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martedì 3 aprile 2012

Immanuel Kant. Il genio è la felice sintesi di immaginazione e intelletto, di spontaneità e regole non scritte, per cui l'artista gode di un'assoluta libertà creativa

Prima di valutare se una risposta è esatta si deve valutare se la domanda è corretta.
Immanuel Kant


La maggioranza dei problemi non deriva dalle risposte che ci diamo ma dalle domande che ci poniamo
Immanuel Kant



Kant afferma che la filosofia deve rispondere a tre domande:
– che cosa posso conoscere
– che cosa devo fare
– che cosa posso sperare
Dunque, al centro della ricerca kantiana c’è la libertà dell’uomo che si interroga.



163. LA COLOMBA LEGGIERA
Il CRITICISMO è un'analisi della ragione umana, che diventa insieme giudice e imputato nel tentativo di scoprire cosa può realmente conoscere e affermare con certezza.
Esso è stato anche chiamato filosofia del limite, in quanto tende a limitare o a circoscrivere le possibilità della conoscenza umana.
Il filosofo di Königsberg ricorre, nella "Critica della ragion pura", alla metafora della colomba, per illustrare che i limiti imposti all'intelletto siano, in realtà, costitutivi della sua stessa possibilità di muoversi e di conoscere:
«La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria.
E appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppo angusti limiti all'intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell'intelletto puro.
Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l'intelletto».
Immanuel Kant




La scienza è conoscenza organizzata.
La saggezza è vita organizzata
Immanuel Kant


Se noi sopprimiamo il nostro soggetto, o anche soltanto la costituzione soggettiva dei sensi in generale, in tal caso tutta quanta la costituzione e tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi persino lo spazio ed il tempo, sono destinati a svanire.
Immanuel Kant



Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo
Immanuel Kant

Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo
Immanuel Kant


La vista del cielo stellato in una notte serena, dona una specie di godimento che solo anime nobili provano. Nell’universale silenzio della natura e nella pace dei sensi, il segreto potere conoscitivo dello spirito immortale, parla una lingua ineffabile e trasmette concetti inarticolati che si sentono e che non si possono descrivere.
Immanuel Kant


Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente sup­porle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimi­tati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisi­bile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connes­sione non, come là, semplicemente accidentale, ma uni­versale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di natura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determina­zione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito.|
Immanuel Kant, dalla conclusione di Critica della ragion pratica



«Non c'è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l'esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi e, per un verso, danno origine da sé a rappresentazioni, per un altro, muovono l'attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e ad elaborare per tal modo la materia greggia delle impressioni sensibili per giungere a quella conoscenza degli oggetti, che chiamasi esperienza? Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede all'esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa.»
Immanuel Kant, Critica della ragion pura (in originale Kritik der reinen Vernunft), 1781.



Coloro che dicono che il mondo andrà sempre così come è andato finora contribuiscono a far sì che l'oggetto della loro predizione si avveri.
Immanuel Kant



Pretendere di risolvere tutti i problemi e rispondere a tutte le domande sarebbe una fanfaronata così solenne e una presunzione così stravagante da renderci per questo subito indegni di fiducia .
Emanuele Kant

La moralità non è propriamente la dottrina del come renderci felici,
ma di COME DOVREMO DIVENTARE degni di possedere la felicità
Immanuel Kant


Puoi conoscere il cuore di ogni uomo già da come tratta gli animali
Immanuel Kant


“Quanto più ci si dedica all'osservazione degli animali e del loro comportamento, tanto più si prova amore per essi, al vedere quante cure essi riservino ai loro piccoli. Si può allora concludere di non essere crudeli neppure verso un lupo. Leibniz, servendosi d'un foglio, riportava sull'albero il piccolo verme, su cui aveva compiuto le sue osservazioni, affinché per sua colpa non gliene venisse alcun danno. Distruggere questa piccola creatura senza ragione non avrebbe potuto non turbare un uomo.”
Immanuel Kant, “Lezioni di etica”, tr. it. Laterza 1991, p. 274


Non vi è virtù così grande che possa essere al sicuro dalla tentazione
Immanuel Kant


Quanto monotona sarebbe la faccia della terra senza le montagne
Immanuel Kant



Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale.
Immanuel Kant, Lezioni sul diritto naturale



Tutte le chiese, tutte le comunità religiose mancano del contrassegno più importante della Verità. Essendo fondate su una fede rivelata ed essendo perciò legate ad una serie di specifici eventi storici, sono prive di validità universale. È sostanzialmente inutile ricercare tra le varie tradizioni religiose quale sia la religione vera: quel che importa è agire bene. Compiere il Bene, la Virtù, per amore del Bene stesso relativizza non tanto la verità bensì l'esistenza delle singole comunità religiose, le quali si presentano ormai più come un ostacolo che come una via al conseguimento dell'unica religione morale, la sola davvero uguale per tutti.
Immanuel Kant, " La religione nei limiti della semplice ragione"


Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.
Immanuel Kant

I fanciulli non devono essere educati con riferimento allo stato presente del genere umano, ma in relazione a uno stato migliore realizzabile nell'avvenire, conformemente, cioè, alla idea di umanità e della sua propria destinazione.
Immanuel Kant, Lezioni di Pedagogia


Il maestro non può insegnare pensieri, ma deve insegnare a pensare.
Immanuel Kant


L’insegnante mediocre racconta.
Il bravo insegnante spiega.
L’insegnante eccellente dimostra.
Il maestro ispira.
Socrate


NESSUNO PUÒ INSEGNARVI NULLA, SE NON CIÒ CHE IN DORMIVEGLIA GIACE NELL’ALBA DELLA VOSTRA CONOSCENZA. Il maestro, che cammina all’ombra del tempio tra i discepoli, non dà la sua scienza, ma il suo amore e la sua fede. E se egli è saggio, non vi invita ad entrare nella casa della sua scienza, ma vi conduce alla soglia della vostra mente.
Gibran Khalil Gibran: Il Profeta


Morgana Mora:
dal latino: [educare] composto di [e] fuori e [duco] condurre. Guidare fuori... Tutto è già insito... il maestro... si suppone che abbia le capacità date dalla maturità per facilitare tale scoperta interiore nel fanciullo  Un grazie di  ai miei maestri!




Non cercare il favore della moltitudine: raramente esso si ottiene con mezzi leciti e onesti.
Cerca piuttosto l'approvazione dei pochi; ma non contare le voci, soppesale.
Immanuel Kant


Tutto ciò che è stato scritto dagli uomini sulle donne deve essere ritenuto sospetto dal momento che essi sono ad un tempo giudici e parti in causa
Immanuel Kant


Il bello è il simbolo del bene morale
Immanuel Kant


La moralità non è propriamente la dottrina del come renderci felici, ma di come dovremo diventare degni di possedere la felicità
Immanuel Kant


Il genio è la felice sintesi di immaginazione e intelletto, di spontaneità e regole non scritte, per cui l'artista gode di un'assoluta libertà creativa dove l'intelletto è presente ma non più come costrizione razionale, come avviene nel campo della conoscenza, ma come capacità di realizzare l'opera secondo il proprio naturale gusto estetico
Immanuel Kant


La scienza è conoscenza organizzata. La saggezza è vita organizzata
Immanuel Kant

Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!
Immanuel Kant


L'Illuminismo è dunque l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro
Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. 
Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.  
Sennonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. 
Ma io odo da tutte le parti gridare: — Non ragionate! —
L'ufficiale dice: — Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. —
L'impiegato di finanza: — Non ragionate, ma pagate! —
L'uomo di chiesa: — Non ragionate, ma credete! 
Immanuel Kant


La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall'eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l'intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori

È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l'alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo instupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dei girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, questo pericolo non è poi così grande come loro si fa credere, poiché a prezzo di qualche caduta essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo genere rende comunque paurosi e di solito distoglie la gente da ogni ulteriore tentativo.

È dunque difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata pressoché una seconda natura. È giunto perfino ad amarla, e attualmente è davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono ceppi di una eterna minorità. Anche chi da essi riuscisse a sciogliersi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più angusti fossati, poiché non sarebbe allenato a siffatti liberi movimenti. Quindi solo pochi sono riusciti, con l'educazione del proprio spirito, a districarsi dalla minorità e tuttavia a camminare con passo sicuro.
Immanuel Kant, Che cos'è l'Illuminismo?



