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mercoledì 21 marzo 2012

Eugenio Montale. Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino





«Io sono un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica senza cessare di battere alle porte dell’impossibile. Nella mia poesia c’è il desiderio d’interrogare la vita. Dopo lo scetticismo iniziale, nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attendeva una risposta.
C’è nozione di Dio, nella mia poesia: ma a patto di togliere a Dio ogni attributo dogmatico.
E io sono un cristiano: ma un cristiano che non appartiene a nessuna chiesa». [...]
Quello che avviene nel mondo così detto civile a partire dalla fine dell’Illuminismo (ma ora in sempre più rapida escalation) è il totale disinteresse per il senso della vita. Ciò non contrasta col darsi daffare, anzi. Si riempie il vuoto con l’inutile. Il mondo muore di noia, l’impiego del tempo è letteralmente spaventoso. I giovani che si agitano un pò dovunque non se ne rendono forse conto, ma il loro vero problema non è né sociale né economico. A loro non interessa più nulla, ecco il fatto. Immetteteli in una società più giusta, meglio pianificata, riempiteli di lauree e di diplomi, trovate per tutti un buon impiego e molto tempo libero, e il risultato sarà lo stesso: una noia sempre crescente senza nemmeno più il conforto/sconforto dell’angoscia. Abbiamo provveduto noi anziani, noi balordi aruspici dei vari futuribili, a svuotarli di tutto. Non ci possono ringraziare, questo è certo. Le attuali agitazioni e contestazioni appartengono dunque a quella che si definisce come eterogenesi dei fini e come tali sono inevitabili. Il loro effetto (se ce ne sarà uno) non può essere prevedibile in alcun modo. Esse non sono che un’infima parcella di tutto ciò che sta ribollendo in questo universo di orrore e di noia.
Eugenio Montale, Variazioni, in “Corriere della Sera”, 12 gennaio 1969



«Gli uomini sono un po’ come i libri: ne leggete distrattamente uno, e non prevedete che finirà per lasciare in voi una traccia incancellabile; ne digerite con ogni zelo un altro, che abbia tutta l'aria di esser degno dell'impresa; e scorsi pochi mesi vi accorgete che la fatica è stata peggio che inutile.
Ma sul primo momento, al primo incontro, il risultato finale, la perdita o il profitto, sono sospesi a un punto interrogativo».
Eugenio Montale, “La piuma di struzzo”



Non c'è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s'intersecano. E' quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell'unico tempo. Ma in quell'attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.
Eugenio Montale


Incontro
Esitammo un istante,
e poco dopo riconoscemmo di avere la stessa malattia.
Non vi è definizione per questa mirabile tortura,
c’è chi la chiama spleen
e chi malinconia.
Ma se accettiamo il gioco
ai margini troviamo
un segno intellegibile
che può dar senso a tutto.
Eugenio Montale


L'uomo dell'avvenire dovrà nascere fornito di un cervello e di un sistema nervoso del tutto diversi da quelli di cui disponiamo noi, esseri ancora tradizionali, copernicani, classici.
Eugenio Montale


“Mentre ti penso si staccano veloci i fogli del calendario.
Brutto stamani il tempo e anche più pestifero il Tempo. Di te il meglio esplose tra lentischi rovi rivi gracidìo di ranocchi voli brevi di trampolieri a me ignoti (i Cavalieri d’Italia, figuriamoci! ) e io dormivo insonne tra le muffe dei libri e dei brogliacci. Di me esplose anche il pessimo: la voglia di risalire gli anni, di sconfiggere il pièveloce Crono con mille astuzie. Si dice ch’io non creda a nulla se non ai miracoli. Ignoro che cosa credi tu, se in te stessa oppure lasci che altri ti vedano e ti creino. Ma questo è più che umano, è il privilegio di chi sostiene il mondo senza conoscerlo. ”
Eugenio Montale - 1969 -Satura


È ridicolo
ipotecare il tempo
e lo è altrettanto
immaginare un tempo
suddiviso in più tempi
e più che mai
... supporre che qualcosa
esista
fuori dall’esistibile,
il solo che si guarda
dall’esistere.
Eugenio Montale, Ossi


Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.
Eugenio Montale


TEMPO E TEMPI
Non c'è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s'intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell'unico tempo. Ma in quell'attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.
Eugenio Montale



Non recidere, forbice, quel volto
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Eugenio Montale


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale 
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. 
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono 
le coincidenze, le prenotazioni, 
le trappole, gli scorni di chi crede 

che la realtà sia quella che si vede. 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio 

non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. 

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due 

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, 

erano le tue.

