi credono pazzo: Starbuck mi crede pazzo; ma io sono demoniaco, io sono la pazzia impazzita. Quella pazzia selvaggia che è calma solo per capire se stessa! La profezia ha detto che sarei stato smembrato, e difatti! Ho perso questa gamba. Io ora profetizzo che smembrerò il mio mutilatore. E perciò il profeta e l’esecutore siano la stessa persona. Questo è più di quanto avete saputo mai fare voi, grandi dei..."
Herman Melville, Moby Dick



«Vendicarsi di una bestia bruta!» gridò Sturbuck. «Una bestia che t'ha colpito solo per il più cieco istinto! Capitano Ahab, è una pazzia! Provar collera verso un essere bruto mi sembra un'empietà».
"Stammi di nuovo a sentire, amico... andiamo ancora un po' più a fondo. Tutti gli oggetti visibili non sono altro che maschere di cartapesta. Però, in ogni evento – in un atto reale, in un'azione indubbia – lì, un essere sconosciuto, ma comunque razionale, preme da dietro la maschera irrazionale, imprimendovi le proprie fattezze. Se l'uomo vuole colpire, allora che il suo ferro trapassi la maschera! Come farebbe un carcerato a raggiungere l'esterno se non trapassando il muro? Per me, la balena bianca è quel muro, che mi è stato spinto contro. A volte penso che dall'altra parte del muro non ci sia nulla. Ma questo basta già. Mi tiene occupato, mi si impone. Vedo in lei una forza furiosa, innervata da una malignità imperscrutabile. Ciò che odio di più è proprio quella imperscrutabilità, e che la balena bianca ne sia l'agente o il mandante, io le rovescerò comunque addosso il mio odio. E non venirmi a parlare di empietà, amico mio. Colpirei anche il sole, se mi offendesse. Giacché se il sole fosse capace di offendermi, io sarei capace di colpirlo, poiché esiste sempre una sorta di lealtà nel gioco, nella rivalità che regna su tutto il creato. Ma io, amico, non mi lascio comandare nemmeno dal gioco leale. Chi è sopra di me? La verità non ha confini".
Herman Melville, Moby Dick o La Balena



E con questo (Starbuck) sembrava intendere non soltanto che il coraggio più degno di fiducia e più utile è quello che sorge dalla giusta stima del pericolo da affrontare, ma anche che un uomo che non abbia nessuna paura è un compagno di gran lunga più pericoloso di un vigliacco "
Herman Melville, Moby Dick


Poco c’era quindi da dubitare che sempre, fin dal giorno di quell’incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito un feroce desiderio di vendetta, tanto più accanito dacché nella sua insensata morbosità era infine giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone. Quell’intangibile malvagità che è stata al principio delle cose; al cui impero persino i moderni Cristiani ascrivono metà dei mondi; che gli antichi Ofiti dell’Oriente veneravano nel loro demonio scolpito; questa malvagità Achab non cadeva in ginocchio ad adorarla come quelli ma, trasportandone freneticamente l’idea nell’aborrita Balena Bianca, le si lanciava contro, così mutilato com’era. Tutto ciò che più sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, ogni verità che contiene malizia, ogni cosa che schianta i tendini e rapprende il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, ogni male, per l’insensato Achab era visibilmente personificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick. Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l’ira e di tutto l’odio provati dall’intera sua razza dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante. È poco probabile che questa monomania cominciasse in lui nel preciso istante della sua mutilazione fisica. Allora, scagliandosi contro il mostro col coltello alla mano, aveva soltanto sfogata un’improvvisa, appassionata animosità corporale, e quando ricevette il colpo che lo stroncò, egli sentì probabilmente soltanto l’atroce lacerazione fisica, ma nulla più. Pure, quando, essendo egli forzato da quest’incontro a mettere la prora verso la patria.
Herman Melville, Moby Dick


- Oh, Starbuck! E’ un vento dolce, dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quarant’anni fa! Quarant’anni di caccia continua! Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sull’ orrore dell’ abisso! Proprio così, Starbuck, di questi quarant’anni non ne ho trascorsi a terra tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata, all’isolamento da città murata di un capitano che non ammette che ben poche delle simpatie della verde campagna esterna… oh stanchezza! oh peso! Schiavitù africana da comando solitario!… Quando penso a tutto questo, sinora soltanto sospettato, non ho mai veduto così chiaro, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mentre il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana ed ha spezzato il pane fresco del mondo invece delle mie croste muffose.. lontano, lontano oceani interi da quella moglie bambina che ho sposato dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel cuscino nuziale che un’infossatura!
HERMAN MELVILLE, Moby Dick



"De balena vero sufficit, si rex habeat caput, et regina caudam."

Secondo questa legge redatta nell'Inghilterra del XIII secolo, gli storioni, le balene e i delfini sono tuttora definiti Pesci Regali a causa della loro 《superiore eccellenza》 che li rende solo e unicamente proprietá della famiglia regnante. Tale norma fa si che ogniqualvolta venga catturato, importato o si spiaggi uno di questi animali, la sua testa spetti di diritto al re mentre la coda alla regina. Nel romanzo Moby Dick si fa riferimento a questa legge nel capitolo 90 dove si afferma che la coda di una balena serva alla regnante per ottenere dei corsetti dalle ossa. La regola ha poi trovato terreno fertile nei paesi che si affacciano sul mare del Nord ed è stata adottata da numerosi sovrani del tempo.



Sai, Bulkington? È come se tu vedessi bagliori di quella nostra verità insopportabile: che il pensiero, tutto il pensiero serio e profondo, non è che l'impavido sforzo della mente di mantenersi libera in mare aperto, mentre i venti più violenti della terra e del cielo cospirano per gettarla sulla costa miserabile e infida.
Herman Melville, Moby Dick

«Sussultando e sbuffando come un destriero da battaglia impazzito, che abbia perduto il suo padrone, l’oceano senza legge scorre il globo. Considerate l’astuzia del mare: come le sue creature più temute scivolano sott’acqua, senza quasi affatto mostrarsi, perfidamente nascoste sotto le più incantevoli tinte dell’azzurro. Considerate pure lo splendore e la bellezza diabolici di tante delle sue razze più feroci, quali le forme aggraziate ed eleganti di tante specie di squali. Considerate ancora il cannibalismo universale del mare: come tutte le creature si predano a vicenda mantenendosi fin dall’inizio del mondo in guerra eterna. Considerate tutto questo, e poi volgetevi a questa verde dolcissima terra: considerateli entrambi, la terra e il mare, e non scoprite una bizzarra analogia con qualcosa in voi stessi? Poiché, come questo spaventevole oceano circonda la terra verdeggiante, così nell’anima dell’uomo c’è un’insulare Tahiti, piena di pace e di gioia, ma circondata da tutti gli orrori della vita a metà sconosciuta. Che ti protegga Iddio! Non allontanarti da quest’isola, ché potresti non tornare mai più.»
Herman Melville, Moby Dick, o la Balena


Oh, Dio! quali estasi torturanti sopporta colui che è consumato da un'unica inappagata brama di vendetta! Dorme coi pugni serrati; e si sveglia con le unghie piene di sangue che gli trafiggono le palme.
Dio ti aiuti, vecchio [Achab], i tuoi pensieri hanno creato una creatura dentro di te ; e colui che l'intensità del pensiero rende un Prometeo, di quel cuore per sempre si ciberà un avvoltoio; quell'avvoltoio è la creatura stessa che egli crea.
Herman Melville, Moby Dick



"Dobbiamo continuare a inseguire questo pesce assassino finché non affoga l’ultimo uomoDovremo farci tirare da lui in fondo al mare? O farci trascinare all’inferno?
Oh si, continuare la caccia è un’empietà e una bestemmia!"
Herman Melville, Moby Dick


".....quelle fauci! quelle fauci! è questa la fine di tutte le mie preghiere ardenti?
Di tutta una vita di fede? O Achab, Achab, guarda cosa hai fatto. Alla via, timoniere, alla via! No, no, poggia di nuovo! Si volta per assalirci! Oh, la sua fronte implacabile si getta su un uomo a cui il dovere dice che non può fuggire. Signore, stammi accanto!"
Herman Melville, Moby Dick



"La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell'intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone. Quell'intangibile malvagità che è stata al principio delle cose. Tutto ciò che più sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, ogni verità che contiene malizia, ogni cosa che schianta i tendini e rapprende il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, per l'insensato Achab era visibilmente personificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick. Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l'ira e di tutto l'odio provati dall'intera sua razza dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante."
Herman Melville, Moby Dick


Tutti gli oggetti visibili, amico, sono solo maschere di cartone. Ma in ogni cosa che succede, nell’azione viva, nel fatto preciso, lì, c'é qualche cosa di sconosciuto ma sempre ragionevole che sporge il profilo della faccia da sotto la maschera cieca. Se l’uomo vuole colpire, deve colpire la maschera! Come può evadere il carcerato se non forza il muro? Per me la balena bianca è quel muro. Me l’hanno spinto accanto. Qualche volta penso che lì dietro non c'é niente. Ma è sempre abbastanza. Mi chiama alla prova. Mi opprime. In essa vedo una forza che è un oltraggio, con una malizia inscrutabile che l’inneva. Quella cosa incomprensibile è soprattutto ciò che odio. Forse la balena bianca è il mandatario, e forse è il mandante, ma io gli rovescerò addosso questo mio odio. Non mi parlare di blasfemia, amico; colpirei il sole se mi offendesse. Perché se il sole potesse offendermi, io potrei colpirlo; perché c'é sempre una specie di lealtà nel gioco, e la rivalità presiede su tutta la creazione. Ma io non mi sento soggetto neanche a questa lealtà. Chi è sopra di me? La verità non ha limiti.
Herman Melville, Moby Dick


Un desiderio tanto più accanito perché nella sua smania morbosa egli era arrivato al punto da identificare con la bestia non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La balena bianca gli nuotava davanti agli occhi come l’incarnazione ossessiva di tutte quelle forze del male da cui certi uomini profondi si sentono azzannare nel proprio intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone. Quella malvagità inafferrabile che è esistita fino dal principio, al cui regno perfino i cristiani d’oggi attribuiscono metà dei mondi, e che gli antichi Ofiti dell’oriente veneravano nel loro demonio di pietra, Achab non cadeva in ginocchio per adorarla come loro, ma ne trasferiva allucinato l’idea nell’aborrita balena bianca e le si piantava contro, così mutilato com’era. Tutto ciò che sconvolge e tormenta di più tutto quel che rimescola la feccia delle cose, ogni verità farcita di malizia, ogni cosa che spezza i tendini e coagula il cervello, tutti i subdoli demonismi della vita e del pensiero, ogni male insomma, per quell’insensato di Achab, era personificato in modo visibile e reso raggiungibile praticamente in Moby Dick.
Herman Melville, Moby Dick



Il più sincero tra gli uomini è l'Uomo dei Dolori del libro di Isaia, e il più vero dei libri è quello di Salomone, e l'Ecclesiaste è l'acciaio temperato della sofferenza. "Tutto è vanità" TUTTO. Questo mondo caparbio non ha ancora assimilato la saggezza del non cristiano Salomone. Ma chi scansa prigioni e ospedali, e traversa in fretta i cimiteri, e preferisce parlare di bel canto anziché dell' inferno; chi considera Cowper, Young, Pascal e Rousseau dei poveri malati, e per un'intera spensierata esistenza giura sulla suprema saggezza di Rabelais, che proprio per questo lo diverte da matti... questo non è l'uomo adatto a sedere su una pietra tombale, e a calpestare il verde, umido muschio assieme al grandissimo, meraviglioso Salomone. Ma perfino Salomone sostiene che "l'uomo che si allontana dalla via della sapienza rimarrà (mentre è ancora in vita) nella congregazione dei morti". E dunque non abbandonarti al fuoco, affinché non ti faccia girare su te stesso fino a tramortirti, come accadde a me in quell'occasione.
Esiste una saggezza che fa male, ma anche un dolore che è pazzia. In certe anime si libra un'aquila reale capace di tuffarsi in picchiata nelle gole più buie, per riemergere e salire talmente in alto da confondersi col sole. E perfino se restasse per sempre nella gola, quella gola si trova pur sempre tra le montagne, per cui anche nel punto più basso l' aquila di montagna volerà sempre più in alto dei suoi simili di pianura, per quanto questi tentino di innalzarsi."
Herman Melville, Moby Dick o la balena


"Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m'interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto."
[Incipit di 'Moby Dick', di Herman Melville nato il 1 agosto 1819]


Ero un buon cristiano; nato e cresciuto nel seno dell’infallibile Chiesa Presbiteriana.  Come potevo allora unirmi a questo selvaggio  idolatra nell’adorazione del suo pezzo di legno?
Ma pensai, che cos’è un culto? Credi davvero, Ismaele, che il Dio magnanimo del cielo e della terra (pagani e tutti quanti inclusi) può essere mai geloso di un insignificante pezzetto di legno nero? E' impossibile. Allora cos’è il culto? Fare la volontà di Dio. Questo vuol dire culto. E che cos’è la volontà di Dio? Fare agli altri quello che mi piacerebbe avere fatto dagli altri, questa è la volontà di Dio. Ora Queequeg è il mio prossimo. E cosa vorrei che facesse per me questo Queequeg? è logico, unirsi a me nella mia speciale forma di culto presbiteriana. Di conseguenza, debbo unirmi a lui nella sua; ergo, debbo diventare idolatra. 
Herman Melville, Moby Dick


Mi sembra che abbiamo enormemente frainteso questa faccenda della Vita e della Morte.
A me sembra che ciò che chiamano la mia ombra qui sulla terra sia la mia vera sostanza.
A me sembra che nel guardare alle cose spirituali noi somigliamo fin troppo alle ostriche, che osservano il sole attraverso l'acqua e ritengono quell'acqua la più rarefatta delle atmosfere.
A me sembra che il mio corpo non sia che la feccia del mio essere migliore.
In realtà, si prenda il mio corpo chi vuole, se lo prenda pure, dico, tanto non sono io.
E allora tre evviva per Nantucket, e la lancia sfondata e il corpo sfondato vengano quando vogliono, ché l’anima non può sfondarmela neanche Giove in persona.


Oh vita! Eccomi qua, superbo come un dio greco, eppure debitore a questo sciocco di un osso su cui reggermi! Maledetti questi reciproci debiti umani che non possono fare a meno di libri mastri. Vorrei essere libero come l’aria, e invece sono segnato nei registri di tutto il mondo. Sono così ricco, che avrei potuto controbattere ogni offerta dei Pretoriani più ricchi all’asta dell’impero romano, che era l’asta del mondo; eppure sono debitore anche della carne della lingua con cui mi vanto. Perdio! Prenderò un crogiolo e mi ci butterò dentro, per dissolvermi in una piccola concisa vertebra. Davvero.
Herman Melville, Moby Dick


Non c’è progresso fermo e irreversibile in questa vita; non avanziamo per gradi fissi verso l’ultima pausa finale: attraverso l’incanto inconscio dell’infanzia, la fede spensierata dell’adolescenza, il dubbio della gioventù (destino comune), e poi lo scetticismo, e l’incredulità, per fermarci alla fine, maturi, nella pace pensosa del Forse. No, una volta arrivati alla fine ripercorriamo la strada, e siamo eternamente bambini, ragazzi, uomini e Forse. Dov’è l’ultimo porto da cui non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai? Dov’è nascosto il padre del trovatello? Le nostre anime sono come quegli orfani le cui madri nubili muoiono nel partorirli: il segreto della nostra paternità giace nella loro tomba, ed è lì che dobbiamo cercarlo.
Herman Melville, Moby Dick



“La cosa che forse tra l’altro faceva di Stubb un uomo così facile e senza paure, che così allegramente se ne faticava sotto il peso dell’esistenza in un mondo pieno di merciaiuoli cupi, tutti curvati a terra dai fardelli, la cosa che lo aiutava a portare in giro quel suo buonumore quasi empio, doveva essere la sua pipa. Poiché, come il naso, la sua corta pipetta nera era una delle fattezze abituali del suo volto. Vi sareste quasi aspettato che lui scendesse dalla cuccetta senza naso piuttosto che senza pipa. Teneva là un’intera file di pipe cariche, infilate in una rastrelliera, a stretta portata di mano, e ogni volta che andava a letto le fumava tutte successivamente, accendendole l’una dall’altra fino alla fine del capitolo e poi ricaricandole perché fossero di nuovo pronte. Poiché Stubb, quando si vestiva, invece di cacciare prima di tutto le gambe nei calzoni, si cacciava in bocca la pipa.
Secondo me, questo continuo fumare doveva essere stata almeno una delle cause della sua particolare disposizione. Poiché ognuno sa che quest’aria terrena, sia a terra che in mare, è terribilmente infetta dalle infelicità degli innumerevoli uomini che sono morti esalandola, e come al tempo del colera certuni vanno in giro con un fazzoletto canforato sulla bocca, così, allo stesso modo, contro tutte le tribolazioni mortali, il fumo di tabacco di Stubb poteva aver operato come una sorta di disinfettante.”
Herman Melville, Moby Dick. La pipa di Stubb, dal capitolo XXVII di “Moby Dick o la Balena” di Herman Melville



“Come la calma profonda [...] è forse più spaventosa della tempesta stessa, poiché di fatto essa è soltanto l’involucro, la busta della tempesta, e la contiene dentro di sé [...] così l’aggraziato riposo della lenza, dov’essa silenziosamente s’abbiscia in mezzo ai rematori prima che venga messa in azione, quest’immobilità incute più reale terrore di qualunque altra parvenza nella pericolosa faccenda [...] Tutti gli uomini vivono ravvolti in lenze da balena. Tutti sono nati con capestri intorno al collo; ma è solamente quando vengono presi nel rapido, fulminio giro della morte, che i mortali diventano consci dei muti, sottili, onnipresenti pericoli della vita. E se voi foste un filosofo, sebbene seduto in una lancia baleniera non sentireste in cuore un briciolo di terrore più che seduto davanti al vostro fuoco serale con un attizzatoio, e non un rampone, accanto”
Herman Melville, Moby Dick


Dopo che il Parsi fu sparito, avvenne che fossi io colui che le Parche destinarono a prodiere di Achab, quando quel prodiere prese il posto vacante; e sempre io colui che, quando l'ultimo giorno i tre uomini furono sbalzati fuori dalla lancia rollante, fu sbattuto a poppa. Così, galleggiando ai bordi della scena che seguì ed essendone in tutto spettatore, quando il risucchio affievolito della nave affondata mi raggiunse, allora venni trascinato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando vi giunsi, si era placato in una pozza di lattea schiuma. In tondo, allora, sempre in tondo a circoli via via più stretti che mi avvicinavano alla bolla nera simile a un bottone, sull'asse di quel cerchio che roteava lento, novello Issione io girai. Infine, toccando quel centro vitale, la bolla nera scoppiò; e allora, liberata dalla sua molla ingegnosa e risalita con gran forza, per la sua leggerezza, alla superficie, la bara-salvagente sfrecciò in tutta la sua lunghezza fuor d'acqua, ricadde, e mi galleggiò accanto. Tenuto su da quella bara, quasi per tutto il corso d'un giorno e d'una notte fluttuai su di un oceano molle e funereo. Inoffensivi, i pescicani mi guizzavano accanto come se avessero un catenaccio alla bocca; i selvaggi falchi marini trascorrevano via col becco inguainato. Il secondo giorno, un veliero si avvicinò e mi raccolse, finalmente. Era la «Rachele» che incrociava raminga e che, tornando sui suoi passi alla ricerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano
Herman Melville, Moby Dick



Clarel è senz'altro la meno conosciuta fra le grandi imprese di Melville. Ma si sa che la sua opera non delude mai ed è piena di rivelazioni anche negli angoli più riposti. Diciottomila versi suddivisi in centocinquanta canti, irti di allusioni e significati occulti, uno scosceso massiccio poetico, versi che fanno «trasalire alla lettura» per la loro «virtù profetica». Egli parla ai nostri attimi di pace, di indifferenza, di sovranità; lascia che risuonino tutte le voci, e le estreme di preferenza, quelle che negano ogni senso (mondano) alla vita; permette a ogni germe di crescere e di offrire alla mente il suo frutto: nulla reprime. È un eroe gnostico.
Elemire Zolla


Fermati, Morte! ti prego!
Offri gentile la tua mano
a lei che guidi in luoghi assai lontani;
non farle calpestare a piedi nudi
la cenere, ma lasciala provare
teneri muschi nel suo camminare,
ovunque vi volgiate. Schiva l’Orco;
punta dove le terre son cullate
dal chiardiluna – prati muti e solitari,
ove mai una foglia vien soffiata
da giglio nella mano di Azzaele.
E là, finché non giunga l’amor suo,
dàlle miele selvaggio e sacrosanto,
seducendola con squisiti incanti.
Herman Melville, Clarel, pellegrinaggio in Terrasanta





Pietro Cerudelli 

Per realizzare il suo capolavoro Melville trasse spunti dal periodo della sua vita trascorso sulle navi, anche baleniere. E inoltre s'ispirò ad un fatto realmente accaduto: quello della lotta implacabile tra una baleniera e un grande capodoglio al largo della costa sudamericana.




Filippo Livorno 
Mi dispiace contraddirla , ma nel caso del romanzo Moby Dick io direi l'eterna lotta dell'uomo contro la natura ( la balena ) che viene alla fine dominata e sopraffatta.