Immanuel Kant partecipò al dibattito scientifico del suo tempo anche occupandosi delle cause e delle manifestazioni della malattia mentale. E' sorprendente, per modernità, il suo "Saggio sulle malattie della mente", pubblicato nel 1764, in cui sostiene che la malattia mentale insorge quando l' immaginazione perde il contatto con l' esperienza sensibile e considera realtà le sue creazioni fantasmatiche. Può avvenire, sostiene ancora il filosofo tedesco, che alle informazioni trasmesse dai sensi venga, dal giudizio dell' intelletto, attribuito un significato completamente distorto.generando allucinazioni e vaneggiamenti. La realtà non esiste ed il discorso del malato si declina senza la positiva relazione con essa.
Si legge con interesse e facilmente.



RITRATTO DI KANT
“Io ho avuto la felicità di conoscere un filosofo, che fu mio maestro. Nei suoi anni giovanili, egli aveva la gaia vivacità di un giovane, e questa, credo, non lo abbandonò neppure nella tarda vecchiaia. La sua fronte aperta, costruita per il pensiero, era la sede di una imperturbabile serenità e gioia; il discorso più ricco di pensiero fluiva dalle sue labbra; aveva sempre pronto lo scherzo, l'arguzia e l'umorismo, e la sua lezione erudita aveva l'andamento più divertente. Con lo stesso spirito col quale esaminava Leibniz, Wolff, Baumgarten, Crusius, Hume, e seguiva le leggi naturali scoperte da Newton, da Keplero e dai fisici, accoglieva anche gli scritti allora apparsi di Rousseau, il suo “Emilio” e la sua “Eloisa”, come ogni altra scoperta naturale che venisse a conoscere: valorizzava tutto e tutto riconduceva a una conoscenza della natura e al valore morale degli uomini priva di pregiudizi. La storia degli uomini, dei popoli e della natura, la dottrina della natura, la matematica e l'esperienza, erano le sorgenti che avvivavano la sua lezione e la sua conversazione. Nulla che fosse degno di essere conosciuto gli era indifferente; nessuna cabala, nessuna sètta, nessun pregiudizio, nessun nome superbo, aveva per lui il minimo pregio di fronte all'incremento e al chiarimento della verità. Egli incoraggiava e costringeva dolcemente a pensare da sé; il dispotismo era estraneo al suo spirito. Quest'uomo, che io nomino con la massima gratitudine e venerazione, è Immanuel Kant: la sua immagine mi sta sempre dinanzi.”
Johann Gottfried Herder, in Edgar Quinet, “Essai sur Herder”, in “Oeuvres complètes”, VIII, Slatkine, Ginevra 1990, pp. 120-121



Immanuel Kant.
- Ma l’uomo è buono o cattivo? -
“ Ma l’uomo è per natura moralmente buono o cattivo? Nessuno dei due, perché egli è, per natura affatto un essere morale, ma lo diventa solamente se la sua ragione s’eleva fino al concetto del dovere e della legge. Si può dire, pertanto, che egli, in origine, abbia in se stesso l’inclinazione per tutti i vizi, perché ha tendenze e istinti che lo stimolano [in un senso], anche se la ragione lo spinge al contrario. Egli potrà, perciò, diventare moralmente buono soltanto per mezzo della virtù, con il dominio di sé, anche se potrà essere innocente mancandogli le tentazioni.
I vizi nascono, il più delle volte, dal fatto che la condizione morale esercita violenza sulla natura, infatti la nostra destinazione come uomini sta proprio nell’uscire dalla condizione selvatica della natura, [dal livello dell’animale. Ciò che è arte perfetta diventa una nuova natura.”
IMMANUEL KANT (1724 – 1804), “Lezione sulla pedagogia” (1803), in Id., “Antologia di scritti pedagogici”, a cura, introduzione e trad. di Giordano Formizzi, Il Segno dei Gabrielli editori, Negarine di S. Pietro in Cariano (VR) 2004 (II ed. riveduta e ampliata), ‘Trattato’, ‘L’educazione pratica’, 102, p. 132.




Immanuel Kant (1724 – 1804) filosofo tedesco. Fu uno dei più importanti esponenti dell'illuminismo tedesco, e anticipatore - nella fase finale della sua speculazione - degli elementi fondanti della filosofia idealistica.



‎Pazienta per un poco: le calunnie non vivono a lungo.
La verità è figlia del tempo: tra non molto essa apparirà per vendicare i tuoi torti
Immanuel Kant



Immanuel Kant "La metafisica dei costumi", § 62, Il diritto cosmopolitico
«La natura ha rinchiuso tutti i popoli insieme (per mezzo della forma sferica, che essa ha dato al loro domicilio, come globus terraqueus) entro limiti determinati, e siccome il possesso del suolo, sul quale può vivere un abitante delle terra, è pensabile sempre soltanto come il possesso di una parte di un tutto determinato, su cui dunque ognuno ha un diritto originario, così tutti i popoli stanno originariamente in una comunanza di suolo, non però in una comunanza giuridica del possesso (communio) e quindi dell’uso e della proprietà di esso suolo, ma in uno stato reciproco di commercio (commercium) fisico possibile, vale a dire in un perpetuo rapporto di ognuno con tutti gli altri, per cui ci offre di entrare in relazione reciproca. Questo diritto, in quanto concerne l’associazione possibile di tutti i popoli in conformità a certe leggi universali che presiedono alle loro possibili relazioni, può essere chiamato diritto cosmopolitico».






Lorenzo Leone a 
Nella Critica del giudizio (1790) Kant esclude «la finalità esterna», oggettiva della natura.
L’erba non esiste allo scopo di nutrire gli erbivori e questi ultimi non esistono allo scopo di nutrire i predatori carnivori. Qui la finalità oggettiva, l’erba per l’erbivoro, l’erbivoro per il carnivoro, è solo convenienza di una cosa per un’altra e non una «finalità oggettiva delle cose in se stesse». Dunque una finalità (e causalità) relativa, accidentale, e la cosa a cui la si attribuisce è, rispetto al suo utilizzo o alla sua convenienza, «semplice materia bruta» (§63, p. 190).[1]