Eugenio Montale



Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Eugenio Montale, "Spesso il male di vivere ho incontrato" (1924)
L’uomo coltiva la propria infelicità per avere il gusto di combatterla a piccole dosi.
Essere sempre infelici, ma non troppo, è condizione sine qua non di piccole e intermittenti felicità.
Eugenio Montale


Le umiliazioni della gente che crede che la vita vera sia quella che vede.
Eugenio Montale



La vita deve essere vissuta, non pensata, perché la vita pensata nega se stessa e si mostra come un guscio vuoto. Bisogna mettere qualche cosa dentro questo guscio, non importa che cosa.
Eugenio Montale


Molti affetti sono abitudini che non abbiamo il coraggio di interrompere
Eugenio Montale


Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.
Forse fra i tanti, fra i milioni c’è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
ch’egli stesso non sappia il suo privilegio.
Eugenio Montale



Accade che le affinità d’anima
non giungano ai gesti e alle parole ma
rimangano effuse come un magnetismo.
É raro ma accade. Può darsi
che sia vera soltanto la lontananza,
vero l’oblio, vera la foglia secca
più del fresco germoglio.
Tanto e altro può darsi o dirsi.
Comprendo la tua caparbia volontà di
essere sempre assente perché
solo così si manifesta la tua magia.
Innumeri le astuzie che intendo.
Insisto nel ricercarti nel fuscello
e mai nell’albero spiegato, mai nel pieno,
sempre nel vuoto: in quello che
anche al trapano resiste.
Era o non era la volontà dei numi
che presidiano il tuo lontano focolare,
strani multiformi multanimi animali domestici;
fors’era così come mi pareva
o non era. Ignoro se
la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l’innocenza é una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari.
Di me, di te tutto conosco,
tutto ignoro.
Eugenio Montale




Andate a dire all'uomo della strada, all'uomo che non è stato all'università, che UN UOMO PUO' ESSERE UN GRANDE ARTISTA E, INSIEME, UN UOMO IMMORALE E PERSINO UN CRIMINALE; e l'uomo della strada non avrà difficoltà ad ammettere che DENTRO UN UOMO CE NE POSSONO ESSERE DUE, TRE, QUATTRO DIVERSI L'UNO DALL'ALTRO.
Eugenio Montale, “L’estetica e la critica”




Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Eugenio Montale


Mi procurai anch'io, a suo tempo, un'infarinatura di psicanalisi, ma pur senza ricorrere a quei lumi pensai presto, e ancora penso, che l'arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato. Ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunziare alla vita. E' la vita che s'incarica per conto suo di sfuggirgli.
Eugenio Montale




Montale e la Luna.
Giorni fa mi fu chiesto da un cortese intervistatore
quale potrebbe essere lo status poetico della luna
dopo il fatto compiuto dell'allunaggio.
Gli risposi che la scoperta dell'ombrello
non aveva impedito a Debussy e a D'Annunzio
di mimare la pioggia in due loro celebri composizioni.
Aggiunsi pure che la poeticità della luna era già in ribasso
molto prima che i futuristi scatenassero
la loro offensiva contro la pallida Selene.
Nessun poeta moderno si rivolgerebbe alla luna
col famoso interrogativo «che fai tu in ciel» etc.



Eugenio Montale
"Occorrono troppe vite per farne una" Con queste sei parole Eugenio Montale chiudeva una poesia di Le occasioni. Chiudeva... meglio dire "chiude", perché le parole di MONTALE non se ne stanno rannicchiate in qualche momento passato: restano sempre qui e ora. Per ricordarci che il mestiere del vivere ha il colore della precarietà, e ogni vita è un incrociarsi di tante altre.
"Occorrono troppe vite per farne una"
Con queste sei parole Eugenio Montale chiudeva una poesia di Le occasioni.
Chiudeva... meglio dire "chiude", perché le parole di MONTALE non se ne stanno rannicchiate in qualche momento passato: restano sempre qui e ora. Per ricordarci che il mestiere del vivere ha il colore della precarietà, e ogni vita è un incrociarsi di tante altre.




Le scale come metafora della vita...

Montale la scrisse per la compagna di una vita ... ed è sicuramente una delle più belle poesie d'amore mai scritte....




è una poesia meravigliosa. Altro che l'amore dei Baci Perugina e delle frasi sul diario.
L'amore che riempie la vita, fino all'ultimo giorno




la mia preferita...dedicata anche nel mio caso a qualcuno che non è più qui




dal sito internet di Giuseppe Cirigliano:
Questa poesia è dedicata all’amata moglie Drusilla Tanzi, con la quale il poeta ha diviso infinite piccole e grandi vicissitudini della vita, non è più al fianco del suo uomo ad aiutarlo e confortarlo. Perciò il poeta confessa il suo sgomento di fronte al viaggio della propria vita, che continua ormai senza guida, e ammette l'importanza che questa donna ha avuto per lui. 