Il romanzo di ben 500 pagine dello scrittore e critico letterario statunitense Herman Melville, (1819/1891 )“Moby Dick o la balena”, frutto anche di tormentate esperienze personali, fu pubblicato nel 1851, tradotto in italiano per la prima volta dallo scrittore Cesare Pavese nel 1932, “un vero e proprio poema sacro, cui non son mancati né il cielo né la terra a por mano”(Pavese). In realtà, il romanzo, che ha dato luogo a vari chiavi di lettura, é disseminato di varie riflessioni filosofiche, scientifiche, letterarie ed artistiche. La vicenda si svolge in mare, quel mare “titanico e biblico”, (Cesare Pavese) con il suo protagonista il narratore, Ismaele e il capitano Achab che é l'antagonista “grand'uomo, senza religione, simile a un dio".....il quale "è stato all'università e insieme ai cannibali"..... su cui si incentra insieme alla balena bianca cui da ossessivamente la caccia, l'intero svolgimento della narrazione. Ma chi é Achab? Achab é il capitano che guida la baleniera Pequod su cui si é imbarcato anche Ismaele il protagonista narratore del romanzo e alter ego di Melville, nulla sapendo degli oscuri intenti che tormentano il comandante, che in effetti vuole dirigere la rotta solo per dare la caccia ed uccidere Moby Dick, la balena bianca rea di avergli mutilato la gamba dal ginocchio in giù, costringendolo a rimediare con una protesi ricavata da una mascella di capodaglio....”è stato Moby Dick che mi ha disalberato […] è stata quella maledetta Balena Bianca a rasarmi, a far di me per sempre un buono a nulla incavigliato! […] e le darò la caccia oltre il Capo di buona Speranza, al di là del Capo Horn, al di là del grande Maelstrom di Norvegia, oltre le fiamme della perdizione, prima di abbandonarla”. Parole cariche di quello che sarà un odio per la balena che sarà altrettanto auto-distruttivo per il nostro Achab,mcome vedremo ....”Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo nemico formano una paradossale coppia di inseparabili” (C. Pavese). Ma la balena é solo una proiezione, di “un idea fissa e incurabile” di quel fantasma che abita Achab contro cui lotta dando in realtà una caccia tormentosa ad un altro se stesso, quella balena misteriosa, che appare e scompare con i suoi guizzi tra i flutti, per inabissarvisi, inafferrabile e insondabile come la sua cupa dimora. Qualcuno l'ha definita l'emblema del sacro, “il trascendente che affiora mostrando per un istante la sua ambiguità incomprensibile.” La balena..
”Tutto ciò che più sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, ogni verità che contiene malizia […] tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, ogni male, per l’insensato Achab era visibilmente personificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick........... Achab , non a caso portava nel volto impresse le stimmate di questo tormento ”Aveva l'aspetto di un uomo staccato dal rogo quando il fuoco ha devastato, trascorrendole tutte le membra, ma senza consumarle o rubar loro una sola particola della compatta e vecchia robustezza.. La sua figura, alta e grande, sembrava fatta di solido bronzo e modellata in un indistruttibile stampo, come il Perseo fuso del Cellini.”
Dice Melville: “Tutti gli uomini tragicamente grandi sono tali attraverso qualcosa di morboso”, d'altro canto gli eroi tragici che popolano la Tragedia greca da Medea ad Antigone a quelli del teatro elisabettiano che in Shaskespeare trova il suo più grande ed emblematico rappresentante, quindi da Amleto a Re Lear, non ci raccontano proprio questo? Eschilo ne”I Persiani, ci avverte che «Le passioni portano all’ira e questa sostiene la colpevole follia», ed Achab non é forse un eroe tragico della letteratura moderna preda di una hybris implacabile che mossa da un narcisismo ferito lo condurrà ad una “colpevole follia”? Eppure Achab ha momenti di cupa riflessione che gli fanno dire «Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata […]. Mi sento stracco a morte, piegato, ricurvo come se fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli». Ciò nonostante, non desiste fino al dramma finale con il suo doppio ..la Balena bianca il cui vano inseguimento, lo condurrà a morte ad opera del suo stesso arpione.... "Un uomo cadde in mare e si disperse tra i flutti". A nulla valgono le parole del primo ufficiale Starbuck che dice ad Achab”Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei!». Ma il desiderio, si sa é accecante, come d'altro canto evocato dal suo etimo, tutto in quel de privativo e in quel sidus -sideris, che allude ad uno sguardo privo di luce, senza stelle, un desiderio che si rivelerà desiderio di morte, che coinvolgerà l'intero equipaggio del Pequod. Infatti Achab finirà per danneggiare irrimediabilmente anche la baleniera, nella lotta contra Moby Dick, che affonderà insieme a tutti i membri dell'equipaggio. Mentre muore Achab urla. ”A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci: fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro”. Si salverà solo Ismaele, il narratore, infatti se omen e nomen, nel nome il destino, il suo nome dall'ebraico significa “Dio ascolta” o "Dio ascolterà" e persino “Dio ha esaudito o "Dio mi ascolta" quindi, Ismaele é depositario di una particolare protezione di un destino già iscritto nel suo nome che lo vuole salvato da Dio.
Quanto ad Achab che “cadde in mare e si disperse tra i flutti“ il suo destino é segnato da Melville nelle prime pagine del romanzo quando dice “Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto”. Lungo il cammino della vita forse tutti noi rischiamo di incontrare una balena bianca “ [...].



https://youtu.be/iXtC0wXxuSE










mercoledì 30 ottobre 2013

Orson Welles. La guerra dei mondi. E’ conosciuta come la più grande beffa mediatica del nostro secolo. Una farsa capace di gettare nel panico migliaia di americani provenienti da ogni strato sociale. Un radiodramma che cambiò definitivamente non solo la carriera del suo artefice, ma tutto lo studio sociologico sugli effetti dell’esposizione ai contenuti massmediatici. Stiamo parlando della celebre versione radiofonica di La Guerra dei Mondi realizzata da Orson Welles. Da quel giorno in poi fu assai più evidente da una parte l’enorme potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa, dall’altra quanto fosse presente il rischio di manipolazione e canalizzazione dell’opinione pubblica da parte di tali mezzi. Come spesso accade, la descrizione dell’evento stesso può esserci d’aiuto per capire meglio le dinamiche che hanno permesso ad un semplice radiodramma di scatenare una serie di reazioni a catena capaci di suscitare il reale terrore degli ascoltatori.

Mi guardo intorno atterrito e scruto i miei simili. Vedo visi intelligenti e luminosi, altri cupi e pericolosi, altri irresoluti e falsi. Non trovo un volto che abbia la calma umanità di un essere ragionevole. Mi sembra che, in tutti, l’animalità stia per avere il sopravvento.”
Orson Welles, L’isola del dottor Moreau, Mursia 1977, pagina 118.


Sai che diceva quel tale? In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto assassini, guerre, terrore e massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e di democrazia e cosa hanno prodotto? Gli orologi a cucù.
Orson Welles, Harry Lime dentro “Il terzo uomo”


Le nostre opere nella pietra, sulla tela o nella stampa, di rado vengono risparmiate per qualche decennio, o per un millennio o due, ma alla fine ogni cosa viene annullata dalla guerra, o si cancella nell'ineluttabile cenere universale. Trionfi e inganni, tesori e falsi. È la realtà della vita: dobbiamo morire. Ma siate allegri: dal passato vivente ci giungono le grida degli artisti morti, tutte le nostre canzoni verranno messe a tacere, ma cosa importa? Continuiamo a cantare. Forse il nome di un uomo non è poi così importante.
Orson Welles - F come falso (1974)



Gli uomini, infinitamente soddisfatti di se stessi, percorrevano il globo in lungo e in largo dietro alle loro piccole faccende, tranquilli nella loro sicurezza d'esser padroni della materia.
Non è escluso che i microbi sotto il microscopio facciano lo stesso.
H. G. Wells - La guerra dei mondi


“Qualcuno dice che io sono pessimista nei confronti della radio.
La verità è che ho previsto la sua completa sparizione. Confido infatti che tutte quelle brave persone che oggi si divertono ad ascoltarla, riusciranno a trovare quanto prima un passatempo più intelligente.” 
 H. G. Wells


30 ottobre del 1938: « Signore e signori, vogliate scusarci per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News…sulla Terra sono sbarcati gli extraterrestri. »
Sono le 20 di un qualunque 30 ottobre. Immaginate di accendere la radio. Immaginate che alla radio un cronista interrompa le trasmissioni per annunciare l’impatto imminente di un oggetto non identificato sulla Terra e che poi quello stesso cronista vi dica che non si tratta di un asteroide, ma di una navicella di alieni con pessime intenzioni. Cosa fareste? Continuereste ad ascoltare o vi prenderebbe il panico?
I radioascoltatori sintonizzati con la CBS il 30 Ottobre 1938 optarono per il panico, quando un ventitreenne Orson Welles inscenò a sorpresa la suddetta invasione aliena, interpretando la "Guerra dei mondi”, sceneggiato radiofonico adattato dall’omonimo romanzo di fantascienza dello scrittore britannico Herbert George Wells e seminando, così, il terrore in tutti gli Stati Uniti.
Il programma simulava un notiziario speciale, inserendo negli intermezzi della normale programmazione radiofonica, aggiornamenti sull’atterraggio degli extraterresti negli Stati Uniti.
Tra le innumerevoli telefonate che giunsero al centralino del New York Times, ve ne fu una di un uomo che chiese, seriamente: "A che ora è la fine del mondo?".
Lo stesso Welles si rese conto solo il giorno dopo del putiferio che aveva scatenato dichiarando: “Avevamo sottovalutato l'estensione della vena di follia della nostra America”.






30 ottobre 1938 - LA GUERRA DEI MONDI DI ORSON WELLES
Cronaca di un radiogramma che gettò nel panico gli Stati Uniti

E’ conosciuta come la più grande beffa mediatica del nostro secolo. Una farsa capace di gettare nel panico migliaia di americani provenienti da ogni strato sociale. Un radiodramma che cambiò definitivamente non solo la carriera del suo artefice, ma tutto lo studio sociologico sugli effetti dell’esposizione ai contenuti massmediatici.

Stiamo parlando della celebre versione radiofonica di La Guerra dei Mondi realizzata da Orson Welles. Da quel giorno in poi fu assai più evidente da una parte l’enorme potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa, dall’altra quanto fosse presente il rischio di manipolazione e canalizzazione dell’opinione pubblica da parte di tali mezzi.

Come spesso accade, la descrizione dell’evento stesso può esserci d’aiuto per capire meglio le dinamiche che hanno permesso ad un semplice radiodramma di scatenare una serie di reazioni a catena capaci di suscitare il reale terrore degli ascoltatori.

E’ la sera del 30 Ottobre del 1938, la sera prima di Halloween (e la data di sicuro non è casuale), quando la stazione radiofonica statunitense della CBS decide di mandare in onda uno show speciale per celebrare tale festività. Come di consuetudine, è previsto un radiodramma, affidato quell’anno al miglior attore emergente di cui la radio disponeva: Orson Welles.

Il programma prevede la trasposizione radiofonica di un romanzo di fantascienza di H.G. Wells (è curiosa in questo caso l’assonanza del cognome con quello di Welles), dal titolo La Guerra dei Mondi. Il romanzo descrive l’invasione della Terra da parte di extraterrestri provenienti da Marte sul finire del diciannovesimo secolo.

La storia viene riadattata ai tempi radiofonici principalmente da Howard Koch e alcuni suoi collaboratori della CBS. Il riadattamento tuttavia non piaceva del tutto a Welles, perplesso sopratutto dal ritmo del testo che ne era uscito. Con una geniale intuizione, lo stesso Welles decide, per ‘dare sapore’ a quel piatto sciapo, di impostare la trasmissione come se si trattasse di un normale programma musicale interrotto ad un certo momento da un falso notiziario radio che annunciava l’invasione degli alieni e i suoi drammatici sviluppi.

Nessuno degli addetti al radiodramma, compreso lo stesso Orson Welles, si sarebbe mai immaginato che quello che ai loro occhi appariva semplicemente come un normale lavoro di routine, si sarebbe trasformato in un evento i cui effetti furono tali da modificare in maniera incontrovertibile non solo il destino artistico del giovane attore, ma anche il destino degli studi sociologici circa gli effetti dei contenuti massmediatici.

La trasmissione comincia con lo speaker che presenta, “in diretta dalla Meridian Room dell’Hotel Park Plaza di New York”, l’inizio della programma musicale di Ramon Raquello e della sua orchestra. Si può facilmente interpretare lo sgomento del pubblico radiofonico quando, dopo pochi minuti dall’inizio della trasmissione, questa viene bruscamente interrotta con un comunicato dai toni altamente drammatici: “Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle otto meno venti, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Lo spettroscopio indica che si tratta di idrogeno e che si sta avvicinando verso la terra a enorme velocità. Il professor Pierson dell’Osservatorio di Princeton conferma questa osservazione dicendo che il fenomeno è simile alla fiammata blu dei jet sparata da un’arma”.

Ha inizio la beffa mediatica del secolo, il falso che ha messo in luce il rapporto fin troppo fideistico e acritico che il pubblico aveva instaurato con i mezzi di comunicazione di massa. Gli oltre sei milioni di ascoltatori non erano preparati né a sospettare del falso, né tantomeno a sospettare dell’enorme potenzialità di quello che dalla maggioranza di loro veniva ancora considerato semplicemente come un ‘mezzo di svago’. Probabilmente Welles era al corrente di queste potenzialità e dell’abbaglio al quale erano sottoposti i fruitori dei mezzi di comunicazione di massa.

E’ per questo che aveva deciso di inserire il suo falso nel bel mezzo di un programma d’intrattenimento, come a voler render più netto lo stacco tra uno stato d’animo disteso, qual è appunto quello derivante dall’ascolto di un programma musicale, e uno stato di panico crescente dovuto all’annuncio dell’avvenuta invasione aliena.