Se guardiamo all’uomo, la cui causalità è libera, la situazione non cambia.
Le penne colorate degli uccelli non sono fatte per i cappelli, né il cavallo per la monta, né il bue per l’aratro, né la neve per le slitte trainate dalle renne del lappone, né l’olio di certi cetacei per riscaldare il groenlandese. (Nessuno legge più la Geografia di Kant, lamenta Alexis Philonenko: «È ancora un doppio errore. Da un lato si scarta una dimensione realmente scientifica e utile, dall’altro si dimentica che la geografia di Kant è il fondamento dei resoconti storici della sua epoca»).[2] Sempre e soltanto una finalità relativa che «sebbene accenni ipoteticamente a fini naturali, non autorizza alcun giudizio teleologico assoluto». Se così non fosse, insiste Kant, bisognerebbe ammettere assiomaticamente che «gli uomini debbono vivere sulla terra» e quindi non mancare di mezzi. Ma per quanto vi sia qui «un meraviglioso concorso di molte relazioni della natura ad un scopo, che è il groenlandese il lappone, il samoiedo […] in generale non si vede perché in quei luoghi debbano vivere uomini».[3] Anzi, supporre una finalità esterna e oggettiva della natura in questa direzione sarebbe presuntuoso e temerario (vermessen und unüberlegt) perché solo l’ostilità e la discordia fra gli uomini spiegano queste marginalizzazioni.
Se una finalità oggettiva non è ravvisabile nella natura, l’antropologia e la geografia antropologica men che meno manifestano una finalità nell’operare umano e nella storia. Esse attestano più la stoltezza [4] che la ragionevolezza del genere umano. Ebbene, si domanda Alexis Philonenko, «se ogni interpretazione che riposa sul concetto di finalità in senso dogmatico deve essere scartato, la storia non diviene inconcepibile come unità e totalità organica»? [5]
Ora, sarebbe agevole rispondere che non si vede perché la storia debba essere concepita come un tutto organico, ma sprecheremmo così l’occasione di capire che cosa sia la storia chez Kant. O almeno la storia chez Kant secondo Philonenko. E cioè un qualcosa che obbedisce a un principio di adattamento (p. 33). Seguendo il percorso argomentativo di Kant, Philonenko incappa, al § 64, nell’esempio che ritiene «altamente significativo» dell’albero. Un esempio che gli interpreti kantiani non avrebbero capito, immaginando qui che Kant intendesse occuparsi della finalità, questa volta interna, dell’individuo vivente. L’albero appunto, sostiene Philonenko, non è un individuo bensì «una collettività di momenti che sono in rapporto di finalità esterna gli uni in rapporto agli altri» (p. 40).
L’esempio kantiano, in effetti, è singolare. L’albero, dice Kant, cresce nel senso che si produce da sé, trasformando la materia «in modo tale da darle la qualità che ad essa è specificamente propria e che il meccanismo della natura ad essa esterna non può fornire». Questa materia è, in altre parole, «un suo proprio prodotto». Inoltre l’albero producendosi da sé rende interdipendenti la parte e il tutto al punto che colpendo la parte ne va della conservazione del tutto. E tuttavia un innesto a occhio produce su un soggetto estraneo una pianta identica a quella da cui detto occhio è stato prelevato. Ne viene che in un albero ogni ramo e ogni foglia possono essere considerati come alberi di per se stessi e come dei parassiti (vivono parasitisch, parassiticamente, dice Kant) sopra un altro albero. (Avvertiamo in questa pagina tutta l’ammirazione – ammirazione, Bewunderung, è parola kantiana – del filosofo-naturalista per il regno vegetale: «Si trova però – scrive Kant –, circa la scelta e nuova composizione della materia rozza, tanta originalità in questa specie di esseri naturali nella facoltà di scegliere e di comporre, che ogni arte ne resta infinitamente lontana, quando cerca di ricostituire quei prodotti del regno vegetale con gli elementi ottenuti dall’analisi di essi, o con la materie che la natura fornisce per nutrirli»).[6]
L’esempio dell’albero vorrebbe chiarire che cos’è un fine della natura (Naturzweck). Che cos’è, in effetti, un fine della natura? «Una cosa esiste come fine della natura quando è la causa e l’effetto di se stessa (sebbene in doppio significato) [Ein Ding existiert als Naturzweck, wenn es von sich selbst (obgleich in zwiefachem Sinne) Ursache und Wirkung ist]» (ibidem). L’esempio dell’albero illustra davvero bene tutto questo: ☞ l’albero produce se stesso relativamente alla specie, produce un esemplare della stessa specie (è il τέλος aristotelico); ma, lo abbiamo visto, ☞ l’albero produce se stesso anche come individuo (als Individuum), e rami e foglie possono essere interpretati come alberi innestati. Da ciò risulta indebolito il concetto stesso di individuo. «L’individualità come tale – soggiunge Philonenko – non è che un momento nel processo generatore di questo complesso di finalità esterna […] e appare quando dico, con ragione, questo albero». Ma, soprattutto, «devo tenere conto della possibilità universale dell’innesto», possibilità che fonda «il concetto di finalità esterna in senso trascendentale», perché l’innesto istituisce «un rapporto dinamico finale, manifestamente aperto, tra due momenti estranei».[7]
Tutto bene sennonché, seguendo Kant (§ 65), le cose in quanto prodotti naturali e in quanto cause ed effetti di se medesime (in quanto obbedienti a cause finali), in quanto fini della natura, esibiscono, in questo senso, una finalità esclusivamente interna, che attiene al loro corpo, al loro essere: «In un simile prodotto della natura ogni parte è pensata come esistente solo per mezzo delle altre, e per le altre e il tutto, vale a dire come uno strumento (organo); il che però non basta (perché potrebbe essere anche uno strumento dell’arte, e quindi essere rappresentata come uno scopo possibile in generale); dev’essere pensata come un organo che produce le altre parti (ed è reciprocamente prodotta da esse), mentre nessuno strumento dell’arte può essere così, ma solo quello della natura che fornisce tutta la materia agli strumenti (anche a quelli dell’arte); solo allora e solo per questo un tale prodotto, in quanto essere organizzato [organisiertes] e che si organizza da sé [sich selbst organisierendes Wesen], può essere chiamato un fine della natura [Naturzweck]».[8]
Vero è che più avanti, § 82, Kant arriva a connettere la finalità esterna con la finalità interna degli esseri organizzati, ma la riconosce in un unico caso e cioè nell’organizzazione dei sessi nella procreazione: «tutto organizzante, sebbene non un tutto organizzato in un corpo solo» (p. 243). E nemmeno va fraintesa l’analogia (consegnata a una nota) che Kant traccia tra la natura organizzata degli esseri naturali e la «trasformazione di un grande popolo». Questa analogia, avverte Kant, «si trova più nell’idea che nella realtà» (ibidem). Né va enfatizzata quell’altra ricorrente analogia con l’arte umana, «sebbene noi stessi, nel senso più largo, apparteniamo alla natura» (§ 65, p. 197).
Che significa tutto ciò? Significa che il modello dell’essere organizzato, di quell’essere che possiede una forza formatrice (§ 65, p. 196), non può essere generalizzato, non può essere esteso alla struttura morale dell’uomo e alla collettività umana, alla società, non può costituire un paradigma per rileggere la storia come una unità e totalità organica come pure Philonenko è propenso a credere.
Beninteso, non intendo qui rigettare la tesi di Philonenko. Una tesi formulata non senza riserve, non senza precauzioni, che, peraltro, ha il merito di evidenziare il problema della connessioni tra due momenti fondamentali: quello naturale e quello etico – e dunque tra la natura e l’idea, o, per riprendere i termini già utilizzati, tra il τέλος e l’ἔσχατον.
Tuttavia – penso – la perfezione interna della natura (p. 197), ossia la natura organizzata, è solamente un passaggio che affranca e autorizza il giudizio riflettente della teleologia. Si parte da lì, dalla forma interna del filo d’erba, per utilizzare un altro esempio kantiano tratto dal mondo vegetale (§ 67, p. 200), e si giunge «all’idea dell’intera natura come un sistema secondo la regola dei fini», e cioè come un sistema teleologico; si giunge ancora a considerare l’uomo «non soltanto come un fine della natura, come tutti gli esseri organizzati, ma come lo scopo ultimo [letzten Zweck] di essa sulla terra» (§ 83, p. 247); e si giunge allo scopo finale (Endzweck), all’uomo ma come noumeno (Mensch, aber als Noumenon), «l’unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la libertà) ed anche la legge della causalità e l’oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene del mondo)» (§84, p. 252).

Note
[1] I. Kant, Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1982, § 63, p. 190.
[2] A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, Vrin, Paris, 1986, p. 12.
[3] I. Kant, Critica del giudizio, cit., § 63, p. 191.
[4] Gli scopi o i proponimenti degli uomini, dice Kant (§ 63, p. 190), sono spesso stolti (törichten) o, ripete ne La fine di tutte le cose, si risolvono in stoltezza (Thorheit). Le stesse parole per uno stesso topos… Fra gli esempi di scopi stolti riferiti da Kant vi sono le piume nei cappelli e il belletto. Ragionevole gli appare invece la monta del cavallo, l’impiego dell’asino, del bue e persino del maiale nell’aratura.
[5] A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, cit., p. 39.
[6] I. Kant, Critica del giudizio, cit., § 64, p. 193.
[7] A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, cit., p. 40.
[8] I. Kant, Critica del giudizio, cit., § 65, pp. 195-196. Ed ecco la definizione di finalità interna (§ 66, pp. 197-198): «È un prodotto organizzato della natura […] in cui tutto è reciprocamente scopo e mezzo».






Lorenzo Leone a 

La fine di tutte le cose secondo Kant.
[...] Vogliamo dunque per l’uomo una ascensione di Elia o la discesa agli inferi della banda di Core? Ecco la fine che ha sempre interessato Kant: non la fine del mondo bensì il completamento, la maturazione dell’umanità. «In realtà – scrive Kant – non è immotivata la percezione che gli uomini hanno del fardello della propria esistenza, per quanto ne siano essi stessi la causa» (p. 24). Un deficit di moralità grava sugli uomini; a un innegabile progresso tecnico, scientifico, artistico, lo sviluppo della nostra inclinazione morale non tiene per ora dietro. Ma ci sono segni, nell’epoca presente (il XVIII secolo), di un’inversione di tendenza, di un sopravanzamento della morale sul mero soddisfacimento dei bisogni. Questa la speranza, questa la preoccupazione kantiana. [...]