La lirica è un muto dialogo, con cui il poeta tenta di colmare il vuoto che la morte della moglie (avvenuta nel 1963) ha aperto nella sua vita. Così, sul filo di un parlare piano e sommesso, si snodano momenti di vita, piccole confessioni, tenerezze, attraverso cui Montale riconferma il proprio giudizio su uomini e fatti. 


Dal punto di vista stilistico-espressivo, la lirica si avvale di un linguaggio usuale e quotidiano, che è funzionale al tema domestico e privato, e contribuisce al tono dimesso e malinconico dell'insieme.



http://youtu.be/oeWE84qaw7w





(intervento reso a San Biagio della Cima, Imperia, presso il Centro polivalente “Le rose”, il 30 giugno 2012)

 MONTALE – LARTE È LA FORMA DI VITA DI CHI PROPRIAMENTE NON VIVEElio Gioanola
Jaca Book, 2012
Questo libro (il cui sottotitolo proviene da una citazione montaliana riportata a pag. 259) è non solo bello ma anche importante, perché – come era già successo coi volumi del professore su Gadda e soprattutto su Leopardi – ci rivela aspetti dello scrittore trattato ben diversi da quelli, ingessati, delle presentazioni scolastiche. Anche critici di formazione marxista, come Carlo Salinari, ci presentavano un Montale che “contemplava virilmente, a ciglio asciutto” il dolore, o che, anziano, rimpiangeva con un misto di tenerezza e ironia Drusilla la Mosca, compagna di una vita (“Ho sceso, dandoti il braccio, / almeno un milione di scale / ed ora che non ci sei / è il vuoto ad ogni gradino…”). Salinari e gli altri si guardavano bene dal raccontarci le insicurezze montaliane (magari, per carità, le ignoravano) o dal dirci che la moglie era una carampana con quindici anni in più del poeta, il quale era innamorato (concretamente, non letterariamente) di un’altra donna più giovane (e magari ignoravano anche questo).
In questi diciotto capitoli scopriamo un Montale più fragile, più umano – più simpatico, in definitiva – che in certe lettere a Irma Brandeis anticipa quasi il Pavese che, una quindicina di anni dopo, scriverà a Constance Dowling, anche lei americana (l’iron box in cui si sente rinchiuso il poeta – cfr pag. 300 – richiama per esempio la pavesiana “prison door that slammed again”, ma numerose altre consonanze possono essere riscontrate da una lettura parallela). E a contare, nell’analogia fra i due, non è solo la formazione letteraria simbolista (in Montale conclamata, in Pavese nascosta dietro gli americani da lui tradotti: ma, checché se ne dica del suo presunto neorealismo, provate a confrontare il paesaggio “visivo” del Fenoglio di Una questione privata con quelli di Feria d’agosto di Pavese, libro ambientato nella stessa zona, e vedrete come questi ultimi – canneti o colline che siano – rappresentino sempre qualcosa che va oltre, qualcosa in più rispetto al mero dato visivo), quanto piuttosto il costituire l’anello debole (“maglia rotta nella rete” , “anello che non tiene”…) della propria costellazione famigliare (uso volutamente questo concetto della psicologia individuale di Alfred Adler).
Gioanola utilizza in più occasioni la parola “inadeguatezza”, sia in un contesto di inadeguatezza a partecipare alla vita letteraria (pag. 13) che, più complessivamente, di inadeguatezza a vivere (pag. 179). Su questo tema avviene l’incontro di Montale con Svevo, o piuttosto con i personaggi dei suoi romanzi. Non dimentichiamo che il titolo originario di “Una vita” era (come farebbe notare il prof. Contorbia) “Un inetto”. Ma anche l’Emilio Brentani di “Senilità” è un inetto a vivere, e questa inettitudine si traduce nell’incapacità a gestire un rapporto equilibrato con l’universo femminilerappresentato dalla bionda Angiolina (viene anche in mente, per esempio, il Narratore di Proust ed i suoi rapporti tormentati con le “fanciulle in fiore” prima e con Albertine poi). Analogamente, Montale anziano dirà, ricordando Paola Nìcoli, una delle donne di cui si era invaghito quando stava a Firenze: “Era un’attrice teatrale genovese. Gli altri andavano a letto con lei, io le mandavo poesie” (pagg. 174-175).
 MONTALE – LARTE È LA FORMA DI VITA DI CHI PROPRIAMENTE NON VIVE
Eugenio Montale (da digita.org)