Dopo il primo avvertimento circa le fiammate provenienti da Marte, la programmazione musicale prosegue con un brano estremamente simbolico dal punto di vista linguistico: Star Dust (polvere di stelle).

Gli ascoltatori tornano così a rilassarsi con una delle canzoni di maggior successo dell’epoca, ignari del susseguirsi di eventi che di lì a poco li avrebbe destati dalle loro poltrone e scaraventati nelle strade in cerca di salvezza. Infatti, passano pochi minuti ed ecco una nuova interruzione: “Signore e signori, vorrei leggervi un telegramma indirizzato al professor Pierson dal dottor Gray, del Museo di Storia Naturale di New York. Il testo dice: Ore 21:15, ora standard delle regioni orientali. I sismografi hanno registrato una scossa di forte intensità verificatesi in un raggio di 20 miglia da Princeton. Per favore investigate. Firmato Loyd Gray, capo della Divisione Astronomica”. Vediamo in questo caso come la citazione di fonti apparentemente autorevoli, come il ‘Museo di Storia Naturale’ o il ‘Professor Gray, capo della Divisione Astronomica’, sia un espediente imprescindibile per chi vuole mettere a segno una beffa mediatica e intende donare ad essa ulteriore credibilità.

Gli eventi che seguono il secondo annuncio diventano sempre più drammatici e la costante alternanza di questi allarmi con la normale programmazione musicale non fa altro che creare ulteriore confusione nell’ormai già allarmato pubblico.

Man mano che passa il tempo, si diffondono, tramite le voci di abilissimi attori, notizie che riferiscono dell’avvenuto atterraggio extraterrestre, delle orribili fattezze degli alieni, delle loro sofisticatissime armi e dei gas tossici. L’escalation porta addirittura a descrivere ‘in diretta’ la morte di un cronista che stava riferendo dell’avvenuta distruzione della città di New York. E quest’ultima è la scintilla che scatena l’esplosione di panico tra la gente.

Per capire meglio il linguaggio di cui si è fatto uso in questa trasmissione, che ricalcava in modo astuto quello delle reali cronache giornalistiche, e per capire meglio la drammaticità del falso evento, di seguito riporto la descrizione di un ‘falso’ cronista che si ritrova faccia a faccia con una presenza aliena: “Signore e signori, è la cosa più terribile alla quale abbiamo mai assistito…Aspettate un momento! Qualcuno sta cercando di affacciarsi alla sommità..qualcuno… o qualcosa. Nell’oscurità vedo scintillare due dischi luminosi..sono occhi? Potrebbe essere un volto. Potrebbe essere..mio Dio, dall’ombra sta uscendo qualcosa di grigio che si contorce come un serpente. E poi un altro e un altro ancora. Sembrano tentacoli. Ecco, adesso posso vedere il corpo intero. È grande come un orso e luccica come cuoio bagnato. Ma il viso! È indescrivibile. Devo darmi forza per riuscire a guardarlo. Gli occhi sono neri e brillano come quelli di un serpente. La bocca è a forma di V e della bava cade dalle labbra senza forma che sembrano tremare e pulsare. Il mostro, o quello che è, si muove a fatica. […]Un oggetto ricurvo sta uscendo dalla fossa. Sembra un piccolo raggio di luce riflesso su uno specchio. Che succede? Dallo specchio si sprigiona un raggio di luce…che si dirige verso gli uomini che avanzano. Li ha colpiti! Sant’Iddio, li ha incendiati! Bruciano come torce”.

Seguono diversi silenzi radio (come a far crescere la tensione), ogni tanto ripresi da qualche sporadica e confusa cronaca, fino a quando non si giunge ad un’apparente cessazione delle trasmissioni. E’ a questo punto che si scatena il putiferio. Migliaia di persone in preda al panico si riversano nelle strade e si lasciano andare a comportamenti di grave irrazionalità.

Si segnalano numerosi ingorghi nelle arterie principali di molte città degli Stati Uniti, mentre le linee di comunicazione si sovraccaricano fino al collasso. Alcuni si abbandonano a episodi di violenza, altri pregano di non essere coinvolti nell’attacco. A San Francisco, una donna si presenta alla polizia con i vestiti lacerati sostenendo di essere stata aggredita dagli alieni, mentre a New York ci vollero settimane per convincere alcuni di quelli che erano scappati a far ritorno nelle proprie abitazioni.

Ai giorni nostri, una simile reazione ci apparirebbe del tutto esagerata. A questo proposito, tuttavia, va ricordato che la radio fonda parte del suo fascino sulla disponibilità e la fantasia dell’ascoltatore che, soprattutto allora, non ne fruiva con la passiva attenzione che noi oggi dedichiamo al video.

La grande abilità di Orson Welles nel riprodurre in maniera impeccabile lo stile cronistico ha contribuito poi sopra ogni cosa a rendere credibile la messinscena. Emerge così l’importanza, quando si parla di falsi voluti e di beffe mediatiche, dell’utilizzo delle stesse modalità espressive del soggetto che si vuole imitare, in questo caso il giornalismo radiofonico. Per spiegarmi meglio, l’esito di questo programma sarebbe stato del tutto diverso se Welles avesse deciso di impostarlo, ad esempio, come un talk show o come una semplice intervista con un esperto di Ufo



Aldo Carotenuto. Le rose nella mangiatoia. Quando nei racconti dei Chassidim si dice che non si può aiutare a rialzarsi chi è caduto nel fango se non ci si sporca le mani di fango, si tocca una verità importante: l'idea di lavorare conservando candide le proprie mani, o di insegnare senza contraddizioni la propria parola, è soltanto un'esigenza dell'uomo puerile che chiede incondizionata felicità. Calarsi in una situazione, qualsiasi essa sia, significa sporcarsi, vivere la contraddizione, essere lacerati. (...) Di fronte ai grandi eventi della vita tutto si relativizza e si comprende ciò che è essenziale e ciò che non lo è. (...) Nel momento in cui doniamo quel che possediamo, cioè la nostra anima, la nostra interiorità, in un rapporto mistico, analitico e d'amore, allora tutto ci sarà dato.

"La trasformazione è spesso annunciata da un disagio, magari dall'emergere di un sintomo. In questo modo l'individuo si trova suo malgrado, a confrontarsi con il problema del senso, del valore del suo particolare esserci, con quel preciso destino."
Aldo Carotenuto "Attraversare la vita"


"In una stanza buia nella penombra, le cui imposte sono state chiuse e che solo una luce artificiale illumina. Sole nero, stanza buia. La stanza buia di Bousquet, non diversamente dall'immaginario sottosuolo di Dostoevskij, diventa paradossalmente esercizio infinito di libertà. A partire dal sovvertimento d'una rimozione che veramente sembra caratterizzare la specie umana: la rimozione della morte. Allorchè tale rimozione viene sovvertita, ricondotta al suo opposto, la morte va incontro a una trasformazione e diventa, per così dire, vivibile"
Aldo Carotenuto, I sotterranei dell'anima




"Forse la vera patologia risiede proprio nell'etimo latino dell'espressione: "passionis ratio", ossia "subire la regola", intesa come incapacità nel lasciarsi attivare e destabilizzare dal sentimento, dal pathos del vivere; pathos che, in questo caso, non ha il significato medico di sofferenza, ma di autentica passione, di appello alla vita, nella sue essenza più intima e creativa."
Aldo Carotenuto,  "Vivere la distanza", Bompiani, 1998


"In verità ognuno di noi porta con sé una ferita primordiale difficile da comunicarsi, ma che può tuttavia trasformarsi in feritoia, ossia può diventare la matrice del nostro relazionarci con il mondoTrasformare la ferita in feritoia significa fare del proprio dolore e della propria mancanza la chiave d’accesso e di soluzione dei nostri dubbi. Una leggenda indiana racconta di un giovane pastorello costretto su una spina, eppure, proprio perché impossibilitato a dormire dal dolore, vedeva cose che agli altri sfuggivano. Similmente possiamo dire che la nostra ferita-feritoia è l’aculeo dell’interesse e della curiosità verso la vita."
Aldo Carotenuto, Vivere la distanza



<<Proprio come quando ci ammaliamo e un organo del nostro corpo duole, riusciamo a percepire quell'organo e ad accorgerci che esiste, allo stesso modo percepiamo la nostra anima quando, nel momento in cui siamo costretti a trasformarci o a trasformare la nostra esistenza, essa grida.
Comprendiamo allora che tutta la nostra vita può essere letta come un cammino conoscitivo, come una ricerca che quotidianamente portiamo avanti per scoprire la nostra vera natura, quel patrimonio inespresso di risorse che giace nei sotterranei della nostra anima.>>
Aldo Carotenuto



"Ogni uomo si confronta con una mancanza, con il fantasma di ciò che non c’è più e che si vorrebbe invece ricreare. E’ per questo che sostengo che nella coppia non si è mai in due, ma almeno in quattro: i due partner più i loro rispettivi fantasmi, che trovano consistenza in tutta quella serie di proiezioni che l’uno riversa nell’altro. "
Aldo Carotenuto


«La depressione si configura come un singolare stato d’animo che costringe la persona in una condizione di prigionia emotiva e di allontanamento dal mondo. La “prigione” è data dall’individuo stesso, dal suo mondo interno che lo inghiottisce ogni giorno di più, dalle tenebre dentro le quali precipita accompagnato solo dalla spiacevole sensazione di non poter più fare ritorno. Non c’è nulla, ma proprio nulla, nella realtà esterna che possa sollecitare l’interesse del depresso, men che mai accendere un barlume di progettualità. Quando sentiamo parlare della cosiddetta “mancanza di interessi” che caratterizzerebbe le persone depresse, non facciamo altro che confrontarci con un banalissimo luogo comune, un buffo eufemismo che riesce a spostare l’attenzione solo sulla punta dell’iceberg. La depressione distrugge gli interessi della persona, li sgretola fino al punto di farli diventare finissima sabbia. E per quanti sforzi l’individuo compia, per quanto impegno possa metterci, per quanto aiuto possa ricevere, i suoi granitici interessi e le sue solide attività sono ora solo sabbia che sfugge tra le sue dita. Uno stato depressivo non lascia spazio alla forza d’animo, alle motivazioni, alla capacità di progettare. In questa cupa sensazione di disperato abbandono l’unico “desiderio” che è possibile avvertire è che l’incubo finisca il prima possibile. E per un buffo scherzo del destino è il depresso stesso a procrastinare sempre più il risveglio dall’incubo: dormendo quasi tutto il giorno — oppure aspettando con ansia di poterlo fare — la persona depressa si arrende supina alla letargia della sua vita. Eppure, sebbene possa sembrare paradossale, soprattutto quando sopraggiunge una depressione profonda è il caso di dire “non tutti i mali vengono per nuocere”. Lo stato di grave prostrazione e l’abbattimento che si vengono così a creare, infatti, costringono gioco-forza l’individuo a confrontarsi con gli aspetti più oscuri, segreti e imprevedibili della sua personalità. Sprofondando fino negli abissi dell’anima, prima o poi giunge il momento in cui “si tocca il fondo”. Gli elementi che permettono di comprendere di aver “toccato il fondo” variano da persona a persona, ma in genere è la consapevolezza di aver calpestato se stessi, di essersi lasciati risucchiare da una condizione di degrado personale e psicologico, a far si che il depresso si senta percorso da un brivido raggelante. E questo un breve ma preziosissimo momento, in cui una flebile luce rischiara per qualche istante il buio in cui si è immersi. Sono attimi da prendere al volo, in cui si deve decidere rapidamente se distendersi su quel fondale attendendo la morte dell’anima o, viceversa, se trasformare quello stesso fondale in una piattaforma di lancio da cui ripartire ed emergere. Soltanto chi avrà vissuto sulla propria pelle l’avventura spaventosa e affascinante di un viaggio nei sotterranei della propria anima potrà capire questo discorso, tutti gli altri dovranno accontentarsi di assistere increduli alle evoluzioni della psiche altrui. Un aspetto veramente interessante della depressione è dato dallo sfacciato contrasto tra la sterilità di giorni trascorsi come creature prigioniere della propria vita, e la grande fertilità del momento in cui si decide di ricominciare a vivere. In quel momento, infatti, l’individuo porta sulle proprie spalle un pesante carico: si tratta di tutte le esperienze psicologiche e delle riflessioni generate dalla depressione stessa. Che non sono una zavorra, ma un prezioso bagaglio che l’individuo potrà decidere di mettere a frutto. Da una depressione non si emerge mai come si era prima di sprofondarvi, la depressione è soprattutto metamorfosi e, spesso, arricchimento interiore. La sofferenza dell’anima e la depressione, che di essa costituisce uno dei più “illustri” rappresentanti, divengono spesso scintille da cui divampa un vero incendio creativo, o la volontà di occuparsi di rinnovati interessi.»
Aldo Carotenuto, Il Fondamento della Personalità