La fine di tutte le cose secondo Kant.
La fine di tutte le cose (Das Ende aller Dinge) è il titolo di un trattatello kantiano.
Con la parola fine Kant intende qui una e una cosa soltanto: l’éschaton (ἔσχατον). Kant lo sa bene e, infatti, dice Endzweck, scopo finale. E accetta di misurarsi con l’idea. Che è poi l’idea che tutto il tempo sia accolto nell’éschaton (1) e che questo, come tempo della fine, coincida con l’apocalisse (e non si contano nel scritterello kantiano i riferimenti all’Apocalisse giovannea). Per essere chiari: l’uomo, dice Kant, cosciente della immutabilità del suo scopo, «non può congiungere l’appagamento con la prospettiva di un perenne mutamento del suo stato (sia morale sia fisico). Lo stato, infatti, in cui egli si trova ora, resta pur sempre un male in confronto a quello, migliore, in cui egli è pronto a entrare. E la rappresentazione di un infinito progresso verso lo scopo finale è tuttavia, al tempo stesso, la prospettiva di un’infinita serie di mali che, per quanto sovrastati da beni sempre crescenti, non consentono tuttavia che si realizzi quell’appagamento che si può pensare solo in rapporto al perseguimento dello scopo finale».(2)
Con ciò, anche di questo Kant è perfettamente consapevole, si sconfina nella mistica (in die Mystik). E la mistica o il mistico – è la vecchia polemica kantiana – vaneggia (schwärmt). Difatti, scrive in un altro punto del suo articolo, e bisogna cogliere tutta l’ironia del detto, l’idea che un giorno «ogni mutamento (e con esso il tempo stesso) cesserà, è una rappresentazione rivoltante [empörende Vorstellung]» (p. 30, traduzione modificata). Di più: somiglia a un annientamento (Vernichtung).(3)
Che ce ne facciamo allora di una simile idea? E, soprattutto, qual è il suo rapporto con il τέλος? Cominciamo a rispondere.  Questa idea – l’idea della fine di tutte le cose – è un’idea della ragione, prodotta dalla ragione, mero ens rationis, un Gedankending; perciò, già lo sappiamo, il suo oggetto trascende totalmente la nostra esperienza, è al di là di ogni possibile esperienza, oltre «l’orizzonte di ciò che possiamo vedere» (p. 26). È quel focus imaginarius, chimera dei sognatori ma pure regola e misura della conoscenza (principio unificante), di cui Kant parla nella Critica della ragione pura,(4) che trova un’applicazione pratica finendo per costituire il «supporto delle massime morali». E con ciò abbiamo già risposto al primo interrogativo. Questa idea ci lascia immaginare una svolgimento e una «fine naturale di tutte le cose secondo l’ordine dei fini morali della saggezza divina». E tutto ciò, prosegue Kant, noi lo possiamo praticamente «ben intendere» (p. 27). Giacché, esclusa una fine mistica e soprannaturale «di cui non intendiamo nulla», di cui non c’importa nulla, e che un po’ ci ripugna, non resterebbe che una fine contronaturale (widernatürliche Ende) e capovolta (verkehrte) di tutte le cose che, si badi bene (‼), saremmo «noi stessi a produrre fraintendendo lo scopo finale» (p. 28) – tradendo cioè la nostra missione come umanità, tradendo il nostro ἔσχατον, tradendo l’homo noumenon (p. 30).
Chi stupirà che il bersaglio kantiano fosse politico? Che, sornionamente, dietro quel «miscuglio indigeribile»(5) di idee giudaiche, cristiane, chiliastiche, di fisica popolare e idealismo, come dice Manfred Biester, si celasse, ma non troppo, una filosofia della storia?
Vogliamo dunque per l’uomo una ascensione di Elia o la discesa agli inferi della banda di Core? Ecco la fine che ha sempre interessato Kant: non la fine del mondo bensì il completamento, la maturazione dell’umanità. «In realtà – scrive Kant – non è immotivata la percezione che gli uomini hanno del fardello della propria esistenza, per quanto ne siano essi stessi la causa» (p. 24). Un deficit di moralità grava sugli uomini; a un innegabile progresso tecnico, scientifico, artistico, lo sviluppo della nostra inclinazione morale non tiene per ora dietro. Ma ci sono segni, nell’epoca presente (il XVIII secolo), di un’inversione di tendenza, di un sopravanzamento della morale sul mero soddisfacimento dei bisogni. Questa la speranza, questa la preoccupazione kantiana. (E questa la conversione richiesta agli uomini, questo il τέλος dell’umanità).
C’è caso di pensare – ed è l’intuizione profonda di Bloch – che uno «sfondo mistico» (il che allunga su Kant un soupçon di misticismo) convenga all’idea di società promosso da Kant: la società «che appare come grande uomo ed infine come uomo massimo»,(6) come makantropos – idea non lontana, ma solo sotto questo risguardo, da quella del visionario Swedenborg. Non è un caso, prosegue Bloch, che l’ironista dei Sogni di un visionario se la prenda con le aberrazioni cosmomorfe della dottrina delle anime swedenborghiana e taccia sulle aperture all’Adam Kadmon (o all’Uomo Esemplare di Boehme). Soprattutto c’è caso di pensare che Kant ritenga necessario uno slancio escatologico affinché l’uomo non tradisca il suo τέλος. Con Bloch: «L’immagine figurata di un makantropos riacquista la sua serietà solo come utopia» (p. 196).
Ὁ μὴ δαρεὶς ἄνθρωπος οὐ παιδεύεται: l’uomo che non è mai battuto non è mai educato. Contro una simile condizione schiavista, ma anche contro ogni forma di anarchismo, Kant, nel suo trattatello, fa valere il modo di pensare liberale (liberale Denkungsart) di un cristianesimo tutto morale. Aufklärung e cristianesimo hanno qui il loro punto di incontro: «È dunque da un modo di pensare liberale […] che il cristianesimo si attende l’efficacia della sua dottrina, ciò con cui intende conquistare i cuori degli uomini, l’intelletto dei quali è già illuminato dalla rappresentazione della legge che indica il loro dovere». In effetto, «il sentimento della libertà nella scelta dello scopo finale è ciò che rende loro amabile l’imposizione della legge» (p. 40). (Così in Kant la scoperta dell’amabilità nel cristianesimo è scoperta di una amabilità nel dovere stesso). Non c’è completamento della natura umana senza questo amore, «in quanto libera assunzione del volere di un altro» (pp. 38-39). Cristo (o Kadmon o l’homo noumenon) sta all’inizio e alla fine.(7) (Ma la fine ci interessa solo perché non ci colga impreparati, immaturi; perché non ci colga tutti quanti immaturi e noi non si trasformi questo mondo nel regno dell’Anticristo). (8)