Eugenio è reso inetto – psicologicamente castrato, se mi si concede l’espressione – non solo dalla ingombrante e autoritaria figura paterna che con le sue regole arbitrarie gli impedisce i piaceri (emblematico l’episodio di quando, bambino, il padre lo porta dolorosamente via dalla rappresentazione, al San Carlo, della “Sonnambula”, pag. 23), ma anche dalla figura materna, che si duplica, in forma più giovane e più colta, nella sorella Marianna: entrambe gli trasmettono, oltre a una devozione religiosa che sfiora la superstizione (come successe con Leopardi, che da bambino evitava di calpestare le croci costituite dalle mattonelle del pavimento), anche l’immagine, diciamo, “petrarchesca” di una donna asessuata, “angelica” – immagine che gli impedirà a lungo di comprendere e di assecondare le pulsioni sessuali concrete delle donne in carne ed ossa (non a caso, la già citata moglie Mosca aveva, come si è detto, 15 anni in più di lui: una vera “mamma” possessiva e protettiva – la sorella del poeta non l’aveva in simpatia, perché evidentemente la sentiva rivale sullo stesso terreno – dalla quale non riuscirà a staccarlo nemmeno la passione carnalissima per la Brandeis, che pure è stata così importante per lui da spingerlo a scriverle, ancora pochi mesi prima di morire, un biglietto nell’inglese maccheronico usato nelle lettere della passione, per così dire, “giovanile”.
Una curiosa notazione psicanalitica a proposito del capitolo secondo (“Il padre, il mare, la caccia”): Freud, in Totem e tabù, sostiene che la figura paterna è rappresentata psicologicamente, nell’inconscio e presso le tribù primitive, dal grosso animale totemico, toro o cavallo: uccidere un grosso animale è quindi un modo per liberarsi dal padre e dalla sua legge. Montale invece scrive di caccia ai merli, ai pipistrelli, ai beccaccini: uccisione di animali deboli come simbolo di una ribellione debole. Mauro Corona, da parte sua, riferisce più volte, nei suoi racconti e romanzi, la fantasticheria che aveva da bambino di sparare al padre violento mentre lo accompagnava di notte a caccia. Non gli sparerà mai veramente, ma da adulto sistemerà i conti con lui assestandogli un gran pugno in faccia. Si direbbe, questa, una ribellione riuscita. Ma forse gli è successo quanto, secondo Freud, è capitato “persino al grande Goethe”, che da giovane biasimava il padre e poi da anziano ha finito con l’assumerne, senza rendersene conto, alcuni dei comportamenti e atteggiamenti. E forse, allora, una vera ribellione non è possibile.
Perché Montale, non interventista e antimilitarista, è andato in guerra volontariamente, come Gadda, come Sbarbaro? (Forse Camillo era un po’ diverso dagli altri due scrittori, grandi nevrotici castrati dalla famiglia – Gadda, in particolare, dalla madre, nei cui confronti si rivaleva ritraendola, in alcuni racconti giovanili pubblicati postumi, come un’affezionata alla bottiglia; analoga sorte di soggiogamento materno era toccata a Leopardi; ed è proprio Sbarbaro ad annotare che a tenerlo lontano dal “gran lombardo” Carlo Emilio è stata la di lui ostentata incomprensione verso “quelle cose che il conte Leopardi chiamava canti” – forse l’incomprensione ostentata verso un altro autore che sentiva troppo pericolosamente vicino ai propri vissuti personali). Ecco: il servizio militare, la guerra e persino il carcere sono un modo per tirarsi via dal soffocante ambiente familiare. Ho ritagliato un articoletto da “La Stampa” del 16 giugno scorso, pag. 59; ne riporto alcune righe: “Domiciliari a casa dalla mamma? No grazie, meglio il carcere. È la singolare scelta di un casalese di 43 anni, con alle spalle diversi precedenti per reati contro il patrimonio e che, prima degli arresti domiciliari, ha preferito (con viva soddisfazione) andare in carcere a Vercelli. (…) La motivazione addotta dall’uomo: ‘A casa i miei mi rendevano la vita impossibile e mi privavano della mia libertà personale; potendo scegliere, preferisco andare in carcere’”.
Montale vuole andare via da Genova: proprio come Leopardi voleva andar via dal “natio borgo selvaggio” di Recanati per sfuggire alla prigione domestica (della quale la madre, Adelaide Antici, era il custode, con tanto di chiavi alla cintola). Ma arrivato a Firenze si sente all’inferno, e vuole andare a Milano o a Parigi (dove sarebbe disposto a lavorare persino in una banca: come Thomas Eliot!). Ma quando, nel 1948, arriva a Milano, non si sente a suo agio e rimpiange Firenze; solo la sensazione di svolgere un’attività professionale (il lavoro al Corriere della Sera) accettabile per i suoi parametri lo gratifica e gli dà un po’ di pace. Viene in mente una bella poesia di Constantinos Kavafis (autore che Montale certo ben conosceva, avendone incluso “I barbari” nel “Quaderno di traduzioni”) intitolata “La città”:
Dicesti: “Per altre terre andrò, per altri mari.
Un’altra città ci sarà migliore di questa.
È certa condanna ogni mio sforzo:
e il mio cuore come morto sta sepolto.
Per quanto ancora questo struggimento dell’animo?
Dovunque volgo lo sguardo, dovunque giro gli occhi
solo i neri relitti della mia vita scorgo,
tanti anni passati a perdermi, a devastarmi”.