Nel momento in cui sentiamo di essere attratti in modo irrefrenabile da un’altra persona, quando avvertiamo di essere trascinati nel mondo dell’altro e di non poter opporre alcuna resistenza, ciò avviene perché siamo stati colpiti nella nostra autenticità, perché sono stati chiamati in causa i nostri più antichi desideri e bisogni.
Aldo Carotenuto



"Quando si proietta sull’altro, simbioticamente, il proprio mondo interno, ci si aspetta che egli si comporti esattamente come noi: l’altro non esiste in quanto persona autonoma, perché è totalmente investito dalla nostra volontà di farlo esistere nella forma di una nostra propaggine; ma al tempo stesso si reclama da lui un’autonomia di pensiero e di azione che ci renda liberi dalla schiavitù del legame eterno. Quello che si desidera è antiteticamente ciò che più si teme, e il partner si trova nella difficile posizione di dover risolvere una richiesta di contemporaneità: quella di un’assenza di volontà autonoma, come incarnazione del desiderio altrui, e quella di una presenza indipendente che, al momento opportuno, libera l’altro dal senso di asfissia."
Aldo Carotenuto




"Dal momento in cui nasciamo veniamo eterodiretti, dapprima dai progetti dei nostri genitori, poi da quelli dell'ambiente in cui viviamo. Soltanto quando operiamo delle scelte personali diventiamo autodiretti.
Nell'immaginario collettivo questa capacità di auto-dirigersi, di essere responsabili delle proprie decisioni, è raffigurata dal mito di Ulisse. Nei dieci anni del suo peregrinare, egli incontra e ama delle creature bellissime: ninfe, maghe, o donne mortali. Ma deve sempre abbandonarle, per seguire il suo destino, quel richiamo inconscio, personificato da Ermes. Ulisse è la perfetta incarnazione dell'uomo spinto dal suo demone interiore, quel demone che costringe l'individuo creativo a seguire sempre la propria strada, rimanendo fedele a se stesso, nonostante il dolore arrecato a sé e agli altri.
Troncare gli affetti, voltare le spalle al mondo che noi abbiamo costruito, è terribile, perché non abbiamo nessun'altra giustificazione, all'infuori della fedeltà a noi stessi. Tale modalità di agire equivale al tradimento. Ciò che io tradisco, voltandogli le spalle, è il collettivo. Si capisce allora come in tali situazioni si venga assaliti dai rimorsi, dai dubbi, dai sensi di colpa"
Aldo Carotenuto, La chiamata del daimon. Gli orizzonti della verità e dell'amore in Kafka


"Ma l’insoddisfazione in analisi purtroppo non riguarda soltanto l’amore; è molto più fonda, più crudele, più irriducibile. La via dell’analisi è per eccellenza la parola, la simbolizzazione. Ma il simbolo è per sua natura insoddisfatto. Così Hegel: la coscienza è sempre insoddisfatta. Tutto il linguaggio è un limite: il parlante è il punto medio tra il dicibile e l’indicibile, tra la parola e il silenzio. L’insoddisfazione, la tensione tra l’uso e la possibilità, tra il corpo della parola, pubblico e dicibile, e l’ombra sempre più vasta dell’intenzione, delle risonanze intime, individuali, non più parlabili, sarebbe tipica del linguaggio tutto. A maggior ragione del linguaggio in analisi. Questo sforzo continuo di intendersi, di rendere corpo, uso pubblico o gioco linguistico le immagini-ombre dell’intenzione, è davvero frustrante, crudele. La parola, il logos, è dono di Apollo, il dio obliquo, della violenza raffinata, differita. Come l’arco o il dardo, la parola è una sfida mortale del dio. L’ambiguità dell’enigma è l’arma suprema della violenza apollinea, la freccia più mortale scagliata dal suo arco. I dardi di Apollo sono i pensieri! Ma l’enigma indica l’origine della ragione, l’istigazione a interpretare, l’oscurità della parola come stimolo alla lotta.Così la psicoanalisi, questo rito della parola, è un agone, una lotta del pensiero. La crudeltà e cerebrale. Chi si espone alla prova, come il sapiente antico di fronte all’enigma del dio, accetta un rischio mortale. L’insoddisfazione è il perno dell’analisi perché insoddisfatto è il linguaggio, il simbolo, la parola. Spesso, per resistere alla prova, si cerca aiuto nel linguaggio dei corpi, più semplice, più dolce, meno crudele. È una fuga, una resistenza, certo. Ma forse è solo consolamentum, una piccola consolazione, un reciproco darsi calore e farsi coraggio per riuscire ad affrontare la crudeltà dell’astinenza e dell’insoddisfazione."
Aldo Carotenuto, brano tratto da "Diario di una segreta simmetria"



Ma perché, come e quando SIAMO CHIAMATI VERSO UN LIVELLO PIÙ EVOLUTO DI COSCIENZA, un orizzonte più ampio di consapevolezza? Quasi sempre A SEGUITO DI UN EVENTO TRAUMATICO, DI UN LUTTO, DI UNA FERITA NARCISISTICA. Allora accade qualcosa come un risveglio, l’avvio di un confronto con noi stessi che ci allontana dall’istinto per avvicinarci allo spirito. È un cammino in cui potremo incontrare nuovo dolore; ma chi non ha conosciuto il dolore, dovrebbe sospettare di non essere mai nato alla vita vera, ossia alla conoscenza.
Aldo Carotenuto, Breve storia della psicoanalisi 


"Per entrare in se stesso, per guadagnare l'accesso e la dimora nella propria interiorità, Lucio deve trasformarsi in asino.
La trasformazione in asino sembra dunque volerci dire che per traslarsi a una più alta condizione spirituale, per superare l'infantilismo e accedere alla maturità, è necessario operare un percorso a ritroso, regredire a una condizione di "stupidità", l'unica che consente di ascoltare verità altrimenti inaccessibili.
La conoscenza più intima delle cose è possibile soltanto in condizioni di miseria e sofferenza."

Aldo Carotenuto "Le rose nella mangiatoia. Metamorfosi e individuazione nell'Asino d'oro di Apuleio".


"Se si chiede a una crisalide cosa vuole essere, essa non dirà mai che desidera diventare una farfalla, perchè non sa di esserlo in potenza...Una crisalide risponderà quindi di voler diventare una crisalide, mentre in realtà diventerà una farfalla. Nel momento critico ...dello smarrimento la nostra richiesta tende a un ritorno al "prima". Ignoriamo se il nostro naufragio ci farà approdare a un'altra isola, se la sofferenza ci aprirà al tesoro. La soluzione, il senso, non sono mai evidenti. Accettare il rischio del proprio esistere non significa strappare una promessa, significa invece, come diceva Jaspers, essere aperti alle possibilità ".
Aldo Carotenuto, Le rose nella mangiatoia. Metamorfosi e individuazione nell'Asino d'oro di Apuleio


Quando nei racconti dei Chassidim si dice che non si può aiutare a rialzarsi chi è caduto nel fango se non ci si sporca le mani di fango, si tocca una verità importante: l'idea di lavorare conservando candide le proprie mani, o di insegnare senza contraddizioni la propria parola, è soltanto un'esigenza dell'uomo puerile che chiede incondizionata felicità. Calarsi in una situazione, qualsiasi essa sia, significa sporcarsi, vivere la contraddizione, essere lacerati. (...) Di fronte ai grandi eventi della vita tutto si relativizza e si comprende ciò che è essenziale e ciò che non lo è. (...) Nel momento in cui doniamo quel che possediamo, cioè la nostra anima, la nostra interiorità, in un rapporto mistico, analitico e d'amore, allora tutto ci sarà dato.
Aldo Carotenuto. Le rose nella mangiatoia


Quanto più una persona ha contato in un periodo della nostra vita, tanto più abbiamo bisogno che il tempo ci aiuti a «decantarne» il ricordo, liberando la sua immagine dalle scorie delle nostre proiezioni per vederla finalmente nella sua luce autentica, non più filtrata dalle idealizzazioni e dalle attese di allora.
Aldo Carotenuto, L'opera esige la vita


L'INDIVIDUO NON È SOLO AGENTE DI TRASFORMAZIONE, È ANCHE UN OGGETTO CHE SUBISCE L'AZIONE DI FORZE E DI EVENTI CHE EGLI NON PUÒ CONTROLLARE E PREVEDERE. NELLO STESSO MOMENTO IN CUI METTIAMO IN MOTO QUALCOSA, SIA ESSO UN RAPPORTO, UN PROGETTO, UN LAVORO, NOI SIAMO ESPOSTI AD UNA AZIONE TRASFORMATIVA IMPREVEDIBILE.
Aldo Carotenuto, L'eclissi dello sguardo, Bompiani, 1997, pp.100-101



"Molto spesso ci chiediamo perché si vive e quale è il segreto della felicità. La nostra esistenza è come una matassa di fili che si intrecciano in maniera confusa,senza che sia possibile rintracciarne un inizio e una fine. C'è però un'esperienza che permette di coniugare i diversi poli della nostra vita, smussando gli spigoli più insidiosi e conferendo un senso profondo a tutto quelloche facciamo. Si tratta dell'incontro tra uomo e donna, caratterizzato dall'armonico ricomporsi dei tanti tasselli che costituiscono il mosaico della nostra vita. Incontrare un'altra persona e sentirsi attratti da lei non è un'esperienza che si esaurisce in pochi istanti, ma si tratta di un vero e proprio cammino di evoluzione psicologica. Per quanto possa apparire come il risultato di un evento fortuito, in realtà ogni incontro ha le sue "buone ragioni", nel senso che nasce e si fonda su ciò che rimane delle relazioni precedenti. Nel momento in cui ci sentiamo attratti da un'altra persona, ciò non avviene mai per pura casualità, perché i ricordi e le tracce delle esperienze passate agiscono nel nostro mondo interiore spingendoci verso una certa persona piuttosto che un'altra. Le cicatrici e le ferite ancora aperte nella nostra anima ci rendono sensibili a quel volto, permeabili a un certo tipo di emozione. È la nostra storia individuale, il bagaglio di esperienze che abbiamo alle spalle che rendono possibile ogni incontro e che agevolano o ostacolano l'inizio di un rapporto. E' come se dinanzi all'immagine dell'altro, la nostra mente ripercorresse a grande velocità le tappe del passato per poi tornare al presente con un ritmo alterno scandito dal bagaglio dei nostri ricordi. In ogni relazione sono sempre individuabili le ombre del passato ma, al contempo, prendono corpo immagini e sensazioni mai provate prima. Si tratta davvero di uno spazio privilegiato, perché permette la fusione di realtà e fantasia. L'Altro è lì, dinanzi a noi, è una realtà tangibile con cui si può entrare in contatto, ma esso rappresenta anche la possibilità di vedere concretizzarsi le nostre più intime fantasie. Non sono molte le situazioni che la vita ci offre per riuscire a realizzare il connubio di realtà e fantasia, e questo accade perché i ritmi dell'esistenza in genere ci impongono di muoverci sul terreno della concretezza. Nello spazio dell'incontro con l'Altro, invece, tutto è diverso e gli aspetti banali della vita cedono il posto allo spirito della dimensione emotiva. L'uomo e la donna possono dirsi "completi" solo nel momento dell'incontro e questo senso di pienezza è ciò che può rendere noi esseri umani felici. Ma se il segreto della gioia di vivere si esaurisse soltanto con la possibilità di realizzare un incontro importante, allora potremmo forse sentirci tutti più sollevati. In realtà la situazione non è così semplice, giacché ogni rapporto è anche fonte di sofferenza e causa di dubbi assillanti.
Nell'ambito di una relazione sentimentale, capita che tanto il maschile quanto il femminile siano tormentati da dubbi angoscianti, incertezze di varia natura che rivelano un'importante emozione di fondo: la paura. Quando si vive un'esperienza amorosa, a prescindere dal fatto che essa sia appagante o colma di difficoltà, si prova sempre angoscia: potremmo essere abbandonati, illusi, ingannati, traditi, tutto potrebbe all'improvviso finire."
Aldo Carotenuto, Eros e Pathos