Note

1 Cfr. S. Natoli, La salvezza senza fede, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 178.
2 I. Kant, La fine di tutte le cose, Tornino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 32.
3 In effetti, prosegue, la «pace eterna, in cui [gli uomini] credono consista la beata fine di tutte le cose […] è un concetto […] con cui al tempo stesso l’intelletto li abbandona e finisce anche ogni pensiero» (p. 33).
4 Cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, Milano, Bompiani, 1987, p. 659.
5 M. Biester, Tradition und Utopie, Suhrkamp, 1994, p. 213.
6 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 195.
7 Ancora Bloch, op. cit., p. 196: «Sotto le spoglie di un Kadmon si ponevano con tutta serietà i pensieri dell’alfa e dell’omega soltanto, e l’alfa del principio veniva pensato unicamente perché attraverso tutta la creazione fosse possibile contemplare l’omega della fine».
8 In effetti, scrive Kant, «dovesse mai accadere che il cristianesimo cessasse di essere amabile […] il rifiuto e l’avversione nei suoi confronti diverrebbero il modo di pensare dominante fra gli uomini e l’Anticristo, in ogni caso ritenuto il precursore del Giorno del Giudizio, comincerebbe il suo pur breve regno (presumibilmente fondato sulla paura e sull’egoismo)» (pp. 44-45). Si legga anche il seguente passaggio tratto da La religione nei limiti della semplice ragione, in Scritti di filosofia della religione, Milano, Mursia, 1989, p. 166: «L’apparizione dell’anticristo, il millenarismo, l’annunzio della prossimità della fine del mondo possono avere per la ragione un buon significato simbolico; e l’idea della fine del mondo, in quanto avvenimento che non si può prevedere in anticipo così come non si può prevedere se la fine della nostra vita è prossima o lontana, esprime benissimo la necessità di tenerci sempre preparati a tal fine, ma, in realtà,  essa anche esprime (se si attribuisce a questo simbolo un significato intellettuale) la necessità di considerarci sempre realmente come cittadini eletti di uno Stato divino (d’uno Stato etico)». Suona anche kantiano il seguente passaggio di Natoli, op. cit., p. 183: «Il punto di vista dell’éschaton inaugura il punto di vista della fine e perciò dell’assoluto futuro: un futuro che non dipende dall’uomo o, quanto meno, non è deciso da lui. Se questo è vero, l’uomo deve in ogni suo attimo vivere nel punto di vista della fine, poiché solo il punto di vista della fine dà conto dell’intero decorso del tempo e perciò del significato della storia».
https://lorenzoleone.blogspot.it/2015/01/la-fine-di-tutte-le-cose-secondo-kant.html



Immanuel Kant, La terra della verità.
“Ormai, non soltanto abbiamo percorso il dominio dell’intelletto puro, esaminandone accuratamente ogni parte, ma l’abbiamo altresì misurato, ed abbiamo assegnato ad ogni cosa che vi si trova il suo posto. Questo dominio, tuttavia, è un’isola, e risulta rinchiuso dalla natura stessa entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettante), circondata da un oceano vasto e tempestoso, che è la vera e propria sede dell’illusione, dove molti banchi di nebbia e numerosi ghiacci, che presto saranno liquefatti, suggeriscono falsamente nuove terre, e incessantemente ingannando, con vane speranze, il navigatore errabondo e avido di scoperte, lo invischiano in avventure, che egli non potrà mai troncare, ma neppure potrà mai condurre a termine. Tuttavia, prima di arrischiarsi su questo mare, per esplorarlo in lungo e in largo, e per accertare se da qualche parte vi sia da sperare in alcunché, sarà utile anzitutto gettare ancora uno sguardo sulla carta di questa terra, che vogliamo appunto abbandonare. È allora opportuno domandare a noi stessi, in primo luogo, se a rigore non ci si possa accontentare di ciò che questa terra contiene, o anche, se non sia giocoforza accontentarsi di questo, nel caso in cui da nessuna parte vi sia altrove un terreno, su cui poter edificare; in secondo luogo, a quale titolo noi possediamo proprio questa terra, e possiamo considerarci garantiti contro ogni pretesa ostile.”
IMMANUEL KANT (1724 – 1804), “Critica della ragion pura”, introduzione, trad. e note di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1995 (I ed. 1976), I. ‘Dottrina trascendentale degli elementi’, Parte seconda ‘Logica trascendentale’, parte prima ‘Analitica trascendentale’, Libro secondo ‘Analitica delle proposizioni fondamentali’, Capitolo terzo ‘Sul fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in ‹Phaenomena› e ‹Noumena›’, p. 311.



L'etica non ha bisogno di dio.
“L'ETICA NASCE CON L'UOMO, CRESCE E MUORE CON L'UOMO, è la sua inseparabile compagna: non vi è etica senza umanità”.
Luigi Mazza
DALLA MORALE ALLA RELIGIONE. Era il 1793 e l'ormai settantenne Immanuel Kant pose le basi per quella che sarebbe stata l'opera più audace e rivoluzionaria della sua vita. Il filosofo di Königsberg, che in tutta la sua esistenza aveva esaltato la FILOSOFIA COME ESERCIZIO DELL'USO CRITICO, PUBBLICO E LIBERO DELLA RAGIONE, quale condizione essenziale per il MIGLIORAMENTO DELL'UMANITÀ, affrontò razionalmente anche il tema più scottante e spinoso: quello religioso. Dalle riflessioni kantiane nacque LA RELIGIONE NEI LIMITI DELLA SEMPLICE RAGIONE, l'unica opera che fu attaccata in maniera violenta sia dalla censura religiosa sia dal bigotto re di Prussia, FEDERICO GUGLIELMO II, CHE ARRIVÒ A PROIBIRE A KANT DI TENERE LEZIONI PUBBLICHE E SCRIVERE INTORNO AD ARGOMENTI RELIGIOSI.
La posizione del filosofo tedesco in ambito religioso è chiara e devastante nella sua semplicità: L'ESSERE UMANO NON HA BISOGNO, PER REGOLARSI NELLA SUA VITA MORALE, DI ALCUN DIO; LA LEGGE MORALE È UNA PRODUZIONE UMANA E NON DIPENDE DA ALCUNA LEGGE DIVINA; LA RELIGIONE NON È CHE UNA CONSEGUENZA DELL'ESISTENZA DELLA LEGGE MORALE E DELLA LIBERA VOLONTÀ UMANA, IN QUANTO, ESSENDO L'UOMO UN ESSERE IMPERFETTO E LIMITATO, TROVA NELLA RELIGIONE UN AIUTO ALL'AFFERMAZIONE DELLA LEGGE MORALE. Una posizione, quindi, che rivoluziona il modo di pensare occidentale, fortemente influenzato dalla tradizione giudaico-cristiana, e che rivela la forza incredibile della razionalità, della libertà, dell'uomo in quanto essere unico ed irripetibile.
Le parole di Kant squarciano il velo dell'ipocrisia religiosa, dell'accettazione passiva, del dogmatismo; esse irradiano pura ragione, sono la luce che illumina l'umanità e la libera dalle catene di platonica memoria: «La morale, in quanto basata sul concetto dell'uomo, come essere libero, ma che appunto per questo, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi incondizionate, NON HA BISOGNO NÉ DELL'IDEA DI UN ALTRO ESSERE SUPERIORE ALL'UOMO PER CONOSCERE IL PROPRIO DOVERE, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierlo. È almeno per sua propria colpa che l'uomo trova in sé un bisogno simile, perché QUELLO CHE NON HA ORIGINE DA LUI STESSO E DALLA SUA LIBERTÀ NON PUÒ MAI SURROGARE QUELLO CHE GLI MANCA DI MORALITÀ. ESSA DUNQUE PER SE STESSA NON HA ASSOLUTAMENTE BISOGNO DI APPOGGIARSI SULLA RELIGIONE; MA, IN VIRTÙ DELLA RAGIONE PURA PRATICA, ESSA BASTA A SE STESSA». L'UOMO, QUINDI, SENZA BISOGNO DI ALCUNA RIVELAZIONE DIVINA, SA GIÀ COS'È IL BENE E COS'È IL MALE, E SA ALTRESÌ CHE È UN SUO OBBLIGO FARE IL BENE E RIFIUTARE IL MALE SENZA CHE QUEST'OBBLIGO PRENDA LE MOSSE DA UNA MORALE RELIGIOSA.
LA LEGGE MORALE TRAE VITA DALLA LIBERTÀ UMANA, ED ESSERE LIBERI SIGNIFICA POSSIBILITÀ DI FARE IL BENE MA ANCHE DI FARE IL MALEVI È DUNQUE UNA DUPLICE NATURA NELL'UOMO: UNA NATURA BUONA, CHE È VISTA DA KANT COME UNA DISPOSIZIONE ALLA SOPRAVVIVENZA DELLA SPECIE, ALLA CONVIVENZA PACIFICA, AL SENSO DI RESPONSABILITÀ MORALE; ED UNA NATURA CATTIVA, CHE SI MANIFESTA COME TENDENZA AL MALE E A DISOBBEDIRE ALLA LEGGE MORALE. LE DUE NATURE SONO PRESENTI IN OGNI ESSERE UMANO, SONO I RETAGGI DELLA NOSTRA STORIA, SONO L'ESSENZA DELLA NOSTRA SPECIE. Questa natura bifronte potrebbe portarci a pensare che l'uomo non ha colpe per la sua tendenza al male, ma così non è, perché OGNI UOMO È RESPONSABILE DELLE PROPRIE AZIONI, e la tendenza al male, anche se non può essere estirpata, può essere controllata con una condotta di vita saggia e virtuosa.
LA LIBERTÀ TORNA QUINDI CON TUTTO IL SUO POTERE, perché È L'UOMO A DECIDERE LA CONDOTTA DELLA SUA VITAè l'uomo a decidere quale delle due nature far prevalere, è l'uomo a scegliere la via del bene o la via del male. Kant dice chiaramente che NESSUN ESSERE UMANO PUÒ ESSERE SANTO, NESSUN ESSERE UMANO PUÒ INFATTI RIMUOVERE DA SÉ LA TENDENZA AL MALE; e non c'è bisogno di alcun esempio per osteggiare questa tendenza, perché L'UOMO SA COS'È IL BENE E COS'È IL MALE. LA LEGGE MORALE NON VIENE DA UNA RIVELAZIONE DIVINA, È SUFFICIENTE CHE OGNI UOMO GUARDI DENTRO DI SÉ E LÌ LA TROVERÀ.