Ma non troverai nuove terre, nuovi mari.
La città ti verrà dietro. Vagherai per le stesse
strade. Negli stessi quartieri invecchierai:
e in queste stesse case imbiancherai.
Sempre avrai approdo in questa città. Non sperare
altri luoghi, non c’è nave, non c’è strada per te.
La vita che schiantasti in questo angolo sperduto
tu l’hai sciupata su tutta la terra.
(gli ultimi due versi della versione di Tino Sangiglio paiono quasi montaliani).
Tralascio di parlare dei rapporti con le altre donne, l’egocentrica Maria Luisa Spaziani (facendo un altro mestiere, posso definirla per quel che è) o la pseudo-scaltra Annalisa Cima (c’è un racconto di Antonio Tabucchi in cui si parla di un vecchio poeta che rifà il verso a se stesso improvvisando in pochi minuti, nell’imminenza delle visite di lei, qualche composizione da offrire a una giovane letterata che si illude di poterlo circuire per carpirgli dei testi).
Voglio invece concludere con una riflessione, supportata da due citazioni. Da una condizione domestica disagevole si può uscire – in qualche modo – o con il viaggio o con l’arte. Il viaggio allontana fisicamente (anche se non dà necessariamente libertà psicologica: caelum, non animum, mutant qui trans mare currunt aveva intuito Orazio già un paio di millenni fa, nelle Epistole; o si pensi alla poesia di Kavafis letta prima). Ecco cosa annota lo scrittore-viaggiatore e iconografo ginevrino Nicolas Bouvier nella prefazione al libro “Le long été” del collega Lorenzo Pestelli (di entrambi avremo modo di riparlare se e quando presenteremo qui a San Biagio l’opera di Kenneth White): “Ci si sbarazza con poca spesa dei viaggiatori e del viaggio sostenendo che quasi tutte le partenze sono fughe. Può darsi. Ma così si dimentica che vi sono cose di fronte alle quali non si può far altro che fuggire: luoghi, famigliari, ‘ragioni’ che ci cantano una canzone così mediocre che non resta che mettere le gambe in spalla. Si parte per allontanarsi da un’infanzia soffocante, per non occupare la nicchia che altri già vi assegnano, per non chiamarsi Medoro. All’origine di un bel po’ di avventure non c’è, come motivo, che questo rifiuto”.
L’arte, invece, non allontana, ma consente in qualche modo di metabolizzare e di distillare il disagio riuscendo così, forse, a sopportarlo, a sopravvivergli. L’arte deve rispondere, però, a dei criteri, a dei canoni artistici. Leonard Cohen, poeta e cantautore canadese coscritto del professore, nel ricevere in Spagna – lo scorso ottobre – il Premio Principe delle Asturie per le lettere ha dichiarato il proprio debito per l’opera di García Lorca, che gli ha permesso di trovare una propria voce originale, ed ha aggiunto: “Crescendo e invecchiando ho capito che con quella voce veniva un insegnamento. Qual era questo insegnamento? L’insegnamento era di non lamentarsi mai in modo incontrollato. Se si deve esprimere la grande inevitabile sconfitta che ci attende tutti, bisogna farlo entro gli stretti limiti della dignità e della bellezza”.
Ecco, Montale ha saputo esprimere la propria sconfitta, il proprio male di vivere entro i confini rigorosi della dignità e della bellezza. È questo a renderlo un poeta così importante: non tanto sui banchi di scuola, quanto nel nostro cuore. E il libro del prof Gioanola ha contribuito non poco in tal senso, per cui mi sento davvero di ringraziarlo.
di Marco Grassano


http://www.postpopuli.it/10047-montale-larte-e-la-forma-di-vita-di-chi-propriamente-non-vive/






























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