"Durante l’analisi è interessante vedere che alcune persone, quelle che noi comunemente definiamo “sfortunate in amore”, non conoscono la grammatica del linguaggio amoroso. Quindi succede che non sanno interpretare le parole, i segni, e sbagliano sempre. Naturalmente questa mancanza di capacità interpretativa ha ragioni psicologiche ben profonde: ed è su queste ragioni psicologiche che fa leva il lavoro dell’analista.
Facciamo il caso dell’amore e dei sentimenti di affetto che noi sentiamo per una persona. Ma quante volte noi ci siamo accorti che il nostro amore, la nostra sentimentalità, nei riguardi di questa persona, diventa così contraddittoria. Pensate che perfino nei momenti di maggiore intimità, in cui ci si può abbracciare, ci si può stringere con passione, poi magari si dà anche un morso, un piccolo morso. E allora, se uno si pone qualche domanda, si rende subito conto che quelle situazioni sono situazioni così, che vanno di pari passo. Cioè il sentimento non può essere soltanto positivo, ma è sempre accompagnato dal suo opposto. Io questo lo posso sperimentare, in maniera particolare, durante le lezioni, ad esempio. Io per un anno intero sto con centinaia e centinaia di ragazzi e ne discutiamo spesso. Allora molte volte uno per quale motivo può suscitare un entusiasmo, può apparentemente essere stimato e voluto bene dai propri discepoli, e poi magari, quelli stessi hanno poi un atteggiamento negativo, hanno un atteggiamento di violenza, che è chiaro che dimostra soltanto la necessità di doversi staccare. Ma tutto questo può avvenire proprio perché “odio et amo”: questo famoso verso latino ci sta proprio a indicare che noi tutti dobbiamo essere consapevoli di queste cose, perché, come al solito, il lavoro legato ai sentimenti è un lavoro che dovrebbe spingere anche alla consapevolezza la persona. Per cui se io lavoro coi sentimenti, io debbo saperne anche quali sono gli aspetti negativi e positivi, perché la conoscenza di queste cose permette in tanti modi di attutire. Altrimenti che cosa può succedere? Che io, senza volerlo, diciamo, commetto degli sbagli. Forse il termine “lapsus” è più conosciuto. Commetto un lapsus, che impedisce a me di raggiungere la persona amata o comunque dimentico qualche cosa, che poi, tradotto, è un atto aggressivo proprio verso la persona che io amavo tanto. E allora cosa si nasconde? Si nasconde il fatto che io non sono mai troppo consapevole del fatto che in realtà, amando una persona, tanto amore c’è, e può darsi che ci sia tanto odio, tanta distruttività. Ma questo fa parte della vita. Cioè non è un problema di anormalità, è un problema di vita e noi dobbiamo saperlo, così come sappiamo che quando mangiamo stiamo bene, però se mangiamo troppo poi non stiamo più bene. Cioè è sempre la conoscenza, la consapevolezza, in questo caso dell’ambivalenza, che permette a noi di fronteggiare questa ambivalenza e eventualmente di ridurne i danni, se questi danni si presentano."
Aldo Carotenuto






Uno scrittore Abraham Yehoshua narra in forma ironica nel suo romanzo "La morte del vecchio" di un vecchio appunto condannato a non poter morire, finché non viene alla fine "fatto morire" in forma non cruenta, quindi non ucciso dalla comunità.
Nel libro "L'eclissi dello sguardo," Aldo Carotenuto così commenta, la metafora sulla morte rinviata da questo racconto.
"L'enigma è svelato nel momento in cui Yehoshua fa emergere la verità e dichiara la vita priva di senso, per cui arrivati alla vecchiaia non si può più andare oltre: l'univa via di salvezza per l'uomo è la morte, la quale impedisce che i ricordi diventino troppi, e si trasformino in montagne che non permettono più di "vedere il mondo" [.]






"Il compito della psicoterapia è quello di ristabilire le connessioni perdute: sia le connessioni fra differenti parti di noi stessi - come fra coscienza e inconscio - sia fra noi e il mondo.
Tradizionalmente la psicologia ha interpretato "il mondo" nel senso di "altre persone" e di conseguenza ha posto l'accento sulle relazioni.
Adesso però grazie alle neuroscienze si sta facendo evidente che la psiche riceve un impatto da qualunque cosa del "mondo", da tutte le forme animate e inanimate in cui la natura si esprime. Una psiche malata è un sistema chiuso, come un lago infestato dalle alghe, perché è impedita la circolazione dell'acqua.
Una psiche in salute è permeabile, mutevole, portata a cambiare e a scambiare:
si alimenta di ciò che sostiene la vita e si spegne quando è intossicata
Mi piace immaginare la nostra ricerca di saggezza, che dura tutta la vita, come un processo continuo di disintossicazione, un allontanarsi da situazioni che non possono favorire la vita".
Ginette Paris "Cuori spezzati. Guarire dalla perdita di un amore"





la memoria agisce in modo sincretico , conosco persone che dopo quel processo di decantamento di un ricordo hanno in un certo qual modo modificato tutto il processo mnestico nel senso sia del rimosso che nella ricostruzione immaginale....mi chiedo se è possibile raggiungere davvero quella "luce autentica"



Il ricordo è rimembranza .... E la rimembranza è racconto. Quando l'ideale decade, si ha la consapevolezza che ci permette di non essere soggettivi bensì oggettivi. Privo di proiezioni l'amore è totalizzante, permettendo di cogliere il linguaggio del cuore (in latino cordis).




LA "MIA" PSICOTERAPIA
Ad un certo punto del percorso psicoterapico il paziente si rende conto di vivere una situazione affettiva esclusiva e particolare col proprio terapeuta: il centro delle sue riflessioni non sono più le problematiche che lo hanno portato in terapia, ma proprio la relazione con lo psicoterapeuta, carica di stati d’animo a volte ambivalenti.
In questa fase il sintomo iniziale si eclissa per lasciare spazio ad un groviglio di affetti poco definito e molto intenso.
In realtà il problema iniziale che aveva portato il paziente in terapia non è sparito ma si è ricreato nella relazione con il terapeuta.
In tutto questo c’è un enorme vantaggio: nello stanzino d’analisi quel vecchio problema lo si può analizzare, lo si può vivere istante per istante, nel “qui e ora” della relazione analitica, concretamente.
E’ adesso che l’analisi comincia a dare i suoi frutti.
Naturalmente, un bravo psicoterapeuta è preparato ad affrontare la situazione e a dirigere il potenziale affettivo che si sprigiona nella relazione, per i fini utili al suo paziente, nel rispetto del codice deontologico.
L’arte terapeutica consiste infatti nel direzionare costruttivamente un grande potenziale umano, scoprendo e coltivando il talento inespresso del paziente, sviluppando la sua libertà di scegliere il proprio atteggiamento verso il “destino”, forgiandolo con le proprie mani.
Il paziente non sa ancora ciò che potrebbe diventare ed essere, deve imparare pertanto ad ascoltare quella voce flebile ma persistente che ha dentro di sé.
Come dice un vecchio proverbio africano: “Dio si appoggia su di te per aiutarti”.
Non posso essere certo dell’esistenza di Dio, ma credo che le persone diventano ridicole solo quando vogliono sembrare o essere ciò che non sono, o quando pensano che la tristezza abbia meno merito della gioia. Non può essere così, anzi, è proprio di notte che è bello credere alla luce.
La “luce” equivale per me al famoso detto: “divieni ciò che sei”.
Perciò, bisognerebbe far tesoro dell’ammonimento: “La più grande sfortuna che può capitare ad un uomo è credere nella fortuna”.
Ecco che possiamo essere d’accordo con i Saggi quando dicono che il valore di un uomo dipende dalla misura in cui i suoi sentimenti, i suoi pensieri e le sue azioni contribuiscono allo sviluppo dell’esistenza degli altri individui.
A volte, però, è necessario chiedere aiuto. Come diceva il mio analista: “Tu solo puoi farcela… ma non puoi farcela da solo”.
(tratto dal mio libro: “Aldo Carotenuto, psicologia di uno psicoterapeuta” Armando Editore)