Perché DIO È INCOMPATIBILE CON L'ETICA Duecento anni dopo la riflessione kantiana un altro filosofo pone l'accento sul rapporto tra morale e religione, con una veemenza ed un'aggressività certamente maggiori di quelle del filosofo di Königsberg, ma partendo da un punto comune incontrovertibile: L'ETICA È ESCLUSIVAMENTE ED IRRIMEDIABILMENTE UNA FONDAZIONE UMANA, e come tale va affrontata con la sola arma della ragione, prescindendo da ogni apporto religioso. Secondo Lecaldano dio non è compatibile con l'etica perché tenta di sottrarre all'uomo il diritto/dovere di creare e far crescere un'etica che sia realmente frutto della sensibilità umana. Per il filosofo italiano l'etica è la scelta primaria di ogni essere cosciente e sociale. È L'ETICA CHE INDICA LA VIA DELL'ESISTENZA, È L'ETICA CHE PERMETTE ALL'UOMO DI SCEGLIERE FRA CIÒ CHE È BENE E CIÒ CHE È MALE, E LA RESPONSABILITÀ DI QUESTA SCELTA NON PUÒ ESSERE DELEGATA A NESSUN ALTRO, NEMMENO AD UN DIO.
Se l'uomo accoglie un'etica religiosa distrugge la libertà di cui è depositario, annienta la razionalità, DELEGA AD ALTRI QUELLA SCELTA CHE DOVREBBE ESSERE PERSONALE ED UNICA: «non solo NON È VERO CHE SENZA DIO NON PUÒ DARSI L'ETICA, MA ANZI È SOLO METTENDO DA PARTE DIO CHE SI PUÒ VERAMENTE AVERE UNA VITA MORALE; un'etica che trova il suo fondamento in un Dio inteso come causa prima o Autore della Natura non può essere universale perché escluderebbe gli atei, mentre è evidente che se l'etica deve essere una risposta alla comune umanità di tutti noi non deve escludere nessuno». L'ETICA RELIGIOSA NON È UN'ETICA AUTENTICA PERCHÉ È RETRIBUTIVA, PERCHÉ PRESCRIVE DI FARE IL BENE IN VISTA DI UN PREMIO. Per il non credente, invece, il premio per la sua condotta morale consiste nella consapevolezza di aver fatto ciò che è bene, ciò che è giusto.
Se accettiamo l'idea di un'etica religiosa, accettiamo l'idea di un insieme di precetti emanati da un'autorità, ma in questo modo togliamo valore etico alle norme morali e riduciamo il comportamento etico di ogni uomo alla pura obbedienza ad un comandoUn'etica, quella religiosa, che quindi si nutre di passività, di mancanza di contraddittorio, di assenza di libertà interpretativa. Lecaldano risponde con forza e fermezza a chi pretende di violare il CARATTERE UNIVERSALE DELL'ETICA, a chi vuole con decisione LEGARE L'ETICA AD UN DIO; la contraddizione di questo atteggiamento è lampante, perché UN'ETICA RELIGIOSA SI RIVOLGE SOLO AD UNA PARTE DELL'UMANITÀ, LASCIANDO NON CREDENTI, AGNOSTICI, ATEI, ANIMISTI E CREDENTI DI ALTRE RELIGIONI FUORI DALLA "RETTA" VIA: «i restanti saranno biasimati, emarginati, perseguitati o, nel caso migliore, costantemente sollecitati ad abbandonare la loro visione del mondo».
Egli, contrastando l'assunto che la moralità derivi dalla religiosità, individua i princìpi base di un'ETICA RAZIONALISTA ED UNIVERSALE, che ha come caratteri principali: la SOLIDARIETÀ e l'EMPATIA, che spingono gli esseri umani a sentirsi partecipi della gioia e della sofferenza dei loro simili. Il profondo SENSO DI GIUSTIZIA, che fa SENTIRE UN'OFFESA FATTA AD UN ALTRO UOMO COME UN'OFFESA FATTA ALL'INTERA UMANITÀ. L'esaltazione della libertà, a cui si può imporre un limite solo per salvaguardare i diritti di altri individui o gli interessi comunitari della società. L'ASSOLUTA UGUAGLIANZA DEGLI UOMINI DI FRONTE ALLE LEGGI. La ragione come faro che illumina il percorso dell'umanità. La condivisione degli obiettivi, il confronto delle idee, l'adattamento alla realtà geografica, storica, culturale. Tutto questo descrive un'etica universale, un'etica non dogmatica, un'etica che possa far sentire ogni uomo cittadino del mondo e non suddito di un dio o di suoi eventuali interpreti: «L'etica deve camminare solo sulle proprie gambe. UN'ETICA SENZA DIO NON PRETENDERÀ MAI DI IMPORRE CON QUALSIASI MEZZO UNA PRETESA VERITÀ MORALE A COLORO CHE NON LA RITENGONO TALE».
Un dilemma etico Il problema della possibilità di un DISCORSO ETICO NON RELIGIOSO che tanto ha appassionato l'intellighenzia nell'ultimo secolo e che ha avuto come spinta i continui rimandi della curia romana alla "necessità" di seguire l'etica di dio, è ormai capovolto; la domanda non è tanto se sia possibile un'etica senza dio, ma come sia possibile ammettere un'etica religiosaCHE L'ETICA SIA UNA PRODUZIONE UMANA È INNEGABILE: L'ETICA NASCE CON L'UOMO, CRESCE E MUORE CON L'UOMO, È LA SUA INSEPARABILE COMPAGNA, NON VI È ETICA SENZA UMANITÀ. A corroborare questa tesi vi è l'esperienza del biologo e psicologo Marc Hauser, docente all'università di Harvard, che ha proposto una serie di esperimenti per dimostrare l'esistenza di un'etica universale che va al di là di ogni convinzione, laica o religiosa.
In Moral Minds: How Nature Designed our Universal Sense of Right and Wrong il biologo americano riporta il risultato di un esperimento effettuato su uomini di nazionalità, cultura e religioni diverse, a cui HA SOTTOPOSTO UN DILEMMA ETICO: «in un ospedale stanno morendo cinque pazienti per una grave patologia di cinque distinti organi. Ognuno di loro verrebbe salvato se si trovasse un donatore per quell'organo, ma non ci sono volontari. Il chirurgo si accorge che in sala d'aspetto c'è un uomo sano, con i cinque organi in perfette condizioni e adatti al trapianto». L'unanimità di giudizio è stata quasi totale: il 97% degli intervistati ha risposto che NON SAREBBE STATO MORALE UCCIDERE L'UOMO PER SALVARE GLI ALTRI CINQUE. Non vi è stata differenza di giudizio fra credenti ed atei, fra bianchi e neri, fra americani e asiatici: le risposte non hanno fatto altro che confermare l'idea che non vi è bisogno di alcun dio per conoscere il bene o il male.
Anche Hauser, come Lecaldano, interpreta queste esperienze come prova dell'esistenza di una "grammatica morale universale"e identifica alcuni princìpi morali universali, come la differenza tra intenzionalità e accidentalità e la maggiore gravità, a parità di conseguenze, di un'azione rispetto ad una omissione. La conclusione cui giunge è quindi che l'etica, RIPRENDENDO IL VECCHIO KANT, È DENTRO DI NOI, FRUTTO DI MIGLIAIA DI ANNI DI ESPERIENZA, DI CONVIVENZA E DI CONDIVISIONE.
Luigi Mazza, Filosofo delle religioni
http://cronachelaiche.globalist.it/Detail_News_Display?ID=75804&typeb=0



Immanuel Kant. La scienza contrapposta alla conoscenza comune.
“Non di ogni cosa possiamo avere una certezza razionale; ma quando possiamo averla, dobbiamo preferirla rispetto alla certezza empirica.
Ogni certezza è o «immediata» o «mediata», cioè o ha bisogno di prova o non ne ha bisogno e non ne è suscettibile. Anche se tantissime delle nostre conoscenze non sono certe che in modo mediato, cioè attraverso una prova, tuttavia dev’esserci anche qualcosa di «indimostrabile» o «immediatamente certo» e tutta la nostra conoscenza deve procedere da proposizioni «immediatamente certe».
Le prove, sulle quali si fonda ogni certezza mediata (ossia acquisita attraverso una mediazione) di una conoscenza, sono o «dirette» o «indirette», vale a dire «apagogiche». Se provo una verità a partire dai suoi fondamenti, allora ne deduco una prova direttase inferisco la verità di una proposizione dalla falsità dell’opposto, ne deduco una prova apagogica. Ma perché quest’ultima abbia validità, occorre che le proposizioni siano opposte in modo «contraddittorio» o «diametraliter». Infatti due proposizioni opposte in modo semplicemente contrario («contrarie opposita») possono essere ambedue falseUna prova che costituisce il fondamento di una certezza matematica si chiama «dimostrazione», quella che costituisce il fondamento di una certezza filosofica si chiama prova «acroamatica». Gli elementi essenziali di ogni prova in generale sono la sua «materia» e la sua «forma», ossia il «fondamento della prova» e la «conseguenza»
Da «Wissen» [sapere] deriva «Wissenschaft» [scienza], termine col quale va inteso il complesso di una conoscenza in quanto «sistema». La scienza viene contrapposta alla conoscenza «comune», cioè al complesso di una conoscenza in quanto mero «aggregato». Il sistema si fonda su un’idea del tutto che precede le parti; invece, nella conoscenza comune o mero aggregato di conoscenze, le parti precedono il tutto. Ci sono scienze «storiche» e scienze «razionali».
In una scienza il nostro «sapere» concerne spesso solo le conoscenze, ma non le «cose» che esse «rappresentano»; perciò può esserci una scienza di ciò di cui la nostra conoscenza non è un sapere.”
IMMANUEL KANT (1724 – 1804), “Logica”, a cura, trad. e ‘Presentazione’ (1983) di Leonardo Amoroso, Laterza, Roma-Bari 2010 (VI ed., I ed. 1984), ‘Introduzione’, IX. D) ‘Perfezione logica secondo la modalità’, III, 3) ‘Sapere’, p. 65.



Immanuel Kant, Il destino dell’uomo.
Il carattere di un essere vivente è quello da cui si può arguire il suo destino. – Ma SI PUÒ, RIGUARDO AI FINI DELLA NATURA, AMMETTERE COME PRINCIPIO FONDAMENTALE CHE ESSA VOGLIA CHE OGNI CREATURA RAGGIUNGA IL SUO DESTINO CON LO SVILUPPO REGOLARE DI TUTTE LE SUE FACOLTÀ NATIVE, AFFINCHÉ, SE ANCHE NON OGNI ‘INDIVIDUO’, ALMENO LA SPECIE RAGGIUNGA PIENAMENTE LO SCOPO DI ESSA. – NEGLI ANIMALI PRIVI DI RAGIONE QUESTO ACCADE REALMENTE, ED È SAGGEZZA DELLA NATURA; MA NELL’UOMO QUESTO VALE SOLTANTO PER LA SPECIE. Nella quale, che è la sola ragionevole che noi conosciamo sulla terra, C’È SOLTANTO UNA TENDENZA NATURALE CONDUCENTE A QUEL FINE, LA TENDENZA CIOÈ A TRARRE CON LA SUA PROPRIA ATTIVITÀ DAL MALE LO SVILUPPO DEL BENE: prospettiva questa che, se non le si oppongono a un tratto rivoluzioni naturali, può essere attesa con ‘certezza’ morale (sufficiente per il dovere di conseguire un tal fine). – Vi sono infatti uomini, cioè esseri razionali invero cattivi, ma tuttavia dotati d’inventiva e ad un tempo di disposizione morale, i quali con l’aumento della cultura sentono tanto più forte i mali che tra di loro si fanno per egoismo e, siccome essi non scorgono alcun altro rimedio a ciò fuorché di sottomettere, sebbene mal volentieri, l’interesse privato (dei singoli) a quello comune (cioè di tutti insieme) di una disciplina (quella della legge civile), alla quale però essi si sottomettono soltanto in base alle leggi date da loro stessi, così essi si sentono nobilitati da questa coscienza di appartenere a una specie, che è adatta al ‘destino dell’uomo’, quale le è proposto dalla ragione sotto forma ideale.”
IMMANUEL KANT (1724 - 1804), “Antropologia pragmatica” (1798), introd. e trad. di Giovanni Vidari (riv. da Auguato Guerra), Laterza, Roma-Bari 2009 (I ed. 1969), Parte seconda, III, E ‘Il carattere della specie’, pp. 324 - 325.



Immanuel Kant - Il bello è il simbolo del bene morale -
“Io dico che il bello è il simbolo del bene morale. E che anche solo sotto questo punto di vista (di una relazione che è naturale in ognuno ed ognuno esige dagli altri come un dovere) esso piace con la pretesa al consenso universale, mentre in esso l’animo si sente come nobilitato ed elevato sulla semplice capacità di provar piacere dalle impressioni dei sensi, ed apprezza il valore degli altri secondo una massima simile del loro Giudizio. È l’«intelliggibile» ciò cui mira il gusto […]; ad esso, cioè, in cui si accordano anche le facoltà superiori della conoscenza, e senza del quale nascerebbe una profonda contraddizione tra la natura delle facoltà conoscitive e le pretese del gusto. In questa facoltà di Giudizio non si deve, come quando è empirico, sottoposto all’eteronomia della legge dell’esperienza: riguardo agli oggetti di un piacere così puro esso dà a se stesso la legge, come fa la ragione riguardo alla facoltà di desiderare; e, sia per questa interna possibilità che è nel soggetto, sia per la possibilità esterna d’una natura che si accordi con la prima, il Giudizio si vede legato a qualche cosa che è nel soggetto stesso e fuori di esso, che non è natura né libertà, ma è congiunto col principio di quest’ultima, vale a dire col soprasensibile, nel quale la facoltà teoretica e la pratica si congiungo in una maniera comune, ma sconosciuta. Vogliamo indicare alcuni punti di questa analogia senza per altro tralasciare inosservate le differenze.
1) Il bello piace «immediatamente» (ma solo nell’intuizione riflettente, non, come la moralità, nel concetto).
2) Esso piace «senza alcun interesse» (il bene morale è bensì necessariamente legato con un interesse, ma non con un interesse che precede il giudizio di piacere, perché anzi l’interesse è prodotto dal giudizio).
3) la «libertà» dell’immaginazione (quindi della sensibilità della nostra facoltà) è rappresentata nel giudizio del bello come in accordo con la legalità dell’intelletto (nel giudizio morale, la libertà del volere è concepita come accordo della volontà con se stessa secondo le leggi universali della ragione).
4) Il principio soggettivo del giudizio del bello è rappresentato come «universale», cioè valevole per ognuno, ma non conoscibile mediante alcun concetto universale (il principio oggettivo della moralità è rappresentato anch’esso come universale, cioè valido per tutti i soggetti e nello stesso tempo per tutte le azioni di ogni soggetto, ma anche come conoscibile mediante un concetto universale). Perciò il giudizio morale è non soltanto capace di principi costitutivi determinati, ma non è possibile se non sul fondamento delle massime che derivano da quei principi e dalla loro universalità.
L’osservazione di questa analogia è familiare anche al senso comune; e chiamiamo spesso gli oggetti belli della natura o dell’arte con termini che sembrano avere per principio un giudizio morale. Diciamo maestosi e magnifici degli edifici e degli alberi, ridenti e gai i campi; anche i colori li chiamiamo innocenti, modesti, teneri, perché eccitano sensazioni, le quali hanno qualcosa di analogo con la coscienza di uno stato d’animo prodotto da giudizii morali. Il gusto rende possibile così il passaggio, senza un salto troppo brusco, dall’attività dei sensi all’interesse morale abituale, rappresentando l’immaginazione anche nella sua Libertà come capace di esser determinata in modo di accordarsi con l’intelletto, e insegnando a trovare perfino negli oggetti dei sensi, anche senza attrazione sensibile, un libero piacere.”
IMMANUEL KANT (1724 – 1804), “Critica del giudizio” (1790), a cura di Valerio Verra, trad. di Alfredo Gargiulo (1906), riveduta da Valerio Verra (1960), Laterza, Bari 1970 (VII ed., I ed. 1906), Parte prima ‘Critica del Giudizio estetico’, Sezione seconda ‘Dialettica del Giudizio estetico’, § 59. ʻDella bellezza come simbolo della moralità’, pp. 217 – 218.