Entriamo nel merito della specificazione di ciò che per la clinica è il rapporto tra sociologia e malattia.
La malattia è straordinariamente indicativa dei processi creativi alla base della personalità originale della persona a monte delle condizioni che l'hanno determinata, con l'aiuto di Aldo Carotenuto e dei suoi allievi.
I disturbi psicopatologici emergono, cambiano e spariscono secondo i mutamenti culturali e sociali: dal punto di vista epidemiologico, se fino a 30 anni fa le persone manifestavano per lo più sintomi di nevrosi, il cui meccanismo di difesa principale è la rimozione, oggi sono sempre più frequenti i disturbi di personalità con organizzazione borderline che utilizzano come difese soprattutto la scissione e l’identificazione proiettiva.Thomas Ogden nelle sue pubblicazioni ha fornito una descrizione puntuale di quest’ultimo meccanismo difensivo, utilizzandolo quale strumento concreto per comprendere il mondo interno del paziente. Lo studioso descrive l’identificazione proiettiva come il modo in cui una persona fa uso di un’altra per sperimentare e contenere un aspetto di sé stessa: colui che proietta ha la fantasia inconscia di liberarsi di una parte di sé non desiderata e di collocarla in un’altra persona, al fine di poterla controllare in maniera molto forte; a sua volta la parte proiettata viene poi percepita come appartenente all’altro individuo. Chi riceve la proiezione è indotto a identificarsi, quindi a pensare, sentire e agire in maniera conforme con il particolare aspetto che il primo soggetto ha rifiutato. Quando questo meccanismo di difesa viene messo in atto all’interno del setting, il paziente non si limita a vedere il terapeuta in base alle proprie relazioni oggettuali passate, ma esercita delle “pressioni” emotive per fargli sperimentare sé stesso in base alla fantasia inconscia dominante.
In sintesi l’identificazione proiettiva descrive:
un’interazione interpersonale (la pressione di un soggetto su un altro per soddisfare la fantasia proiettiva); l’attività fantasmatica dell’individuo che agisce la difesa; l’interazione tra la dimensione intrapsichica e interpersonale.
Esempio clinico:
“A. diceva frequentemente di voler mettere il suo cervello malato nel terapeuta, che avrebbe quindi dovuto ossessivamente addizionare i numeri di ogni targa automobilistica che vedeva e sarebbe stato tormentato ogni volta che toccava un oggetto non suo, dal timore che la gente lo accusasse di cercare di rubarlo. Il paziente rese evidente che la sua fantasia non era semplicemente quella di liberarsi di qualcosa: era quella di vivere in un’altra persona e di controllarla dall’interno. Il suo cervello malato avrebbe tormentato, nella fantasia il terapeuta dall’interno, proprio come normalmente tormentava il paziente”. Ogden offre un esempio molto chiaro per comprendere l’esperienza condivisa tra analista e paziente: il soggetto è il regista e, allo stesso tempo, uno degli attori principali della rappresentazione interpersonale, basata su una relazione oggettuale interiorizzata; il terapeuta è un attore inconsapevole della parte che gli è stata attribuita. L’identificazione proiettiva si rivela essere, allora, il processo con cui al terapeuta vengono date indicazioni di regia per recitare un dato ruolo.
Esempio clinico:
“Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all’analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall’analisi “ci guadagnava qualcosa”, diceva “forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile”, e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle sempre più in ritardo, fino al punto che l’analista incominciò a chiedersi se il paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l’analista pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell’inizio di una seduta, l’analista pensò di accorciare l’ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l’analista. Gradualmente, l’analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente “il valore di quello che lui pagava”. Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l’analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo “inutile” lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l’analista fu capace di guardare ora in modo nuovo al materiale clinico. Il padre del Sig. K. aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l’avidità del paziente per il tempo, l’energia e l’affetto della madre aveva provocato l’abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all’analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l’abbandono da parte del padre (transferale) e l’attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell’analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l’analista e l’analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L’interazione aveva sottilmente generato nell’analista un intenso sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all’inizio anch’egli cercò di negarlo e sconfessarlo. Per l’analista, il primo passo nell’integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell’aspetto di se stesso che era interessato alla comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell’analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell’analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l’analista diventava consapevole di questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro. Dopo un pò di tempo il paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l’analista sembrava felice di ricevere “quel bel grasso assegno”, e che ciò “non si addiceva molto ad uno psichiatra”. L’analista sorrise un pò, e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione, l’accettazione da parte dell’analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l’internalizzazione da parte del paziente. L’analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la reinternalizzazione attraverso l’interazione terapeutica”. Vediamo in sintesi cosa emerge da questa interazione: a causa della scarsa puntualità nei pagamenti del Sig. K. l’analista inizia a sentirsi inutile e avido di denaro (“si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo inutile lavoro”), ovvero comincia a interpretare un ruolo all’interno dell’identificazione proiettiva del paziente; sentendosi in colpa per i suoi sentimenti di avidità, l’analista cerca di correggerli regalando qualche minuto in più alla fine della seduta (… “l’avidità era talmente forte che se ne vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l’essere eccessivamente generoso con il suo tempo”). Il paziente, percependo l’anomalo comportamento del terapeuta, vede riconfermata la sua patologia, cioè la paura e la vergogna ad ammettere di essere una persona colpevole di essere avida di affetto. Il terapeuta però dopo qualche tempo comincia a pensare che quello che lui sente dentro potrebbe anche essere una proiezione del paziente. Osservandosi internamente sente di poter accettare questi sentimenti integrandoli con altri aspetti della sua personalità (“egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato”) così arriva a mostrare al paziente che si può anche provare avidità, e parlarne, e non per questo esserne sopraffatti con il conseguente abbandono da parte di figure importanti. L’analista, alla fine dell’interazione, non usa una classica interpretazione per chiarire ciò che è successo, ma semplicemente interagisce col paziente manifestando di accettare i sentimenti proiettati (“L’analista sorrise un pò e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro”).
A cosa serve l’identificazione proiettiva e come può essere utilizzata?
Il paziente utilizza tale modalità difensiva per liberarsi di una parte di sé che rifiuta e per restare legato al precario equilibrio interiore; d’altra parte può utilizzarla per fare in modo che l’aspetto inserito nell’altro venga salvato e protetto. Dal canto suo l’analista, grazie all’interazione difensiva, ha accesso ad una ricchissima fonte di dati – pensieri e sentimenti – sul mondo interiore del soggetto ed ha la possibilità di integrare la comprensione della propria esperienza interiore con quella trasmessa e vissuta dall’altro. Lo strumento terapeutico diviene la capacità dell’analista di ricevere le proiezioni del paziente, utilizzando aspetti della propria organizzazione psichica per trasformare i frammenti emotivi ricevuti, rendendoli digeribili e pronti per essere reincorporati, come materiale adatto per la crescita esperenziale dal paziente stesso. È un lavoro molto difficile quello di funzionare da “contenitore” delle pressioni emotive del paziente che spesso sono di natura aggressiva e svalutante e inducono il terapeuta ad intervenire o a fuggire da esse; l’Autore suggerisce di non agire direttamente sui sentimenti che si sono manifestati, infatti è alto il rischio che il contenimento fallisca e il terapeuta introduca nuovamente nel paziente gli aspetti del sé che questi stava cercando disperatamente di allontanare. I vissuti scaricati dal soggetto sono comunicazioni da comprendere e accettare attraverso una particolare condizione emotiva del terapeuta che Ogden chiama rêverie analitica: essa consiste in uno stato onirico ad occhi aperti che può prendere qualsiasi forma – frammenti di film, musiche, ricordi personali, sensazioni corporee etc. – e implica un allontanamento dalla logica del reale, per sentire più distintamene cosa si muove nell’inconscio. I frammenti e le immagini scaturite durante la rêverie apparentemente sembrano scollegate da ciò che il paziente dice o fa; al contrario sono in profonda connessione con ciò che in quel momento sta succedendo nel setting, infatti lo studioso sostiene che i sogni e le rêverie prodotti dalla coppia analitica derivano, non solo dalle esperienze interiori individuali, ma da una costruzione intersoggettiva inconscia, il cosiddetto “terzo analitico”, un terzo soggetto con vita propria generato dalla fusione emotiva dei due protagonisti. Quindi il sogno e la rêverie appartengono all’attività del terzo analitico, secondo una costruzione progressiva sinergica ancorché asimmetrica. In questo luogo altro si esprimono tutta una serie di sentimenti legati all’angoscia dominante attualizzata nel transfert e nel controtransfert e la rêverie è lo strumento per riuscire ad entrare in contatto con il prodotto del terzo analitico intersoggettivo. Solitamente l’analista vive la sua rêverie come un’intrusione disturbante, una manifestazione di stanchezza, di problemi personali o ritiro narcisistico: al contrario Ogden sostiene di affidarsi a questo tipo di silenziosa esperienza come ad una bussola emotiva, per cogliere le giuste indicazioni su quello che sta accadendo nella relazione.

Esempio clinico:
“In una recente seduta il Sig. W. mi ha detto, con un tono di intenso coinvolgimento, di essere molto spaventato quando si sente mentalmente fuori controllo.Il Sig. W. ha alle spalle 2 matrimoni, entrambi terminati con il suo abbandono di moglie e figli, sentiti ormai estranei.Ha aggiunto che io sono l’unica persona alla quale abbia pienamente rivelato tutta la sua ‘follia’. Mentre il Sig. W. parlava, la mia mente vagava intorno a pensieri sull’imminenza del mio cinquantesimo compleanno. Ho ricordato una conversazione con un mio amico, al quale avevo raccontato, tra il serio e il faceto, che mi apprestavo a gestire il passaggio dei cinquanta rifiutandomi di crederci. A posteriori ho sentito questa spiritosaggine come un tentativo troppo consapevole di dimostrarmi arguto. Mi sembrava di aver insistito troppo nello scherzo e, con il procedere della conversazione nella mia mente, mi sentivo sempre più imbarazzato. Riportando l’attenzione su ciò che diceva il Sig. W. ho cercato di inserire la mia rêverie nel contesto della relazione analitica presente. Dopo un po’ ho detto al Sig. W. che, pur credendo che fosse sinceramente spaventato dal livello cui gli sembrava fossero giunte la sua follia e mancanza di controllo, avevo comunque la sensazione che altre volte riuscisse a rendere quel senso di sé così irreale da non credere che facesse parte di ciò che egli era. Il Sig. W. rimase in silenzio per qualche istante, poi ha detto (con un tono che sembrava molto più sollevato dalla precedente pressione) che quando parla dell’analisi come di qualcosa di “elettivo”, la sua follia gli sembra come appartenere a un lontano passato o perfino ad un’altra persona, qualcuno che conosce bene, ma che non è completamente lui. “Non è che penso che si veramente un’altra persona, ma neanche mi sembra di essere io”. Ogden ha usato terapeuticamente una serie di sentimenti e pensieri emersi spontaneamente dentro di lui, durante la seduta. Apparentemente questo materiale sembrava sconnesso rispetto al racconto del paziente tuttavia, nel corso del tempo, si è fatta più chiara la forte connessione tra il rifiuto dell’analista di credere che stava per compiere 50 anni e il rifiuto del Sig. W. di essere consapevole del suo lato fuori controllo (“… mi apprestavo a gestire il passaggio dei cinquanta rifiutandomi di crederci”… “Non è che penso che si veramente un’altra persona, ma neanche mi sembra di essere io”).
La rêverie, i sogni e i sintomi sono considerati dall’autore come metafore dell’esperienza inconscia con le quali bisogna giocare creativamente per capire appieno il loro potere trasformativo: come un artista egli riesce ad utilizzare tutto ciò che proviene dalla conversazione col suo paziente, dando vita a esperienze originali e nutrienti per entrambi. Vediamo in concreto come egli utilizza la rêverie nel contesto terapeutico: innanzitutto dall’inizio alla fine della seduta cerca la connessione tra la coppia analitica e due aree sovrapposte dell’esperienza, ovvero 1) come sia la sua sensazione di essere con il paziente in quel dato momento e 2) quale sia la sua percezione dell’angoscia transferale/controtransferale dominante nello stesso momento. All’inizio questi due aspetti dell’esperienza sono entrambi inconsci e attraverso gli elementi che emergono durante la rêverie lentamente è possibile cogliere significati condivisibili. Ogden descrive al paziente ciò che sta accadendo tra di loro (“Dopo un po’ ho detto al Sig. W. che, pur credendo che fosse sinceramente spaventato … avevo comunque la sensazione che altre volte riuscisse a rendere quel senso di sé così irreale da non credere che facesse parte di ciò che egli era”), cercando di parlare in base all’esperienza che vive nella sua rêverie: il risultato è che l’intervento del terapeuta esprime come il paziente stia sentendo la relazione analitica e la relativa angoscia e come quella determinata esperienza sia collegata con altre situazioni vissute sempre nel setting o con persone fondamentali della sua vita. Egli si cala all’interno della relazione cercando costantemente di trasformare l’esperienza di essere ‘io’ come soggetto inconsapevole, nell’esperienza di essere ‘me’, come oggetto di indagine analitica all’interno di quel luogo condiviso che egli chiama ‘terzo analitico intersoggettivo’.
Ogden nei suoi lavori cerca continuamente di chiarire il modo in cui lavora come psicoanalista e il modo in cui concepisce ciò che accade nella stanza d’analisi: la sua posizione, racconta, è il tentativo di cogliere il più possibile i momenti “vivi” di una seduta attraverso la capacità dell’analista di “sognare l’analisi”, ovvero sentire interiormente cosa prova con quel determinato paziente, condividendo con lui lo stato di rêverie in un luogo al confine del sogno.