Immanuel Kant, I giochi infantili.
“L’esercizio del lancio, sia per lanciare lontano come per far centro, include lo scopo di esercitare i sensi, specialmente la vista. Il gioco della palla è uno dei migliori giochi per bambini, perché, in aggiunta, è anche una cosa salutare. I giochi migliori sono soprattutto quelli che agli esercizi dell’abilità congiungono quello dei sensi; per esempio, l’esercizio del colpo d’occhio per giudicare esattamente la distanza, la grandezza e la proporzione, per trovare la posizione dei luoghi in base all’ambiente circostante, per cui dovrebbe essere d’aiuto il solo, ecc.; tutti questi sono buoni esercizi. Così è molto utile pure l’immaginazione locale, con cui s’intende l’abilità di rappresentarsi ogni cosa nei luoghi in cui la si è realmente vista; per esempio la capacità di orientarsi in un bosco, marcando le piante alle quali prima si è passati vicini. Come pure la memoria localis, grazie alla quale, per esempio, non soltanto si sa in quale libro si è letta una cosa, ma anche in quale luogo si trova. Ugualmente, il musicista ha i tasti nella mente in modo da non dover più guardarli. Coltivare l’udito dei bambini è pure necessario, per conoscere, grazie ad esso, se qualcosa sia lontano o vicino o di fianco.
Il gioco infantile della mosca cieca era noto già ai Greci: lo chiamavano muinda. In generale i giochi infantili sono comunissimi. Quelli in uso in Germania si trovano anche in Inghilterra, in Francia, ecc. Alla loro base c’è una naturale tendenza dei fanciulli; nel gioco della mosca cieca, per esempio [si cerca di] vedere come essi s’arrangerebbero se dovessero restar privi di un senso. La trottola è un gioco tutto particolare; tali giochi infantili forniscono veramente agli uomini materia per ulteriori riflessioni e talvolta anche motivo per importanti scoperte. Così il ‹Segner›* ha scritto una dissertazione sulla trottola, e [ancora] la trottola ha fornito ad un capitano di vascello inglese l’occasione di inventare uno specchio con cui si può misurare, sulla nave, l’altezza delle stelle.
Ai bambini piacciono strumenti che fan rumore, per esempio, trombette tamburelli e simili. Ma questi giocattoli non vanno bene, perché in tal modo i bambini diventano molesti agli altri. Così pure sarebbe meglio piuttosto che imparassero da sé a tagliare una canna per poter con essa zufolare.
Anche l’altalena è un movimento benefico; gli stessi adulti l’adoperano per motivi di salute, solo che i bambini devono essere sorvegliati mentre lo fanno, perché il dondolio può diventare rapidissimo. L’aquilone è un gioco altrettanto eccellente. Esso fa leva sull’abilità richiedendo una precisa posizione, rispetto al vento, per farlo salire molto in alto.
Grazie a questi giochi il fanciullo rinuncia ad altri bisogni e impara così gradualmente a privarsi di qualcos’altro e più importante. Inoltre con ciò si abitua ad una occupazione continua, ma proprio per questo non dev’esserci puro gioco, bisogna invece che sia gioco con finalità e meta. Infatti, quanto più il suo corpo si irrobustisce e si indurisce, tanto più è al sicuro dalle conseguenze rovinose della mollezza. Anche la ginnastica deve soltanto guidare la natura, non deve dunque dar luogo ad una grazia affettata. La disciplina deve avere la precedenza, e non l’informazione. Qui è da badare, dunque, chi i bambini si formino, mentre si coltiva il loro corpo, anche per la società.”
* Johann Andreas Segner (1704 – 1777), fu professore di matematica e scienze naturali a Göttingen.
IMMANUEL KANT (1724 – 1804), “Lezione sulla pedagogia” (1803), in, a cura di Giordano Formizzi, “Antologia di scritti pedagogici”, trad. di Giordano Formizzi, Il Segno dei Gabrielli editori, Negarine di s. Pietro in Cariano (VR) 2004 (II ed. riveduta e ampliata), ‘Trattato’, ‘L’educazione pratica’, 55 – 57, pp. 102 – 103.


http://youtu.be/jc0rGtSq-b8




La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana.
Immanuel Kant (1724-1804)




Per andare al cuore delle cose è necessario farle nostre superando la distinzione tra soggetto e oggetto. Questa è una condizione di tipo estetico, uno stato metafisico che ci riguarda, se ben riflettiamo, in alcuni momenti della nostra vita, perfino i più banali. Lo stesso Kant, nella critica del giudizio, parla diffusamente e accuratamente del giudizio estetico come condizione di possibilità dell'esperienza, in primo luogo conoscitiva. La ragione è qui contemplata come "libero gioco tra facoltà", qualcosa di più e di diverso dal puro e semplice intelletto.




Heidegger, nel suo "Kant e il problema della metafisica", liquida molto bene questa falsa questione posta da Kant. In quanto il "pensiero umano", dandosi come meta-fisica in atto (e non potrebbe fare altrimenti non possedendo proprietà transitive all'Ente), non può fare altro che darsi nella forma-domanda, fosse anche soltanto per autocoscienza ontica. Domanda che sarà sempre destinata a non poter avere risposta proprio in quanto la metafisica non può prevedere risposte, sarebbe paradossale e assurdo in caso contrario. In questo caso non si tratta quindi di "critica" di qualcosa che si chiami "ragione" (anche questa nostra pura invenzione), bensì di semplice definizione delle peculiarità delle strutture nelle quali si dà quel particolare tipo di pensiero che chiamiamo appunto "pensiero umano".







“Ob aber der Mensch nun von Natur moralisch gut oder böse ist? Keines von beyden, denn er ist von Natur gar kein moralisches Wesen; er wird dieses nur, wenn seine Vernunft sich bis zu den Begriffen der Pflicht und des Gesetzes erhebt. Man kann indessen sagen, daß er ursprünglich Anreize zu allen Lastern in sich habe, denn er hat Neigungen und Instinkte, die ihn anregen, ob ihn gleich die Vernunft zum Gegentheile treibt. Er kann daher nur moralisch gut werden durch Tugend, also aus Selbstzwang, ob er gleich ohne Anreize unschuldig seyn kann.
Laster entspringen meistens daraus, daß der gesittete Zustand der Natur Gewalt thut, und unsere Bestimmung als Menschen ist doch, aus dem rohen Naturstande als Thier, herauszutreten. Vollkommne Kunst wird wieder zur Natur.”
IMMANUEL KANT, “Über Pädagogik”, herausgegeben von Friedrich Theodor Rink, Friedrich Nicolovius, Königsberg 1803 (1. Auflage), ‘Abhandlung’, ‘Von der praktischen Erziehung’, S. 90.




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