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Nel 1980 Aldo Carotenuto pubblicò un libro tanto interessante quanto importante: DIARIO DI UNA SEGRETA SIMMETRIA. SABINA SPIELREIN TRA JUNG E FREUD. Degli ultimi due si è detto tanto, i loro nomi sono ormai noti sia agli esperti che ai profani di psicanalisi. Mi piacerebbe invece spendere qualche parola per l’unica donna in questione, Sabina Spielrein. Il libro di Carotenuto, nella versione in italiano, presenta il diario di Sabina e lettere spedite a Jung e Freud. La versione tedesca, invece, contiene anche le lettere che Jung spedì alla Spielrein. A quasi trent’anni di distanza, questo libro non ha smesso di suscitare curiosità e interesse negli studiosi, come nel pubblico comune e nel mondo dello spettacolo. Esso ha infatti rivelato, per la prima volta, UN EPISODIO SIGNIFICATIVO DELLA STORIA DELLA PSICANALISI, UN EPISODIO CHE È AL TEMPO STESSO UNA COMPLESSA VICENDA UMANA IN CUI SI INTRECCIANO UNA GUARIGIONE ANALITICA, L’ESPLOSIONE DI UN AMORE IMPOSSIBILE e la nascita di grandi idee del nostro tempo.
Sabina Spielrein nacque a Rostov sul Don (Russia) nel 1885, figlia di un ricco mercante ebreo. DURANTE L’ADOLESCENZA RICEVETTE LA DIAGNOSI DI “ISTERIA PSICOTICA” A SEGUITO DI GRAVI PROBLEMI COME ALLUCINAZIONI, ECCESSI DI RISO, URLA E PIANTO E, INFINE, DI DEPRESSIONE. Ricoverata nella clinica psichiatrica di Zurigo, il Burghölzli, PER QUASI UN ANNO, FU SOTTOPOSTA A TRATTAMENTO PSICANALITICO DAL DOTTOR JUNG. LA PSICANALISI ERA ALLORA AGLI INIZI E NÉ JUNG NÉ SABINA CONOSCEVANO BENE LA TESI DEL TRANSFERT E DEL CONTROTRANSFERT. SABINA GUARISCE E SI RIAPPROPRIA DI SÉ GRAZIE ALLA PAROLA, MA QUELLO CHE EMERGE DALLE LETTERE È L’AMORE INTENSO IN CUI I DUE, PAZIENTE E ANALISTA, SI RITROVANO IMPRIGIONATI, INCAPACI DI GESTIRE, CAPIRE, INCANALARE. GRAZIE ANCHE AI CONSIGLI DI FREUD, JUNG TRONCA DOPO SETTE ANNI LA SUA RELAZIONE SCONVENIENTE CON SABINA (ALL’EPOCA JUNG ERA GIÀ SPOSATO). Ritorniamo alla Spielrein. Per molti anni la sua figura è rimasta nell’ombra e solo negli ultimi anni i riflettori si sono accesi sulla storia di questa piccola grande donna. DOPO ESSERE GUARITA E DOPO AVER ATTRAVERSATO LA BURRASCA E LA SOFFERENZA DI UN AMORE IMPOSSIBILE, SABINA NEL 1911 SI LAUREA IN MEDICINA CON UNA TESI SU UN CASO DI SCHIZOFRENIA. Nello stesso anno diviene membro della Società di Psicoanalisi di Vienna, dove si trasferisce. Nel 1912 sposa il medico Pavel Scheftel, da cui ha due figlie, Renate ed Eva. Dieci anni più tardi la coppia tornò in Russia, per stabilirsi a Rostov sul Don. NELLA SUA CITTÀ NATALE, LA SPIELREIN FONDÒ UN OSPEDALE PSICHIATRICO PER BAMBINI, L’ASILO BIANCO. L’asilo bianco rappresenta un esperimento ambizioso in cui Sabina non smise mai di credere: IN ESSO I BAMBINI VENIVANO FATTI CRESCERE IN ASSOLUTA LIBERTÀ, PER AIUTARLI A DIVENTARE UOMINI VERAMENTE LIBERI. Il sogno dell’asilo bianco fu però interrotto durante gli anni della dittatura di Stalin; IL REGIME FECE CHIUDERE L’ASILO E BANDÌ LA PSICOANALISI, inoltre non risparmiò la famiglia di Sabina: due suoi fratelli furono deportati ed uccisi. A Sabina il destino non riservò una fine migliore: morì, nel 1942, fucilata dai nazisti in una sinagoga, insieme alle sue figlie e ad un altro centinaio di ebrei. L’opera di Sabina ha fortemente influenzato il pensiero di Freud e di Jung. IN  AL DI LÀ DEL PRINCIPIO DEL PIACERE FREUD CITA LA SPIELREIN (lo fa una sola volta in tutta la sua opera) SPIEGANDO CHE NEL SUO RICCO E INTENSO LAVORO, CHE SFORTUNATAMENTE NON MI È DEL TUTTO CHIARO, SABINA SPIELREIN AVEVA ANTICIPATO UNA CONSIDEREVOLE PARTE DELLE SUE MEDITAZIONI ED AVEVA ANCHE NOTATO UNA COMPONENTE SADICA DELLA PULSIONE SESSUALE COME UNA “PULSIONE DISTRUTTIVA”. INOLTRE, LA SUA RELAZIONE CON JUNG EBBE CONSEGUENZE SULLO SVILUPPO DEL CONCETTO DI CONTROTRANSFERT E SULL’ELABORAZIONE DEL CONCETTO DI PULSIONE DI MORTE FORMULATO DALLO STESSO FREUD.
La storia professionale e umana di Sabina è stata raccontata in numerosi libri e ha trovato posto anche in LAVORI TEATRALI COME SABINA (1988) DI SNOO WILSON E THE TALKING CURE ( 2003 ) DI C. HAMPTON.
Discreto successo ha ottenuto nel 2002 il regista Roberto Faenza e il suo film “Prendimi l’anima”, con Emilia Fox nei panni di Sabina e Iain Glen in quelli del dottor Jung.
A breve uscirà un nuovo film ispirato alla storia di Sabina, girato da David Cronenberg con Keira Knightley nei panni della psicanalista russa.
E’ interessante notare come negli ultimi anni –finalmente- le storie di donne importanti, come Sabina, hanno ritrovato nuova luce e soprattutto posto accanto a quello dei grandi uomini di sempre.
In una semplice frase di Sabina possiamo racchiudere la sua vita, la sua sofferenza e il suo lavoro:
QUANDO MORIRÒ VOGLIO ESSERE SEPPELLITA SOTTO UNA QUERCIA, E VOGLIO CHE QUALCUNO SCRIVA: “ANCHE LEI ERA UN ESSERE UMANO.”

http://www.letteratu.it/2011/03/la-storia-di-una-donna-sabina-spielrein/



Aldo Carotenuto, Diario di una segreta simmetria
Quando si proietta sull’altro, simbioticamente, il proprio mondo interno, ci si aspetta che egli si comporti esattamente come noi: l’altro non esiste in quanto persona autonoma, perché è totalmente investito dalla nostra volontà di farlo esistere nella forma di una nostra propaggine; ma al tempo stesso si reclama da lui un’autonomia di pensiero e di azione che ci renda liberi dalla schiavitù del legame eterno.
Quello che si desidera è antiteticamente ciò che più si teme, e il partner si trova nella difficile posizione di dover risolvere una richiesta di contemporaneità: quella di un’assenza di volontà autonoma, come incarnazione del desiderio altrui, e quella di una presenza indipendente che, al momento opportuno, libera l’altro dal senso di asfissia:
[lettera di Jung a Spielrein] "(…) Lei non immagina quanto significhi per me la speranza di poter amare una persona che non devo maledire e che non condanna se stessa a soffocare nella banalità dell’abitudine". Questo è quello che si richiede a un’esistenza idealizzata; (…) ma l’ideale, si sa, collocato nella realtà è costretto a crollare miseramente.
Le parole di Roland Barthes sembrano uscite da una pagina autobiografica di Jung o di Sabina, ma rappresentano una sorta di legge dell’annullamento degli amanti, in ragione della quale non esiste quiete o certezza di appagamento nell’animo di colui che ama: [in Rolande Barthes, Frammenti di un discorso amoroso]" L’altro è dunque annullato dall’amore: da questo annullamento, io ricavo un sicuro vantaggio; non appena sono minacciato da un dolore accidentale […], lo riassorbo nella magnificenza e nell’astrazione del sentimento amoroso: mi placo nel desiderare ciò che, non essendoci, non può ferirmi. Tuttavia, subito dopo, soffro vedendo l’altro (che amo) così sminuito, ridotto, e come escluso dal sentimento che lui ha suscitato. Mi sento colpevole e mi rimprovero di volerlo abbandonare". (…)
(…) Il Rapporto fra Spielrein e Jung fu perturbante.
Fu la nascita di un dio che è come il profumo di Baudelaire:
si può goderne ma non è mai completamente qui, è insieme corpo e negazione del corpo. Questo perché l’amore esclude il possesso dell’altro, la sua afferrabilità. Di ciò era cosciente Proust quando scriveva: "capivo l’impossibilità contro cui urta l’amore. Ci immaginiamo che esso abbia per oggetto un essere che può stare disteso davanti a noi, rinchiuso in un corpo. Ahimè! Il vero oggetto è l’estensione di quell’essere a tutti i punti dello spazio e dell’essere che esso ha occupato e occuperà […]. E noi non li possiamo toccare, tutti quei punti".
E Jung, dal canto suo, doveva così scrivere nei Ricordi:
"Quale che sia l’interpretazione che i dotti danno della frase ‘Dio è amore’, il tenore delle parole conferma che la divinità è un complexio oppositorum […]. Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa esso sia […]. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare di uno senza considerare anche l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto". (…)
(…) Ma l’insoddisfazione in analisi purtroppo non riguarda soltanto l’amore; è molto più fonda, più crudele, più irriducibile. La via dell’analisi è per eccellenza la parola, la simbolizzazione. Ma il simbolo è per sua natura insoddisfatto.
Così Hegel: la coscienza è sempre insoddisfatta.
Tutto il linguaggio è un limite: il parlante è il punto medio tra il dicibile e l’indicibile, tra la parola e il silenzio. L’insoddisfazione, la tensione tra l’uso e la possibilità, tra il corpo della parola, pubblico e dicibile, e l’ombra sempre più vasta dell’intenzione, delle risonanze intime, individuali, non più parlabili, sarebbe tipica del linguaggio tutto. A maggior ragione del linguaggio in analisi. Questo sforzo continuo di intendersi, di rendere corpo, uso pubblico o gioco linguistico le immagini-ombre dell’intenzione, è davvero frustrante, crudele. La parola, il logos, è dono di Apollo, il dio obliquo, della violenza raffinata, differita. Come l’arco o il dardo, la parola è una sfida mortale del dio. L’ambiguità dell’enigma è l’arma suprema della violenza apollinea, la freccia più mortale scagliata dal suo arco. I dardi di Apollo sono i pensieri! Ma l’enigma indica l’origine della ragione, l’istigazione a interpretare, l’oscurità della parola come stimolo alla lotta.
Così la psicoanalisi, questo rito della parola, è un agone, una lotta del pensiero. La crudeltà e cerebrale. Chi si espone alla prova, come il sapiente antico di fronte all’enigma del dio, accetta un rischio mortale. L’insoddisfazione è il perno dell’analisi perché insoddisfatto è il linguaggio, il simbolo, la parola. Spesso, per resistere alla prova, si cerca aiuto nel linguaggio dei corpi, più semplice, più dolce, meno crudele. È una fuga, una resistenza, certo. Ma forse è solo consolamentum, una piccola consolazione, un reciproco darsi calore e farsi coraggio per riuscire ad affrontare la crudeltà dell’astinenza e dell’insoddisfazione.” (…)
(Aldo Carotenuto, Diario di una segreta simmetria, 1999, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma)




Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa esso sia (Jung). Affermazione che condivido come moltri pensatori. Mi domando come mai altri, invece, scrivono decine, centinaia, di trattati o libri sull'amore. La risposta è semplice soddisfano il bisogno del se proprio e altrui, negando il senso del me di entrambi dove "l'amore" è inesistente.